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ANTONIO PUNZI

PRUDENTIA IURIS
Materiali per una filosofia della giurisprudenza

Seconda edizione

G. GIAPPICHELLI EDITORE TORINO

AVVERTENZA
Il presente volume in corso di completamento da parte dellAutore.
I successivi aggiornamenti Le verranno inviati, tramite mail, senza
ulteriori addebiti non appena disponibili.
La ringraziamo per lacquisto.

ANTONIO PUNZI

PRUDENTIA IURIS
Materiali per una filosofia della giurisprudenza
Seconda edizione

G. Giappichelli Editore Torino

Copyright 2016 - G.GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO


VIAPO, 21 - TEL.011-81.53.111 -FAX 011-81.25.100

http://www.giappichelli.it
ISBN/EAN 978-88-921-5784-2

INDICE

pag.

I
LA VIRT DEL GIURISTA
1. Il giurista e la regola
2. Metodo e responsabilit del giurista

3
6

II
IL DIRITTO TRA OBBEDIENZA E COSCIENZA
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.

La coscienza e la legge
La separazione tra foro interno e foro esterno
Il positivismo giuridico e le ragioni della coscienza
Forme di obbedienza alla legge
Il diritto e la resistenza allingiustizia
Il dovere di disobbedire al (non)diritto
Lirriducibile diritto naturale, linevitabile interpretazione

8
10
16
21
25
29
31

III
LA LEGGE E LA SUA INTERPRETAZIONE
1.
2.
3.
4.
5.
6.

Ius dicere, iustitiam facere


Valore (e limiti) della certezza del diritto
La codificazione e le ragioni del garantismo
Vera giustizia?
Le motivazioni della giurisprudenza creativa
Formalismo e antiformalismo. Una disputa dai molti equivoci

Indice

34
37
41
44
47
50

pag.
7. La creativit della giurisprudenza: da proposta metodologica a
risposta alla crisi dello Stato liberale

53

IV
LA COSTITUZIONE DELLORDINAMENTO
1. Potere costituente e potere costituito
2. Ex facto oritur ius
3. Tra forza normativa del fatto e difesa della Costituzione: il caso
Catalogna
4. La piramide normativa ed il Leviatano incatenato
5. Dallordinamento al riconoscimento
6. Le incognite dello stato di eccezione
7. Leccezione, la regola e il supremo controllo di legittimit

57
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69
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74
76

Indice

I
LA VIRT DEL GIURISTA

1. Il giurista e la regola
Negli ordinamenti giuridici occidentali la figura del giurista, soprattutto nelle ultime tre decadi, ha vissuto un significativo processo di trasformazione. Tale trasformazione ha riguardato loggetto delle sue specifiche competenze, il contributo che chiamato a fornire nel processo di
produzione e applicazione delle regole, il ruolo sociale e culturale che
occupa nelle rispettive comunit.
Una simile trasformazione non pu sorprendere. Essa costituisce la
logica conseguenza dei celeri cambiamenti che hanno segnato la storia
pi recente della civilt occidentale: dagli equilibri tra le potenze mondiali ridisegnati a seguito della caduta dei regimi comunisti alla geopolitica dellEuropa, protagonista di un inarrestabile processo di allargamento, ma tuttora priva di una precisa identit politica; dal ruolo dei
Parlamenti nelle democrazie avanzate sempre meno centrali nel processo di produzione del diritto alle crescenti competenze attribuite al potere giudiziario, agli organi dellamministrazione e alle autorit indipendenti; dagli strumenti di circolazione delle informazioni segnati in modo irreversibile dalla rivoluzione telematica alle tecniche di formazione
del consenso in societ sempre pi pluralistiche.
Sotto quali profili la congiuntura storico-istituzionale a cavallo del
millennio ha inciso sulla figura, sui compiti e sul ruolo sociale del giurista? La pi significativa discontinuit si pu cogliere nel diverso rapporto
che il giurista contemporaneo intrattiene con quello che un tempo veniva
considerato loggetto principale del proprio sapere e, dunque, il basamento della propria competenza professionale: la legge [GROSSI, Ritorno al
diritto, 2015].
Il sapere del giurista, oggi, non pu essere pi identificato con la conoscenza delle leggi vigenti in vista dellapplicazione di queste al caso
concreto. E ci non solo perch la sconfinata e talora incoerente pro-

La virt del giurista

duzione normativa a livello non solo nazionale, ma anche regionale,


comunitario, internazionale rende del tutto illusoria, anche nei singoli
settore dellordinamento, la pretesa di completezza della conoscenza delle regole vigenti.
A ben vedere il convincimento, fino a qualche decennio fa dominante ed
oggi da molti messo in discussione, secondo cui la legge vigente costituirebbe loggetto quasi esclusivo della scienza del giurista traduce, non solo in riferimento agli ordinamenti contemporanei, una visione parziale se non addirittura fallace della complessit e ricchezza dellesperienza giuridica. Invero,
come si avr modo di precisare nel corso del presente lavoro, anche in relazione alle fasi storiche e agli ordinamenti in cui la legge costituiva il vertice
della gerarchia delle fonti del diritto, non pu davvero affermarsi che il compito del giurista (giudice, avvocato, notaio, consulente, ecc.) sia mai stato
quello di conoscere la legge vigente, assunta come coerente e completa, ed
applicarla al caso concreto. Limmagine di un giurista che, in nome della deferenza nei confronti del legislatore (comunque questi venga connotato sul
piano politico), lascia parlare la legge da s, senza fornire alcun contributo al
processo di produzione del diritto, ha costituito pi un modello teorico indicato come lunico davvero rigoroso o comunque auspicato come lunico
coerente con laffermata primazia della legge tra le fonti del diritto che non
la realistica rappresentazione dellufficio quotidianamente esercitato dalloperatore del diritto. Tale immagine, a ben vedere, si sempre scontrata con
la struttura stessa dellesperienza giuridica, in cui le regole di condotta possono transitare dal piano dellenunciato linguistico, emanazione della volont autoritativa, allapplicazione al caso concreto solo attraverso la mediazione di unattivit interpretativa che ogni volta faccia ri-vivere quelle regole,
calandole nel vivo della storia umana. E tale interpretazione, ripetendosi e
chiarendosi nel tempo, finisce per incidere sul significato stesso della regola.
Scriveva a tal proposito il grande civilista messinese Salvatore Pugliatti: Il
ciclo che va dalla scienza allattivit del legislatore e, viceversa, e si ferma
alle formulazioni astratte, alle quali si rif il giudice per le applicazioni
concrete, segue anche un cammino diverso. Lapplicazione infatti, rivela
spesso il carattere di tipicit e si fissa in formulazioni astratte: dalla decisione del caso singolo nasce la formulazione giurisprudenziale che entra a
far parte di un determinato ambiente culturale. Anchessa riveste la natura
dellattivit del legislatore e del giurista [PUGLIATTI, La giurisprudenza
come scienza pratica, 1950, pp. 36-37].

Se il giurista negli ultimi anni ha preso atto dellirriducibilit del dirit-

Prudentia iuris

to alla legge anche per due altri ordini di ragioni: in primo luogo perch
ha assunto piena consapevolezza del ruolo essenziale che ogni interprete (il giudice anzitutto, ma anche lamministratore, il componente di una
authority, lavvocato, il consulente, lo studioso, persino il privato cittadino nel perseguimento dei suoi interessi) chiamato a svolgere nel processo di produzione del diritto. Anche nelle controversie che, in astratto, potrebbero sembrare suscettibili di soluzione sulla base di una disposizione di legge chiaramente individuabile, infatti, questa disposizione,
una volta approvata dal Parlamento, pubblicata in Gazzetta ufficiale ed
entrata in vigore, non ha certo esaurito il suo processo di produzione di
senso. Lapplicazione della legge nella prassi presuppone piuttosto una
complessa attivit di interpretazione, intesa come attribuzione di significato allenunciato e come anticipazione degli effetti che quella regola
pu determinare nella soluzione del caso di specie [BETTI, Teoria generale dellinterpretazione, 1955].
Un altro motivo per il quale non pu pi darsi per scontata
lidentificazione tra diritto e legge che il diritto contemporaneo viene
oggi in parte prodotto al di fuori dalle aule dei parlamenti.
Accanto alla hard law, dotata di autorit perch proveniente da un legislatore che parla in nome del popolo sovrano, importanza vieppi crescente ha acquisito negli ultimi anni la soft law, spesso dotata di forza
persuasiva pi che autoritativa: si pensi a convenzioni e carte dei diritti
emanate da organismi sovranazionali, alla lex mercatoria nella prassi degli scambi commerciali, alle pronunce delle Autorit amministrative indipendenti, ai codici deontologici adottati da ordini professionali e/o imprese, alle decisioni di collegi arbitrali che si consolidano nel tempo assumendo di fatto il valore di precedente giurisprudenziale, alladozione
di schemi negoziali prodotti non da un legislatore bens dagli operatori
del diritto e poi ripresi in modo spontaneo e diffusi al punto da assurgere
a rango di regole nascenti dalla prassi.
Si assiste, in tal modo, ad una crescente diversificazione delle fonti del
diritto che, pur vedendo ancora la legge (non pi solo quella nazionale)
in posizione di primato, rende, rispetto al passato, molto pi complesso
il lavoro di ricerca, proprio del giurista, della regola idonea alla soluzione del caso concreto.

La virt del giurista

2. Metodo e responsabilit del giurista


Il cambiamento dello scenario storico-istituzionale nel quale si trova
ad operare il giurista ed il nuovo assetto delle fonti del diritto ripropongono la questione del metodo della giurisprudenza.
Un metodo, in generale, costituisce un insieme di procedure e tecniche dispiegate al fine di raggiungere un determinato scopo. Non pu
individuarsi un metodo se non si sia prima individuato lo scopo da perseguire.
Nel caso della giurisprudenza lindividuazione dello scopo risulta meno semplice di quanto possa sembrare. La giurisprudenza costituisce,
anzitutto, una scienza pratica, nel senso che lattivit di comprensione e
interpretazione (di una legge, di un provvedimento, di un contratto) deve
mostrarsi capace di prevedere le conseguenze pratiche che le soluzioni
prospettate possono produrre sul piano degli interessi in gioco e delle relative tutele. Tale definizione della giurisprudenza come scienza pratica,
peraltro, costituisce la premessa, non la soluzione del problema del metodo giuridico.
Un passo avanti in tale direzione pu compiersi rivolgendo lattenzione alla tipologia di problemi pratici che la giurisprudenza chiamata a
risolvere: dalla composizione di interessi in conflitto alla tutela e al bilanciamento di aspettativa di giustizia.
Nello svolgimento di tale compito illusorio pensare, a fronte delle
molteplici attese da parte della comunit, che il giurista possa limitarsi ad
estrarre da un qualche codice o testo di legge una regola gi predisposta
dal legislatore per la soluzione del caso e pronta per essere applicata in
giudizio, appunto, in nome della legge. Anche nelle ipotesi in cui una tale
regola vi sia, infatti, essa, dovr essere interpretata a partire dalla cultura
di sfondo dellinterprete, con lorecchio teso alle opinioni della dottrina e ai precedenti giurisprudenziali e soprattutto nel rispetto dei principi generali della materia e dellordinamento [CARCATERRA, Largomentazione nellinterpretazione giuridica, 1996, p. 130]. Nel far ci il
giurista trasforma la regola astratta in una criterio di qualificazione del
caso concreto, grazie ad unoperazione talora di adeguamento o integrazione della previsione legislativa ed in ogni caso finalizzata a rendere la soluzione del caso pertinente e razionalmente motivabile [COTTA,
Giustificazione e obbligatoriet delle norme, 1981].

Prudentia iuris

Il vero che, come gi insegnava il padre del codice civile italiano,


Filippo Vassalli, il diritto positivo il punto non di arrivo, ma di partenza nella genesi dellesperienza giuridica. Una volta emanato in modo formalmente valido ed entrato in vigore, il diritto positivo continua a
vivere e ad evolversi attraverso un processo di positivizzazione del quale, oltre al legislatore, sono coautori giudici, amministratori, operatori del
diritto, cittadini, i quali, ciascuno in ossequio al proprio ruolo, contribuiscono ad interpretare, applicare, far vivere il diritto nellesperienza pratica. Di qui lindimenticata lezione del Maestro: Il compito del giureconsulto si adempie col portare la formula astratta della legge a contatto
con la realt dei fatti: realizzando quella adesione ai fatti che d, nel dato caso, la giustizia [VASSALLI, P.E. Bensa, 1929, p. 380].
Ecco che il giurista, se non si illude di poter incasellare, in modo asettico, casi pratici in schemi normativi gi pronti (e dogmaticamente assunti come completi ed esaustivi), ma fa aderire il suo metodo ai fatti e,
dunque, si mostra disposto ad aprire gli occhi sulla pulsante realt del caso che si presenta al suo cospetto e a ponderare le ragioni ed aspettative
rappresentate dagli attori della controversia di ciascun caso, pu davvero,
sempre nel rispetto del suo specifico ufficio dunque senza rubare il mestiere al legislatore fornire un quotidiano contributo al cammino degli
ordinamenti verso la realizzazione della giustizia nel caso concreto.
E non forse un caso che la teologia medievale considerasse la prudenza come quella virt consistente nella capacit di dirigere lintelletto
nellesercizio delle proprie attivit in modo da poter discernere ci che
giusto. Si direbbe proprio questa, dunque, la virt che il giurista deve
perseguire per operare allaltezza del fine cui chiamato.

La virt del giurista

II
IL DIRITTO
TRA OBBEDIENZA E COSCIENZA
1. La coscienza e la legge
In che modo ed entro quali limiti il giurista abbia titolo per partecipare
al processo di positivizzazione del diritto pu cominciare a comprendersi
in ossequio al metodo di una filosofia della giurisprudenza prendendo le mosse da alcuni casi pratici.
Una filosofia della giurisprudenza trova proprio in ci la sua specificit.
Essa non prende le mosse dalle grandi domande di tipo ontologico (cos il
diritto?), assiologico (cos la giustizia?), fenomenologico-esistenziale
(qual la specificit del diritto e la sua collocazione nellesserci delluomo?) o ermeneutico (cos linterpretazione?). Essa non ripiega neanche
sulle domande caratteristiche di una teoria generale del diritto: cos una
norma?, cos un ordinamento giuridico?, cosa sono lacune e antinomie?, ecc.
Alla prima come alla seconda tipologia di domande, la filosofia della giurisprudenza vuole certamente rispondere, ma prendendo le mosse dalla concreta esperienza giuridica, se possibile da casi di giurisprudenza che facciano
venire in luce lessere del diritto, della giustizia, dellinterpretazione, non sul
piano astrattamente definitorio, ma per come innanzitutto e per lo pi si manifestano nella modesta, quotidiana esperienza giuridica (per usare lespressione cara a Giuseppe CAPOGRASSI, che della filosofia della giurisprudenza
stato maestro, come evidenziato, tra i tanti, dallo studio pertinente alloggetto del presente capitolo, in tema di Obbedienza e coscienza, 1950).

Un caso di giurisprudenza di sicuro rilievo nel quadro della presente


riflessione ha visto coinvolto Vahan Bayatyan, un cittadino armeno che
nel luglio del 2011 uscito vincitore da una lunga battaglia legale combattuta, a livello nazionale e sovranazionale, in difesa dei propri diritti.
Vahan riuscito a veder riconosciuto il proprio diritto ad astenersi da
condotte, pur qualificate come obbligatorie da leggi valide, che contraddicevano i dettami della propria coscienza.
Prudentia iuris

Nel 2001, al compimento del diciottesimo anno di et, infatti, Vahan Bayatyan veniva chiamato a svolgere il servizio militare previsto come obbligatorio dalla legge armena. A tale chiamata alla leva, per, Vahan riteneva di
non poter rispondere in virt delle sue convinzioni religiose. Battezzato allet di sedici anni, infatti, egli era entrato a far parte della comunit dei Testimoni di Geova. Linterpretazione della Bibbia fornita da tale comunit
rendeva inevitabile la disobbedienza ad una legge che imponeva lo svolgimento di azioni o comunque di un addestramento di tipo militare durante la leva.
Tale impedimento di coscienza veniva rappresentato dallinteressato con
diverse comunicazioni, inviate alle autorit competenti in data 1 aprile 2001,
nelle quali egli si dichiarava disponibile a svolgere un servizio civile alternativo al servizio militare: I, Vahan Bayatyan, born in 1983, inform you that I
have studied the Bible since 1996 and have trained my conscience by the Bible in harmony with the words of Isaiah 2:4, and I consciously refuse to perform military service. At the same time I inform you that I am ready to perform alternative civilian service in place of military service.
La Commissione affari legali dellAssemblea nazionale armena rispondeva che, non essendo previsto dalla normativa vigente alcun servizio civile
alternativo, egli era inderogabilmente tenuto a svolgere il servizio militare:
In connection with your declaration, ... we inform you that in accordance
with the legislation of the Republic of Armenia every citizen ... is obliged to
serve in the Armenian army. Since no law has yet been adopted in Armenia
on alternative service, you must submit to the current law and serve in the
Armenian army.

Della vicenda giudiziaria dellobiettore armeno va anzitutto sottolineato un profilo. Arrestato, nel settembre del 2002, con laccusa di renitenza alla leva, Vahan fu processato e condannato a 18 mesi di reclusione. Tale sentenza, non a caso, fu impugnata anzitutto dal pubblico ministero, il quale chiese alla Corte dappello una punizione pi severa in
considerazione del fatto che il rifiuto di obbedire alla legge dettato da
motivi religiosi si presentava non solo infondato, ma socialmente pericoloso.
The [applicant] did not accept his guilt, explaining that he refused [military] service having studied the Bible, and as a Jehovahs Witness his faith
did not permit him to serve in the armed forces of Armenia. () I believe
that the court imposed an obviously lenient punishment and did not take into
consideration the degree of social danger of the crime, the personality of

Il diritto tra obbedienza e coscienza

[the applicant], and the clearly unfounded and dangerous reasons for [the
applicants] refusal of [military] service.

Nel giudizio di appello limputato si era richiamato invano allart. 23


della Costituzione armena che riconosceva il diritto di ognuno alla libert
di pensiero, di coscienza e di religione. La Corte, per converso, tenuto altres conto del fatto che limputato non riconosceva la propria colpevolezza e non mostrava segni di pentimento, accolse la richiesta della pubblica accusa ed aument la pena a 30 mesi di reclusione.
Tale sentenza fu poi confermata dalla Corte di Cassazione, che significativamente afferm il principio per cui il diritto alla libert di coscienza e di religione deve ritenersi in ogni caso soggetto a limitazioni in nome della sicurezza dello Stato e della protezione dellordine pubblico.
Lobiettore armeno fu rinchiuso in carcere il 22 luglio del 2003.

2. La separazione tra foro interno e foro esterno


I profili del caso Vahan rilevanti per una filosofia della giurisprudenza
possono essere cos rappresentati: la sua disobbedienza desta inquietudine nello Stato e nelle Corti di giustizia che devono qualificare la sua
condotta. Non si tratta di un delinquente abituale o di un cittadino comunque disposto a violare la legge pur di massimizzare il proprio profitto. Vahan un cittadino propenso a rispettare le leggi del suo paese, ma
nel caso di specie impossibilitato a farlo per motivi di coscienza. Egli
chiede allo Stato di apprezzare le ragioni della sua coscienza e di metterlo in condizione di rispettare la legge (ad esempio svolgendo un servizio
civile alternativo) senza venir meno ai propri dettami interiori.
Bisognerebbe anzitutto chiedersi cosa c nella coscienza che chieda di
essere preso in considerazione come valore e come ragione giustificatrice di
una violazione di legge. Prescindendo dalla nozione di coscienza come sinonimo di consapevolezza (delloggetto e di s), nellambito della riflessione
morale la coscienza pu anzitutto definirsi come il senso del bene e del male. Ma il punto : questa coscienza chiede rispetto perch avverte ci che in
s ha valore (e dunque in ragione di ci lagente ha il diritto di conformare la
condotta a tale avvertenza) o per il solo fatto che essa esprime un personale e
insindacabile modo di percepire il valore? Altro , infatti, la coscienza intesa

Prudentia iuris

10

come naturale attitudine a cogliere i princpi primi delle azioni umane, altro
la coscienza come atto della persona in cui la ragione giudica le condotte in
base alla propria scienza morale. Non a caso il pensiero medievale distingueva la sinderesi, come senso del bene universalmente caratteristico della
natura umana (dunque presente anche nelluomo malvagio), dalla coscientia
come fonte dei giudizi morali personali e dunque fallibili.
La distinzione ora richiamata spiega, evidentemente, i suoi effetti anche
in ordine al tema dellobiezione di coscienza. Altro, infatti, rivendicare il
diritto a disobbedire alla legge positiva in nome di un valore che si assume
giusto ed inviolabile, altro chiedere che venga tutelata la coscienza in
quanto sede dei propri personali e insindacabili giudizi di valore.

Perch, dunque, dovrebbe ammettersi una disobbedienza alla legge


per motivi di coscienza? Cos facendo non si rischia di conferire ai valori
del cittadino un primato assiologico rispetto al comando dello Stato? E
come pu reggersi uno Stato le cui leggi siano ora obbedite ora disobbedite, a seconda dei personalissimi convincimenti di questo o quel suddito?
proprio questa la preoccupazione manifestata da Thomas Hobbes,
filosofo e scienziato politico del XVII secolo e padre del positivismo giuridico moderno.
Il positivismo giuridico, com noto, separa in modo netto il diritto come dal diritto come deve essere: altro il diritto vigente, fonte di obblighi per il solo fatto di essere formalmente valido, altro il diritto naturale inteso come insieme di valori morali, dunque esterni al diritto e che non rilevano se non nel momento in cui vengono recepiti dal legislatore e tradotti in
norme positive [v. ad es. FULLER, Il diritto alla ricerca di se stesso, 1940,
lez. I]. Nella versione moderna del positivismo giuridico, peraltro, la separazione tra essere e dover essere viene rafforzata dallaffermazione della legge
come fonte primaria se non esclusiva del diritto. Ecco che il positivismo moderno pu definirsi positivismo legalistico: diritto solo linsieme delle leggi
positive emanate dal potere sovrano, leggi che tutti, dagli organi dello Stato
ai cittadini, devono rispettare e ci a prescindere da ogni valutazione, di carattere etico o politico, sul loro contenuto [v. ad es. CHIASSONI, Positivismo
giuridico, 2013].

Il pensatore inglese muove dal convincimento che la societ umana, se


abbandonata a se stessa e priva di un governo forte, sia condannata a
permanere in uno stato di natura disordinato e conflittuale. In un mondo

Il diritto tra obbedienza e coscienza

11

abitato da individui egoisti naturalmente portati a perseguire il proprio


utile, incapaci di autoorganizzarsi e di costituire un ordine sociale improntato alla solidariet o comunque alla spontanea cooperazione Hobbes convinto che, per instaurare lordine nella societ, si debba mettere a tacere le coscienze individuali e consegnarsi interamente alla
coscienza del sovrano. Sembra proprio largomento utilizzato dalle autorit armene di fronte allobiettore di coscienza: in una societ davvero
ordinata, nessuno spazio pu essere concesso ai diritti della coscienza.
Lindividuo, peraltro, nellottica di Hobbes un animale non solo impaurito ed aggressivo, ma portato, senza una razionale giustificazione, a
ritenere eterni ed universali i valori dalla propria coscienza e comunque
sempre pronto a cercare pretesti per sottrarsi alladempimento dei propri
doveri civili.
In coerenza con tali premesse antropologiche, il pensatore seicentesco
fornisce una definizione positivistica e statualistica del diritto come
insieme di leggi comandate dal sovrano. Per leggi civili intendo le
leggi che gli uomini sono vincolati ad osservare per il fatto che sono
membri [] di uno Stato.
Lobbedienza, promessa dal cittadino, dunque la condizione di
pensabilit della legge e della sua obbligatoriet: la legge in generale
[] comando di chi si rivolge ad uno gi obbligato ad obbedirgli. Pu
dirsi legge civile quella manifestazione di volont di un soggetto che
sovrano in quanto a lui tutti gli altri individui, pur di uscire dal caotico ed
insicuro stato di natura, si sono vicendevolmente obbligati ad obbedire.
Cos facendo ogni cittadino si impegnato a mettere a tacere la propria
coscienza e ad ascoltare la voce del sovrano come se fosse propria. La
legge la coscienza pubblica, dalla quale egli ha gi accettato di farsi
guidare. Altrimenti in tanta diversit quanta ve n tra opinioni private,
lo Stato deve necessariamente essere diviso, e nessuno oserebbe ubbidire
al potere sovrano pi in l di quanto sembrer buono ai suoi occhi.
Lo Stato moderno, laico e secolarizzato, si fonda, dunque, nel cuore
nel XVII secolo, su un impegno di tutti i cittadini a mettere tra parentesi
le ragioni della propria coscienza. la legge, non la coscienza individuale, a qualificare una condotta come obbligatoria. Tra lobbligo di legge e
lobbligo della coscienza, a rigore, non pu darsi conflitto: in uno Stato
che voglia garantire in modo infallibile la pace e la sicurezza non ha alcuna rilevanza ci che sente il privato cittadino nella propria coscienza.

Prudentia iuris

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Linteriore sentimento del giusto e dellingiusto non ha visibilit nello


spazio pubblico: solo le leggi positive sono le regole del giusto e dellingiusto [HOBBES, Leviatano, 1651, cap. XXVI].
opportuno, per, precisare che dietro tale scissione tra legge positiva
e coscienza individuale si cela la separazione tra foro interno e foro
esterno, dunque uno dei valori portanti del liberalismo. Lo Stato moderno, infatti, nato dalle ceneri delle guerre di religione del secolo XVII
proprio neutralizzando il conflitto tra le diverse opzioni di credo e di valore e dunque escludendo la coscienza individuale dalla sfera di competenze dellautorit costituita [CATANIA, Filosofia del diritto, 2015, cap. V].
Non certo un caso che il giurista novecentesco Carl Schmitt, nella
sua aspra critica alla filosofia dello stato secolarizzato, abbia preso di mira proprio la separazione tra sfera privata e sfera pubblica: lidea secondo
cui una coincidenza tra volont del sovrano e convinzioni dei cittadini
pu essere solo esteriore (ad esempio resa possibile dallartificio del contratto) costituiva a suo giudizio il germe mortifero che ha distrutto
dallinterno il potente Leviatano e che ha abbattuto il dio mortale
[SCHMITT, Il Leviatano nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes,
1938, tr. it. p. 94]. Quello che il giurista tedesco definisce germe mortifero sembra, per converso, aver rappresentato il vero punto di forza dello Stato moderno.
Giuseppe Capograssi a richiamare la virt liberale di tale separazione:
Richiedendo soltanto lazione, lordinamento lascia libero corso alla vita
della coscienza, non la disturba, non la tormenta, la lascia avere la propria
vita. Allopposto: Uno dei pi singolari contrassegni dello Stato totalitario che non si contenta dellatto terminale dellobbedire, ma richiede
ladesione intera della coscienza, cio lalienazione della coscienza da se
stessa; che la coscienza cessi di essere se stessa e si conformi alla coscienza
dello Stato. Di qui il fatto caratteristico della necessit della confessione,
comunque ottenuta, nel processo politico. Lo Stato totalitario costituisce
dunque il tentativo di espropriare giuridicamente lindividuo della sua coscienza [CAPOGRASSI, Obbedienza e coscienza, cit., p. 205].

La separazione tra foro interno e foro esterno, invero, ha un duplice volto: se da un lato sottrae allo Stato la giurisdizione sulla coscienza e sulle
virt morali del cittadino, dallaltro rischia di dimenticare il diritto della
coscienza di essere rappresentata e tutelata anche nello spazio pubblico.

Il diritto tra obbedienza e coscienza

13

Nel caso di Hobbes, peraltro, il principio secondo cui la legge la


coscienza pubblica si traduce non solo in una svalutazione dei valori
avvertiti come obbligatori dalla coscienza del cittadino, ma anche in una
radicale negazione della libert di manifestazione del pensiero. Tra le
cause di dissoluzione dello Stato, significativamente, egli include proprio
la diffusione della dottrina sediziosa secondo cui ogni privato giudice
delle azioni buone e cattive. Che ciascun cittadino possa valutare la
bont delle leggi interrogando la propria coscienza pu ammettersi nello
stato di natura o nei casi di lacuna della legge positiva: negli altri casi,
per converso, manifesto che la misura delle azioni buone e cattive,
la legge civile; e il giudice il legislatore, che sempre il rappresentante dello stato. Questa falsa dottrina dispone gli uomini a dibattiti fra di
loro e a dispute circa i comandi dello stato, e, in seguito, a obbedire o a
disobbedire, secondo che nei loro giudizi privati penseranno che sia opportuno [HOBBES, Leviatano, cit., cap. XXIX]. , dunque, non solo inutile, ma inopportuno e socialmente pericoloso, consentire al cittadino di
mettere in discussione lobbligatoriet delle leggi in nome dei propri personali convincimenti.
Sembra che i giudici dei Tribunali armeni, di merito come di legittimit abbiano portato alle estreme conseguenze, nel caso di Vahan, la logica
del positivismo giuridico moderno: un ordinamento che voglia garantire ordine pubblico e sicurezza non pu dare spazio alle soggettive valutazioni dei cittadini. Dura lex sed lex, dunque: proprio in quanto generale e astratta la legge deve trattare tutti in modo eguale, a prescindere da ci che suggeriscono la ragione o il cuore di ciascuno.
La battaglia del cittadino armeno per il riconoscimento dei propri diritti,
invero, ha poi trovato una positiva conclusione. Egli, infatti, non si ferm
neanche di fronte alla pronuncia, a lui sfavorevole, emessa dalla suprema
corte di legittimit armena e propose ricorso alla Corte europea dei diritti
delluomo. Nel frattempo, infatti, lArmenia era divenuta membro del Consiglio dEuropa, il che consentiva ai suoi cittadini di proporre appello di
fronte alla Corte di Strasburgo quando fossero esauriti tutti gli strumenti per
ottenere giustizia di fronte ai giudici nazionali. Nel ricorso, presentato nel
2003, Vahan lament la violazione dellart. 9 della Convenzione europea dei
diritti delluomo (Libert di pensiero, di coscienza e di religione) che recita:
1. Ogni persona ha diritto alla libert di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include () la libert di manifestare la propria religione o il

Prudentia iuris

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proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato,


mediante il culto, linsegnamento, le pratiche e losservanza dei riti. 2. La
libert di manifestare la propria religione o il proprio credo non pu essere
oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e costituiscono misure necessarie, in una societ democratica, per la pubblica sicurezza, la protezione dellordine, della salute o della morale pubblica, o
per la protezione dei diritti e della libert altrui. La corte di Strasburgo in
data 27 ottobre 2009 respinse, per, il ricorso di Vahan, sostenendo che
lobbligo di prestare il servizio militare non violasse il diritto alla libert di
coscienza come tutelato dalla Convenzione.
Vahan chiese quindi, ai sensi dellart. 43 della Convenzione, che il caso
venisse sottoposto alla Grande Camera. interessante notare la tonalit marcatamente hobbesiana degli argomenti spesi in tale fase di riesame dalla difesa del Governo turco. There were at present about sixty registered religious organisations in Armenia, including the Jehovahs Witnesses, nine
branches of religious organisations and one agency. So if each of them insisted that military service was against their religious convictions, a situation would arise in which not only members of Jehovahs Witnesses but also
those of other religious organisations would be able to refuse to perform
their obligation to defend their home country. Furthermore, members of Jehovahs Witnesses or any other religious organisation might equally assert
that, for instance, payment of taxes and duties was against their religious
convictions and the State would be obliged not to convict them as this might
be found to be in violation of Article 9. Such an approach was unacceptable
in view of the fact that, in order to avoid the fulfilment of his or her obligations towards the State, a person could become a member of this or that religious organisation. E ancora: it would inevitably result in very serious
consequences for public order if the authorities allowed the abovementioned sixty or so religious organisations to interpret and comply with
the law in force at the material time as their respective religious beliefs provided. In sintesi: se lo Stato dovesse conferire rilevanza alla coscienza del
cittadino, chiunque potrebbe sentirsi autorizzato a violare la legge giustificandosi dietro alla necessit di agire in conformit ai propri valori.
Nel pronunciare sul caso, la Corte prese anzitutto atto che i precedenti
giurisprudenziali non deponevano a favore dellaccoglimento dellistanza.
Nonostante ci, essa ribad limportante principio secondo cui the Convention is a living instrument which must be interpreted in the light of presentday conditions and of the ideas prevailing in democratic States today e che
in defining the meaning of terms and notions in the text of the Convention,
the Court can and must take into account elements of international law other
than the Convention and the interpretation of such elements by competent

Il diritto tra obbedienza e coscienza

15

organs. The consensus emerging from specialised international instruments


may constitute a relevant consideration for the Court when it interprets the
provisions of the Convention in specific cases.
Accertato in fatto che lobiezione di coscienza del cittadino armeno era
motivata dal suo autentico credo religioso e ritenuto che tale credo si trovava
in serio e insuperabile conflitto con lobbligazione di prestare servizio di leva, la Grande Camera della Corte europea dei diritti delluomo, con il solo
voto contrario del componente armeno, finalmente stabil che la libert di religione tutelata dallarticolo 9 della Convenzione fosse stata violata dallArmenia: limposizione del servizio militare, a dispetto delle convinzioni religiose del cittadino, costituiva uninterferenza non necessaria in una societ
democratica. Non cera esigenza di sicurezza e tutela dellordine pubblico
che, nel caso di specie, potesse autorizzare loffesa alla coscienza del cittadino.

La scissione tra sfera pubblica e sfera privata, su cui Hobbes erige la


sua concezione dello Stato moderno, se ha il pregio di rendere pensabile
il consorzio sociale a prescindere dalla condivisione, da parte dei cittadini, di una comune tavola di valori, daltronde induce a svalutare il ruolo
irriducibile della coscienza ai fini di unautentica tutela dellindividuo e
della sua dignit.

3. Il positivismo giuridico e le ragioni della coscienza


A giudicare la sola vicenda dellobiettore armeno, sembra che il positivismo sia il metodo caratteristico di un giurista pi sensibile al principio
di autorit che alle ragioni della giustizia e ai valori dellindividuo. Si
tratta di una rappresentazione errata o quantomeno incompleta.
Il positivismo giuridico come metodo, infatti, si caratterizza per il
fatto di separare il piano dellessere (il diritto vigente oggetto della specifica competenza del giurista) dal piano del dover-essere (il c.d. diritto
naturale), senza che ci implichi una difesa dellautorit dello Stato o
unincondizionata giustificazione delle leggi positive.
Ad evitare equivoci opportuno riprendere la classica distinzione tra
il positivismo in senso metodologico ed il positivismo in senso etico o
ideologico [BOBBIO, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, 1965]. Solo in questultimo tipo di positivismo, infatti, si ritiene eticamente doverosa, dunque sempre giusta, lobbedienza alla legge positiva. Il positi-

Prudentia iuris

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vismo giuridico in senso metodologico, al contrario, non implica alcuna


posizione sul piano etico o politico, limitandosi a prescrivere al giurista
la netta separazione tra norme positive e giudizi di valore. Tale separazione tra diritto e morale, peraltro, pu anche costituire una garanzia del
cittadino nei confronti dellautorit, nel momento in cui, ad esempio,
imponendo ai suoi destinatari una stretta aderenza al diritto vigente, esige
che una controversia in decisione presso un tribunale venga risolta e motivata in base a leggi vigenti e non in via equitativa o a partire da princpi
di giustizia arbitrariamente individuati dallorgano decidente. Si pensi
soprattutto allambito del diritto penale: in ossequio alla massima positivistica Auctoritas non veritas facit legem una condotta pu essere giudicata come deviante e dunque sanzionata solo se e nella misura in cui sia
previamente indicata dalla legge come presupposto dellapplicazione di
una pena.
In tal senso strettamente connesso alla visione positivistica il principio
della riserva di legge in materia penale e la conseguente soggezione del giudice alla legge, in base alla quale il giudice non pu qualificare come reati
tutti (o solo) i fenomeni da lui reputati immorali o comunque meritevoli di
sanzione, ma solo (e tutti) quelli che, indipendentemente dalle sue valutazioni, sono formalmente nominati dalla legge come presupposti di una pena
[FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, 1989, p. 6].

Un altro celebre caso di renitenza alla leva pu aiutare a fare chiarezza


sul punto.
Protagonista di tale seconda vicenda giudiziaria fu il pugile Cassius
Clay, il quale, convertitosi allIslam nel 1964, aveva preso il nome di
Muhammed Al. Nel 1967, gi campione del mondo dei pesi massimi,
Al aveva rifiutato di arruolarsi nellesercito americano, in quegli anni
impegnato nella guerra in Vietnam. Egli aveva obiettato che quella guerra non era stata ordinata da Allah e che personalmente non aveva motivo
di combattere i vietnamiti, i quali non avevano mai praticato nei suoi
confronti quegli atti di discriminazione razziale dei quali le persone di
colore erano spesso vittime in Occidente.
Nel caso in esame il quadro normativo si presentava in modo significativamente diverso rispetto alla vicenda armena. Negli Stati Uniti, infatti, gi negli anni 60 era previsto lesonero dal servizio militare per gli
obiettori di coscienza. Lo status di obiettore di coscienza al servizio miliIl diritto tra obbedienza e coscienza

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tare, per, veniva riconosciuto solo sul presupposto della sussistenza, in


capo allistante, di tre requisiti: unavversione nei confronti di tutte le
guerre, che tale avversione fosse dettata da valori ideologici o religiosi e
che fosse sincera.
Allesito dellistruttoria condotta dalla Corte di Louisville, Al si vide
rifiutare lo status di obiettore e fu condannato alla pena di 5 anni di reclusione e al pagamento della multa di 10.000 dollari. Il titolo di campione del mondo dei pesi massimi gli venne immediatamente revocato. Il
diniego dello status di obiettore fu poi confermato dalla Corte dappello
del Kentucky e condiviso dallo stesso Dipartimento di Giustizia americano al quale Al aveva richiesto un parere.
Il 28 giugno del 1971, per, la statuizione della Corte del Kentucky fu
annullata da unimportante decisione della Corte Suprema degli Stati
Uniti, in cui si censurava il fatto che il Giudice di merito non avesse adeguatamente motivato la sua pronuncia: difettava, infatti, lespressa e puntuale indicazione di quale dei tre requisiti, previsti dalla legge come condizioni per ottenere lo status di obiettore, la Corte avesse ritenuto insussistente in capo ad Al.
A fronte di unerronea applicazione, da parte dei Giudici del Kentucky, della legge in materia di obiezione di coscienza, si direbbe che la
Corte Suprema abbia accolto le ragioni di Al adottando un metodo positivistico: bench, infatti, fossero emersi dei dubbi in ordine alleffettiva
sussistenza, in capo ad Al, di uno dei requisiti richiesti ai fini del riconoscimento dello status di obiettore, e dunque si potesse dubitare, in termini
di giustizia sostanziale, che listanza di Al meritasse laccoglimento, la
Corte Suprema, sulla base della stretta applicazione della legge vigente,
procedette alla revisione della sentenza.
Grazie ad una decisione assunta in rigorosa applicazione del dettato
normativo, ed omettendo qualsiasi rinvio a princpi di giustizia, o comunque extrapositivi, dunque, il pugile obiettore vide accolte le sue ragioni, evit di partecipare alla guerra in Vietnam e ben presto riconquist
la cintura di campione del mondo dei pesi massimi.
Ragionando in termini di giustizia sostanziale, per converso, i giudici sarebbero potuti giungere alla conclusione opposta. Al, invero, aveva, pubblicamente ed in pi occasioni, giustificato la propria obiezione di coscienza
sul rifiuto non di ogni tipo di guerra bens solo di una guerra a suo dire non

Prudentia iuris

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conforme al volere di Allah e comunque scatenata contro un popolo nei cui


confronti egli dichiarava di non avere alcun motivo di odio o risentimento.
Stando alle risultanze dellistruttoria, dunque, sembrava effettivamente mancante uno dei requisiti necessari affinch venisse riconosciuto lo status di
obiettore: lavversione nei confronti della guerra in quanto tale.
Tale obiezione fu effettivamente sollevata, nel corso delliter giudiziale,
dal Dipartimento di giustizia americano, rilevando che i motivi di coscienza
rappresentati dallistante do not appear to preclude military service in any
form, but rather are limited to military service in the Armed Forces of the
United States. ... These constitute only objections to certain types of war in
certain circumstances, rather than a general scruple against participation in
war in any form. However, only a general scruple against participation in
war in any form can support an exemption as a conscientious objector. E
ancora: It seems clear that the teachings of the Nation of Islam preclude
fighting for the United States not because of objections to participation in
war in any form but rather because of political and racial objections to policies of the United States as interpreted by Elijah Muhammad. ... It is therefore our conclusion that registrants claimed objections to participation in
war insofar as they are based upon the teachings of the Nation of Islam, rest
on grounds which primarily are political and racial.
La Corte suprema, per converso, pur consapevole dellassenza di uno dei
requisiti prescritti dalla legge, non pot fare a meno di rilevare il difetto di
motivazione nella sentenza della Corte dappello del Kentucky e dunque
procedere allannullamento della stessa.

La vicenda di Mohammed Al dimostra anzitutto che le ragioni della


coscienza possono essere tutelate anche mantenendo una posizione positivistica, dunque rimanendo allinterno della stretta interpretazione e applicazione del diritto vigente. Un positivismo giuridico inteso come metodo e non come ideologia, infatti, non impone una cieca obbedienza alla
volont dello stato n si mostra, in quanto tale, insensibile ai valori dellindividuo. In un ordinamento in cui fosse tutelata e regolamentata lobiezione di coscienza, ad esempio, proprio la puntuale applicazione della
legge potrebbe garantire la pi efficace protezione della coscienza.
Il vero che sia o meno prevista dalla legge positiva lobiezione di
coscienza proprio la coscienza umana rappresenta un problema per il
diritto. E ci per la semplice ragione che il diritto costituisce un insieme
di regole che riguardano la condotta esteriore, ma si rivolgono ad un soggetto portatore di valori vissuti nella propria interiorit. Ecco che il dirit-

Il diritto tra obbedienza e coscienza

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to non pu disinteressarsi di questa interiorit: specie negli ordinamenti


liberali, che si prefiggono di garantire una piena tutela dellindividuo, la
coscienza entra nel gioco del diritto e talora incide in modo decisivo al
fine di stabilire se si possa pretendere da un soggetto lassunzione di una
determinata condotta.
Qui sta la grandezza, e al contempo il limite, del diritto moderno. Che,
da un lato, proprio al fine di proteggere lindividuo dallinvadenza dello
Stato, ha separato rigidamente la sfera del diritto da quella della morale,
precisando che nella prima rilevano le azioni esteriori, nella seconda le
condotte e motivazioni interiori (lhonestum e il decorum distinti dal iustum gi nei Fundamenta iuris naturae ac gentium di THOMASIUS, 1705,
capp. IV e V). Dallaltro, per, cos facendo, ha finito per svalutare il
mondo interiore dellindividuo e per comprimere la sua stessa libert. Paradigmatica, in tal senso, la tesi, sostenuta da Immanuel Kant secondo
cui la legalit sarebbe la conformit delle azioni a leggi che riguardano
azioni esterne, mentre la moralit sarebbe la conformit a leggi che esigono di essere intese come principi determinanti delle azioni [KANT, Metafisica dei costumi, 1797, tr. it., pp. 26-27]. Si tratta di una tesi dettata
dallesigenza di evitare che lo Stato rivendichi un controllo sulla coscienza degli individui, assumendo compiti educativi che non gli spettano. Una tesi, dunque, sostenuta in nome della libert di coscienza, ma
che, paradossalmente, rischia di ignorare proprio le esigenze pi profonde di quella stessa coscienza.
Il diritto contemporaneo sembra aver acquisito crescente consapevolezza del fatto che nella coscienza risiedono valori e credenze ai quali lindividuo conferisce una tale importanza che lamministrazione e le corti di
giustizia, nellapplicazione della legge, non possano non tenerne conto.
Di tale consapevolezza si ha unesemplificazione in una sentenza
emessa dalla suprema Corte scozzese nel 2013. La Court of Session di
Edimburgo, infatti, si trovata a pronunciare in ordine alla vicenda riguardante due ostetriche che esercitavano le proprie funzioni avvalendosi
della facolt, prevista dalla legge, di astenersi, per motivi di coscienza,
dal partecipare a pratiche abortive.
La chiusura di un ospedale vicino, infatti, aveva determinato un improvviso aumento delle richieste di interruzione della gravidanza presso il NHS
Greater Glasgow and Clyde Health ove lavoravano le due ostetriche. La

Prudentia iuris

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struttura dellospedale pretese, quindi, che le due fornissero almeno unassistenza indiretta a tali pratiche. Il Board dellOspedale, nel rigettare il reclamo delle due ostetriche, premessa la distinzione tra lo svolgimento di attivit
di carattere amministrativo o comunque di assistenza e supervisione e la partecipazione diretta agli interventi di interruzione di gravidanza, afferm che
solo rispetto a tale partecipazione diretta poteva riconoscersi il diritto
allobiezione di coscienza. Lautorit giudiziaria, cui si rivolsero le due ostetriche, conferm tale statuizione, ricordando come lobiezione di coscienza
non possa considerarsi un diritto esercitabile in modo illimitato e incondizionato, come dimostrerebbe limpossibilit di astenersi dal partecipare a
pratiche abortive quando vi sia un grave pericolo per la salute della donna. In
ogni caso, rilev il Lord ordinary, non invocabile lobiezione di coscienza
per attivit meramente preparatorie dellintervento vero e proprio. Di diverso
avviso stata, per, la Court of Session di Edimburgo che in ultima istanza
ha escluso che possa ragionarsi in termini di maggiore o minore prossimit
dei singoli atti rispetto alla pratica abortiva vera e propria: anche la mera
presenza allinterruzione di gravidanza deve dunque essere evitata a chi tale
pratica ritiene contraria al proprio sentimento morale o religioso.

La corte di Edimburgo, premesso che la pratica abortiva ritenuta da


molte persone come un fatto moralmente inaccettabile, ha affermato che,
in ragione di tali diffuse convinzioni, deve essere riconosciuto ad
unostetrica il diritto ad astenersi da qualunque partecipazione ad interventi interruttivi di gravidanza (con la sola eccezione di casi in cui vi sia
pericolo per la vita della donna o comunque di danni gravi e permanenti
per la stessa). Una societ liberale e democratica, ha ribadito la stessa
Corte richiamando un proprio precedente, non pu non prendere sul serio
le convinzioni morali e religiose dei propri consociati: it is a matter on
which many people have strong moral and religious convictions, and the
right of conscientious objection is given out of respect for those convictions and not for any other reason.

4. Forme di obbedienza alla legge


Le riflessioni appena svolte sul conflitto tra la voce della coscienza e
gli obblighi di legge consentono di far luce sulla vera posta in gioco nella
millenaria discussione sulla dialettica tra legalit e giustizia.
A tal fine opportuno muovere da uniniziale classificazione dei diIl diritto tra obbedienza e coscienza

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versi atteggiamenti che il destinatario di una legge (non solo cittadino,


ma anche giudice, pubblico amministratore, ecc.) pu assumere di fronte
al precetto in essa contenuto.
Dallobiezione di coscienza, di cui si parlato nei paragrafi precedenti, va distinta la disobbedienza civile, che latto tenuto da colui che non
solo ritiene la legge ingiusta, ma intende mostrare pubblicamente tale ingiustizia al fine di indurre il legislatore a modificare la disposizione.
Diversamente dalla disobbedienza comune, che atto illecito occulto
di un soggetto solitamente consapevole di violare una legge ed in ultima
istanza tendente a distruggere lordinamento, la disobbedienza civile
una condotta tenuta da chi ritenga di violare una legge ingiusta e sia animato da una finalit di trasformazione dellordinamento.
I confini tra obiezione di coscienza e disobbedienza civile, invero, non
sono sempre netti. Ora alluna ora allaltra condotta pu essere ascritto
latteggiamento di Antigone, protagonista dellomonima tragedia di Sofocle.
Come il lettore sa, di fronte al decreto del re Creonte che vietava di effettuare il rito funebre del cittadino Polinice, che aveva tradito la citt prendendo le armi contro di essa, leroina greca disobbedisce, in ossequio al proprio
dovere interiore di dare sepoltura al proprio fratello. Al volere dellautorit
costituita, dunque, la cittadina Antigone disobbedisce in nome di una superiore legge di giustizia, voluta dagli di e che nessuna legge positiva pu intaccare [v. ad. BENEDETTI, Antigone: secolarizzazione della legge naturale o
giuoco della politica?, 2004; B. ROMANO, Sistemi biologici e giustizia,
2007, pp. 21-34; ZAGREBELSKY, La legge e la sua giustizia. Tre capitoli di
giustizia costituzionale, 2008, pp. 62-72].

Molti interpreti, non sempre a ragione, hanno visto nella resistenza di


Antigone una rivendicazione della superiorit della legge naturale
contro la legge positiva. questa la posizione solitamente definita come
GIUSNATURALISMO, teoria che muove dal presupposto che al di sopra
della legge positiva (voluta da un re o da unassemblea) vi sia una legge
eterna (stabilita dagli di e rivelata in varie forme agli uomini o inscritta
nella natura delluomo e conoscibile dalla ragione) che il cittadino non
pu violare n a ci pu essere costretto dallautorit. La legge positiva
pu considerarsi obbligatoria se e nella misura in cui non diverga
dalla legge naturale: la legge ingiusta non legge in senso proprio, ma

Prudentia iuris

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corruptio legis. Per il giusnaturalismo pi radicale, dunque, unautorit


che non sispiri a giustizia degrada a tirannide e la sua legge perde ogni
obbligatoriet.
Una sorta di generalizzazione della disobbedienza civile la resistenza (attiva o passiva), individuabile nella condotta di chi contesta non
lobbligatoriet di una o pi disposizioni, ma la legittimit di un intero
ordinamento. Mediante il rifiuto non violento di ottemperare agli ordini
(resistenza passiva) o addirittura la ribellione armata (resistenza attiva),
si mira a sovvertire un ordinamento ritenuto illegittimo o comunque superato al fine di instaurarne uno pi giusto.
Un classico esempio di resistenza passiva pu essere individuato nella
condotta tenuta, nella primavera del 1919, dal popolo indiano guidato dal
Mahatma Gandhi nel movimento di protesta contro il colonialismo inglese
che port allindipendenza. Un esempio di resistenza attiva va naturalmente
individuato nella lotta condotta delle forza democratiche e liberali contro il
regime fascista.

Nel quadro di una riflessione sulla dialettica tra diritto e giustizia pu


essere utile prendere anche in esame gli atteggiamenti di obbedienza nei
confronti della legge: a questa si pu obbedire per consenso (obbedisco perch ritengo giusta la condotta prescritta), per principio (
sempre bene obbedire a quanto prescritto dallautorit, come nel sopra
citato positivismo etico), per calcolo di utilit ( preferibile obbedire
per evitare di incorrere in sanzioni) o per abitudine (si obbedisce senza chiedersi se sia giusto o no).
Una specifica considerazione merita lobbedienza dissenziente. Si
pensi al cittadino che, pur non condividendo il contenuto di una legge, ad
essa obbedisca perch ritiene legittimo, o comunque meritevole di essere
rispettato, il complessivo ordinamento giuridico nel quale quella legge
entra in vigore (ad esempio perch condivide i princpi costituzionali sui
quali quellordinamento si basa).
Una sfumatura diversa connota la tipologia di obbedienza dissenziente
richiamata da S. Tommaso. Vi sono casi, precisa il Dottore angelico, nei
quali, persino di fronte ad una legge ingiusta (sempre che non sia contraria al bonum divinum) il destinatario tenuto ad obbedire per evitare
scandali o pericoli e dunque quando lo scandalo pubblico, che potrebbe

Il diritto tra obbedienza e coscienza

23

scatenarsi a seguito della disobbedienza, superi le conseguenze negative


dellobbedienza allingiustizia [TOMMASO, Summa Theologiae, 12651273, Secunda pars secundae partis, Quaestio 104, Articulus 6].
Tra gli esempi di obbedienza dissenziente, infine, va richiamato
latteggiamento del filosofo greco Socrate, il quale, stando a quanto riportato da Platone nella Apologia di Socrate e nel Critone, accetta
lingiusta sentenza di condanna comminatagli per pretesa corruzione dei
giovani e diffusione di idee contrarie alla religione della citt, nel convincimento di poter lasciare alla storia, mediante il suo martirio, una testimonianza del valore della giustizia e del diritto.
importante precisare perch la scelta di Socrate di sottostare alla sentenza ingiusta non sia espressione di quel positivismo etico o ideologico
secondo il quale si deve, sempre e comunque, obbedire allautorit costituita.
Invitato dal discepolo Critone a fuggire dal carcere, la notte precedente
allesecuzione della sentenza di condanna, Socrate illustra le ragioni per le
quali, nel caso di specie, ritenesse giusto accettare la sentenza ingiusta. Un
argomento tra tutti: il cittadino che conosce le leggi della citt ed il modo in
cui in essa viene amministrata la giustizia, nel momento in cui decide di continuare a vivere in quella citt assume un tacito impegno a rispettare quelle
leggi, anche ove dovessero disporre o essere applicate in modo a lui sfavorevole. Si tratta di un argomento contrattualistico, del quale molti interpreti
hanno sottolineato la modernit [gi PIOVANI, Per una interpretazione unitaria del Critone, 1947]: la citt non va obbedita solo perch generatrice e custode della vita del cittadino, ma anzitutto perch questi, con la sua condotta
perpetuata nel tempo, ha manifestato, si direbbe per comportamento concludente, la volont di appartenere ad essa. Nel caso di specie, dunque, il cittadino non chiamato ad inchinarsi di fronte allautorit, ma a rispettare la parola data.
Il valore dellindividuo come agente consapevole e responsabile merita di
essere sottolineato sotto un ulteriore profilo: sempre nel dialogo Il Critone,
le ragioni a sostegno della giusta obbedienza alla sentenza ingiusta vengono
ambientate in un immaginario dialogo che si svolgerebbe tra le Leggi della
citt personificate e Socrate, clto sul punto di fuggire. Le Leggi, dunque,
chiedono conto al cittadino delle ragioni delle sue scelte, scendono sul suo
piano, dialogano con lui, argomentano, cercano di convincerlo: come potrebbe, tale posizione, esprimere un atteggiamento di cieca deferenza nei
confronti della citt? La scelta di morire per mano di una giustizia ingiusta,
dunque, vale come testimonianza in favore della libert e razionalit delluomo che decide solo dopo aver interrogato il suo interiore logos e dunque

Prudentia iuris

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si impegna sempre ad agire secondo quella ragione che, nel confronti delle
opposte ragioni, risulti la pi persuasiva.
Questa propensione allargomentazione come caratteristica delluomo razionale, ed in specie il valore della persuasione nellesperienza giuridica,
affiorano altres nellApologia di Socrate. In tale opera il filosofo, lungi
dal far ricadere sullintera citt le colpe dei suoi giudici, viene rappresentato
nellatto di dimostrare come il processo che ha portato alla sua condanna sia
stato condotto in violazione del principio del contraddittorio, in dispregio
del diritto di difesa, in base ad un impianto probatorio riconducibile per lo
pi ad accuse anonime e dunque non verificabili. In ogni caso Socrate lascia ai posteri una lezione di fede nel diritto e nella sua struttura dialettica: rivolgendosi per lultima volta alla citt che lo ha condannato, egli invita
a non farsi ingannare dallesteriore rivestimento dei discorsi, ma a concentrare lattenzione sulla verit dei fatti, sulla consistenza delle allegazioni probatorie, sulla reale capacit persuasiva degli argomenti presentati in giudizio.
La vittima di un uso politico della giustizia lascia, dunque, la giornata terrena, al tempo stesso obbedendo alla sentenza ingiusta e ammonendo che la
giustizia pu essere effettivamente resa solo attraverso una corretta articolazione della controversia processuale.

5. Il diritto e la resistenza allingiustizia


Nel paragrafo precedente si definito il diritto di resistenza come contestazione non dellobbligatoriet di una disposizione, bens della legittimit di un intero ordinamento. Ma pu un ordinamento giuridico riconoscere un diritto a resistere ad esso, fino a sovvertirlo?
Nel rispondere a tale domanda si potrebbe parafrasare una massima di
Johann Gottlieb Fichte (La scelta di una filosofia dipende da quel che si
come uomo), correggendola in base al tema in discussione: ogni lettura del rapporto tra diritto e resistenza dipende dalluomo e dal giurista
che si .
Meritano, anzitutto, di essere considerate due risposte che, pur muovendo da premesse antitetiche, giungono alla medesima conclusione: un
diritto di resistenza non pu ammettersi.
La prima negazione del diritto di resistenza si rinviene nella Metafisica dei costumi di Kant. Il quale, singolarmente, pur essendo uno dei padri del moderno stato di diritto, sembra ragionare con la logica di Hobbes. Per il popolo che vi soggiace, lorigine del potere supremo in-

Il diritto tra obbedienza e coscienza

25

sondabile dal punto di vista pratico. Il suddito, cio, non deve cavillare
artificiosamente su questa origine come se fosse un diritto ancora contestabile sotto laspetto dellobbedienza che gli si deve [KANT, Metafisica
dei costumi, cit., pp. 244-245]. Il cittadino non ha modo n titolo per cogliere gli arcana imperii e dunque ogni sua messa in discussione dellobbligo di obbedienza uninutile perdita di tempo, che anzi mette in
crisi la sicurezza dello Stato. Di pi: il diritto di resistenza, a giudizio di
Kant, intimamente contraddittorio. Per ammetterlo, infatti, occorrerebbe che la legislazione suprema contemplasse in s una disposizione in
base alla quale essa cesserebbe di essere la legislazione suprema e in cui
il popolo, come suddito, venisse riconosciuto, nel medesimo giudizio,
come sovrano di colui al quale sottoposto. La resistenza al potere costituito, dunque, deve ritenersi un ingiustificato e contraddittorio atto di
violenza [ivi, pp. 248-249].
La seconda negazione del diritto di resistenza si trova nello scritto Per
la critica della violenza di Walter Benjamin. Questi, invero, muove da
premesse opposte rispetto a Kant: il potere stesso violenza (gewalt) cos
come violenta lazione di chi ad esso si oppone. Solo che il potere, detenendo il monopolio della forza, utilizza tale forza per qualificare la
propria azione come legale. Non pu mai parlarsi, dunque, di un diritto di
resistenza che si opponga ad un potere ingiusto, ma solo di una violenza
che si oppone ad unaltra violenza. A giudizio di Benjamin, dunque, tanto il potere costituito quanto la resistenza ad esso non sono n giusti n
ingiusti: il potere che di fatto riesce ad imporsi giustifica se stesso e si
pone come diritto, qualificando illecita lazione contraria. Se, per, tale
potere viene rovesciato, la resistenza ad esso, che prima veniva qualificata come violenza, costituir il nuovo potere e giustificher la propria
azione come legale [BENJAMIN, Per la critica della violenza, 1921].
Per ragioni opposte, dunque, tanto in Kant quanto in Benjamin non
pu parlarsi di un diritto di resistere al comando dellautorit. Si potrebbe, certo, obiettare che Kant nega s il diritto di resistenza, ma ci in
quanto egli ritiene che il cittadino sia (e debba operare come) parte attiva
del popolo sovrano e dunque non possa rivoltarsi contro di esso: la libert eguale partecipazione di tutti alla prassi dellautolegislazione e dunque si traduce nella facolt di non obbedire ad altra legge che a quella cui
ciascuno abbia prestato (bench indirettamente) il proprio consenso. Epper ogni coincidenza senza residui tra individuo e corpo sovrano, come

Prudentia iuris

26

Hobbes insegna, comporta dei rischi. Non certo un caso che, dopo la
Rivoluzione francese, Robespierre abbia sostenuto con decisione che lunico Tribuno del popolo il popolo stesso, cos ponendo le premesse
per il divorzio tra il diritto di resistenza e lidea stessa di sovranit popolare. In coerenza con tale assunto, la Dichiarazione dei diritti e dei doveri
delluomo e del cittadino del 1795 espunger il riferimento, pur presente
nella Dichiarazione del 1789, alla resistenza alloppressione. Il cittadino
ormai un sovrano e non ha ragione di rivendicare il diritto di ribellarsi
al potere costituito.
La teorizzazione del diritto di resistenza, non a caso, aveva trovato
numerose e feconde formulazioni nella fase del pensiero moderno in cui
la rivendicazione dei diritti delluomo doveva fare ancora i conti con le
pretese dello Stato assoluto. Paradigmatica la posizione di uno dei massimi esponenti del pensiero liberale, John Locke: lo Stato nasce da un
contratto e dunque ogni violazione di tale contratto giustifica la reazione
della parte lesa.
Scrive Locke: Ma allora ci si pu opporre ai comandi di un principe? Si
pu resistergli ogni volta che ci si trova offesi, e anche soltanto quando si
immagina che egli ci abbia fatto qualcosa che non aveva il diritto di fare?
Ma questo scardiner e sovvertir tutte le societ politiche, e invece del governo e dellordine non lascer che anarchia e confusione. A questo rispondo che la forza deve essere opposta soltanto alla forza ingiusta e illegale.
Chiunque fa opposizione in qualsiasi altro caso, attira su di s una giusta
condanna sia di Dio sia delluomo; e cos non ne seguir nessuno di quei
pericoli e di quelle confusioni, che spesso vengono suggerite [LOCKE, Second Treatise of Government, 1690, parr. 203-204]

I diritti individuali costituiscono un limite invalicabile per lazione del


potere politico e dunque il popolo ha il diritto di destituire il sovrano che,
venendo meno agli impegni assunti, intacchi quei diritti.
Il confine tra ordine legale e forza ingiusta e illegale cos tracciato dal
pensatore inglese: L dove la legge finisce, comincia la tirannide, quando
la legge sia trasgredita a danno di altri, e chiunque nellautorit ecceda il
potere conferitogli dalla legge e faccia uso della forza che ha al proprio comando per compiere nei riguardi dei sudditi ci che la legge non permette,
cessa, in ci, desser magistrato, e, in quanto delibera senza autorit, ci si

Il diritto tra obbedienza e coscienza

27

pu opporre a lui come ci si oppone a un altro qualsiasi che con la forza


viola il diritto altrui [ivi, par. 202].

Ma il tema del diritto di resistenza, centrale nel processo di declinazione in senso liberale dello Stato moderno, pu dirsi ancora attuale dopo
listituzione e il consolidamento dello Stato di democrazia costituzionale? Questo non forse caratterizzato dalla proclamazione dei diritti delluomo come fondamentali ed inviolabili? Non sono sufficienti i dispositivi, in esso previsti, di protezione del sistema e di contenimento dei modi di esercizio del potere? Non lo stesso Stato di democrazia costituzionale la realizzazione sul piano istituzionale di quella visione dei diritti a
suo tempo sottesa alla rivendicazione del diritto di resistenza?
Sul punto gli stessi costituenti italiani mostrarono significative incertezze. Nel dicembre del 1946 lassemblea prese in esame e respinse una
proposta di positivizzazione del diritto di resistenza formulata nei termini
seguenti: La resistenza individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri, che violino le libert fondamentali e i diritti garantiti dalla presente
costituzione, diritto e dovere di ogni cittadino. La proposta fu respinta
anche grazie allintervento del costituzionalista Mortati il quale, tra
laltro, dichiar che il diritto di resistenza riveste carattere metagiuridico e in ogni caso mancano, nel congegno istituzionale, i messi e le possibilit di accertare quando il cittadino eserciti una legittima ribellione e
quando invece questa sia da ritenere illegittima. Lo stesso Mortati, peraltro, alcuni anni dopo sostenne che il diritto di resistenza si sarebbe
comunque potuto desumere dal combinato disposto degli articoli 1 e 3
co. 2. Il diritto di resistenza si trasfigura cos in una sorta di dovere di rispettare la Costituzione, dovere che pu arrivare fino a giustificare, in
uno stato di necessit, la violazione della legalit formale. Si tratterebbe,
dunque, di un diritto fondato sul fatto, eppure non per ci privo di carattere giuridico, essendo fondato proprio sui princpi fondanti dellordinamento costituzionale. Ecco che, a dispetto della tesi kantiana sullinutilit e contraddittoriet della resistenza in un ordinamento in cui i cittadini sono sovrani, deve ritenersi che quando i meccanismi di garanzia
istituiti al fine di sanzionare le rotture dellordine costituzionali risultino
impraticabili, il diritto di resistenza viene a configurarsi come lestremo
rimedio alleversione dallalto [FERRAJOLI, Principia iuris. Teoria del
diritto e della democrazia, 2007, vol. II, p. 109].

Prudentia iuris

28

Il diritto-dovere di resistenza diviene cos la via extralegale per la restaurazione dellordine violato. Il che, a ben vedere, conferma unidea di
fondo della tradizione giusnaturalistica: leccedenza dei valori, persino di
quelli evocati dai princpi fondanti di un ordinamento costituzionale, rispetto alla loro traduzione in norme e alla concreta applicazione di queste
nella vita di un ordinamento.

6. Il dovere di disobbedire al (non)diritto


Nel corso della riflessione sin qui condotta si sono delineate figure di
disobbedienti che vengono puniti o di obbedienti (non sempre consenzienti) che rimangono nel cerchio della legalit. Vi sono, per, dei momenti-chiave nella storia delle istituzioni in specie nel passaggio da un
vecchio ad un nuovo ordinamento in cui le parti si rovesciano. Ecco allora che chi ha opposto resistenza coraggiosa ma pur sempre illegale
al vecchio ordinamento, diventa leroe del nuovo, mentre chi ha obbedito
alle norme (pi o meno palesemente ingiuste) del vecchio ordinamento
pu essere chiamato a rispondere, anche penalmente, del proprio operato.
Sul piano teorico la questione va formulata in questi termini: in virt
di quale principio viene giudicato colpevole, di fronte ad un nuovo ordinamento, colui che ha agito in esecuzione di una legge valida nel
vecchio ordinamento o di un ordine proveniente da un superiore gerarchico? Come pu un comportamento, gi conforme alla legge, se non addirittura doveroso, divenire col tempo fonte di responsabilit?
Anche in questo frangente, a ben vedere, si tratta di una questione di
coscienza.
Si pensi a Adolf Eichmann, criminale nazista catturato in Argentina
dai servizi segreti israeliani e poi tradotto e processato in Israele, dove
venne impiccato il 31 maggio 1962.
Durante il processo, alla pubblica accusa che chiedeva conto di documenti firmati dallimputato e contenenti ordini di deportazione di ebrei,
Eichmann si limit a rispondere che egli riceveva ordini e che, qualunque
fosse stato il suo personale convincimento, era tenuto ad eseguirli [v.
ARENDT, La banalit del male, 1963, tr. it., pp. 32 e 49]. A detta di Eichmann, dunque, una questione di coscienza non si sarebbe mai potuta porre: I problemi di coscienza riguardano soltanto il sovrano, il capo dello

Il diritto tra obbedienza e coscienza

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stato. Io non ebbi fortuna, e il capo del mio stato ordin le deportazioni.
La mia parte fu quella assegnatami dal capo delle SS e della polizia
dovetti obbedire: vestivo ununiforme e cera la guerra per linsubordinazione il codice penale delle SS prevedeva la morte.
Lo stesso concetto ripreso dallavvocato di Eichmann, Robert Servatius, facendo leva sul supremo principio della responsabilit personale:
Limputato non pu espiare per ci che ha fatto lo Stato. lo Stato che
ordin certe azioni, ed esso soltanto ne deve essere responsabile.
In ogni caso non mancavano fondati argomenti atti a giustificare la condanna di Eichmann in quanto responsabile in prima persona e comunque
consapevole coautore dello sterminio. Basti pensare a quanto da lui affermato, alcuni anni prima, in unintervista ad un giornale danese: Quando ricevetti lordine di lottare contro gli ebrei, agii da vecchio nazista col pi
grande fanatismo. Potrei dire che ero costretto a tener fede al giuramento.
Ma sarebbero chiacchiere a buon mercato. Feci del mio meglio per capire
ci che facevo perch il destino mi aveva dato delle qualit particolarmente
adatte per quellazione. Non ero solo un subalterno che eseguiva gli ordini,
altrimenti sarei stato un imbecille. Io pensavo a quegli ordini e partecipavo
alla loro elaborazione.

Nel corso dellistruttoria, dunque, venne chiesto conto a Eichmann di


condotte tenute in mbiti, attinenti al suo ufficio di coordinatore dei mezzi per la deportazione degli ebrei, sui quali egli aveva un margine di autonomia decisionale. Anche a tal proposito limputato sembr andare alla
ricerca di una scriminante: Dovevo contribuire coi mezzi di trasporto,
perch avevo prestato giuramento alla bandiera. Ma lasciando tutte le
decisioni ai miei superiori, potevo considerarmi innocente, e ritrovare la
mia pace interiore.
Eichmann, dunque, si dice innocente in quanto incosciente, cio non
in condizione per il solo fatto di essere tenuto a rispettare la legge di
interrogare la sua coscienza su cosa fosse giusto o ingiusto.
Era tenuto a farlo? In quali situazioni il cittadino, bench destinatario
di un ordine o di una legge, deve interrogare la propria coscienza circa
laccettabilit etica della condotta che gli viene imposta? Esiste, e come
pu essere individuata, una soglia di intollerabilit, superata la quale il
destinatario della norma pu considerarsi tenuto ad adoperarsi per disapplicare la legge palesemente ingiusta?

Prudentia iuris

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Il vero che, perch possano qualificarsi come intollerabili determinate condotte prescritte dallautorit, necessario che si possa contare su
dei fondamentali comuni a tutti senza i quali una societ non sarebbe
una societ e la stessa coesistenza delle plurime concezioni della giustizia non potrebbe darsi. Un nucleo minimo di diritto forte, spesso presidiato dalla sanzione penale, non pu dunque non esistere [ZAGREBELSKY, La virt del dubbio, 2007, p. 50].

7. Lirriducibile diritto naturale, linevitabile interpretazione


La strada sin qui seguita ha condotto ad una prima conclusione: nella
vita delle comunit e delle istituzioni non pu non esistere un nucleo di
diritto forte, idealmente valido per tutti gli uomini, inviolabile da qualsivoglia autorit e la cui validit ciascuno potr riscontrare nella propria
coscienza, una volta che questa abbia avuto modo di formarsi liberamente. Sotto questo profilo si direbbe che non siano stati vani gli sforzi condotti, in tempi e forme diverse, dalla pi avvertita tradizione giusnaturalistica per affermare lesistenza e la conoscibilit di un diritto indisponibile
dallautorit politica.
Tale conclusione, per, richiede due precisazioni.
La prima riguarda la sconfitta, decretata dalla storia, di un certo positivismo giuridico fondato su basi scettiche, dunque sulla negazione
della conoscibilit di valori etici universali. Il metodo del giurista, in
coerenza con un simile positivismo, si sarebbe dovuto basare sulla netta
separazione tra validit (ius conditum) e giustizia (ius condendum):
altro il diritto positivo, inteso come insieme di norme validamente poste dallautorit, altro il diritto naturale come insieme di valori irrazionali, sui quali mai si potrebbe raggiungere un consenso. Il giurista, al fine
di conferire rigore scientifico al proprio metodo, si sarebbe dovuto occupare solo del primo e non del secondo.
Di un simile positivismo giuridico fondato su base scettiche vanno per individuate le implicazioni: se ogni valore degradato a preferenza
soggettiva e irrazionale, non si potr mai confidare nella capacit della
comunit umana di raggiungere, prima o poi, un consenso su alcuni princpi minimi di giustizia, princpi a fronte della cui violazione si sar in
dovere di disobbedire persino al comando dello Stato. In altri termini: al

Il diritto tra obbedienza e coscienza

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cospetto di crimini come quelli commessi da Eichmann, una Corte di


giustizia, se non potr giudicare in nome di principi comuni allintera
umanit, dovr limitarsi ad esprimere i convincimenti dei poteri prevalenti, in un determinato contesto storico, nella comunit internazionale.
Il vero che dopo lorrore totalitario, ma tanto pi nelledificanda societ globale, non si pu fare a meno (della ricerca) del diritto naturale. Il
problema, per e cos si giunge alla seconda precisazione riguarda il
modello di diritto naturale al quale possa farsi ragionevole riferimento.
Non si tratter, evidentemente, di una tavola di valori validi in senso sovrastorico, trasmessi a chiare lettere da Dio o comunque conoscibili dalla
ragione: si tratta, piuttosto, di un diritto incarnato nella storia, pi cercato
che trovato, costruito intorno ad alcuni fondamenti eppure inevitabilmente soggetto alle dinamiche della storia.
Se questo diritto naturale ha una connotazione storica, peraltro, non
solo perch luomo sembra mutare i suoi valori attraverso i secoli, quasi
fossero un mero prodotto di determinazioni storiche, bens perch i princpi anche una volta affermati come inviolabili, si pensi al diritto alla
vita, alla dignit, alla libert di pensiero e di religione, ecc. vanno interpretati in relazione a contesti ed applicati a casi sempre diversi. Il
destino della giustizia nel consorzio umano sembra consegnato allarte
dellinterpretazione.
Una delle pi celebri apologie del ruolo attivo dellinterprete nella concreta realizzazione della giustizia pu rinvenirsi nella geniale figura di Porzia, protagonista della commedia Il Mercante di Venezia di William Shakespeare. La giovane Porzia, infatti, si trova ad indossare le vesti di un giurista incaricato di esprimere un parere in ordine ad una controversia relativa ad
un debito non restituito. Lattore della controversia Shylock che chiede la
puntuale e letterale esecuzione di un contratto tra le cui clausole, a fronte
dellavvenuta concessione di un prestito, era prevista, in caso di mancata restituzione della somma nel termine convenuto, la penale del taglio di una
libbra di carne dal petto del debitore. Il convenuto insolvente Antonio, un
mercante impossibilitato ad adempiere alle proprie obbligazioni a causa del
tardivo ritorno delle sue navi dallOriente, ma il cui amico Bassano si era dichiarato disponibile ad adempiere lobbligo altrui, mettendo a disposizione
del creditore il triplo della somma da restituire. Considerato, per, che il contratto non prevedeva ladempimento dellobbligazione da parte di un terzo,
sulla base di uninterpretazione letterale non si poteva imporre a Shylock di

Prudentia iuris

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ricevere la somma da un terzo, neanche se offerta in misura superiore allimporto dovuto. Porzia, mascherata da giurista incaricato di fornire un parere al Doge di Venezia, sembra costretta a scegliere tra lesecuzione letterale dellaccordo tra le parti dunque lapplicazione della penale nei confronti
del debitore insolvente ed uno scavalcamento del dettato contrattuale al fine di approdare ad una decisione equa.
Per sfuggire allalternativa tra lapplicazione cieca della legge regolatrice
del rapporto, liberamente convenuta tra le parti, ed il suo scavalcamento da
parte del soggetto decidente, Porzia riesce a realizzare il giusto nel caso concreto facendo ricorso allarte dellinterpretazione. Il contratto, infatti, se
vero che consentiva il taglio di una libbra di carne del debitore insolvente,
daltronde non faceva alcun riferimento al versamento del sangue dello stesso. Il creditore, dunque, poteva a buon diritto esigere lapplicazione della
penale, ma se avesse versato una sola goccia di sangue del debitore, sarebbe
stato perseguito ai sensi della legge vigente a Venezia. Il richiamo alla lacuna del contratto e alla integrazione di questo in base alla disciplina di diritto
comune fu sufficiente ad indurre il creditore a rinunciare alle proprie bellicose (ma formalmente legittime) pretese.
Ecco che facendo salva la vita del debitore (indubbiamente insolvente,
eppure in grado di garantire ladempimento dellobbligazione in una forma
non prevista dal contratto), Porzia riesce a fare giustizia senza mortificare
laccordo sottoscritto dalle parti ed anzi scavando tra le pieghe del testo del
contratto ed integrandone la lacunosa regolamentazione, fino a rinvenire la
regola per unequa soluzione del caso [sul punto, rimane fondamentale il
contributo di ASCARELLI, Antigone e Porzia, 1955].
Con Bruno Romano pu ben dirsi che il giurista compie lopera dellinterpretazione custodendo il legame tra la fedelt al contenuto e lettura
originale del testo, alimentata dal richiamo al senso profondo, invisibile del
diritto. Come nellessere del parlante coesistono le due dimensioni del detto
e del non detto, cos nellesperienza giuridica il senso degli enunciati normativi si presenta e insieme si sottrae allopera dellinterprete. N lautore
n linterprete della norma possono rivendicare lesclusiva sul senso. Il senso situato nellintervallo tra le parole delle norme e il silenzio del diritto
[B. ROMANO, Scienza giuridica senza giurista, 2006, p. 154 ss.].

Il diritto tra obbedienza e coscienza

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III
LA LEGGE
E LA SUA INTERPRETAZIONE

1. Ius dicere, iustitiam facere


Il modello di arte della giurisprudenza incarnato dalla Porzia shakespeariana l a ricordarci che il destino della giustizia nel consorzio
umano spesso affidato alla responsabilit ed abilit dellinterprete.
Una tale affermazione, per, se inscritta nella complessiva vicenda del
diritto moderno, si rivela problematica. La stessa Costituzione, quando
allart. 101 co. II ricorda che I giudici sono soggetti solo alla legge,
sembrerebbe affermare, tra laltro, che il compito di realizzare il giusto
spetta anzitutto alla legge, non al giudice, che a quella legge soggetto e
che la volont della legge deve far valere nel caso concreto. Come leggere, dunque, la lezione di Porzia in un ordinamento pur sempre costruito
sul principio di legalit e sulla separazione tra potere legislativo e potere
giudiziario? In che modo il giudice pu trovare il giusto equilibrio tra rispetto della legge da applicare al caso concreto ed impegno a fare davvero giustizia?
La questione non certo solo di scuola. Tra i numerosi esempi di pronunce rese da giudici che, in nome della giustizia sostanziale, giungono a forzare, se non addirittura a scavalcare, il dettato normativo, pu citarsi una sentenza pronunciata alcuni anni fa dal Tribunale di Roma nei confronti del pi
classico del delinquenti: il ladro di prosciutti. Dopo aver nascosto goffamente sotto il maglione alcune confezioni di prosciutto, infatti, un Tizio veniva clto in flagranza di reato dalladdetto antitaccheggio di un supermercato. Bench la sussistenza del reato in oggetto non fosse in discussione, il
giudice, accogliendo la richiesta del p.m., decise di assolvere limputato perch lazione criminosa era dettata dallindigenza per soddisfare i primari
bisogni alimentari.

Prudentia iuris

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Ora, premesso che la sentenza di assoluzione poteva forse ritenersi adeguata in termini di equit al caso di specie, il punto se il giudice, assolvendo limputato, abbia effettivamente adempiuto al suo dovere di ufficio di applicare la legge.
Limputato stato assolto per aver commesso il fatto in stato di necessit.
Lart. 54, co. I, c.p. recita: Non punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessit di salvare s od altri dal pericolo attuale
di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, n altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo.
Lassoluzione del ladro di prosciutti si presenta fondata su una libera interpretazione sia in diritto che in fatto. Quanto al diritto: deve ritenersi che lo
stato di indigenza costituisca un pericolo attuale di un danno grave e
non altrimenti evitabile? La giurisprudenza, sul punto, appare divisa.
Quanto al fatto, si legge nella sentenza: non si pu escludere che limputato
fosse spinto nella sua azione dalla necessit di salvare se stesso dal pericolo
attuale di un danno grave alla salute e alla vita rappresentato dal bisogno
alimentare non altrimenti soddisfatto. Ma in assenza di un effettivo accertamento dello stato di indigenza in capo allimputato, sufficiente, ai fini
della sua assoluzione, affermare che tale stato non pu escludersi?
Del problema pare ben avvertita la Corte di Cassazione che, in relazione
allinterpretazione estensiva del concetto di danno grave alla persona (interpretazione per effetto della quale si qualifica come pericolo di un danno grave anche la situazione come la mancanza di un alloggio che minaccia solo indirettamente lintegrit fisica della persona) ha precisato che pi attenta e penetrante deve essere lindagine giudiziaria diretta a circoscrivere la
sfera di azione dellesimente ai soli casi in cui siano indiscutibili gli elementi costitutivi della stessa necessit e inevitabilit non potendo i diritti dei
terzi essere compressi se non in condizioni eccezionali, chiaramente comprovate (Cass. pen., sez. II, 19 marzo 2003 n. 24290, di recente richiamata
in Cass. pen., sez. II, 22 giugno 2011 n. 24987).

La stessa domanda va posta in relazione ad un altro processo nel quale


come imputata comparve una donna che aveva occupato abusivamente
una parte di un edificio, gi utilizzato come scuola comunale e successivamente caduto in disuso. In questo caso il giudice, rilevata comunque la
sussistenza dello stato di necessit, ritenne di dover assolvere limputata
con la motivazione che non pu dirsi invasione arbitraria di un edificio
lintroduzione in un locale colpevolmente abbandonato dalla pubblica
amministrazione.

La legge e la sua interpretazione

35

Il reato di invasione di terreni o edifici di cui allart. 633 c.p., infatti, fa riferimento ad uninvasione arbitraria di terreni o edifici (art. 633 c.p.)
mentre nel caso di specie sarebbero mancate prove dellinvasione richiesta
dalla norma, ovvero di unintroduzione fatta con mezzi forzanti e modalit
eclatanti nella propriet altrui, trattandosi anzi di locale colpevolmente lasciato derelitto dalla P.A.. Nel caso che interessa, la donna aveva dichiarato
di essersi trovata in stato di necessit in quanto moglie di un venditore ambulante, madre di tre figli ed in attesa di un quarto ed in considerazione del fatto che aveva presentato invano domanda per ottenere un alloggio in una casa
popolare. Occupato abusivamente limmobile, la donna aveva altres presentato richiesta di sanatoria per uso abitativo.
Anche in tal caso doveroso chiedersi se il giudice, per la Costituzione
soggetto alla legge, avesse effettivamente il potere di emettere tale, sul
piano extragiuridico ragionevolissima, sentenza assolutoria o se invece tale
decisione sia stata assunta in via sostanzialmente equitativa e dunque anteponendo alla legge un superiore valore di giustizia.
Sempre in materia di occupazione di edifici hanno suscitato linteresse
dellopinione pubblica alcune sentenze di assoluzione di studenti che avevano occupato gli edifici scolastici. Non si trattava, forse, di occupazione
abusiva ex art. 633 c.p.? Tali occupazioni, impedendo il regolare svolgimento delle attivit formative, non concretavano altres il reato di interruzione di pubblico servizio di cui allart. 340 c.p.? La Corte di Cassazione
ha pi volte affermato che occupare la scuola in segno di protesta non pu
considerarsi reato: ma una tale valutazione fondata sulla legge o ne costituisce uno scavalcamento? Il dubbio non facile da sciogliere, specie se si
considera che in diverse sentenze la Cassazione ha confermato sentenze di
assoluzione emesse in fase di merito sulla base del seguente argomento: il
reato di occupazione di edifici sanzionato dallart. 633 c.p. presuppone che
linvasione sia abusiva o comunque illegittima, mentre ledificio scolastico, pur appartenendo allo Stato, non pu essere detto una realt estranea
agli studenti.

In sintesi: lassunzione da parte del giudice di un ruolo costruttivo ai


fini di una soluzione delle controversie in termini non solo di legalit ma
anche di giustizia proprio come nei casi del furto di prosciutti, delloccupazione di alloggi e delloccupazione di edifici scolastici compatibile con il valore della certezza del diritto e con il principio della separazione dei poteri?

Prudentia iuris

36

2. Valore (e limiti) della certezza del diritto


Bisogna preliminarmente comprendere perch, nella cultura giuridica
moderna, lidea di un giudice artefice di giustizia abbia spesso suscitato
perplessit e timori, specie nei paesi, come il nostro, di tradizione di diritto codificato. Alla base di tale avversione vi il convincimento che lintera esperienza giuridica ruoti (o comunque debba ruotare) intorno alla legge: il legislatore, non il giudice, a dover costruire il giusto ordine
dei rapporti sociali. La legge la giusta regola dellazione e il bravo giudice dovr limitarsi ad applicare tale legge al caso concreto.
Tale mitologia della legge comporta anzitutto una svalutazione delle
fonti extralegislative del diritto, dunque dellattivit dei giudici, delle
opinioni dei giuristi, della condotta degli stessi destinatari. Muovendo
da una visione legicentrica del diritto, la stessa nozione di diritto giurisprudenziale appare una contraddizione in termini: il diritto (non prodotto, ma) solo applicato dai giudici e ci a garanzia del valore della certezza del diritto [su ci v., per tutti, GROSSI, Mitologie giuridiche della
modernit, 2007].
Non a caso tale mitologia della legge si afferma sul piano teorico nellepoca dellilluminismo e trova una concreta realizzazione nella codificazione francese postrivoluzionaria: nel momento in cui il legislatore,
giunto nellet della ragione, ritiene di essere capace di redigere, per le
diverse branche del diritto, codici coerenti e completi, dunque privi di lacune, contestualmente impone al giudice di limitarsi a ricercare, in tali
codici, la disposizione adatta al caso. La controversia sar cos risolta
mediante unargomentazione di tipo sillogistico, della quale la legge
costituir la premessa maggiore, il caso la premessa minore e la conclusione discender in modo logicamente necessario, senza bisogno di ricorrere ad un contributo creativo o integrativo da parte del giudice [v. CARCATERRA, Presupposti e strumenti della scienza giuridica, 2012, parte
III, cap. IV].
Severo , altres, il giudizio del legicentrismo nei confronti del diritto
prodotto dalla dottrina, mediante il commento della leggi positive e
lorganizzazione degli istituti in forma sistematica: il diritto scientifico
viene ritenuto dannoso in quanto sovrapporrebbe alla volont del legislatore chiara, semplice, univoca le molte e contraddittorie opinioni dei
commentatori. Ai giuristi compete piuttosto unesegesi delle disposizione

La legge e la sua interpretazione

37

vigenti, rispettosa del loro significato letterale o comunque intesa ad evidenziare lintenzione del legislatore. Interpretare significa lasciar emergere il senso esatto e veritiero della legge.
Inevitabile, muovendo da tali premesse, anche la svalutazione della
consuetudine: questa, infatti, non pu essere fonte in senso stretto, perch
nasce dal fatto, da comportamenti tramandati nel tempo, seguti per abitudine e spesso in modo inconsapevole. Il diritto invece prodotto di una
volont collettiva illuminata dalla ragione e capace, mediante una scelta
politica, di tradurre i valori di giustizia in norme positive. Il fatto regolato dal diritto, non regola di questo.
Di questa visione legicentrica dellesperienza giuridica vanno brevemente richiamate le premesse assiologiche. Il Legislatore, anzitutto, ha
una sua specifica legittimazione politica: parla in nome del popolo sovrano. Non a caso tale centralit del Legislatore viene teorizzata nellepoca dellIlluminismo e realizzata a partire dalla Rivoluzione francese:
le fonti del diritto sono sostanzialmente circoscritte alla legge perch
questa intesa come manifestazione di volont di quel legislatore che
parla in nome della classe borghese uscita vittoriosa dalla rivoluzione.
Tale legge sar per definizione giusta, perch il popolo, una volta liberato
dalle catene della schiavit ed uscito dalle tenebre dellignoranza, non
potr che perseguire il bene dei singoli e della collettivit.
Di qui la riduzione del giudice a macchina del legislatore: la volont
del popolo, rappresentata dallAssemblea parlamentare e oggettivatasi
nella legge, avr bisogno di un giudice non artefice di giustizia, ma fedele esecutore del dettato normativo. Un popolo potr dirsi davvero libero
finch sar suddito di quella legge che lui stesso, per bocca del legislatore, ha voluto e a condizione che la volont di tale legislatore, in sede di
applicazione, venga effettivamente rispettata.
Non a caso uno dei valori fondanti la tradizione giuridica continentale
la certezza del diritto. Il giudice, infatti, potr decidere la controversia
solo sulla base di una disposizione gi in vigore allepoca del fatto, dunque conoscibile da ogni cittadino e controllabile quanto alla sua applicazione. Se si vuole garantire la certezza del diritto, al giudice deve essere
proibito di creare ex post la regola per il caso.
Di qui lavversione del legicentrismo nei confronti dellequit come
criterio di eterointegrazione della legge e come parametro per la soluzione delle controversie. Il modello adottato dal codice civile napoleoni-

Prudentia iuris

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co in tal senso emblematico. Lideologia ad esso sottesa assume che sia


inutile ed anzi pericoloso prevedere una decisione secondo equit in caso
di lacuna. Inutile perch il codice ritenuto completo e si esclude che vi
siano materie o casi per i quali, in assenza di disciplina da parte del legislatore, possa essere richiesto il ricorso allequit, intesa come ritorno alla ragione naturale. La legge voluta dal nuovo legislatore borghese sar
per definizione giusta e completa, dunque non avr bisogno di integrazioni, correttivi, adeguamenti. Ma il ricorso allequit ritenuto altres
pericoloso perch non esiste unequit che trascenda la legge positiva e
che possa in qualche modo integrarla o superarla. Il richiamo allequit
rischia piuttosto di consegnare le chiavi della giustizia nelle mani del
giudice e delle sue soggettive valutazioni di giustizia. Invero lunica legittima valutazione su ci che giusto e ingiusto lha fatta il legislatore:
il diritto naturale finisce cos per identificarsi integralmente con il diritto
positivo.
Da tali premesse discende lavversione della tradizione giuridica continentale nei confronti del principio del vincolo del precedente giurisprudenziale, caratteristico dei sistemi di common law. Nel modello
anglosassone, infatti, il giudice chiamato a risolvere la controversia ricorre, per lo pi, non allinterpretatio, intesa come attribuzione di significato ad un testo gi vigente, bens alladjudication, dunque alla creazione
della regula juris a partire dai precedenti giurisprudenziali. Di fronte
ad una controversia, in altri termini, il giudice ricercher decisioni giudiziali che presentino somiglianze con il caso da decidere, per poi estrarre,
da queste, la ratio decidendi da applicare al caso de quo. Il precedente,
dunque, pi che testo da interpretare documento utile alla individuazione di un principio decisionale. Per individuare lambito di vincolativit
del precedente, il giudice da esso dovr estrarre la ratio decidendi, cio la
parte della motivazione comprendente sia il principio di diritto che la
parte della ricostruzione in fatto ritenuta essenziale ai fini della formulazione della decisione.
Sul punto pare opportuna una precisazione. Il common law viene spesso
qualificato come un diritto giurisprudenziale, nato dallesperienza e capace
di evolversi gradualmente attraverso la prassi delle Corti di giustizia. In realt il common law non nasce come diritto consuetudinario, anzi dal XII secolo
in poi si sviluppato in antitesi a questo. La monarchia normanna, infatti,

La legge e la sua interpretazione

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nello sforzo teso a creare un diritto comune a tutto il regno, cominci ad inviare i giudici che agivano nellambito della Curia regis (organismo deputato allamministrazione della giustizia) a decidere le controversie pi delicate
applicando le stesse norme in tutto il regno. Questo diritto, comprendente sia
il diritto feudale che le consuetudini germaniche, viene definito common
proprio perch nato nel quadro del processo di nazionalizzazione del diritto e
dunque finalizzato a ricondurre ad unit i frammentari orientamenti delle diverse Corti.
Nel corso dei secoli, poi, il common law finir per indicare una produzione normativa ascrivibile a giudici dotati di ampi poteri e tale da tradursi in
un insieme di princpi e tecniche contenuti non in un testo legislativo, bens
nei precedenti giurisprudenziali. Ci in ossequio al principio dello stare decisis, sviluppatosi soprattutto nel XIX secolo, secondo cui la ratio decidendi
delle pronunce delle corti superiori era vincolante per le corti inferiori quando i fatti rilevanti ai fini della decisione della controversia erano gli stessi.
interessante osservare come la facolt del giudice di fondare la decisione sui precedenti giurisprudenziali porti con s un diverso stile nella redazione delle sentenze. Queste divengono pi lunghe, con una pi articolata
ricostruzione della fattispecie concreta nonch frequenti digressioni sui diversi orientamenti adottati dalle corti in determinate materie e sulle ragioni
che, volta per volta, inducono il giudicante a privilegiare lorientamento sul
quale viene costruita la motivazione e che dunque assurge a fonte della regula iuris. La personalizzazione dello stile delle sentenze si accentua anche
in considerazione della possibilit di allegare la dissenting opinion del giudice che non concordi con lorientamento prevalso nella corte.
Il progressivo consolidarsi degli orientamenti giurisprudenziali in determinate materie ed il crescente formalismo processuale aveva peraltro determinato un irrigidimento del common law, o comunque una sua relativa lentezza a rispondere alle cangianti esigenze della societ, il che aveva agevolato la diffusione del sistema dellequity, dunque di un diritto amministrato
dalla cancelleria di corte a seguito di petizioni formulate direttamente dal cittadino al re [sul tema v. ad es. VAN CANEGEM, I signori del diritto, 1987, tr.
it., cap. I].

Agli occhi del legicentrismo moderno dominante nellEuropa continentale, ma non privo di sostenitori anche in Inghilterra, basti pensare a
Jeremy Bentham il modello di common law conferirebbe al giudice
uneccessiva discrezionalit nella formazione della regola di soluzione
del caso ed in specie nellestrapolazione, dalle molte pronunce, del precedente appropriato al caso di specie.

Prudentia iuris

40

Le obiezioni manifestate dai giuristi di formazione legicentrica possono riassumersi nei termini seguenti: come potr il giudice orientarsi in
una massa sconfinata di precedenti giurisprudenziali? Come decider a
fronte di precedenti tra di loro contraddittori? Come potr un sistema di
diritto giurisprudenziale evolversi nel tempo? Orientamenti giurisprudenziali largamente maggioritari, ma ormai superati, potranno essere abbandonati per iniziativa del singolo giudice? Quando si sostiene che il
precedente non ha forza vincolante se risulta contrario a ragionevolezza,
cosa si intende per rationabilitas? Non c il rischio che il giudice finisca
per decidere il caso secondo il suo soggettivo sentimento di giustizia e
poi indichi il precedente giurisprudenziale conforme al suo convincimento, al solo fine di dare alla sentenza una motivazione formalmente congruente? E, soprattutto: come potr il cittadino sentirsi protetto nei
suoi diritti in un sistema in cui la soluzione delle controversie viene
demandata non al legislatore, espressione del popolo sovrano, ma ad
un giudice politicamente incontrollabile? Un tale sistema non contraddice fondamentali princpi illuministici quali nullum crimen sine lege e
nulla poena sine lege?
Le critiche di Bentham al common law, com noto, non furono sufficienti a convincere legislatori e giuristi inglesi dellopportunit di sposare
il modello codicistico e ci nonostante lapprezzamento che pur aveva
riscosso, sul finire del XIX secolo, il progetto di codice penale redatto
dal suo discepolo James Stephen.
Ci che di tali critiche va anzitutto considerato, ben pi che lavversione nei confronti del diritto giurisprudenziale, la sottolineatura della
funzione protettiva del cittadino e dei suoi diritti che la codificazione nel
settore penale pu svolgere.

3. La codificazione e le ragioni del garantismo


Le buone ragioni della moderna filosofia della codificazione possono
cogliersi soprattutto nellambito del diritto penale. Nella filosofia illuministica dellordinamento, infatti, imporre al giudice il rispetto della
disposizione vigente significa anzitutto garantire al cittadino che la sua
libert ed il suo patrimonio potranno essere limitati solo a fronte della
commissione di uno dei reati previsti dal codice. Limitare il ragionamen-

La legge e la sua interpretazione

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to del giudice alla mera applicazione delle fattispecie di reato previste


dal codice significa proteggere il cittadino dal possibile arbitrio dellautorit.
Si pensi, in tal senso, allimportanza del principio di legalit nel diritto penale, consacrato dallart. 25 Cost. e dallart. 1 c.p. Esso si traduce
anzitutto nella riserva di legge, per effetto della quale solo la volont del
legislatore rappresentativo della collettivit pu creare fattispecie incriminatrici delle condotte. Tali norme dovranno poi essere redatte in modo
sufficientemente determinato e tassativo, cosicch ne sia possibile una
razionale ed inequivoca applicazione da parte del giudice ed evitando
norme in bianco o formulate in modo generico o mediante luso di concetti valvola. Tali norme, ai sensi dellart. 11 delle Disposizioni sulla
legge in generale, dovranno altres essere considerate non retroattive, ad
evitare che il legislatore qualifichi ex post come criminose condotte tenute dal cittadino nel rispetto della legge vigente allepoca del fatto. In ossequio al favor libertatis cui improntato il diritto penale, peraltro, lart.
2 c.p., come modificato dalla l. 85/2006, prevede la retroattivit della
norma pi favorevole al reo sia ove escluda la rilevanza penale del fatto
sia ove preveda unattenuazione della sanzione precedentemente prevista. In ossequio ai medesimi principi lanalogia in diritto penale vietata
in malam partem, ma consentita in bonam partem, dunque quando lapplicazione, ad un caso non regolato, di una disposizione prevista per un
caso simile risulti pi favorevole al reo.
Nel quadro di una rilettura delle mitologie legicentriche della modernit, dunque, va precisato che il culto della legge che caratterizza il diritto moderno, in specie nellEuropa continentale, assume un significato diverso ove di esso si valorizzi la finalit protettiva del cittadino contro
larbitrio dellautorit.
La funzione garantistica del diritto penale moderno sottolineata da Luigi
Ferrajoli: Il diritto penale degli ordinamenti evoluti un prodotto prevalentemente moderno. I princpi sui quali si basa il suo modello garantista classico la stretta legalit, la materialit e loffensivit dei reati, la responsabilit personale, il contraddittorio e la presunzione dinnocenza sono in
gran parte il frutto della tradizione giuridica illuminista e liberale [FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, 1989, p. 5].

Prudentia iuris

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Non certo un caso che tale principio di legalit del diritto penale, di
chiara ispirazione liberale e garantista, sia stato palesemente mortificato
negli ordinamenti totalitari di stampo sia nazista che comunista, nei
quali la condotta del cittadino, pur in assenza di una tassativa fattispecie
di reato, poteva essere qualificata come criminosa dai giudici di regime
tutte le volte che venisse ritenuta contraria ai superiori interessi, ora della
nazione tedesca, spiritualmente incarnata nel Fhrer, ora del proletariato
e del partito che ad esso dava voce.
Basti pensare, quanto alla Germania nazista, allart. 2 del codice penale che, a seguito della modifica di cui alla legge del 28 giugno 1935, recitava: punito chi meritevole di punizione secondo il concetto fondamentale di una legge penale e secondo il sano sentimento del popolo.
Lo sconcertante dettato di tale articolo, prevedendo una punizione per chi
sia meritevole di punizione secondo un concetto e in base a un sentimento, emblematica della declinazione, al contempo, in senso antiformalistico della giurisdizione penale e in senso soggettivistico del diritto penitenziario: lordinamento, anzich limitarsi a sanzionare una condotta secondo uno schema normativo rigidamente predeterminato, intende colpire (e rieducare) il suo autore muovendo da uninterpretazione di
valori indefiniti operata dal giudice.
La medesima avversione per il modello illuministico e garantista della
legalit penale si manifestata nellordinamento dellUnione sovietica
dopo la rivoluzione dellOttobre del 1917. Significativa in tal senso la
modifica apportata, nel 1922, allart. 6 del codice penale: dalla previsione
secondo cui considerato reato lazione che al tempo del suo compimento vietata dalla legge sotto minaccia di pena si passati ad una
qualificazione del reato come azione od omissione socialmente pericolosa, che minaccia i princpi del sistema sovietico e il suo ordinamento
giuridico.
Affermava Piero Calamandrei nel 1940: Vi fu in Russia, negli anni immediatamente successivi alla rivoluzione comunista, un periodo di assoluto
trionfo del diritto libero: abolita in blocco la codificazione zarista, mandati a casa (o meglio a spazzar le strade) i giudici e gli avvocati responsabili
di aver studiato ed applicato quei codici, unica espressione del nuovo diritto
furono i tribunali del popolo, composti non pi da giuristi ma di operai e
contadini analfabeti giudicanti non pi secondo le leggi ma secondo quella
che fu chiamata la loro coscienza proletaria, strumenti dichiarati non di

La legge e la sua interpretazione

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giustizia, ma di fiera lotta di classe. Cos i fautori del diritto libero ebbero
agio di veder attraverso le esperienza russa che cosa significavano, tradotte
in pratica, le loro teorie [CALAMANDREI, Fede nel diritto, 1940].

La svalutazione della certezza del diritto come garanzia per il cittadino


era peraltro condivisa da autorevoli giuristi dellepoca. Stucka, ad esempio, sosteneva che non ci fosse bisogno di leggi stabili e che, anzi, la Costituzione postrivoluzionaria avrebbe dovuto prevedere il potere di modificare una legge nellarco di una sola giornata. Tale svalutazione della
legge si riflette, inevitabilmente, sulla concezione dellinterpretazione: di
fronte ad una controversia si sarebbero dovuti acquisire la ricostruzione
del fatto controverso fornita dalle parti, esaminare i rapporti concreti tra
di essi e valutare come si sarebbero dovuti atteggiare tali rapporti secondo il giudicante. Solo in seguito si sarebbe dovuto verificare in che misura ci potesse rientrare nello schema previsto dalla legge. Il giudice sovietico, dunque, pi che applicare la legge in modo formalistico, avrebbe
dovuto ragionare in armonia con la vita, il che significa interpretare il
dettato legislativo secondo i parametri della legalit socialista. In coerenza con tali assunti il reato si presenta non come condotta qualificata come
illecita da norme e meritevole di sanzione nella misura da esse prevista,
bens come condotta socialmente dannosa, che il giudice deve valutare e
sanzionare in funzione delle esigenze di difesa della societ. Il reato
una forma di patologia sociale che va curata non solo applicando sanzioni predeterminate da leggi, ma utilizzando strumenti terapeutici che spetter al giudice individuare in modo opportuno ed efficace [v. ad es. COSSUTTA, Fra giustizia ed arbitrio. Il principio di legalit nellesperienza
giuridica sovietica, 2007].
opportuno che il giurista contemporaneo, nel prendere congedo
com giusto e comunque inevitabile dal modello illuministico di certezza del diritto, tenga sempre a mente luso distorto e strumentale che,
nel XX secolo, stato fatto della svalutazione della legge o comunque
della libera interpretazione del suo dettato.

4. Vera giustizia?
Le virt di uninterpretazione della legge intesa a custodire il valore

Prudentia iuris

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della certezza del diritto e la separazione tra legislatio e iurisdictio, peraltro, possono essere apprezzate non solo con riferimento alle patologie
degli ordinamenti totalitari, ma anche in relazione ad alcuni casi giurisprudenziali di particolare rilievo negli ordinamenti liberaldemocratici e
che hanno attirato lattenzione non solo degli operatori del settore, ma
anche dellopinione pubblica.
Un caso emblematico, in tal senso, quello che ha visto protagonista Serena Cruz, una bambina filippina introdotta in Italia nel 1988 da un uomo,
Francesco Giubergia, che dichiarava di esserne il padre legittimo, essendo
ella nata, a suo dire, da una relazione extraconiugale dallo stesso intrattenuta
con una donna filippina. Il Tribunale per i minorenni di Torino, per, rilevate
alcune incongruenze nelle dichiarazioni rese dal sedicente padre e dalla moglie italiana e conferito particolare rilievo al fatto che luomo non si fosse assoggettato alle prove ematologiche pur disposte dal Tribunale, dispose
lallontanamento della bambina dalla casa dei Giubergia. Lintransigenza del
Tribunale torinese era evidentemente dettata dallesigenza di combattere la
piaga dei falsi riconoscimenti di bambini, in specie considerando che tali riconoscimenti riguardano bambini oggetto di vera e propria compravendita da
donne indigenti di nazioni pi povere.
Avendo i signori Giubergia appellato tale sentenza, la Corte dappello di
Torino, non potendo ancora escludere del tutto che essi stessero dichiarando
il vero in ordine alla relazione di filiazione, dispose la sospensione degli effetti immediatamente esecutivi della sentenza. La piccola Serena, dunque,
sarebbe rimasta provvisoriamente presso i Giubergia, con gli immaginabili
effetti in termini di continuazione e consolidamento di un rapporto affettivo
che di l a poco si sarebbe potuto definitivamente interrompere per volont
dei giudici.
Nel prosieguo della vicenda giudiziaria, peraltro, i sospetti circa la veridicit di quanto asserito dai Giubergia si erano rafforzati e la stessa istanza di
adozione o affidamento della bambina era stata respinta. Ci in quanto
lintroduzione in Italia di un minore straniero a scopo di adozione consentita soltanto a chi sia stato preventivamente dichiarato idoneo dal Tribunale
nel caso specifico ed abbia altres ottenuto laffidamento del bambino dallautorit giudiziaria del Paese di origine, mentre Serena risultava essere,
giuridicamente, una cittadina filippina minore di et ed in stato di abbandono. Di qui la necessaria apertura della procedura per la dichiarazione dello
stato di adottabilit di Serena e il contestuale allontanamento dalla famiglia
in vista di un prossimo affidamento preadottivo ad altra famiglia dichiarata
idonea.

La legge e la sua interpretazione

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Nel frattempo lopinione pubblica, la classe politica ed alcuni rappresentanti delle istituzioni avevano cominciato ad interessarsi al caso. Fortissima,
dunque, era divenuta la pressione nei confronti della Corte torinese affinch
decidesse non sulla base di una formale e legalistica interpretazione della
legge, bens considerando il preminente interesse della bambina come previsto, peraltro, dalla normativa in materia di adozione di cui alla l. n.
184/1983 cos lasciando continuare il rapporto affettivo tra la bambina e la
famiglia con la quale viveva ormai da 14 mesi.
La Corte, ormai convintasi dellinvalidit del riconoscimento della bambina, ritenne invece di respingere il ricorso dei signori Giubergia. Un eloquente passo della sentenza merita di essere riportato: sia consentito ()
far riferimento ad un punto di partenza che pu apparire freddo e formalistico, ma che costituisce un cardine essenziale nellordinamento costituzionale. I giudici sono soggetti soltanto alla legge (art. 101, 2 comma, Costituzione). E devono applicare la legge secondo coscienza, anche a costo di rischiare limpopolarit. Infatti la legge, emanata dal Parlamento, espressione della sovranit popolare. Quando i giudici avvertono che una legge
ingiusta, sollevano questione di legittimit costituzionale, aprendo la possibilit che quella legge venga cancellata (e questa Corte lo ha fatto pi di
una volta). Ma quando i giudici sono convinti in coscienza che la legge
giusta, devono applicarla con fedelt, anche andando contro corrente. Le
sentenze e i provvedimenti giudiziari non possono essere frutto di emozione
popolare, n tanto meno di pressioni o di minacce. E proprio per questo la
Costituzione si preoccupa di garantire i giudici contro pressioni e ricatti;
proprio perch possano essere davvero indipendenti nelle loro decisioni.
Lindipendenza dei giudici un valore importantissimo per tutta la collettivit. Ci non significa che il giudice sia autorizzato ad arroccarsi in uno
sprezzante isolamento. Anzi, siccome egli ha il compito, difficile e tremendo,
di applicare la legge dello Stato, voluta dal Parlamento in funzione del bene
collettivo, il giudice deve essere un servitore del bene comune. Sa che talvolta lapplicazione della legge pu provocare sofferenze a persone innocenti. Sa che, in certe situazioni, qualunque decisione criticabile, perch
qualunque decisione presenta, accanto ad aspetti positivi, aspetti negativi.
Sa di non avere il monopolio della verit e vive drammaticamente le sue decisioni.
Sulla vicenda presero posizioni molti intellettuali, giuristi e non. La scrittrice Natalia Ginzburg, ad esempio, autrice di un libro sullargomento dal titolo Serena Cruz o la vera giustizia nel quale critic duramente loperato
dei giudici, sostenne tra laltro che la legge deve venire in soccorso dei cittadini e che le leggi vanno applicate nella giustizia. Ben diversa fu la posizione assunta dal pi noto esponente del positivismo giuridico italiano,

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Norberto Bobbio. Dichiaratosi sorpreso per il fatto che la gente stata molto poco colpita dal modo illecito con cui la bambina stata presa e molto
colpita dal modo perfettamente legittimo, conforme alla legge, con cui stata tolta, dichiar che chi si fosse dato la pena di leggere la sentenza
avrebbe appreso che la malafede dei coniugi evidente e incontestabile e
cos prese le difese di una sentenza che chiunque abbia letto con il desiderio di capire la complessit della situazione e senza pregiudizi non pu non
riconoscere scritta con rigore e insieme grande senso di comprensione
[BOBBIO, I fratelli di Serena e ID. Giustizia nelle adozioni, 1989]. Ed singolare, concluse il pensatore torinese, che in un paese come il nostro in cui
linosservanza delle leggi un costume nazionale, la simpatia della gente
fosse andata ancora una volta verso chi senza tanti scrupoli le viola anzi che
verso chi scrupolosamente le fa osservare [BOBBIO, Alzare lo sguardo,
1989].

5. Le motivazioni della giurisprudenza creativa


Lauspicio illuministico che venissero redatti codici, anzitutto penali,
a tal punto coerenti e completi da rendere inutile linterpretazione del
giudice e cos garantire il valore della certezza era destinata a restare un
ideale regolativo. In ogni branca del diritto contemporaneo, persino nel
diritto penale, infatti, anche quando la norma c ed il suo significato
chiaro, linterpretazione del giudice non pu mai essere evitata.
La consapevolezza dellineludibilit dellinterpretazione, peraltro, non
conduce di per s alladozione di un metodo antiformalistico o, addirittura, allemissione, da parte delle Corti di giustizia, di sentenze creative.
Vi sono casi, ad esempio, nei quali il giudicante si trova a dover decidere
la controversia combinando disposizioni provenienti da fonti diverse o
comunque poste a tutela di interessi diversi, se non addirittura in conflitto, e che quindi richiedono un adeguato bilanciamento. E non pu darsi,
evidentemente, bilanciamento di interessi tutelati dallordinamento senza
interpretazione delle leggi e della loro ratio.
La casistica giurisprudenziale fornisce diverse conferme in tal senso.
Si pensi alla vicenda giudiziaria della donna, appartenente alla comunit
Rom, ripetutamente clta nellatto di compiere accattonaggio, per intere mattinate, insieme ai due figli di anni 2 e 4. La Corte di assise di appello di Napoli riscontrata la sussistenza di un approfittamento della situazione di in-

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feriorit psichica dei minori, costretti allaccattonaggio con finalit di sfruttamento economico ed accertata la continuit nel tempo di tale condotta ha
ricondotto la condotta della donna alla fattispecie di riduzione in schiavit ex
art. 600 c.p.
La Corte di Cassazione, per, bench i fatti fossero innegabili e la disposizione indubbiamente vigente, ha ritenuto che tali fatti dovessero essere ricondotti a diversa fattispecie di reato. La condotta doveva infatti essere qualificata come delitto di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p. e non di riduzione in schiavit.
Per servit, infatti, precis la Suprema Corte, deve intendersi lo stato di
soggezione continuativa a scopo di sfruttamento economico o sessuale, attuata mediante violenza o abuso di autorit, soggezione che si traduca in
una integrale negazione della libert e dignit umana del soggetto passivo.
Bench il reato di riduzione in schiavit possa configurarsi anche in capo a
genitori che impieghino i figli in attivit illecite, nel caso di specie la Corte
rilev che limputata praticava laccattonaggio solo in alcune ore del giorno,
che tale pratica rientrava nelle tradizioni culturali del gruppo di appartenenza
e che comunque la condotta era finalizzata a fronteggiare gravi necessit
economiche. Non potendo escludersi, peraltro, continu la Corte, che nella
restante parte della giornata, la donna si prendesse cura del bene dei figli in
modo adeguato, non ci si trovava di fronte ad unintegrale negazione della
libert e dignit umana del bambino. Sussisteva piuttosto il reato di maltrattamenti in famiglia, considerato che la donna, invece di avviare il minore
allistruzione scolastica e comunque di garantirgli una infanzia che ne facilitasse la crescita morale e materiale, lo aveva indotto a praticare laccattonaggio, appropriandosi poi del ricavato.
Ad una conclusione opposta, dunque alla qualificazione della condotta in
termini di riduzione in schiavit, giunse, in un caso significativamente diverso, la Corte di Cassazione con sentenza del 28 settembre 2012, n. 37368. La
pronuncia muove dal seguente accertamento in fatto: La corte territoriale,
richiamando integralmente la ricostruzione dei fatti operata dai giudici di
primo grado, ha evidenziato come la minore di nazionalit rumena A. F., in
un lungo arco di tempo antecedente al 23.12.2004, sia stata sistematicamente e continuativamente costretta alla pratica umiliante dellelemosina
(OMISSIS), finalizzata alla raccolta di somme di denaro, dalla stessa minore
consegnate a fine giornata ai genitori, secondo gli ordini da essi stabiliti, in
forza dello stato di soggezione permanente in cui si trovava, essendo obbligata a dedicarsi allaccattonaggio dalla mattina alla sera, dietro la minaccia e luso materiale della violenza nei suoi confronti da parte dellattuale
ricorrente, il quale, da un lato, abusava della posizione di potere che rivestiva [su di lei] in quanto convivente della madre, dallaltro approfittava della

Prudentia iuris

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condizione di evidente inferiorit, fisica e psichica, della persona offesa, che


allepoca dei fatti aveva appena dieci anni.
Un ruolo indubbiamente creativo, in sede di interpretazione della legge
penale, ha giocato un giudice del Tribunale di Roma che ha mandato assolti
alcuni extracomunitari clti nellatto di vendere c.d. musicali in violazione
della normativa in materia di copyright. Tale assoluzione, infatti, stata motivata non solo in base allaccertato stato di necessit, dovuto alla condizione
di indigenza economica degli imputati, ma altres alla valutazione secondo
cui le normative civili e penali in materia di copyright sarebbero contrarie a
Costituzione e comunque del tutto superate dal sentire comune. Tali norme,
infatti, imponendo ai c.d. musicali un prezzo esorbitante, sarebbero lesive
del diritto di accesso di tutti i cittadini allarte e alla scienza. A prescindere
da ogni valutazione in ordine allopportunit, a fronte di tale pretesa incostituzionalit delle norme, di sollevare una questione di legittimit costituzionale anzich tentare una (nella migliore delle ipotesi) interpretazione costituzionalmente orientata, non pu revocarsi in dubbio che, nel caso di specie,
linterpretazione operata dal giudice sia stata decisamente creativa.
Stesso discorso pu farsi in relazione alla sentenza con cui il Tribunale di
Roma mandava assolto un noto disturbatore televisivo che, a pi riprese,
aveva tenuto condotte tali da impedire la realizzazione di servizi in diretta da
parte di giornalisti della Rai. Il giudice motivava la pronuncia sostenendo
che tali azioni di disturbo non arrecavano in realt alcun danno al soggetto
pretesamente offeso (in taluni casi, anzi, lindice dascolto dei relativi telegiornali sarebbe aumentato) e comunque rappresentavano forme di libera
manifestazione di pensieri e idee che altrimenti non avrebbero avuto accesso
ai mass media. In nome della garanzia del pluralismo, sostenne dunque il
Tribunale romano, una rete televisiva concessionaria di pubblico servizio
non pu lamentare la pretesa illiceit di tali condotte. Il disturbatore televisivo, dunque, stato assolto, ai sensi dellart. 51 c.p. (cause di giustificazione),
per aver agito nellesercizio del diritto di libera espressione del pensiero garantito dagli artt. 3 e 21 Cost., avvalendosi di un servizio pubblico operante
in strada con libero diritto di accesso di tutti a tale servizio.

Attesa lineludibilit dellinterpretazione da parte del giudice, ma considerata altres la pericolosit di pronunce nelle quali linterprete forza a
tal punto il dettato normativo da porsi, di fatto, come autore di una nuova
legge, diviene opportuno precisare se e in quali contesti storico-istituzionali si sia effettivamente determinata, nellevoluzione della giurisprudenza, una contrapposizione tra metodi formalistici e metodi antiformalistici e se tale contrapposizione abbia ancora oggi ragion dessere.

La legge e la sua interpretazione

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6. Formalismo e Antiformalismo. Una disputa dai molti equivoci


Nella discussione sui diversi metodi di interpretazione della legge, si
soliti contrapporre un metodo formalistico, affermatosi in Francia dopo
la Rivoluzione, ed in particolare dopo lentrata in vigore del Codice civile del 1804, ad un metodo antiformalistico, diffusosi soprattutto in Germania verso la seconda met del XIX secolo.
La contrapposizione viene spesso sintetizzata nei termini seguenti:
mentre il metodo formalistico francese, coerente alla mitologia della legge di cui sopra si detto, riduce il giudice a bocca che pronuncia le parole della legge, il metodo antiformalistico sottolinea la necessit di un
contributo creativo del giudice, al di l ed anche contro il dettato legislativo, nella concreta realizzazione della giustizia nella storia.
Ad un esame della questione svolto non solo sul piano teorico, ma sulla base di un autentico confronto con lesperienza giuridica, invero, si
deve rilevare che la metodologia dellinterpretazione non pu essere impostata n in senso rigidamente formalistico n in senso radicalmente antiformalistico.
Di ci si ha conferma dalla stessa evoluzione storica della metodologia giuridica.
Si consideri, anzitutto, il preteso metodo formalistico: lo stesso metodo praticato dai giuristi nella Francia degli anni immediatamente successivi allentrata in vigore del Code civil non pu certo essere ricondotto
univocamente nei confini angusti del metodo esegetico. Prova ne sia il
fatto che uno dei pi noti artefici del codice napoleonico, il giurista Portalis, nellesaltare le virt del nuovo codice civile, non mancava di sottolineare che il giudice avrebbe comunque dovuto affiancare, alla corretta
esegesi delle disposizioni codicistiche, un lavoro di integrazione delle
lacune mediante ricorso allequit, di richiamo ai precedenti giurisprudenziali e alle opinioni della dottrina pi autorevole, ecc.
N privo di significato il fatto che la stessa denominazione di scuola
dellesegesi sia stata inventata molto tempo dopo, in occasione del centenario del Codice Napoleone, quando si era ormai in pieno clima antiformalistico e dunque si tendeva a rappresentare, ad arte, in modo supinamente formalistico il metodo utilizzato dai giuristi del primo Ottocento.
ragionevole ritenere che lapplicazione rigida del metodo esegetico
sia stata teorizzata filosoficamente, in nome dellideologia legicentrica,

Prudentia iuris

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ma raramente praticata da giudici e avvocati dellepoca. Di ci si ha conferma dagli stessi commentari ai codici utilizzati dai professionisti
nellOttocento [Sul punto v. la tesi di SAVIGNY, Sulla vocazione del nostro tempo per la legislazione, 1814, tr. it. p. 140 ss.].
Si prenda, a mo di esempio, uno dei pi noti Commentari al codice civile
italiano del 1865, quello curato da Cattaneo e Borda. Nella Presentazione
viene sottolineata non tanto la novit del testo e la prima esegesi che lo accompagna, bens la presenza di riferimenti al diritto precedente, inteso come
verace sorgente del nuovo diritto. Del Commentario fanno parte, infatti, oltre
al testo del Codice, i lavori preparatori, le molte leggi romane alle quali si
riferisce o pu riferirsi la disposizione di ciascun articolo, e che sono per lo
pi la verace sorgente ed il tipo della nuova legge; la legislazione francese,
austriaca e dei Codici preunitari; brevi e concise annotazioni dirette a illustrare i mutamenti rispetto al diritto anteriore, a ricordare principii direttivi
del diritto, tratti in parte dalla giurisprudenza romana, e quasi sempre sottintesi nei moderni Codici, che si accontentano dei corollari; le opinioni dei
pi autorevoli commentatori francesi e le massime della giurisprudenza. E
siccome poi nei moderni Codici (come ben saputo) non si racchiude tutto
lo scibile del diritto, e molte questioni sono da essi abbandonate ai lumi della giurisprudenza, cos su molte materie ed obbietti pretermessi si voluto
dai compilatori dare in apposite Appendici ai vari titoli o Capi del Codice,
avvertenze, regole e massime forensi, affinch, per difetto di appropriato
luogo, non si tralasciasse la trattazione di importanti questioni.

Discorso uguale e contrario va fatto per la cosiddetta reazione antiformalistica. Non vi dubbio, infatti, che, nella cultura giuridica tedesca, si sia sviluppata, nel corso dellOttocento, una profonda avversione
nei confronti di alcuni dei valori portanti dellilluminismo giuridico francese. Oggetto di critica era innanzitutto lidea secondo cui il diritto fosse
un prodotto della ragione espresso in forma di legge.
Il giurista e storico del diritto Savigny, ad esempio, contrapponeva alla mitologia del codice, la lettura del diritto come prodotto della storia,
come fenomeno che si sviluppa gradualmente, generandosi e trasformandosi prevalentemente in modo spontaneo. Il diritto, per Savigny, costume prima che decisione del legislatore, coscienza sociale prima che imposizione autoritativa, consuetudine prima che legge. Alla credenza in un
diritto valido universalmente e che la ragione pu cogliere in modo infallibile (giusnaturalismo razionalistico), viene cos opposta lidea secondo

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cui ogni popolo ha il suo diritto cos come ha la sua lingua, le sue tradizioni, la sua identit. Se, in una simile prospettiva, ancora pu parlarsi
di un diritto di natura non nel senso di un diritto inscritto nella natura
del genere umano, illuminato una volta per tutte dalla ragione e consacrato da una legge infallibile ed immutabile, bens come diritto naturalmente
sentito e praticato da un popolo e che ha solo bisogno di essere ritrovato
nel concreto manifestarsi dei rapporti sociali [SAVIGNY, Sulla vocazione
del nostro tempo per la legislazione, cit.].
Di qui lavversione di Savigny, e pi in generale della scuola storica
tedesca, nei confronti del modello codicistico. Se il diritto si sviluppa
nella storia in modo spontaneo e continuo, lopera di codificazione arresta tale processo di evoluzione e riconduce forzosamente la variet e
multiformit dellesperienza sociale non solo alla rigidit delle fattispecie
generali ed astratte, ma allimpianto di un codice che in alcuni casi si
presenta addirittura come coerente, completo, assolutamente razionale.
La distanza rispetto allideologia della codificazione di marca francese si
avverte anche nella rivalutazione storicistica del ruolo del giurista nel processo di produzione del diritto: se vero, infatti, in Savigny ed in modo ancora pi evidente in Puchta, che il diritto non nasce dal comando del legislatore, bens costituisce una verace espressione dello spirito del popolo e del
suo naturale sentimento di giustizia, vi sar bisogno di qualcuno capace di
tradurre in modo razionale e sistematico tale sentimento della comunit. Il
giurista diviene cos lautentico rappresentante del popolo, capace di interpretarne lo spirito e di elevarlo a coscienza compiuta e razionale.

A ben vedere, per, la critica della Scuola storica nei confronti della
codificazione francese non implica n un anacronistico rifiuto della legge
come fonte del diritto in senso tecnico, n unapertura incondizionata nei
confronti della libera interpretazione da parte del giudice. Sebbene la
Scuola storica rivaluti il diritto consuetudinario, infatti, la legge mantiene pur sempre il suo primato tra le fonti, solo che di essa viene concepita in modo nuovo la ratio.
Ogni legge, infatti, fissa la natura di un rapporto giuridico in modo conforme allidea che di quel rapporto ha lo spirito del popolo. Alla base di ogni
istituto del diritto (ad es. la compravendita) vi unidea del rapporto, idea
condivisa da una comunit, ricostruita dal giurista ed infine giunta al legisla-

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tore che la traduce in un insieme organico di disposizioni. Quando linterprete si trover ad applicare quelle disposizioni, dunque, non potr operare in
modo discrezionale o farsi diretto interprete di interessi o valori del popolo,
ma sar tenuto a ritrovare nella volont del legislatore lidea-base di un istituto che lo ha guidato. Linterpretazione del giudice dovr, quindi, ripetere
allinverso loperazione compiuta dal legislatore: uninterpretazione non di
tipo creativo, dunque, bens riproduttivo del processo genetico della legge:
linterprete deve mettersi mentalmente dal punto di vista del legislatore, ripercorrere in se stesso artificialmente lattivit di questultimo. Perch loperazione ermeneutica intesa come ricostruzione del pensiero immanente alla legge riesca, secondo Savigny, linterprete dovr utilizzare un metodo nel
quale siano compresenti quattro elementi: grammaticale, logico, storico e sistematico. Quanto poco possa essere considerata discrezionale lattivit di un
simile interprete confermato da ci, che, in caso di formulazione lacunosa
della legge, lintegrazione potr avvenire solo in chiave logico-sistematica,
ovvero mediante ricorso allidea complessiva dellistituto cui la disposizione
appartiene; nellipotesi poi di formulazione difettosa di una disposizione, essa potr essere corretta sulla base dello scopo della legge ove il reale pensiero del legislatore sia chiaramente individuabile e comunque mai mediante ricorso a quello che oggi potrebbe chiamarsi un principio generale del
diritto perch ci avrebbe tutto il carattere di un perfezionamento del diritto, differente, come tale, dallinterpretazione. Uninterpretazione evolutiva,
per Savigny, costituirebbe, dunque, un evidente ed inaccettabile ossimoro.

7. La creativit della giurisprudenza: da proposta metodologica


a risposta alla crisi dello Stato liberale
Di una diffusione del metodo antiformalistico nellinterpretazione del
diritto, dunque, pu cominciare a parlarsi non con riferimento alla Scuola
storica della prima met del XIX secolo, bens in relazione alla c.d. Giurisprudenza degli interessi che si sviluppa negli ultimi decenni dellOttocento, da Jhering in poi.
Proprio la categoria di interesse, sulla scorta dellindimenticata lezione del grande civilista Angelo FALZEA [Introduzione alle scienze giuridiche, 1975, p. 166 ss.], merita di essere messa a fuoco. vero, infatti, che
da Jhering in poi, si comincia ad affermare che lintero diritto ruota intorno ad interessi (Lo scopo nel diritto lemblematico titolo della celebre opera di Jhering), che dietro ai concetti giuridici si celano interessi,

La legge e la sua interpretazione

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che compito del giurista quello di preparare il giudizio individuando gli


interessi in gioco, ecc. Simili affermazioni, daltronde, non preludono affatto ad una giustificazione di un ruolo creativo del giudice, allattribuzione a questi di una funzione politica o comunque di un compito di
selezione degli interessi in gioco e di bilanciamento di questi che scavalchi la volont del legislatore in nome di un principio del diritto o addirittura di un criterio di giustizia. Secondo i fautori della giurisprudenza degli interessi, infatti, linterprete deve valutare gli interessi ripetendo la selezione che, di questi, ha inteso operare il legislatore. Il bravo interprete
dovr mentalmente rieseguire il giudizio di valore gi compiuto dal legislatore e, ove la disposizione si riveli oscura o lacunosa, dovr s integrarla, ma non basandosi su criteri di valore nel frattempo affermatisi
nella societ, bens mediante uno sviluppo assiologico dello stesso comando, dovr cio ragionare come avrebbe ragionato quello stesso legislatore [LARENZ, Storia del metodo nella scienza giuridica, 1960]. Niente di pi lontano, dunque, dallidea di un contributo creativo dellinterprete al processo di produzione del diritto.
Non a caso, come stato opportunamente sottolineato, il giudice pur
sempre configurato da Jhering ricorrendo alla metafora del giudice-soldato,
incardinato in un ordinamento gerarchico, tenuto allesecuzione della volont dellautorit superiore ed in ultima istanza vincolato al giuramento di fedelt nei confronti dello Stato e dei suoi valori: Come il soldato nella severa scuola della disciplina militare deve anzitutto imparare la subordinazione
cos nellamministrazione della giustizia il giudice deve imparare ad obbedire alle legge [GIULIANI-PICARDI, La responsabilit del giudice, 1987, p.
18]. Anche qui, dunque, siamo molto lontani dallattribuzione al giudice di
una discrezionalit nellinterpretazione.
A ben vedere, peraltro, la sottolineatura dellinquadramento gerarchico
del giudice, ed in specie del giuramento di fedelt come argine ad ogni tentazione di soggettivismo giudiziale, non del tutto assente neanche nella
corrente successiva alla Giurisprudenza degli interessi, nota come Movimento per il diritto libero. In generale, sostengono Giuliani e Picardi, le correnti antiformalistiche pur avendo riscoperto il carattere pratico della funzione giudiziaria, non hanno avuto fiducia in una ragione pratica e in una logica
della scelta e della valutazione. La difesa antiformalistica del diritto giurisprudenziale stata dunque ambigua, come prova il fatto emblematico che
essa non abbia condotto ad una rivalutazione del precedente giurisprudenziale. Si cos passati dal modello del giudice bocca della legge a quello del

Prudentia iuris

54

giudice-re o comunque del giudice-ingegnere che rivendica il diritto di organizzare la societ. Le correnti antiformalistiche sembrano dunque cos restare allinterno del perimetro del volontarismo giuridico.

Come deve leggersi, allora, la diffusione, sempre crescente nella cultura europea a cavallo del XX secolo, dellidea secondo cui la sentenza
non potr mai essere mera applicazione della legge? Quale significato
deve attribuirsi allaffermazione di Kantorowicz il pi noto esponente
del Movimento per il diritto libero secondo cui il diritto vigente irriducibilmente lacunoso e solo il giudice nella soluzione della controversia potr colmare tali deficit di regolazione? [KANTOROWICZ, La lotta
per la scienza del diritto, 1906]
Una risposta a tale domanda impone di spostare lattenzione dal dibattito tra le diverse correnti della scienza giuridica alla pi generale questione della crisi della legge (ed in specie dei codici borghesi) come effetto delle trasformazioni della societ liberale.
A partire dalla seconda met del XIX secolo, infatti, la scienza giuridica ha preso progressivamente coscienza del fatto che il modello borghese della legge come insieme di regole del gioco per una societ
monoclasse stava denunciando la sua inadeguatezza rispetto ad una
societ in cui si affacciavano sempre pi nuovi interessi, nuove classi,
nuovi poteri. Il codice civile, vera carta costituzionale di una societ borghese, poteva essere presentato come coerente e completo finch tale societ rimaneva fondata sulla fiducia nellinarrestabilit del progresso e
nella possibilit che il giusto equilibrio potesse discendere dallesercizio
dellautonomia privata e dallo spontaneo dispiegamento delle forze sociali.
Quando, per converso, per effetto dello sviluppo industriale della seconda met del XIX secolo, si delinearono nuove posizioni sociali meritevoli di tutela, anzitutto quelle della classe operaia, la centralit ed autosufficienza dei codici borghesi cominci ad incrinarsi. Alla legge veniva
chiesto non pi solo di fissare le regole del gioco per una societ ed un
mercato che si sarebbero sviluppati spontaneamente, bens di intervenire
in modo costruttivo sullordine sociale, tutelando posizioni economicamente svantaggiate, scegliendo valori, inventando un nuovo ordine del
mercato [IRTI, Let della decodificazione, 1979].
A soddisfare simili esigenze non poteva bastare pi il modello-codice,

La legge e la sua interpretazione

55

autosufficiente, completo, le cui disposizioni richiedevano solo di essere


applicate al caso concreto. N poteva bastare lintervento del legislatore
inteso a regolare, mediante leggi speciali esterne al codice, materie fino a
quel momento affidate alla spontanea evoluzione della societ. Di fronte
ad una societ caratterizzata da conflitti ed interessi sempre nuovi, e
soprattutto attraversata da processi di trasformazione sempre pi celeri,
era entrato in crisi definitivamente proprio il modello razionalistico della
legge generale e astratta, che entrava in vigore al fine di durare nel tempo
e che chiedeva al giudice di decidere le controversie restando fedele allo
schema del sillogismo giudiziale.
Ad avviare quel radicale ripensamento del rapporto tra linterprete e la
legge che caratterizzer il XX secolo, dunque, non stata la prevalenza
di questa o quella corrente della scienza giuridica, bens la stessa crisi
della societ liberale ottocentesca ed in specie la sua fiducia nella capacit del legislatore di costruire testi di legge capaci di pre-vedere la storia
e di prepararne unadeguata disciplina.
Il vero che la disputa metodologica tra formalismo e antiformalismo
una tipica espressione della cultura giuridica ottocentesca e del suo tentativo di trovare il giusto equilibrio tra il giudice e la legge allinterno
dello Stato di diritto legislativo.
Con lavvento degli Stati costituzionali di diritto del XX secolo i termini del dibattito muteranno sensibilmente, come si avr modo di osservare nel capitolo V del presente lavoro.

Prudentia iuris

56

IV
LA COSTITUZIONE
DELLORDINAMENTO

1. Potere costituente e potere costituito


Uno dei tratti caratterizzanti la civilt occidentale a cavallo tra XIX e
XX secolo , dunque, laccelerazione dei processi di trasformazione della
societ. Tale accelerazione non determina solo la veloce usura di codici
che erano stati scritti nellilluministica convinzione che potessero, in virt della loro pretesa razionalit e completezza, durare nel tempo: insieme
ai codici, infatti, ad essere messi in discussione dal nuovo ritmo assunto
dai processi sociali sono gli stessi ordinamenti giuridici ed i loro fondamenti assiologici. Quando gli ordinamenti non riescono pi a fornire risposte adeguate a nuove istanze etiche e politiche o comunque a gestire
nuove tipologie di conflitto sociale, viene messa in discussione la loro
stessa sopravvivenza. Basti pensare alla velocit con cui nellarco di poco pi di ventanni, si passati, in Italia, dallo Stato liberale allo Stato fascista ed infine allo Stato democratico-costituzionale.
Non un caso che, proprio nei primi decenni del XX secolo, molti
giuristi e teorici del diritto si siano cominciati ad interrogare sul tema
della continuit e discontinuit tra vecchi e nuovi ordinamenti giuridici.
Quali elementi definiscono un ordinamento giuridico? Quando ed in che
modo si costituisce un nuovo ordinamento? A quali meccanismi istituzionali affidata la sua custodia? Come qualificare le condotte di coloro
che, vigente ancora il vecchio ordinamento, operano affinch questo
venga radicalmente trasformato o addirittura sovvertito a vantaggio di un
ordinamento del tutto nuovo?
Alla domanda relativa alla nascita di un ordinamento giuridico la pi
autorevole dottrina dei primi decenni del novecento ha fornito risposte
essenzialmente riconducibili a due modelli: il normativismo e listituzionalismo.

La costituzione dellordinamento

57

La differenza tra i due modelli pu essere sin da ora formulata nei


termini seguenti. Il normativismo definisce il diritto essenzialmente come un fatto culturale, che nasce dallattivit volitiva delluomo e si oggettiva in un insieme di prodotti (le norme) che si presentano come enunciati linguistici dotati di un certo significato: il diritto , dunque, un fenomeno di linguaggio inteso a organizzare il comportamento. Una
volta emanate, le norme si staccano dallintenzionalit del loro creatore e
avviano un processo di significazione al quale partecipano in certa misura anche dottrina e giurisprudenza [KELSEN, Lineamenti di dottrina pura
del diritto, 1934, cap. I].
La definizione, proposta da Hans Kelsen, del diritto come insieme di
norme pu costituire la premessa per importanti sviluppi, ben al di l del dettato kelseniano, in ordine al problema dellinterpretazione di cui si parlato
nel capitolo precedente. La norma, infatti, una proposizione, dunque un
enunciato un insieme di parole organizzate secondo un certo ordine sintattico a cui si attribuisce un certo significato. La norma va identificata non
con lenunciato, bens con il significato intelligibile che ad esso pu attribuirsi. Come pi volte rilevato da Carcaterra, daltronde, tale non coincidenza tra norme ed enunciati confermata dalla presenza di norme senza enunciati (ad es. la consuetudine) e di norme con pi enunciati (come le norme di
diritto comunitario). La relazione tra norme ed enunciati, precisa Carcaterra,
non attuale ma potenziale: la norma un enunciato (costruito o meno da
legislatore, ma) in ogni caso ricostruibile dallinterprete [CARCATERRA, Presupposti e strumenti della scienza giuridica, cit., parte II, cap. I].
In ordine a tale essenziale contributo dellinterprete, la giurisprudenza
della Corte di Cassazione, riprendendo la distinzione gi formulata da Vezio
Crisafulli [CRISAFULLI, Disposizione (e norma), 1964, p. 195], ha pi volte
rilevato come la norma vada distinta dalla disposizione, intendendo questultima come enunciato non ancora interpretato. In tal senso, diversamente da
quanto sosteneva certa teoria illuministica dellinterpretazione, la norma non
un antecedente del processo di interpretazione e applicazione, bens il punto di arrivo di questo [Sul punto v. TARELLO, Diritto, enunciati, usi, 1974, p.
143 ss.; GUASTINI, Il diritto come linguaggio, 2006, p. 29 ss.].
Non si tratta solo di riconoscere che, in astratto, dunque in ragione della
solo ambiguit delle parole, ad ogni enunciato pu essere attribuito pi di un
significato. Nellesperienza giuridica, infatti, ad essere interpretati sono modelli di azione (fattispecie) che devono essere applicati a casi concreti. La
regula decidendi viene dunque in essere grazie al confronto con la pratica,
principalmente nella controversia: solo attraverso il caso pratico che pos-

Prudentia iuris

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sono chiarificarsi e precisarsi i possibili significati della disposizione. In tal


senso si pu parlare di circolarit tra legge e caso, atteso che la disposizione
viene prodotta in vista della qualificazione e soluzione dei casi futuri, ma il
suo significato viene precisato e messo a punto attraverso il confronto con il
caso presente. La stessa Corte costituzionale nella nota sent. n. 84/1996 non
ha esitato ad affermare che essa giudica su norme ma pronuncia su disposizioni.
Riprendendo una classificazione di Carcaterra, pu dirsi che la disposizione prodotta dal concreto atto di volont del legislatore si oggettiva in
unentit logica che si distacca inevitabilmente dalla soggettivit dellautore
della legge per acquisire un significato autonomo. Da un lato la lettera della
legge, con la sua entrata in vigore, entra nel gioco dellinterpretazione, finendo per andare al di l delle intenzioni del suo stesso autore; dallaltro la
stessa intenzione del legislatore pu essere identificata non solo con la finalit perseguita dallautore della disposizione, bens con la ratio legis e dunque
suggerire interpretazioni dellenunciato coerenti alle sue finalit complessive
(ad esempio implicite in principi costituzionali in essa richiamati), ma non
necessariamente previste dallo stesso legislatore.
Unultima conferma dellutilit pratica e della effettiva ricorrenza della
distinzione tra disposizione e norma fornita dalla tipologia delle sentenze
interpretative della Corte costituzionale. Nelle sentenze interpretative di rigetto, ad esempio, la questione sollevata dal giudice viene rigettata sul presupposto che dalla disposizione della cui legittimit costituzionale si dubita
possa essere desunta una norma diversa da quella ricavata dal giudice a
quo. Parimenti possono darsi sentenze interpretative di accoglimento nelle
quali la Corte dichiari lillegittimit costituzionale di un testo se e nella misura in cui da esso venga desunta in via interpretativa una determinata
norma.
Il significato della norma , dunque, il punto di approdo, invero mai definitivo, del processo collettivo dellinterpretazione.

Allopposto del normativismo, per lISTITUZIONALISMO il diritto non


regola linguistica che qualifica e organizza le condotte, ma fatto sociale organizzato che nasce e si trasforma nella storia, servendosi anche di
regole, ma senza potersi ridurre ad esse. la stessa vita di una comunit
che, organizzandosi anche in forma spontanea, si fa ordinamento e pone le norme per conferire alle azioni sociali identit e regolarit.
Normativismo ed istituzionalismo esprimono due modi differenti di
pensare e qualificare lesperienza giuridica, modi che inevitabilmente si
riflettono anche sul piano della soluzione di problemi pratici.

La costituzione dellordinamento

59

Una significativa vicenda, verificatasi negli ultimi anni ed ancora in


pieno svolgimento in Spagna, pu aiutare a cogliere appieno tale differenza.
Il 19 luglio 2006, con legge organica n. 6/2006, il Parlamento della
Catalogna, regione caratterizzata da una secolare tradizione autonomistica, ha approvato un nuovo Statuto di Autonomia regionale che ad alcuni
osservatori apparso come un atto propedeutico alla futura creazione di
un nuovo ordinamento costituzionale.
Lo Statuto catalano in oggetto, oltre che deliberato dal Parlamento regionale, era stato approvato, bench in una formulazione sotto certi profili differente, anche dal Parlamento spagnolo ed altres sottoposto ad un
referendum popolare nel quale la stragrande maggioranza dei votanti
(circa la met degli elettori catalani aventi diritto) aveva espresso il proprio consenso nei confronti dello Statuto medesimo.
Se vero che negli ordinamenti democratici il popolo il solo sovrano, non pu negarsi che, nel caso di specie, questi abbia manifestato la
propria volont. Nelle democrazie costituzionali, daltronde, la sovranit
esercitata nelle forme e nei limiti previsti dalla Costituzione. Ci
chiaramente affermato dal normativista Kelsen, il quale, nel definire
lordinamento come insieme di norme strutturate gerarchicamente, pone
al vertice di queste la Costituzione. In principio non il sovrano comunque lo si configuri politicamente: il singolo monarca o il popolo
ma la Costituzione.
Allopposto di Hobbes, che configurava il diritto come prodotto della
volont del sovrano, e dunque poneva il suo potere al di sopra e al di fuori delle norme, il normativista offre una lettura dellordinamento in chiave strettamente giuridica: il sovrano tale in quanto qualificato da una
norma che lo istituisce e gli conferisce il potere [KELSEN, Lineamenti
di dottrina pura del diritto, cit., cap. V]. Poich tale norma suprema
una Costituzione, la legittimit delloperato del sovrano va costantemente
valutata sulla base di quella: sar la Corte costituzionale a stabilire se e in
che misura il sovrano avr rispettato la Costituzione ad esso sovraordinata e dunque ad annullare gli atti eventualmente emessi in difformit rispetto a tale suprema misura.
Tale dialettica tra potere costituente del popolo sovrano e primato
della Costituzione pu ben comprendersi proprio in relazione al caso
della Catalogna. Dello Statuto regionale catalano, infatti, bench gi ap-

Prudentia iuris

60

provato dal popolo sovrano, stata messa in discussione la legittimit


costituzionale.
Lo Statuto catalano, effettivamente, caratterizzato da statuizioni di principio o comunque dallutilizzo di un linguaggio pi simile alla carta costituzionale di un ordinamento originario che non di uno statuto regionale infracostituzionale. Sin dal Preambolo, la Catalogna definita una Nazione, dotata di simboli nazionali ed avente un diritto inalienabile allautogoverno, il cui fondamento, in modo ambiguo se non addirittura contraddittorio, viene individuato non solo nella Costituzione spagnola, ma anche nei
diritti del popolo catalano, nelle sue istituzioni secolari nella sua tradizione giuridica. Dal punto di vista istituzionale la Generalitat catalana definita vero e proprio Stato, i cui poteri emanano dal popolo di Catalogna, composto da veri e propri cittadini catalani. La lingua catalana definita lingua preferenziale in tutti i corpi dellamministrazione pubblica catalana e nei mezzi di comunicazione pubblica: i cittadini catalani hanno
lobbligo di conoscerla e il diritto di ricevere insegnamento scolastico in tale
lingua. A conferire ancor pi a tale Statuto una parvenza di Costituzione,
poi, il fatto che vengano affermati alcuni diritti fondamentali e, soprattutto,
che venga conferito al gi esistente Consiglio delle garanzie statutarie il potere di esprimere un parere vincolante in relazione ai progetti di legge del
Governo e del Parlamento che incidano sui diritti riconosciuti dallo stesso
Statuto. previsto, infine, un Consiglio di giustizia della Catalogna come
organo di autogoverno del potere giudiziario nella Comunit autonoma.

Il Tribunale costituzionale spagnolo ha impiegato ben quasi quattro


anni per emettere la sua pronuncia. Nella questione di costituzionalit,
evidentemente, era in gioco lidentit stessa della nazione spagnola e
lunit del suo ordinamento giuridico. La questione in oggetto assume rilievo non solo per la Spagna: pu una comunit regionale rivendicare il
diritto di costituirsi, bench attraverso un graduale processo costituente,
come Stato autonomo e dunque instaurare un nuovo ordinamento costituzionale? A che titolo una corte costituzionale interviene su uno Statuto
gi approvato dal popolo sovrano, sia a livello regionale (anche mediante
diretto pronunciamento referendario) che nazionale?
A tali domande possono fornirsi risposte diverse a seconda che si
muova dalla configurazione dellordinamento giuridico in chiave normativistica o istituzionalistica.

La costituzione dellordinamento

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2. Ex facto oritur ius


Argomenti favorevoli alle tesi autonomistiche sembrano individuarsi
proprio nella teoria istituzionale. Secondo il suo pi noto esponente novecentesco, lamministrativista siciliano Santi Romano, infatti, lordinamento giuridico non insieme di norme con, al vertice, una costituzione.
Lordinamento nasce dal fatto, dalla storia vivente di una comunit,
dallo spontaneo atteggiarsi delle condotte in una forma istituzionale. Il
diritto non norma che regola fatti, ma fatto che si impone per la sua
forza normativa [S. ROMANO, Lordinamento giuridico, 1918]. Di qui la
rivalutazione della genesi spontanea, involontaria, fattuale del diritto.
Il diritto che scaturisce immediatamente e spontaneamente dagli usi, sia
di un intero popolo sia delle sue varie cerchie, , come il suo linguaggio, per
dir cos, corrente e usuale, una genuina rivelazione dei caratteri pi generali e diffusi della sua vita, della sua anima, della sua ratio, mentre il diritto
legislativo come il linguaggio c.d. letterario [S. ROMANO, Frammenti di
un dizionario giuridico, 1947, p. 42]. La consuetudine riacquista, cos, il suo
posto accanto alla legge. Di pi: la sua efficacia non deriva da una legge che
ex post la recepisca. La consuetudine fonte involontaria del diritto, non
solo rispetto a coloro fra cui sorge, ma anche rispetto al legislatore; un
fatto normativo [ivi, p. 66].

Nel fenomeno consuetudinario si rivela lessenza propria del diritto:


che non volont dellauctoritas n sistema di proposizioni normative,
bens azione di una comunit i cui agenti coordinano, anche spontaneamente, le proprie condotte e con ci danno vita ad un ordinamento. il
fatto sociale che, ordinandosi ed acquisendo stabilit nel tempo, fa venire
in essere il potere e le norme. Ogni ordinamento giuridico [] si rivela,
non un complesso di norme, che ne sono piuttosto un prodotto e una derivazione, ma un ente sociale, avente una propria organizzazione e,
quindi, una vita [ivi, p. 68].
La vita di una comunit, ordinandosi e organizzandosi, si fa istituzione, acquista stabilit nel tempo ed assume una sua identit immateriale
che trascende quella dei singoli individui. Listituzione un ordinamento
giuridico. Il diritto quindi la forma che assumono gli aggregati sociali
nel loro ordinarsi e organizzarsi in modo da permanere nel tempo.

Prudentia iuris

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Ancora Romano: Listituzione da cui derivano le norme giuridiche conferisce a queste ultime una effettiva e obiettiva persistenza oltre il momento
in cui in esse si concreta la volont che le pone. proprio in questa persistenza che si rivela la funzione e, quindi, lessenza del diritto [ivi, p. 85]. Il
diritto ha dunque la funzione di stabilizzare, normalizzare, fissare alcuni
momenti e movimenti della vita sociale e, quindi, anche una funzione che potrebbe anche dirsi conservatrice senza che tale essenziale funzione di conservazione e ordinamento delle forze sociali assuma un qualsivoglia significato politico e dunque ostacoli in alcun modo la possibilit di rinnovarsi e
di far posto a modificazioni anche radicali e profonde della sua struttura e
del suo funzionamento [ivi, p. 86].

Non solo lo Stato, dunque, pu definirsi ordinamento giuridico, ma


ogni ente sovrastatuale, extrastatuale o infrastatuale. Al dogma, tipicamente moderno, della statualit del diritto, lIstituzionalismo oppone lidea, gi
medievale, della pluralit degli ordinamenti: lo Stato una tra le tante
istituzioni, unistituzione formata da istituzioni (enti locali, aziende,
partiti politici, associazioni, famiglie) e a sua volta parte di istituzioni sovranazionali [S. ROMANO, Lordinamento giuridico, 1918, par. 25 ss.].
Il superamento dellimperativismo spiega i suoi effetti anche in ordine
alla giustificazione del diritto internazionale. Lassenza di un rapporto
asimmetrico tra autore e destinatari dei comandi (o comunque di efficaci
meccanismi sanzionatori attuabili dal detentore del monopolio della forza) non implica la negazione della giuridicit del diritto internazionale.
N pu identificarsi il diritto internazionale con un insieme di trattati plurilaterali sottoscritti da Stati sovrani e vigenti in virt del principio di autoobbligazione. Il diritto internazionale un ordinamento giuridico per il
solo fatto dellesistenza di una comunit internazionale ordinata e organizzata.
Se, in ossequio al superamento dellidentificazione tra diritto e Stato,
si riconosce la pluralit degli ordinamenti giuridici, dovr altres ammettersi la possibilit di un conflitto tra di essi. Lo stesso conflitto tra lordinamento statuale e associazioni illecite costituite in forma ordinamentale
va qualificato come un conflitto tra ordinamenti. La stessa Mafia va
considerata un ordinamento giuridico: il fatto che essa si ponga in conflitto con lordinamento statuale non pu escludere che, dal punto di vista
strutturale (societ, ordine, organizzazione) essa costituisca un ordinamento. Funzione del diritto, daltronde, ribadisce Romano, non realiz-

La costituzione dellordinamento

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zare la giustizia o proteggere la sicurezza e i diritti di tutti in modo eguale, bens conservare le forze sociali secondo unidea fondante che pu
anche risultare eticamente riprovevole.
Nelle societ di ladroni una certa giustizia, in senso relativo e limitatamente ai rapporti tra i soci, si cerca di attuare, ed essa, entro questa sfera e dal punto di vista delle esigenze interne di essi, pu anche essere piena,
mentre cessa di essere giustizia in confronto delle esigenze e quindi dei
principii propri di altre societ, cio propriamente dello Stato [S. ROMANO, Frammenti di un dizionario giuridico, p. 226].

Lo stesso discorso vale per il fenomeno rivoluzionario. Lorganizzazione rivoluzionaria, infatti, assume talora i connotati di un ordinamento
giuridico che vuole sovvertire lordinamento statale al fine di sostituirsi
ad esso. La sua illiceit una qualit relativa solo ai valori dello Stato. In
base a cosa, dunque, tra i due ordinamenti in conflitto deve attribuirsi la
qualit di ordinamento statuale alluno piuttosto che allaltro? La risposta
di Romano secca: in base alla fattuale necessit. Quellordinamento
che, al termine del conflitto, riesca a divenire effettivo, ad ottenere cio
stabilit, ad essere seguito e rispettato dalla gran parte dei consociati, deve essere considerato lordinamento giuridico statuale.
Lantigiuridicit della rivoluzione deriva, dunque, dal diritto contro il
quale la rivoluzione diretta e, quindi, sussiste finch questo diritto ancora vigente: se, viceversa, vien meno, viene anche meno ogni norma e ogni
criterio che qualificava illegittima la rivoluzione. Se, al contrario, la rivoluzione fallisce e il vecchio ordinamento viene restaurato, questo continuer a considerare illegittimi gli atti rivoluzionari [ivi, p. 223].

Richiamati i caratteri fondamentali della teoria istituzionale del diritto,


specie in ordine alla genesi fattuale e allontologica pluralit degli ordinamenti, bisogna chiedersi quale risposta avrebbe fornito Santi Romano
in ordine alla questione che interessa in questa sede e cio se una comunit regionale, che dunque costituisce una parte di uno Stato, abbia diritto
di costituirsi come ordinamento indipendente, cos scindendosi dal corpo
dello Stato da cui nasce.
Si tratta di intendersi, anzitutto, sulla nozione di primato dello Stato.
Gi nei primi anni del XX secolo Romano rifletteva sulla crisi dello Sta-

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to, registrando come al suo interno stessero sempre pi nascendo e rafforzandosi organizzazioni e associazioni che aggregavano una pluralit
di individui in funzione di uno o pi interessi. Tale proliferare di corporazioni e movimenti era anzitutto indice della crisi del modello di Stato
nato dalla rivoluzione francese, dunque dello Stato come esclusivo principio aggregatore delle identit e volont dei consociati. vero che la
moderna civilt del diritto si caratterizzava per la proclamazione dei diritti fondamentali e per lattribuzione di questi al singolo individuo. Ma
un tale individuo era stato pensato secondo la logica dellindividualismo
moderno, dunque da un lato esaltato come portatore di diritti, dallaltro
lasciato solo di fronte ai pubblici poteri e comunque privato del sostegno
di quei corpi intermedi o di quelle formazioni nelle quali si forma e si dispiega la sua personalit. N, insiste Romano, poteva costituire unadeguata espressione e tutela della natura sociale delluomo il solo istituto
della rappresentanza politica. Di qui il progressivo organizzarsi sulla
base di particolari interessi della societ che va sempre perdendo il suo
carattere atomistico [ROMANO, Lo stato moderno e la sua crisi, 1909,
p. 23]. Lidea moderna del primato dello Stato, dunque, sembra seriamente messa in discussione.
Va per osservato come, nel transitare dallanalisi diagnostica della
crisi dello Stato moderno (ed in specie della sua difficolt di contenere le
molteplici forze sociali che si muovono al suo interno e talora contro di
esso) allindicazione prognostica dei rimedi pi idonei per fronteggiare
tale crisi, il giurista siciliano appaia incerto. Da un lato egli sembra volgersi al passato, segnalando lesigenza che lo Stato svolga una funzione
di unit e contenimento delle tante forze organizzate che operano nellodierna societ pluralistica ed anzi auspicando un rafforzamento dello
Stato inteso come vera personificazione di quella collettivit ampia e
integrale, che una crisi momentanea pu mostrare in eclissi, ma che
destinata ad acquistare coerenza e consistenza sempre maggiore. Dallaltro egli ammette che nessuno pu oggi credere che la nostra vita costituzionale abbia trovato quelle forme nelle quali possa sperare di adagiarsi per un tempo indefinito [ivi, p. 25]. Lo Stato, dunque, da un lato
sembrava ancora rappresentare la pi alta sintesi delle volont e identit
particolari; dallaltro, costituiva pur sempre unaggregazione formatasi in
determinati contesti storici, dunque non una forma eterna e da preservare
indefinitamente nella sua pretesa superiorit.

La costituzione dellordinamento

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Ma se vero che lo Stato, bench orfano della moderna primazia, assolve ancora ad una funzione unificatrice del corpo sociale, quid iuris
quando una parte di quello Stato voglia proclamarsi indipendente e costituire un nuovo ordinamento costituzionale? Sembra che le sole categorie
giuridiche non consentano di fornire una risposta a tale domanda. Nel
saggio Linstaurazione di fatto di un ordinamento costituzionale Romano rileva come il problema della legittimazione non consista nel cercare le condizioni in presenza delle quali un ordinamento fattuale possa
dirsi giuridicamente legittimo, bens nellesaminare quando esso effettivamente esista: almeno nel senso che luna disamina si confonde con
laltra e non pu pervenire a risultati opposti. Legittimo dunque
lordinamento effettivamente esistente, cui cio non faccia difetto non
solo la vita attuale ma altres la vitalit [ROMANO, Linstaurazione di
fatto di un ordinamento costituzionale, 1901, p. 97]. La trasformazione
del fatto in diritto si fonda sulla sua necessit, sulla sua corrispondenza
ai bisogni e alle esigenze sociali. Il segno di tale corrispondenza si ha
quando il nuovo ordinamento capace di acquisire stabilit nel tempo.
Di qui la conclusione: Legittimo lo Stato che esiste, solo perch esiste,
dal momento che esiste. Lo Stato, dunque, nasce legittimo, non si legittima; ma per effetto di tale nascita, si legittima il processo da cui esso
deriva [ivi, p. 103].
Per la teoria istituzionale, dunque, una comunit ordinata e organizzata in s un ordinamento giuridico: la sua ambizione ad istituirsi come
ordinamento statale pu essere ritenuta illecita o illegittima solo sul presupposto, di chiara matrice normativistica, del primato della costituzione
posta al vertice dellordinamento da cui quella comunit vuole distaccarsi. Se, per converso, di prescinde da tale presupposto, lordinamento dovr ritenersi legittimo per il solo fatto della sua esistenza e della sua corrispondenza ai bisogni sociali.

3. Tra forza normativa del fatto e difesa della Costituzione: il


caso Catalogna
Si torni alla emblematica vicenda della Catalogna. La teoria istituzionale, richiamando la genesi fattuale di ogni ordinamento, sembra offrire
buoni argomenti a sostegno delle rivendicazioni autonomistiche catalane,

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che sembrano derivare la propria legittimit dalla corrispondenza ai bisogni sociali della comunit di riferimento, a prescindere dalla conformit o
meno ai princpi fondanti la costituzione spagnola.
Nel giudicare su tale vicenda, per converso, il Tribunale costituzionale
spagnolo sembra aver adottato una logica opposta, riaffermando il primato della costituzione. Con la sentenza n. 31 del 28 giugno 2010, infatti, la
Corte di Madrid ha dichiarato lincostituzionalit di ben 14 articoli dello
Statuto catalano, fornendo altres, di molte altre disposizioni, uninterpretazione vincolante, atta a circoscrivere il significato costituzionalmente legittimo di enunciati e concetti utilizzati dal legislatore catalano. Lintervento dei giudici costituzionali ha di fatto spogliato lo Statuto regionale catalano della sua valenza di atto propedeutico allinstaurazione di un
nuovo ordinamento costituzionale.
La Corte ha, ad esempio, precisato che i riferimenti alla nazione catalana
possono avere solo una rilevanza culturale, dato che, sul piano strettamente
giuridico-costituzionale lunica nazione la Spagna. Di diritto della Catalogna allautogoverno, poi, pu parlarsi solo nei limiti in cui tale potest normativa viene conferita, dalla Costituzione spagnola, alla regione catalana
come ad altre comunit autonome spagnole. Stesso discorso stato fatto dalla Corte per espressioni come Stato, popolo, cittadini: lunico Stato nazionale la Spagna che, pur ammettendo al proprio interno Stati regionali, fondato sulla volont del popolo spagnolo, unico legittimo titolare della sovranit. Di cittadinanza catalana potr parlarsi, al limite, come specie del genere
cittadinanza spagnola.
La Corte stata particolarmente severa nel giudizio sulle norme dello
Statuto relative alla lingua, dichiarando incostituzionali sia la qualifica di
preferenziale attribuita al catalano come lingua dellamministrazione pubblica sia il preteso dovere di ogni cittadino di conoscere la lingua catalana.
Quanto, poi, alla proclamazione di diritti fondamentali, il Tribunale costituzionale spagnolo ha precisato che uno Statuto regionale non fonte idonea
ad istituirli e che dunque i relativi articoli possono ritenersi costituzionalmente legittimi solo ove siano intesi come riproduttivi di quanto gi previsto
da norme della Costituzione spagnola.
Inevitabilmente severo, infine, il giudizio della Corte sullattribuzione,
al Consiglio delle garanzie statutarie, del potere di esprimere un parere vincolante in relazione ai progetti e proposte di legge incidenti sui diritti del popolo catalano. Un simile controllo stato ritenuto in ogni caso costituzionalmente illegittimo, atteso che, ove venisse esercitato in funzione preventi-

La costituzione dellordinamento

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va realizzerebbe una limitazione delle competenze parlamentari, ove invece


operasse successivamente alla conclusione del procedimento legislativo finirebbe per pregiudicare il monopolio in materia di giustizia costituzionale riservato al Tribunale costituzionale spagnolo.

La controversa sentenza emessa dal Tribunale costituzionale di Madrid, dopo quasi quattro anni dal deposito del ricorso, rappresenta una
sorta di rivincita del modello kelseniano di ordinamento costituzionale
sul modello istituzionalistico.
Sta proprio in ci, invero, almeno sino a che si mantiene lindagine nei
confini dellordinamento nazionale, il senso pi profondo della costruzione a gradi dellordinamento suggerita da Kelsen: un ordinamento ha
una sua precisa identit se e fino a quando tutte le sue norme vengono ricondotte ad una stessa costituzione; ogni norma tale se la sua validit
resa possibile da una norma superiore. In tal senso lo statuto regionale
catalano, costituendo una fonte sottoordinata rispetto alla costituzione
spagnola, legittimo solo se rientra nella struttura piramidale dellordinamento giuridico il cui vertice rappresentato da tale costituzione.
La medesima valutazione pu fornirsi in ordine ai pi recenti sviluppi del
braccio di ferro tuttora in atto tra il governo spagnolo e la comunidad catalana. Il 9 dicembre del 2015, infatti, la maggioranza dellassemblea regionale
catalana ha approvato una Risoluzione che prelude alla costituzione di un
nuovo ordinamento statale. La premessa di tale Risoluzione che gli elettori,
nelle elezioni regionali del 27 settembre 2015, hanno attribuito la maggioranza ai partiti di ispirazione indipendentista. In tal modo essi avrebbero
conferito al Parlament catalano, depositario della sovranit ed espressione
del potere costituente, un mandato ad avviare un processo costituente verso
un nuovo ordinamento avente forma di stato repubblicana. Nellesercizio di
tale potere costituente, il Parlament catalano afferma che il processo di formazione di un nuovo ordinamento non si assoggetter alle decisioni delle
istituzioni dello Stato spagnolo, in particolare del Tribunale costituzionale,
che considera privo di legittimit e competenza a seguito della sentenza del
giugno del 2010 sullo Statuto dellautonomia della Catalogna, precedentemente approvato dal popolo mediante referendum. Di pi: il Parlament catalano esorta il futuro governo a dare esecuzione esclusivamente alle norme
da esso emanate al fine di proteggere i diritti fondamentali che possano venire lesi dalle decisioni delle istituzioni dello Stato spagnolo.
Il governo centrale ha immediatamente eccepito lincostituzionalit di ta-

Prudentia iuris

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le proclamazione, sollevando la questione di fronte alla Corte di Madrid. Tra


i vari motivi della rilevata incostituzionalit merita di esserne citato uno: el
derecho del pueblo cataln a constituirse en Estado solo podra existir
cuando, culminada la reforma constitucional por la va del artculo 168 CE,
el pueblo espaol soberano lo reconociera de acuerdo con el procedimiento
constitucionalmente prescrito para ello. No puede aceptarse que en el
presente momento la titularidad del poder constituyente est atribuida de
presenta y en acto al pueblo de Catalua, en contradiccin expresa con los
cauces constitucionales. Per dirla con Kelsen: non pu immaginarsi un potere costituente non qualificato (e che eserciti poteri non previsti) dalla costituzione dello Stato.
Con una delle sentenze pi veloci della sua storia, il Tribunale costituzionale, in data 2 dicembre 2015, ha annullato la Risoluzione del Parlament catalano. Limperio della Costituzione come norma suprema tra origine dal
fatto che la Costituzione medesima il frutto della determinazione della
nazione sovrana per mezzo di un soggetto unitario, il popolo spagnolo, nel
quale risiede quella sovranit e dal quale emanano i poteri di uno Stato. E
ancora: la Costituzione spagnola formalizz la volont del potere costituente. Il popolo sovrano, concepito come unit ideale di imputazione del potere
costituente, ratific con referendum il testo.
In sintesi: solo il potere costituente della nazione spagnola ha titolo per
attribuire, mediante il procedimento di revisione disciplinato dalla carta costituzionale, la qualit di ordinamento statale alla comunit catalana. Non c
forza normativa del fatto che possa sottrarsi al primato della costituzione.

4. La piramide normativa ed il Leviatano incatenato


Del primato della costituzione, rivendicato da Kelsen, va anzitutto sottolineata la forte valenza culturale e politica. Esso costituisce una riedizione novecentesca dellidea, gi aristotelica, del primato del governo
delle leggi sul governo degli uomini. Un ordinamento tale finch vi
una costituzione ed i suoi destinatari si riconoscono in essa o comunque
nei suoi principi fondanti. Anche il sovrano, dunque, tanto pi se manifesta la sua volont allinterno di una comunit circoscritta, deve sottostare
al primato della costituzione ed esercitare la sua forza allinterno dei limiti in essa stabiliti.
Non il potere, dunque, che crea la norma, ma questultima a qualificare e rendere possibile il primo. Non a caso Kelsen critica la riduzione

La costituzione dellordinamento

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del diritto a comando emanato dallautorit sovrana: il diritto piuttosto


un insieme di norme strutturate gerarchicamente, al vertice delle
quali vi una norma fondamentale. In principio la norma, dunque.
Lautorit del sovrano viene cos giustificata giuridicamente da una norma (la costituzione) in coerenza con il principio normativistico secondo
cui ogni soggetto, ente, atto, giuridico se ed in quanto ad esso si riferisca una norma valida.
Lintenzionalit del normativismo kelseniano sta proprio in ci: trattenere la potenza del Leviatano, ingabbiarlo mediante una rete di disposizioni che ne contengano la forza. Si consideri, in tal senso, la struttura
logica della norma: essa non declinata come imperativo emanato dal
sovrano, ma come giudizio ipotetico (se A allora B) che prevede, per
ciascuna condotta illecita (A), una determinata sanzione (B) come conseguenza [KELSEN, Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., cap. III].
Il diritto, dunque, regola della forza. Il che non significa affatto,
come pure stato autorevolmente sostenuto, che il diritto venga confuso
con la mera forza o addirittura finisca per giustificarla. Allopposto:
lordinamento si presenta come un grande meccanismo sanzionatorio che
stabilisce le condizioni alle quali lautorit pu applicare sanzioni in modo legittimo. Al di fuori di tali condizioni, la forza dello Stato sar esercitata in modo abusivo e contro di essa il cittadino potr invocare tutela per
i propri diritti o interessi legittimi.
Questa configurazione del diritto come insieme di meccanismi che disciplinano la forza e ne stabiliscono le condizioni del legittimo utilizzo
da parte dellautorit deve essere tenuta presente (unitamente alla valorizzazione del ruolo dellinterprete nel processo di produzione del diritto,
alla posizione di suprema garanzia dellordinamento assunto dalle Corti
di legittimit costituzionale nonch al primato, logico e assiologico, del
diritto internazionale rispetto al diritto dello Stato) in una complessiva
lettura del normativismo. Ove ci non avvenga, infatti, si rischia di fraintendere alcune tesi sostenute dal giurista praghese. Si pensi allaffermazione secondo cui il diritto una tecnica di controllo del comportamento sociale che pu essere utilizzata per perseguire qualunque finalit etica o politica. Tale affermazione non significa che il diritto sia strumento al servizio della forza (ad esempio di una maggioranza politica)
che storicamente in grado di affermarsi, ma solo che la validit della
norma deve essere accertata senza considerare il contenuto di tale norma,

Prudentia iuris

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dunque senza esprimere giudizi di valore sulla meritevolezza della condotta da essa prescritta.
In tal senso lordinamento giuridico viene rappresentato da Kelsen come
un insieme di norme gerarchicamente strutturate, ciascuna delle quali deriva
la sua validit formale da una norma superiore che la rende possibile. Qui va
rinvenuta la differenza del funzionamento dellordinamento giuridico rispetto a quello morale. Anche lordinamento morale (di un individuo come di un
gruppo sociale), infatti, pu essere rappresentato come una gerarchia di regole, solo che in questo caso ogni regola (ad esempio: non rubare) tale in
quanto coerente sul piano dei contenuti alle norme superiori (ad esempio: la
propriet privata un valore) ed in ultima istanza ai principi morali che si
assumono come fondanti. Perch una regola appartenga allordinamento, invece, sufficiente che, a prescindere dai suoi contenuti, sia stata prodotta in
modo conforme ad una regola ad essa sovraordinata, come nel caso di una
legge prodotta nel formale rispetto dei modi di produzione normativa previsti dalla Costituzione.

Unaltra tesi, sostenuta da Kelsen e frequentemente equivocata, riguarda la nozione di Stato di diritto. Si tratta di una nozione priva di
senso giuridico, precisa il giurista praghese, perch, giuridicamente parlando, tutti gli Stati sono Stati di diritto. Se vero, infatti, che il diritto
tale perch posto dallo Stato secondo le norme di produzione previste in
quellordinamento, uno Stato autoritario dovr essere considerato Stato
di diritto alla stessa stregua di uno Stato democratico. In caso contrario
lespressione Stato di diritto assume un significato etico-politico e dunque esula dalla sfera di competenza del giurista. Tutto ci non significa,
evidentemente, negare ogni differenza di valore tra una dittatura ed un
regime democratico, ma solo escludere i giudizi di valore dalla sfera della giurisprudenza.
La domanda sulla giustizia, infatti, esula dallambito di competenza della
giurisprudenza e comunque non darebbe luogo a risposte univoche in considerazione dellirriducibile relativit dei valori etici di riferimento. Il diritto
non ha un rapporto necessario con la giustizia, riducendosi, appunto, a tecnica di controllo del comportamento sociale. Il modello suggerito da Kelsen
una dottrina pura del diritto, purificata da contaminazioni etiche e politiche
vuole anzi avere un significato antiideologico, dunque offrire un modello di

La costituzione dellordinamento

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conoscenza valido per qualunque ordinamento, a prescindere dai valori etico-politici che lo caratterizzano [ivi, cap. II].

Invero tale scetticismo etico costituisce il punto debole del normativismo kelseniano insieme alla radicale svalutazione della certezza del diritto nel processo di interpretazione della legge.
Si gi segnalata lincidenza della definizione kelseniana del diritto come insieme di norme sul piano della teoria dellinterpretazione. Tale incidenza trova una precisa giustificazione proprio nella costruzione a gradi
dellordinamento. Ad ogni livello della scala normativa, infatti (costituzione,
legislazione, giurisdizione e amministrazione, ecc.), vi , a giudizio di Kelsen, sia applicazione di norme superiori che produzione di norme inferiori e
ci con la sola eccezione del vertice dellordinamento (la costituzione, in cui
vi pura posizione di diritto) e della base (in cui vi solo un atto esecutivo
incidente sulla condotta dei consociati). Se ci vero, continua Kelsen, va
dunque superata lilluministica separazione tra produzione e applicazione del
diritto, che lasciava intendere che la prima spettasse al legislatore e la seconda a giudici, amministratori, consociati. la stessa analisi del linguaggio
giuridico a confermarlo: in conseguenza della vaghezza costitutiva del linguaggio, infatti, latto di posizione di una norma superiore lascia comunque
un margine di discrezionalit alla produzione della norma inferiore. Ne discende che la funzione giurisdizionale sempre anche produttiva di diritto e
che la sentenza va considerata una norma a tutti gli effetti. Ogni norma infatti uno schema di qualificazione allinterno del quale possono rientrare diverse applicazioni, tutte compatibili con il dettato normativo: non esiste,
dunque, conclude Kelsen, unesatta interpretazione della norma, n pu ritenersi preferibile luno o laltro metodo interpretativo [ivi, cap. VI].

Rispetto alle esigenze degli odierni ordinamenti di democrazia costituzionale, che vivono e si trasformano grazie a interpretazioni della legge
spesso compiute in relazione a valori, il radicale scetticismo etico di Kelsen e la sua svalutazione dellideale della certezza del diritto, risultano
decisamente inadeguate.

5. Dallordinamento al riconoscimento
A dispetto dei ricorrenti giudizi sulla pretesa amoralit della visione

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normativistica che riduce il diritto a tecnica di controllo del comportamento sociale, prescindendo del tutto dai suoi contenuti il vero punto
debole del normativismo kelseniano va visto altrove: in specie nella tesi
secondo cui il giurista deve considerare solo la formale validit delle
norme e non il loro rispetto effettivo da parte dei consociati o delle autorit chiamate ad applicarle. Tale rigida separazione tra validit ed efficacia si rivela tecnicamente impraticabile, come costretto a riconoscere
lo stesso Kelsen quando si interroga sul fondamento ultimo di legittimazione di un ordinamento.
Se, infatti, ogni norma legittimata da una norma superiore (cos: latto esecutivo trae validit dalla sentenza del giudice o dal provvedimento
amministrativo, questi dalle leggi, le leggi dalla Costituzione, ecc.), il
giurista, giunto al vertice della gerarchia normativa, non pu non chiedersi la Costituzione da cosa tragga la sua validit. La risposta di Kelsen
denuncia il limite del suo normativismo: dobbiamo presupporre una norma fondante, al di sopra della Costituzione, che imponga di obbedire ad
essa e dunque idealmente conferisca legittimit allatto con cui il potere
costituente ha istituito lordinamento costituzionale. Tale ipotetica norma, per, precisa lo stesso Kelsen, conferisce legittimit allordinamento
vigente sul presupposto che vi sia un minimo di corrispondenza tra le
condotte prescritte dalle sue norme ed il comportamento effettivo dei destinatari di queste. Se, per converso, vi una disobbedienza diffusa alle
norme vigenti di un ordinamento, questo, privo del tutto di efficacia,
dunque di capacit di condizionarne le condotte dei consociati, finir per
perdere anche la sua validit.
Ecco che, giunti al vertice dellordinamento, ci rendiamo conto che
lindicazione metodologica fornita da Kelsen (secondo cui il giurista deve considerare solo la formale validit delle norme e non lefficacia di
queste) non pu essere rispettata appieno e soprattutto non sufficiente
per qualificare giuridicamente le fasi di crisi della vita di un ordinamento.
Il vero significato della norma fondante, confessa lo stesso Kelsen, si
lascia cogliere nel prendere in esame il fenomeno della rivoluzione. Vi
sono casi, infatti, in cui, nel corso di una radicale e massiccia contestazione di un ordinamento vigente, a tale ordinamento si contrappone un
nuovo ordinamento che i rivoluzionari vogliono istituire, sostituendolo al
primo. Di fronte a tale irriducibile conflitto, quale dei due ordinamenti
potr dirsi valido? A tale domanda, non sufficiente dare una risposta in

La costituzione dellordinamento

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termini di validit normativistica: il giurista dovr spostare lindagine sul


piano sociologico dellefficacia e considerare il comportamento effettivo
della gran parte dei consociati. Ordinamento vigente, tra i due in conflitto, potr dirsi quello che otterr una diffusa obbedienza da parte dei destinatari, cos dimostrando di riuscire ad esercitare un efficace controllo e
condizionamento della loro condotta.
In questa fase costituente, assume un ruolo decisivo, al di l delle forme e delle norme, il sentimento di appartenenza dei consociati allordinamento ed ai suoi princpi fondanti. questo atto di riconoscimento,
per dirla con Hart, a dare vita e forza al diritto. Solo dal continuo, e spesso invisibile, rinnovarsi di tale riconoscimento, un dato ordinamento deriva la sua, non solo formale, esistenza. Senza un minimo di fiducia e
credenza nei confronti di princpi e regole che definiscono la vita di una
comunit non pu realisticamente parlarsi di ordine giuridico.

6. Le incognite dello stato di eccezione


Giunto al vertice dellordinamento, dunque, persino il giurista normativista costretto a spostare lattenzione dalla formale validit delle norme alla realt dei fatti.
Tale apertura alleffettivit del diritto non per sufficiente, almeno a
giudizio dei detrattori di Kelsen e del normativismo. Tra questi il pi noto Carl Schmitt, importante e controverso filosofo del diritto pubblico
tedesco: il diritto, a suo giudizio, non sarebbe norma, ma anzitutto decisione politica. A tale definizione egli giunge seguendo il percorso inverso rispetto ai normativisti: Schmitt non parte dalla norma per poi giungere alla costituzione ed infine allatto costituente, che, come nella rivoluzione, situazione eccezionale, per definizione esterna alle regole. Schmitt parte proprio dallo stato di eccezione e lo eleva a luogo privilegiato
per comprendere la genesi delle regole giuridiche.
Perch vi sia una norma, sostiene il giurista di Plettenberg, devesserci
una situazione di regolarit. La norma non nasce dal nulla ed anzi pu
svolgere la sua funzione ordinatrice solo quando una condizione di normalit sia stata gi instaurata: lordinamento giuridico presuppone lordine
sociale. Per cogliere la realt del diritto bisogna dunque individuare le
condizioni che rendono possibile il passaggio dal caos allordine.

Prudentia iuris

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Sembra cos di ritornare a Hobbes e al suo Leviatano, la cui forza era


necessaria per porre fine allo stato di natura ed istituire lordine sociale.
A giudizio di Schmitt, daltronde, inutile abbandonare la categoria della
sovranit per ridurre il diritto a norma: lordine pu essere configurato
solo come prodotto di una decisione del sovrano. Il sovrano, a sua volta,
non tale perch qualificato da una costituzione, bens colui che di fatto decide sullo stato di eccezione, stabilendo le condizioni per la sua decretazione e gestendo i poteri conseguenti fino allinstaurazione (o restaurazione) dellordine [SCHMITT, Teologia politica, 1922].
Schmitt critica loccultamento della natura politica della sovranit che sarebbe stato perpetrato dal normativismo. Come il liberalismo parlamentare
dissolve loriginaria conflittualit del rapporto politico nelle finzioni della
dialettica parlamentare, dellidentit tra governanti e governati e della negoziazione economica, cos, insiste Schmitt, la sua versione giuridica, il normativismo, dissolve il rapporto autorit-sudditi nellimpersonalit delle norme.
Alle finzioni liberali, che nascondono il fatto che le decisioni politiche non
vengano assunte ma solo ratificate nelle assemblee parlamentari, Schmitt
oppone un preteso realismo, nel quale il sovrano portatore non solo di titoli
legali, ma di una legittimit sostanziale, identificabile con il consenso plebiscitario dei suoi sudditi. Al normativista Kelsen che, pur a fronte di un sistema parlamentare bloccato, ribadiva la sua fiducia nel sistema dei partiti e
nella validit del metodo della mediazione politica, Schmitt contrappone la
forza extra- e sovra-normativa del novello Leviatano, che sembra voler risorgere dalle ceneri della democrazia costituzionale.

Significativa la tesi sostenuta da Schmitt secondo cui la stessa difesa


dellintero ordinamento costituzionale deve essere affidata solo a quel
soggetto che pu decidere sullo stato di eccezione. Il tema significativamente dibattuto da Schmitt e Kelsen negli ultimi anni della Repubblica
di Weimar. Kelsen, giudice costituzionale in Austria negli anni Venti, riteneva che spettasse alla Corte costituzionale la suprema funzione di
garanzia dellordinamento. Quanto a Schmitt, lidea di custodia della
costituzione si comprende alla luce della sua idea di costituzione: questa
non un insieme di leggi costituzionali, ma atto istitutivo e formativo
dellunit politica di un popolo [SCHMITT, Dottrina della costituzione,
1928, cap. 1, par. 1]. La permanenza di un ordine costituzionale dipende
dalla volont politica di chi quellordine ha istituito e dalla sua forza: so-

La costituzione dellordinamento

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lo unautorit che rappresenti la totalit del popolo in modo non solo legalistico e detenga il controllo dellesercito e della polizia pu difendere
la costituzione.
Che fosse questo lunico modo efficace di difendere lordinamento
costituzionale, Schmitt lo affermava sulla base della lettura dellart. 48
della Costituzione della Repubblica di Weimar. Si legge infatti in tale articolo: Il Presidente pu prendere le misure necessarie al ristabilimento
dellordine e della sicurezza pubblica, quando essi siano turbati o minacciati in modo rilevante, e, se necessario, intervenire con la forza armata. A tale scopo pu sospendere in tutto o in parte la efficacia dei diritti fondamentali stabiliti dagli articoli 114, 115, 117, 118, 123, 124 e
153.
Questa disposizione sembra affidare la difesa dellordinamento costituzionale ad un sovrano posto al di sopra di esso: non a caso il Presidente, quando ritenga sussistere una minaccia per lordine e la sicurezza
pubblica, ha il potere di sospendere lefficacia dei diritti fondamentali in
materia di libert personale, inviolabilit dellabitazione, segretezza delle
comunicazioni, libert di manifestazione del pensiero, libert di riunione
e associazione e tutela della propriet privata. La pretesa normativistica
di imbrigliare il potere del sovrano mediante un insieme di norme sembrerebbe essere destinata al fallimento: ci in quanto il sovrano, quando
lo ritenga, sembrerebbe porsi al di sopra del parlamento e addirittura al di
fuori dellordinamento costituzionale, costituendone il supremo garante.

7. Leccezione, la regola ed il supremo controllo di legittimit


Ma poi vero che, guardando le regole dal punto di vista delleccezione, si scopre che il diritto vive non di norme valide, ma di decisioni
politiche assunte dal sovrano al di sopra e al di fuori di tali norme?
Nel caso della Germania dei primi anni Trenta, ci pu forse affermarsi
solo radicalizzando lart. 48 II comma della Costituzione della Repubblica di
Weimar e contestualmente svilendo il significato del comma successivo. In
esso si legge: Di tutte le misure prese ai sensi dei precedenti commi [le sospensioni delle garanzie costituzionali, nda] il presidente deve senza indugio
dare notizia al Reichstag. Le misure stesse devono essere revocate se il Rei-

Prudentia iuris

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chstag lo richieda. Il potere sovrano nello stato di eccezione, dunque, disciplinato da norme e, sulla base di queste, sempre soggetto al controllo del
parlamento.
Fu proprio sulla base dellart. 48 Cost. II co., infatti, che il 28 febbraio
1933, giorno successivo allincendio del Reichstag (le cui responsabilit non
vennero mai accertate), il Presidente von Hindenburg, convinto dal Cancelliere Hitler che la sicurezza dello Stato fosse a rischio e che quindi vi fossero
i presupposti per proclamare lo stato di eccezione, eman il Decreto per
la protezione del popolo e dello stato (noto come Decreto dellincendio del
Reichstag) che dispose la sospensione delle principali garanzie costituzionali. Vennero posti limiti ai diritti di libert personale, di stampa, di riunione
e associazione, di segretezza della corrispondenza e delle comunicazioni
nonch al diritto di propriet e venne previsto il potere di disporre perquisizioni anche in assenza di formale autorizzazione. Significativa, in coerenza
con quanto detto nel capitolo precedente in ordine allantiformalismo, la
vaghezza della fattispecie di reato prevista al 4.3: Chiunque provochi o inciti atti volti a cagionare un pubblico danno punto con la reclusione o, in
presenza di circostanze attenuanti, con larresto per un periodo non inferiore ai tre mesi.
In virt dei poteri speciali previsti da tale decreto, entrato in vigore il
giorno successivo alla sua promulgazione, la polizia procedette allarresto di
numerosi leader dellopposizione, anche in spregio delle immunit parlamentari. Ci incise in modo decisivo sullesito delle elezioni politiche che
ebbero luogo il 5 marzo e nelle quali Hitler conquist la maggioranza relativa del Parlamento.
Il 23 marzo venne quindi emanato il Decreto dei pieni poteri con cui fu
conferito a Hitler il potere di emanare leggi senza lapprovazione del Reichstag. Non disponendo della maggioranza qualificata pari a 2/3, infatti, Hitler
era riuscito a far dichiarare decaduti, nella prima adunanza dellassemblea,
ben 81 dei deputati regolarmente eletti. Ad altri deputati dellopposizione fu
impedito di partecipare al voto.
La sospensione delle garanzie costituzionali, decretata poche settimane
prima, aveva costituito la necessaria premessa per la definitiva instaurazione
della dittatura. Ma tale sospensione era stata ratificata dal Reichstag solo
grazie ad una massiccia azione di repressione delle forze ostili al partito nazionalsocialista.

Che lo stato di eccezione non costituisca necessariamente un fenomeno ingovernabile dal diritto sembra dimostrato dallanalisi di due recenti
vicende.

La costituzione dellordinamento

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La prima riguarda le misure eccezionali adottate in Francia per fronteggiare lemergenza terroristica determinatasi a sguito degli attentati
compiuti da terroristi islamici il 13 novembre 2015, misure a proposito
delle quali diversi osservatori hanno parlato di uno scivolamento della
democrazia costituzionale verso la dittatura. Il giorno successivo agli attentati, infatti, il governo, con il decreto n. 2015-1501 (poi n. 2015-1478),
ha proclamato lo stato di emergenza previsto dalla legge del 3 aprile
1955 n. 385. Tale legge prevede che lo stato di emergenza possa essere
dichiarato, in caso di gravi violazioni dellordine pubblico o di calamit
pubbliche, dal Consiglio dei ministri per una durata di dodici giorni, prorogabile per ulteriori trenta giorni dietro autorizzazione del Parlamento.
I poteri eccezionali previsti dallo stato di emergenza, peraltro, non possono essere esercitati in modo incontrollato. Significativa, in tal senso, la
pronuncia con cui il Consiglio di Stato francese, il 25 gennaio 1985, ha effettuato un controllo sulla legittimit dei provvedimenti assunti dalle autorit di
polizia sotto il profilo dellerrore manifesto di valutazione. La provvisoria
limitazione di alcune prerogative costituzionali e lattribuzione allautorit di
polizia di poteri eccezionali, dunque, non implicano la sospensione dellintero ordinamento costituzionale o addirittura il disconoscimento del suo
principio ordinatore secondo cui il potere e la forza devono sempre essere
governati dalla legge.

Lo stato di emergenza devessere distinto dal vero e proprio stato di


eccezione previsto dallart. 16 della Costituzione francese del 1958.
Larticolo 16, infatti, prevede, che ove le istituzioni della Repubblica,
lindipendenza della Nazione, lintegrit del territorio o lesecuzione degli
impegni internazionali siano minacciati in maniera grave e immediata e il
regolare funzionamento dei poteri pubblici costituzionali interrotto, il Capo dello Stato possa adottare le misure richieste dalle circostanze. Lesercizio di tale potere supremo, invero, condizionato sia sul piano formale
(devono essere ufficialmente consultati i Primo ministro, i Presidenti delle
assemblee e il Presidente del consiglio costituzionale) sia sul piano contenutistico (le misure adottate devono essere ispirate dalla volont di assicurare ai
poteri pubblici costituzionali, nel minor tempo possibile, i mezzi necessari
per provvedere ai loro compiti). Di sicuro rilievo sono, poi, i limiti posti al
potere del Capo dello Stato dai commi 5 e 6 di tale articolo: LAssemblea
nazionale non pu essere sciolta durante lesercizio dei poteri eccezionali.
Passati trenta giorni di esercizio dei poteri eccezionali, il Consiglio costitu-

Prudentia iuris

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zionale pu essere incaricato dal Presidente dellAssemblea Nazionale, il


Presidente del Senato, sessanta deputati o sessanta senatori, di verificare se
le condizioni di cui al primo comma sussistano. Il Consiglio si pronuncia nel
pi breve tempo possibile tramite un parere pubblico. Procede di pieno diritto a tale esame e si pronuncia alle stesse condizioni allo scadere dei sessanta giorni di esercizio dei poteri eccezionali e in ogni altro momento oltre
tale durata.
La differenza tra stato di eccezione e stato di emergenza consiste in ci,
che nella prima fattispecie vengono rafforzati i poteri del Presidente fino ad
incidere sullassetto dei diversi poteri costituzionali, mentre nel secondo
vengono solo aumentati i poteri di polizia del Ministro dellinterno e dei prefetti, i quali possono imporre gli arresti domiciliari a persone pericolose per
la sicurezza, limitare alcune libert fondamentali, vietare la circolazione, disporre la chiusura di luoghi deputati a riunioni, perquisire domicili privati,
disporre misure di controllo della stampa, ecc.

Diversamente dal modello teorizzato da Carl Schmitt, la proclamazione e il governo dello stato di eccezione nellordinamento francese contemporaneo non sono affidati a decisioni sovrane discrezionali e incontrollabili. E ci per una serie di ragioni; durante lo stato di eccezione,
anzitutto, il Capo dello Stato, sebbene riunisca in s poteri legislativi, regolamentari e amministrativi e possa limitare alcune garanzie costituzionali, non pu modificare la Costituzione; inoltre lassemblea nazionale
non pu essere sciolta; e soprattutto il Consiglio costituzionale deve fornire un parere, bench non vincolante, in ordine alla sussistenza di quei
due presupposti (grave e immediata minaccia per le istituzioni della Repubblica e interruzione del regolare funzionamento dei poteri costituzionali) richiesti perch la proclamazione dello stato di eccezione possa dirsi
legittima.
Va peraltro osservato che, al fine di fronteggiare la recente emergenza
terroristica, il governo francese, con il decreto n. 2015-1501, ha proclamato non lo stato di eccezione (prerogativa del Capo dello Stato ai sensi
dellart. 16 della Costituzione del 1958), bens lo stato di emergenza previsto dalla legge del 1955. Il che, per, fa sorgere un problema: come
pu una legge ordinaria, approvata su impulso dellesecutivo, disporre la
sospensione, bench temporanea, di alcune garanzie costituzionali e limitare lesercizio di alcuni diritti fondamentali? Se vero che, in casi eccezionali, il potere riafferma la sua superiorit, non viene smentita la lettura

La costituzione dellordinamento

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normativistica dellordinamento, fondata sul primato della Costituzione?


La risposta a tali domande sembra essere negativa. Non a caso il Consiglio costituzionale francese, investito della questione di legittimit del
decreto n. 2015-1501, si preoccupato di fissare alcuni princpi in tema
di provvisoriet dello stato di emergenza (la cui durata massima di dodici
giorni pu essere prorogata per legge, ma deve essere sempre proporzionata al pericolo imminente che ha portato alla proclamazione dello stato
di emergenza) e di accettabilit delle restrizioni alla libert personale
(limposizione degli arresti domiciliari da parte dellautorit di polizia
compatibile con la tutela costituzionale della libert personale se rientra
nel limite delle dodici ore) (decisione n. 527 del 22 dicembre 2015).
Con successiva pronuncia, resa in data 19 febbraio 2016, il Consiglio
costituzionale, esaminata la disposizione che attribuisce allautorit di
polizia il potere di copiare i dati informatici accessibili durante la perquisizione, ha rilevato che un simile provvedimento equivarrebbe ad un sequestro privo di autorizzazione dellautorit giudiziaria e che il legislatore non ha previsto delle garanzia idonee ad assicurare un equilibrio tra la
tutela dellordine pubblico e la difesa della vita privata. La disposizione
stata dunque dichiarata incostituzionale.
Unaltra vicenda merita qui di essere richiamata. Nel 2009, il Governo
della Repubblica di Colombia eman il decreto n. 4975 con cui il Presidente
dichiarava lo stato di emergenza ed avocava a s, e allesecutivo da lui capeggiato, il potere di legiferare senza delega da parte del Parlamento. A giustificare lemanazione del decreto sarebbe stato, ad avviso del Governo, la
situazione di totale dissesto del sistema sanitario che metteva a rischio leffettiva tutela del diritto alla salute da parte dei cittadini colombiani.
Anche in questo caso, invero, la Costituzione prevedeva delle condizioni
per la proclamazione dello stato di eccezione, tanto che la Corte costituzionale, con un serie di pronunce emesse nel 2010 (c252 ss.), rilev che tale decreto era stato emanato in assenza dei presupposti previsti. A giudizio della
Corte, infatti, non sussistevano fatti sopravvenuti e straordinari tale da giustificare la sospensione delle garanzie costituzionali: le cause del dissesto del
sistema sanitario, infatti, erano note da tempo e sarebbe stato compito del
Parlamento e del Governo affrontare il problema mediante luso degli strumenti ordinari. Sulla base di tali valutazioni la Corte dichiar lincostituzionalit della proclamazione dello stato di eccezione.

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Sulla base delle esperienze francese e colombiana non pu escludersi


che, se nella Repubblica di Weimar avesse operato una Corte di legittimit munita del potere di verificare il rispetto, da parte di tutti gli organi
dello Stato, delle norme costituzionali, ed in specie del citato art. 48 (i
limitati poteri della Corte di giustizia statale, infatti, non consentivano
certo di assolvere a tale funzione), forse il Decreto dellincendio del
Reichstag sarebbe stato dichiarato incostituzionale per insussistenza dei
presupposti (rilevante turbamento o minaccia dellordine e della sicurezza pubblica) e Hitler non sarebbe salito cos facilmente al potere.
La citata avversione di Carl Schmitt nei confronti dellidea di una
Corte costituzionale come custode dellordinamento assume, cos, il suo
autentico significato.

La costituzione dellordinamento

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