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Cantavamo Power to the People
Cantavamo Power to the People
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Ebook259 pages3 hours

Cantavamo Power to the People

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La storia di un operaio siderurgico di laminatoio, anni '70 / '80, narrata dal protagonista.

Le lotte,gli entusiasmi, le conquiste sociali e l'amarezza del rapido declino.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateNov 17, 2017
ISBN9788892685994
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    Cantavamo Power to the People - Andrea Grassi

    Rousseau

    1. Torna il ricordo

    Finalmente, dopo un confuso, doloroso periodo di oblio, A. sentiva di aver ritrovato la memoria che per molti anni aveva pensato definitivamente perduta. Ricordava, ricordava tutto, o almeno così credeva. Erano forse soltanto i fatti salienti, i momenti che avevano fin lì caratterizzato la sua vita a ripresentarsi all’improvviso, arrogantemente alla memoria, come un amico che riappaia dopo una lunga assenza. Favorevolmente meravigliato continuava a ripetersi gli avvenimenti e le circostanze come se li stesse raccontando ad un altro. Più li ripeteva, più i ricordi si arricchivano di particolari, connessioni, riferimenti, ragioni e coinvolgimenti con altri fatti, con altri momenti vissuti e poi dimenticati. Allora trovavano spiegazione accadimenti per i quali aveva a lungo, inutilmente, cercato una ragione.

    Non si può pretendere di trovare una spiegazione ad ogni cosa, si ripeteva costantemente, nel tentativo di procurarsi una temporanea quiete interiore, ma rimaneva in lui una forte curiosità, il bisogno di capire.

    Erano passati più di trent’anni dal giorno in cui era entrato, gonfio di progetti di vita, a far parte degli operai della grande fabbrica.

    Un impianto per la produzione di tubi in acciaio di grosse dimensioni tramite il procedimento della laminazione a caldo. Nella fase di massima espansione aveva occupato fino a 1800 dipendenti. Nel momento a partire dal quale pareva iniziassero a dipanarsi in A. i ricordi, ne contava circa 1500 tra operai ed impiegati. Si trattava di una delle fabbriche imposte dal fascismo a una provincia con ben diverse vocazione e storia industriale. Un’imposizione dovuta in primo luogo a ragioni di potere - la era nato un gerarca molto in vista - ma anche legata all’esigenza di mascherare la drammatica situazione di crollo economico ed occupazionale cui il fascismo aveva ridotto quel territorio: i riflessi internazionali dell’avvento del regime avevano fatto precipitare le opportunità di commercio di quell’area. Una provincia che da secoli basava la propria economia sull’esportazione dei suoi marmi, ridotta all’inattività da cieche strategie di politica internazionale. Poi, negli anni ‘80, tutte queste fabbriche innestate con autorità sono entrate in crisi. Una decina di impianti, tutti di notevoli dimensioni, tra le mille e le duemila unità lavorative, che avevano dovuto chiudere od operare forti ridimensionamenti.

    A. faceva parte di un piccolo gruppo di nuovi assunti, sei persone, tutti con incarico da operaio. Assolto l’obbligo del servizio militare aveva lavorato qua e là con imprese minori, in fabbriche metallurgiche e in cantieri navali. Portava ancora in sé il sentore fresco e carezzevole del periodo di leva, come di uno dei più bei momenti della sua gioventù. Aveva incontrato Maria, fanciulla molto bella ed estremamente sensibile, che aveva per ciò sentito quale perfetto complemento della propria inquieta natura, tanto da averle assegnato, sin dal primo momento, il ruolo di persona più importante della propria vita.

    Il servizio militare lo aveva svolto interamente a Roma, splendida città il cui solo ricordo di magnificenza ancora gli riempiva il cuore. Non aveva voluto cogliere l’opportunità di fermarsi nell’esercito poiché era uno spirito libero, avverso alle regole ed alla disciplina militare. Sentiva la nullità dell’apprendere l’uso di qualsiasi strumento da guerra.

    Il suo bagaglio culturale era assai limitato. Aveva sciupato gli anni migliori, dal punto di vista formativo, in una scuola professionale di tipo meccanico. Sei anni, dopo i cinque delle elementari. Sei lunghi anni di totale immersione nella manualità della meccanica, in una scuola che prevedeva otto ore di presenza giornaliera tra aula e officina. I ragazzi erano impegnati tutto il giorno tra mattino e pomeriggio, l’orario prevedeva un intervallo di un’ora e trenta di pausa pranzo.

    Dieci ore lontano da casa, lontano dagli affetti, gli amici, il divertimento, lontano da tutto ciò che non fosse formazione professionale. Otto ore di lezione al giorno, in un percorso che li avrebbe portati a ottenere un preziosissimo diploma di congegnatore meccanico. Diploma utilissimo, come gli aveva spiegato il maestro al termine delle elementari, o meglio, come aveva spiegato ai suoi genitori, visto che lui, a quell’età, non poteva essere in grado di afferrarne il senso. Un diploma che gli avrebbe offerto vastissime opportunità di lavoro.

    A dire il vero i suoi genitori glielo avevano chiesto quale strada volesse intraprendere. Gliene avevano prospettate due di strade: la scuola professionale per la lavorazione della pietra, fiorente e molto frequentata in quegli anni, e quella meccanica. Non sapeva quale decisione prendere. Il suo maestro, unico insegnante nell’intero arco dei cinque anni, - un precettore collettivo per bambini di famiglie del ceto medio-basso, - non si era preoccupato di trasmettere ai suoi allievi alcuna nozione artistica; quelle prime semplicissime applicazioni in grado di far scaturire passioni o almeno interesse verso l’argomento. Egli stesso, privo di qualsiasi cognizione in quel campo, non poteva avere alcun interesse alle discipline artistiche, così nessuno dei suoi alunni sviluppò propensioni nel campo pittorico o scultoreo.

    Alla fine però A. aveva dovuto prendere una decisione. Il maestro lo aveva giudicato inidoneo alla scuola media, così come aveva definito ciascuno degli altri trentuno ragazzi della sua classe. La maggior parte di loro non sarebbe andata oltre la scuola elementare, gli altri avrebbero proseguito con gli avviamenti professionali, meccanico, marittimo o commerciale. Nessuno di costoro osò affrontare l’impegno della scuola media, la quale prevedeva, tra l’altro, lo studio della lingua latina. Alle medie i professori erano esigenti, assai poco disposti a procedere in maniera che ciascun allievo potesse andare al passo con i programmi grazie alle sole lezioni in classe. Bisognava ricorrere ad interventi di sostegno con propri mezzi. Gli insegnanti, spesso gli stessi del corso, o colleghi di questi, si adoperavano di buon grado per impartire lezioni suppletive pomeridiane, naturalmente a pagamento. Tra i ragazzi che in quegli anni frequentavano la scuola media, la minoranza della popolazione scolastica di quella età, alcuni, più fortunati, erano figli o parenti stretti di insegnanti, gli altri appartenevano alla media borghesia, nella maggior parte dei casi figli di commercianti.

    Negli anni sessanta era fiorita una miriade di piccole e piccolissime attività commerciali che godeva di un particolare stato di libertà fiscale. Lo Stato non calcolava i profitti né imponeva tasse. Quando anche veniva applicata un’imposta, veniva fatto sulla base di una valutazione forfetaria, assai contenuta, per nulla proporzionale all’entità del profitto. Questa categoria di commercianti, per molti versi nuova ed improvvisata, era ben in condizioni di mantenere i propri figli alla scuola media, pur dovendo sostenere il costo delle inevitabili lezioni private.

    Dopo un breve ed assai confuso rimescolio di pensieri A. disse ai suoi genitori che gli sarebbe piaciuto andare alla scuola professionale meccanica. Non aveva la minima cognizione di cosa fosse la scuola professionale in genere, tanto meno quella meccanica. Non sapeva neppure cosa significasse la meccanica, nessuno glielo aveva mai spiegato. Quella scelta, che avrebbe così profondamente segnato la sua intera esistenza, scaturì da una banalissima circostanza.

    Come ogni anno, durante le vacanze scolastiche estive, gli fu consentito di trascorrere alcune ore del pomeriggio in compagnia di Giovanni, coetaneo, compagno di classe e vicino di casa. Nel corso del primo pomeriggio, l’afa ed il sole cocente non concedevano tregua per l’intero mese di luglio e fino almeno alla metà di agosto, in quelle ore non era proprio possibile svolgere le consuete attività attorno alla terra, al fieno, all’orto e tanto meno agli alberi. Quelle, poi, erano le vacanze estive che seguivano i giorni d’esame di licenza elementare, ai genitori parve giusto concedere ad A. qualche momento di svago. Certe opportunità di condivisione di momenti di gioco con coetanei erano assai rare, la sua famiglia abitava in zona collinare periferica, le case erano a notevole distanza l’una dall’altra, le occasioni di incontro al di fuori della scuola erano limitate. Per un ampio circondario della sua abitazione, vi erano soltanto due coetanei, Giovanni, suo compagno di classe e Francesco, unico figlio del custode del cimitero che sorgeva ad un paio di centinaia di metri dall’abitazione del primo.

    Era un cimitero importante, abbastanza grande da essere dotato della casa per il custode, proprio al centro dei vialetti alberati. Non di rado i tre amici trascorrevano interi pomeriggi d’estate a giocare a nascondino attorno alle tombe. Si infilavano nei loculi in attesa di utilizzo, si acquattavano dietro le lapidi in marmo bianco, a tratti macchiate dalla resina che cadeva dai cipressi, con le foto ovali in ceramica ed i piccoli bassorilievi di soggetti ispirati alla cristianità.

    Qualche volta i ragazzi si nascondevano dietro le grosse edicole funerarie che conservavano i resti mortali di persone che erano state importanti. Ricchi che, incapaci di rassegnarsi a non poterlo essere ancora, con quelle sepolture superbe ritenevano di potersi distinguere anche nella morte.

    A. ed i suoi amici assistevano alle riesumazioni, naturalmente attratti dall’osservare cosa spettasse agli uomini, i loro nonni, i loro genitori, e a loro stessi, da lì a non molto tempo ancora.

    Per gioco si confondevano tra i parenti addolorati che in cappella assistevano, non ancora rassegnati alla irrimediabile sorte del congiunto. Interminabili ore di osservazione che, in casi di non assoluta certezza della morte, si era usi concedere ai miseri resti.

    Così giocando spensieratamente o soltanto ostentando sicurezza nei confronti dei compagni, A. maturò presto, troppo presto, la consapevolezza umana fondamentale, l’angosciante certezza che non cessò di rimanere lucidamente presente in ogni istante della sua esistenza.

    In quei giorni, i giorni della sua vacanza estiva, aveva potuto assistere ad operazioni da meccanico. Giovanni era impegnato a smontare alcune componenti della motocicletta del padre, una C.M. 125 di vernice rossa. A. non partecipò attivamente, l’amico non glielo permetteva, era la loro moto, sua e di suo padre. Dovette accontentarsi di assistere a quell’esaltante macchinare, con un poco di invidia, per non potersi sporcare le mani con la morchia, né maneggiare a sua volta le chiavi, consunte ed arrugginite.

    L’idea di agire fattivamente, partecipare con la propria manualità a comporre o ricomporre, a dar vita ad uno strumento capace di moto proprio infaticabile, quindi fin oltre l’insuperabile fragilità e i limiti dell’essere vivente, risulta affascinante a chiunque e lo è stato di più, enormemente di più, in quel tempo e per quel fanciullo di campagna. L’entità meccanica ha sempre stimolato interesse nell’uomo, figuriamoci quale richiamo poteva aver esercitato su di un ragazzo, per sua natura e condizione avido di esperienze, quell’episodio di manipolazione di parti meccaniche, pur se da semplice osservatore. Un intelletto puro, aperto a tutto ciò che costituiva novità, con un bagaglio di conoscenze limitato a quanto poteva offrirgli la vita in campagna, in condizioni di semi isolamento sociale. La sua famiglia era numerosa, di basso livello culturale, anche se i genitori erano attenti alle esigenze dei figli e desiderosi di colmare le lacune che essi sapevano di portare e che temevano di poter trasmettere loro.

    «Cosa vuoi fare da grande?», gli ripetevano in quei giorni i parenti, i pochi conoscenti e i genitori, che dovevano iscriverlo ad un qualche corso successivo alla scuola elementare.

    Lui non sapeva decidere, non comprendeva la differenza che poteva esservi nella pur limitata scelta che gli veniva prospettata. Capiva soltanto che avrebbe dovuto frequentare un’altra scuola, in un luogo assai lontano. Avrebbe dovuto applicarsi allo studio, all’apprendimento di tante nuove nozioni. Non poteva rendersi conto allora della portata di quella decisione.

    Non aveva potuto decidere, tale era la sua inconsapevolezza, fino al giorno di questa sua prima e così importante esperienza. Ora sì, finalmente si era formato una propria opinione. Ora sapeva cosa rispondere ai genitori e a tutti agli altri, i quali stranamente mostravano in quei giorni tanto interesse per l’avvenire di questo delizioso fanciullo.

    Aveva deciso di voler diventare un meccanico, un meccanico riparatore di motociclette. Il solo aver partecipato come osservatore alle pratiche del coetaneo, gli aveva aperto la mente, lo aveva messo in condizione di decidere del proprio avvenire, gli aveva consentito una scelta, libera, certamente una libera scelta. Quell’affascinante C.M. rossa aveva fatto breccia nel suo intelletto, libero e puro. Libero da tutti quei sogni, quei desideri che sarebbero stati invece assai più connaturati all’età che stava attraversando.

    D’altro canto, quale possa essere l’incidenza anche di un solo, semplice oggetto, un giocattolo offerto ad un fanciullo, lo aveva ben chiaro Antonio Gramsci quando metteva in guardia dalla tendenza a regalare il meccano ai bambini.

    In un momento tanto importante per lo sviluppo intellettivo, quando gli stimoli offerti sono limitati, questi devono essere scelti con molta cura.

    Fu così che A. venne iscritto all’avviamento professionale meccanico.

    2. Una scuola minore

    Quale più grande disavventura sarebbe mai potuta capitare ad un ragazzo di media intelligenza, della prospettiva di intraprendere una carriera di operaio dell’industria meccanica? Operaio qualificato, s’intende. Sei lunghi anni, i migliori dal punto di vista formativo, - dai dodici ai diciotto, - dannosamente trascorsi in una istituzione che, a buon diritto, può essere definita l’anti-scuola.

    Se la ragione essenziale dell’istituzione scolastica è quella di fornire ad ogni essere umano conoscenze di base tali da consentirgli uno sviluppo armonico di fisico e mente, un arricchimento di conoscenze che gli permetta di affrontare e migliorare la sua e l’altrui presenza su questa terra, allora strutture come quella in questione, che hanno quale scopo prevalente quello di dare un’occupazione ai ragazzi, possono, a giusta ragione, essere definite come anti-scuola. Sono istituzione pensate proprio per escludere grandi masse di adolescenti dalla formazione scolastica di base, privarli dell’elemento indispensabile al compimento di quella maturazione capace di trasformare ogni giovane individuo della specie umana in un cittadino cosciente e perciò libero. La società contemporanea ha la necessità di essere una struttura stratificata nella quale possano sentirsi parimenti considerati componenti essenziali, il ministro, il dirigente, il maestro, il prete, il farmacista, l’operaio qualificato e l’artigiano. Ciascun componente potrà sentirsene parte essenziale soltanto se si tratti di uomini liberi, forniti della coscienza di sé, del proprio valore, della propria collocazione nel tempo e nello spazio. L’operaio dunque, l’artigiano che ha sviluppato specifiche abilità, proprie delle innumerevoli discipline che hanno ancora applicazione nella società contemporanea, non può prescindere dalla formazione cognitiva di base che lo renda, prima ancora che utile artigiano, soggetto libero e cosciente. Mistificando la positività di un retaggio che deriva alla società contemporanea dall’era remota nella quale sviluppare precocemente attività manuali era indispensabile alla sopravvivenza, si tende a perpetuare un enorme danno sociale. I sostenitori della necessità che sia mantenuta la formazione professionale, non vedono il danno ma si adoperano, con arroganza, a presentare il fatto in senso positivo. A motivazione del periodo d’inizio e della durata della formazione professionale di base vi è stata, ed ancora persiste, la convinzione di poter così cogliere nell’adolescente la duttilità di cervello e membra per meglio piegarli alle abilità manuali. Più tardi, dopo il diciottesimo anno, ciò non sarebbe più possibile, l’occasione sarebbe perduta, perso il tempo migliore.

    Non si è più in condizione di sviluppare le abilità artigianali quando si è in grado i capirne le ragioni profonde, il disegno di condizionamento sociale in esso nascosto, o forse non se ne ha più voglia, ci si vuole occupare d’altro. A quel punto si è maturata pienamente la consapevolezza del danno che questi corsi producono.

    Simili motivazioni potevano forse trovare una qualche validità nel Medio Evo, quando l’età media era di quarant’anni e le possibilità di impegno intellettuale, per un giovane, davvero limitate. Essere presi a bottega, appunto, da qualche artigiano, rappresentava, per chi non fosse nato nel letto di un principe o di un mercante, l'occasione per poter sviluppare conoscenze riservate. In rapporto alla durata media della vita, il momento della maturità cognitiva era naturalmente anticipato rispetto ad oggi e il tempo di impiego delle abilità acquisite notevolmente ridotto. Il rapporto tra periodo di apprendimento e periodo di abilità appariva equilibrato. Oggi che l’età media si è elevata a settanta anni ed oltre, questi rapporti sono cambiati. Le motivazioni a sostegno della indispensabilità dell’apprendimento precoce delle abilità manuali, proprie delle attività artigianali, appaiono oggi prive di alcun senso logico.

    Eppure le varie scuole professionali, differenti poi soltanto per la diversità della materia della quale diventare abili manipolatori, sono ancora molto frequentate. Nei decenni si susseguono trasformazioni, adeguamenti dei programmi scolastici; le modificazioni tecnologiche indotte dall’affanno dell’uomo si avvicendano rapidamente e la scuola tenta di adeguarvisi. Cambiano le impostazioni formative, cambiano profondamente le esigenze e le specifiche abilità professionali, ma non muore la convinzione della indispensabilità della scuola professionale. La società contemporanea, tecnologicamente evoluta come non mai, non sa rinunciare, e non può, ad una nutrita schiera di soggetti scarsamente pensanti perché intellettualmente impreparati. Anzi, sembra accrescersi la necessità di assicurare alla società un numero sempre maggiore di simili soggetti facilmente indirizzabili.

    All’avviamento professionale A. aveva ricevuto i primi rudimentali insegnamenti della tecnica meccanica. Nel programma erano previsti anche altri insegnamenti di abilità artigianale non meccaniche, così durante il primo anno, lui ed i suoi compagni avevano trascorso molte ore in un’officina di falegnameria. Sotto la guida di un artigiano anziano, avevano realizzato semplici oggetti in legno. La scuola, in quegli anni, aveva potuto disporre di alcune tavole, non proprio di materiale pregiato, si intende, erano di cipresso, ricavate dal taglio di due vecchi tronchi che giacevano lì nel piazzale da parecchi anni. Tronchi di vecchi alberi caduti sotto i bombardamenti dell’ultima guerra mondiale. Era capitata loro la stessa sorte infame che era toccata ad alcuni alunni, una ventina, coetanei dei ragazzi che ora lavoravano quel legno. Erano nati soltanto una quindicina d’anni prima, avevano avuto analoghe prospettive di vita, ma la loro era stata prematuramente troncata.

    Il laboratorio era attrezzato con le fondamentali macchine della falegnameria di allora, una sega a nastro ed una piallatrice. C’erano alcuni banchi da lavoro con le tipiche morse a coda e i ragazzi poterono provare la soddisfazione di realizzare in semi-autonomia i loro oggetti preferiti. La scelta era caduta prevalentemente su di un appendiabito in pezzo unico. Un oggetto per la casa che questi ragazzi, appartenenti a famiglie di modestissime condizioni economiche, consideravano importante. Sapevano che, ad opera realizzata, avrebbero potuto portarselo a casa. La mamma lo avrebbe riposto nell’armadio, tra le cose delle quali tener di conto. Così, l’idea di poter fare un dono a lei e alla famiglia intera, con un oggetto realizzato di loro pugno con impegno e grazie alle capacità artigianale maturate, li riempiva di orgoglio.

    Quei ragazzi erano consapevoli di rappresentare un peso per la famiglia. La spesa per il trasferimento da casa a scuola in autobus, il costo per i vestiti, richiesti, per foggia e per usura, almeno decenti. Non potevano essere le vesti troppo semplici e consunte usate abitualmente per le attività agricole ma nemmeno quelle che andavano bene per i rari momenti di divertimento che i ragazzi di quell’età e di quelle condizioni sociali trascorrevano in gruppi numerosi nei prati o nei piazzali polverosi, nei cortili spesso indecorosamente trascurati dove vivevano con le loro famiglie, o in campagne abbandonate della periferia urbana. C’era inoltre la spesa per i libri, pur se assai limitati in questo tipo di scuola. I libri erano riciclati, ma sempre con costi considerevoli per le famiglie, poi c’erano i quaderni, le penne e le matite, le gomme, e i fogli di carta da disegno, ed altre spese ancora. Tutto ciò andava poi sommato al mancato guadagno, modesto ma importante, che il lavoro di un ragazzo di quell’età poteva rappresentare per il bilancio famigliare.

    Per una volta, la prima volta, questi adolescenti portavano a casa qualcosa di utile e di un certo valore, che non aveva comportato spese, che dava loro una soddisfazione, tale da indurre, nella loro mente

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