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Dolcissima Anita,
stasera sento il bisogno di scrivere a te.
Sembra passata un'eternità dall'ultima volta che ho potuto
abbracciarti. E' corso tanto di quel tempo e sono successe tali e tante cose da
avermelo fatto dimenticare.
Ma questo pomeriggio mi è accaduta una cosa strana.
Mi ero messo spalle al muro di fronte ad una breccia sulla parete. Da
quì potevo osservare senza esser visto i movimenti del nemico. Cercavo di
capire se stesse accadendo qualcosa di inusuale, quando vidi degli uomini
parlottare tranquillamente tra loro, credo fossero egiziani. Fumavano (dio,
cosa non darei per una sigaretta!) e nella mia fantasia credetti di sentire nelle
narici il profumo del tabacco; il mio stomaco brontolò reclamando cibo e
sentii uno strano formicolio alle gambe ed una stanchezza infinita invadermi
il corpo.
Chiusi gli occhi e provai a sdraiarmi per terra. Da lontano arrivavano
le voci dei due egiziani; a quel punto devo essermi addormentato, non può
essere che così, perché d'un tratto mi alzai in piedi e guardai nuovamente in
direzione dei due che adesso stavano parlando con una donna. Non potevo
credere ai miei occhi : quella donna eri tu, Anita!
Fecero un cenno nella mia direzione e ti lasciarono passare. Guardai
la tua esile figura farsi sempre più vicina. Ora potevo distinguere il tuo viso
sorridente e pieno di quella luce e quella gioia che conoscevo bene.
Indossavi il tuo vestito azzurro di cotone leggero. Era il mio preferito. Una
fila di perle oscillava sul petto facendomi posare lo sguardo sui tuoi piccoli
seni. Ora eri accanto a me; con un gesto che riconobbi appartenerti, togliesti
il fiocco che legava i capelli, lasciandoli cadere sulle spalle.
Dicesti : "Eccomi, Luciano, sono quì!".
Ti abbracciai tanto forte da soffocarti. Sentivo il tuo corpo caldo e
profumato aderire al mio, i tuoi seni premuti sul mio petto. Piangevo e
ripetevo il tuo nome senza riuscire a dire altro :" Anita, Anita, Anita!".
Non sembrava un sogno. Naturalmente, con ancora la netta
sensazione di averti tra le mie baccia, mi risvegliai. Fuori, i due soldati
parlavano ancora tra loro e io avrei dato un braccio per una sigaretta e tutta
la mia vita per riaverti ancora un minuto accanto a me.
Sono stanco.
Siamo asserragliati, quì, nel castello di Fasiladas a Gondar. Gli
inglesi controllano ogni nostra mossa nell'attesa dell'attacco finale. Qualche
settimana fa si sono aperti un varco alla periferia della città e dopo pesanti
bombardamenti sono arrivati fin quasi sotto le mura.
Gli Hurricanes hanno sorvolato il presidio giorno e notte senza rischi
da quando la nostra contraerea è rimasta senza munizioni.
A che serve resistere?
Ce lo chiediamo tutti quì, senza trovare risposta. Per noi, topi in
trappola, la disfatta è palpabile.
Dopo la nostra richiesta di trattare la resa col nemico, è giunto
dall'Italia un fono del Duce : "Resistere con ogni mezzo, fino all'ultimo
uomo!"
La notte qualcuno esce dal castello in cerca di cibo attraversando le
linee nemiche; molti non fanno ritorno.
C'era , stanotte, un silenzio pesante, innaturale, un silenzio che non
presagiva nulla di buono. Non si è udito neppure il crepitare di una
mitragliatrice, ne il rombo di un aereo. Solo in lontananza potevamo
scorgere i bagliori dei fuochi accesi delle bande abissine attestate a qualche
centinaio di metri da noi. I loro canti, come lamenti di un bimbo piangente,
arrivavano deboli e sinistri alle nostre orecchie.
Scrivere, per ora, sembra essere l'unica via di fuga, l'antidoto alla
pazzia.
Sono tante le cose che vorrei raccontarti che mi è difficile mettere
ordine nei miei pensieri. Tutte le cose non dette riemergono prepotenti e
vitali come non mai e i ricordi si fanno incerti, opachi e densi come le nebbie
del nostro Carso. Eppure in mezzo a questa confusione alcune figure
emergono forti e nitide , al di sopra delle altre.
Sto pensando a mio padre.
Il primo ricordo vivo che ho di lui, risale al giorno in cui tornò dalla
prigionia. Avevo nove anni.
Ero rientrato da poco dalla scuola, stavo in cucina a giocare mentre
mia madre armeggiava tra i fornelli..
Bussarono e la mamma andò ad aprire. La porta cigolò sui cardini ;
seguirono alcuni interminabili secondi di silenzio, poi un grido soffocato da
uno scoppio di pianto : "Oh, santo dio, Uccio, te son ti?".
Passò qualche tempo prima che li sentissi parlare. Benché la curiosità
si fosse impadronita di me , non osai affacciarmi dalla cucina.
"Luciano, movite, vien quà a veder chi xè rivà!".
C'era un uomo con lei, male in arnese, magro e pallido; indossava un
cappotto militare di parecchie taglie superiori alla sua. Fui colpito dai suoi
occhi : sembravano vuoti, privi di speranza, provati dal dolore, ma che nel
vedermi si illuminarono.
Guardai mia madre senza capire e tornai con lo sguardo a quell'uomo
che avrei dovuto conoscere ma che sentivo essermi estraneo.
"Papà xè tornado, finalmente!".
Ancora una volta guardai mia madre senza capire. L'uomo allargò le
braccia e disse : "Son papà, Luciano, non te me conossi, son papà, ostia!".
Non fu facile il suo reinserimento in famiglia. Durante la prigionia
s'era ammalato di tisi e questo lo aveva indebolito.
Nelle sere d'inverno, quando la bora sferzava la città, amava
deliziarmi con le sue disavventure di guerra infarcendole di azioni eroiche
mai vissute realmente. Le raccontava così male, poverino, che perfino a un
bambino qual ero, suonavano false.
Mia madre lo rimproverava : "Cossa te ghè conti ste monade al picio.
Te lo vol inzinganar come che ga fato con ti quel'altro mona de Roma?".
Quel'altro mona de Roma era il Duce, ma lei non lo chiamava mai
per nome. Ricordo una delle tante discussioni in casa, quando mio padre
preso dall'entusiasmo del momento, voleva a tutti i costi partecipare alla
marcia su Roma.
" Uccio, cossa te son mona? te son tornà dala prigionia in quele
condizioni, più morto che vivo e no te gà bastà? te vol propio lasarme
vedova?".
Queste discussioni finivano immancabilmente con mio padre che
usciva sbattendo la porta e con mamma che borbottava a voce
sufficientemente alta perché sentisi anch'io: "Te gà un pare mona anche se el
xè bon come un toco de pan".
La verità sugli eroismi del genitore venivano fuori quando lui
scendeva all'osteria a bere un bicchiere di vino con gli amici.
Ai primi bagliori di guerra, essendo Trieste Austro-Ungarica, egli fu
costretto a indossare la divisa dell'esercito Austriaco. Venne arruolato come
quasi tutti i triestini nel 97° reggimento e spedito a far la guerra sui Carpazi,
ben lontano dai fronti del Carso per evitare diserzioni fin troppo facili. Dopo
un paio di mesi, insieme ad alcuni compagni di sventura, organizzò la fuga.
Con mezzi di fortuna arrivò in Italia ma non poté tornare a Trieste. Con il
protrarsi della guerra e l'impossibilità di ricongiungersi alla famiglia, decise
di uscire dalla clandestinità e si arruolò, questa volta con il regio esercito
italiano. LO spedirono al fronte, vicino a Gorizia. Non avendo però la stoffa
dell'eroe, al primo assalto alla baionetta, uscì correndo dalla trincea e fatti
pochi metri verso il nemico, gettò il fucile e alzò le braccia senza smettere di
correre : "No sparar, no sparar, me arendo!".
Fu fatto prigioniero e per tre lunghissimi anni non avemmo sue
notizia.