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PRUDENTIA IURIS
Materiali per una filosofia della giurisprudenza
Seconda edizione
AVVERTENZA
Il presente volume in corso di completamento da parte dellAutore.
I successivi aggiornamenti Le verranno inviati, tramite mail, senza
ulteriori addebiti non appena disponibili.
La ringraziamo per lacquisto.
ANTONIO PUNZI
PRUDENTIA IURIS
Materiali per una filosofia della giurisprudenza
Seconda edizione
http://www.giappichelli.it
ISBN/EAN 978-88-921-5784-2
INDICE
pag.
I
LA VIRT DEL GIURISTA
1. Il giurista e la regola
2. Metodo e responsabilit del giurista
3
6
II
IL DIRITTO TRA OBBEDIENZA E COSCIENZA
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
La coscienza e la legge
La separazione tra foro interno e foro esterno
Il positivismo giuridico e le ragioni della coscienza
Forme di obbedienza alla legge
Il diritto e la resistenza allingiustizia
Il dovere di disobbedire al (non)diritto
Lirriducibile diritto naturale, linevitabile interpretazione
8
10
16
21
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29
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III
LA LEGGE E LA SUA INTERPRETAZIONE
1.
2.
3.
4.
5.
6.
Indice
34
37
41
44
47
50
pag.
7. La creativit della giurisprudenza: da proposta metodologica a
risposta alla crisi dello Stato liberale
53
IV
LA COSTITUZIONE DELLORDINAMENTO
1. Potere costituente e potere costituito
2. Ex facto oritur ius
3. Tra forza normativa del fatto e difesa della Costituzione: il caso
Catalogna
4. La piramide normativa ed il Leviatano incatenato
5. Dallordinamento al riconoscimento
6. Le incognite dello stato di eccezione
7. Leccezione, la regola e il supremo controllo di legittimit
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Indice
I
LA VIRT DEL GIURISTA
1. Il giurista e la regola
Negli ordinamenti giuridici occidentali la figura del giurista, soprattutto nelle ultime tre decadi, ha vissuto un significativo processo di trasformazione. Tale trasformazione ha riguardato loggetto delle sue specifiche competenze, il contributo che chiamato a fornire nel processo di
produzione e applicazione delle regole, il ruolo sociale e culturale che
occupa nelle rispettive comunit.
Una simile trasformazione non pu sorprendere. Essa costituisce la
logica conseguenza dei celeri cambiamenti che hanno segnato la storia
pi recente della civilt occidentale: dagli equilibri tra le potenze mondiali ridisegnati a seguito della caduta dei regimi comunisti alla geopolitica dellEuropa, protagonista di un inarrestabile processo di allargamento, ma tuttora priva di una precisa identit politica; dal ruolo dei
Parlamenti nelle democrazie avanzate sempre meno centrali nel processo di produzione del diritto alle crescenti competenze attribuite al potere giudiziario, agli organi dellamministrazione e alle autorit indipendenti; dagli strumenti di circolazione delle informazioni segnati in modo irreversibile dalla rivoluzione telematica alle tecniche di formazione
del consenso in societ sempre pi pluralistiche.
Sotto quali profili la congiuntura storico-istituzionale a cavallo del
millennio ha inciso sulla figura, sui compiti e sul ruolo sociale del giurista? La pi significativa discontinuit si pu cogliere nel diverso rapporto
che il giurista contemporaneo intrattiene con quello che un tempo veniva
considerato loggetto principale del proprio sapere e, dunque, il basamento della propria competenza professionale: la legge [GROSSI, Ritorno al
diritto, 2015].
Il sapere del giurista, oggi, non pu essere pi identificato con la conoscenza delle leggi vigenti in vista dellapplicazione di queste al caso
concreto. E ci non solo perch la sconfinata e talora incoerente pro-
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to alla legge anche per due altri ordini di ragioni: in primo luogo perch
ha assunto piena consapevolezza del ruolo essenziale che ogni interprete (il giudice anzitutto, ma anche lamministratore, il componente di una
authority, lavvocato, il consulente, lo studioso, persino il privato cittadino nel perseguimento dei suoi interessi) chiamato a svolgere nel processo di produzione del diritto. Anche nelle controversie che, in astratto, potrebbero sembrare suscettibili di soluzione sulla base di una disposizione di legge chiaramente individuabile, infatti, questa disposizione,
una volta approvata dal Parlamento, pubblicata in Gazzetta ufficiale ed
entrata in vigore, non ha certo esaurito il suo processo di produzione di
senso. Lapplicazione della legge nella prassi presuppone piuttosto una
complessa attivit di interpretazione, intesa come attribuzione di significato allenunciato e come anticipazione degli effetti che quella regola
pu determinare nella soluzione del caso di specie [BETTI, Teoria generale dellinterpretazione, 1955].
Un altro motivo per il quale non pu pi darsi per scontata
lidentificazione tra diritto e legge che il diritto contemporaneo viene
oggi in parte prodotto al di fuori dalle aule dei parlamenti.
Accanto alla hard law, dotata di autorit perch proveniente da un legislatore che parla in nome del popolo sovrano, importanza vieppi crescente ha acquisito negli ultimi anni la soft law, spesso dotata di forza
persuasiva pi che autoritativa: si pensi a convenzioni e carte dei diritti
emanate da organismi sovranazionali, alla lex mercatoria nella prassi degli scambi commerciali, alle pronunce delle Autorit amministrative indipendenti, ai codici deontologici adottati da ordini professionali e/o imprese, alle decisioni di collegi arbitrali che si consolidano nel tempo assumendo di fatto il valore di precedente giurisprudenziale, alladozione
di schemi negoziali prodotti non da un legislatore bens dagli operatori
del diritto e poi ripresi in modo spontaneo e diffusi al punto da assurgere
a rango di regole nascenti dalla prassi.
Si assiste, in tal modo, ad una crescente diversificazione delle fonti del
diritto che, pur vedendo ancora la legge (non pi solo quella nazionale)
in posizione di primato, rende, rispetto al passato, molto pi complesso
il lavoro di ricerca, proprio del giurista, della regola idonea alla soluzione del caso concreto.
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II
IL DIRITTO
TRA OBBEDIENZA E COSCIENZA
1. La coscienza e la legge
In che modo ed entro quali limiti il giurista abbia titolo per partecipare
al processo di positivizzazione del diritto pu cominciare a comprendersi
in ossequio al metodo di una filosofia della giurisprudenza prendendo le mosse da alcuni casi pratici.
Una filosofia della giurisprudenza trova proprio in ci la sua specificit.
Essa non prende le mosse dalle grandi domande di tipo ontologico (cos il
diritto?), assiologico (cos la giustizia?), fenomenologico-esistenziale
(qual la specificit del diritto e la sua collocazione nellesserci delluomo?) o ermeneutico (cos linterpretazione?). Essa non ripiega neanche
sulle domande caratteristiche di una teoria generale del diritto: cos una
norma?, cos un ordinamento giuridico?, cosa sono lacune e antinomie?, ecc.
Alla prima come alla seconda tipologia di domande, la filosofia della giurisprudenza vuole certamente rispondere, ma prendendo le mosse dalla concreta esperienza giuridica, se possibile da casi di giurisprudenza che facciano
venire in luce lessere del diritto, della giustizia, dellinterpretazione, non sul
piano astrattamente definitorio, ma per come innanzitutto e per lo pi si manifestano nella modesta, quotidiana esperienza giuridica (per usare lespressione cara a Giuseppe CAPOGRASSI, che della filosofia della giurisprudenza
stato maestro, come evidenziato, tra i tanti, dallo studio pertinente alloggetto del presente capitolo, in tema di Obbedienza e coscienza, 1950).
Nel 2001, al compimento del diciottesimo anno di et, infatti, Vahan Bayatyan veniva chiamato a svolgere il servizio militare previsto come obbligatorio dalla legge armena. A tale chiamata alla leva, per, Vahan riteneva di
non poter rispondere in virt delle sue convinzioni religiose. Battezzato allet di sedici anni, infatti, egli era entrato a far parte della comunit dei Testimoni di Geova. Linterpretazione della Bibbia fornita da tale comunit
rendeva inevitabile la disobbedienza ad una legge che imponeva lo svolgimento di azioni o comunque di un addestramento di tipo militare durante la leva.
Tale impedimento di coscienza veniva rappresentato dallinteressato con
diverse comunicazioni, inviate alle autorit competenti in data 1 aprile 2001,
nelle quali egli si dichiarava disponibile a svolgere un servizio civile alternativo al servizio militare: I, Vahan Bayatyan, born in 1983, inform you that I
have studied the Bible since 1996 and have trained my conscience by the Bible in harmony with the words of Isaiah 2:4, and I consciously refuse to perform military service. At the same time I inform you that I am ready to perform alternative civilian service in place of military service.
La Commissione affari legali dellAssemblea nazionale armena rispondeva che, non essendo previsto dalla normativa vigente alcun servizio civile
alternativo, egli era inderogabilmente tenuto a svolgere il servizio militare:
In connection with your declaration, ... we inform you that in accordance
with the legislation of the Republic of Armenia every citizen ... is obliged to
serve in the Armenian army. Since no law has yet been adopted in Armenia
on alternative service, you must submit to the current law and serve in the
Armenian army.
Della vicenda giudiziaria dellobiettore armeno va anzitutto sottolineato un profilo. Arrestato, nel settembre del 2002, con laccusa di renitenza alla leva, Vahan fu processato e condannato a 18 mesi di reclusione. Tale sentenza, non a caso, fu impugnata anzitutto dal pubblico ministero, il quale chiese alla Corte dappello una punizione pi severa in
considerazione del fatto che il rifiuto di obbedire alla legge dettato da
motivi religiosi si presentava non solo infondato, ma socialmente pericoloso.
The [applicant] did not accept his guilt, explaining that he refused [military] service having studied the Bible, and as a Jehovahs Witness his faith
did not permit him to serve in the armed forces of Armenia. () I believe
that the court imposed an obviously lenient punishment and did not take into
consideration the degree of social danger of the crime, the personality of
[the applicant], and the clearly unfounded and dangerous reasons for [the
applicants] refusal of [military] service.
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come naturale attitudine a cogliere i princpi primi delle azioni umane, altro
la coscienza come atto della persona in cui la ragione giudica le condotte in
base alla propria scienza morale. Non a caso il pensiero medievale distingueva la sinderesi, come senso del bene universalmente caratteristico della
natura umana (dunque presente anche nelluomo malvagio), dalla coscientia
come fonte dei giudizi morali personali e dunque fallibili.
La distinzione ora richiamata spiega, evidentemente, i suoi effetti anche
in ordine al tema dellobiezione di coscienza. Altro, infatti, rivendicare il
diritto a disobbedire alla legge positiva in nome di un valore che si assume
giusto ed inviolabile, altro chiedere che venga tutelata la coscienza in
quanto sede dei propri personali e insindacabili giudizi di valore.
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La separazione tra foro interno e foro esterno, invero, ha un duplice volto: se da un lato sottrae allo Stato la giurisdizione sulla coscienza e sulle
virt morali del cittadino, dallaltro rischia di dimenticare il diritto della
coscienza di essere rappresentata e tutelata anche nello spazio pubblico.
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struttura dellospedale pretese, quindi, che le due fornissero almeno unassistenza indiretta a tali pratiche. Il Board dellOspedale, nel rigettare il reclamo delle due ostetriche, premessa la distinzione tra lo svolgimento di attivit
di carattere amministrativo o comunque di assistenza e supervisione e la partecipazione diretta agli interventi di interruzione di gravidanza, afferm che
solo rispetto a tale partecipazione diretta poteva riconoscersi il diritto
allobiezione di coscienza. Lautorit giudiziaria, cui si rivolsero le due ostetriche, conferm tale statuizione, ricordando come lobiezione di coscienza
non possa considerarsi un diritto esercitabile in modo illimitato e incondizionato, come dimostrerebbe limpossibilit di astenersi dal partecipare a
pratiche abortive quando vi sia un grave pericolo per la salute della donna. In
ogni caso, rilev il Lord ordinary, non invocabile lobiezione di coscienza
per attivit meramente preparatorie dellintervento vero e proprio. Di diverso
avviso stata, per, la Court of Session di Edimburgo che in ultima istanza
ha escluso che possa ragionarsi in termini di maggiore o minore prossimit
dei singoli atti rispetto alla pratica abortiva vera e propria: anche la mera
presenza allinterruzione di gravidanza deve dunque essere evitata a chi tale
pratica ritiene contraria al proprio sentimento morale o religioso.
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si impegna sempre ad agire secondo quella ragione che, nel confronti delle
opposte ragioni, risulti la pi persuasiva.
Questa propensione allargomentazione come caratteristica delluomo razionale, ed in specie il valore della persuasione nellesperienza giuridica,
affiorano altres nellApologia di Socrate. In tale opera il filosofo, lungi
dal far ricadere sullintera citt le colpe dei suoi giudici, viene rappresentato
nellatto di dimostrare come il processo che ha portato alla sua condanna sia
stato condotto in violazione del principio del contraddittorio, in dispregio
del diritto di difesa, in base ad un impianto probatorio riconducibile per lo
pi ad accuse anonime e dunque non verificabili. In ogni caso Socrate lascia ai posteri una lezione di fede nel diritto e nella sua struttura dialettica: rivolgendosi per lultima volta alla citt che lo ha condannato, egli invita
a non farsi ingannare dallesteriore rivestimento dei discorsi, ma a concentrare lattenzione sulla verit dei fatti, sulla consistenza delle allegazioni probatorie, sulla reale capacit persuasiva degli argomenti presentati in giudizio.
La vittima di un uso politico della giustizia lascia, dunque, la giornata terrena, al tempo stesso obbedendo alla sentenza ingiusta e ammonendo che la
giustizia pu essere effettivamente resa solo attraverso una corretta articolazione della controversia processuale.
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sondabile dal punto di vista pratico. Il suddito, cio, non deve cavillare
artificiosamente su questa origine come se fosse un diritto ancora contestabile sotto laspetto dellobbedienza che gli si deve [KANT, Metafisica
dei costumi, cit., pp. 244-245]. Il cittadino non ha modo n titolo per cogliere gli arcana imperii e dunque ogni sua messa in discussione dellobbligo di obbedienza uninutile perdita di tempo, che anzi mette in
crisi la sicurezza dello Stato. Di pi: il diritto di resistenza, a giudizio di
Kant, intimamente contraddittorio. Per ammetterlo, infatti, occorrerebbe che la legislazione suprema contemplasse in s una disposizione in
base alla quale essa cesserebbe di essere la legislazione suprema e in cui
il popolo, come suddito, venisse riconosciuto, nel medesimo giudizio,
come sovrano di colui al quale sottoposto. La resistenza al potere costituito, dunque, deve ritenersi un ingiustificato e contraddittorio atto di
violenza [ivi, pp. 248-249].
La seconda negazione del diritto di resistenza si trova nello scritto Per
la critica della violenza di Walter Benjamin. Questi, invero, muove da
premesse opposte rispetto a Kant: il potere stesso violenza (gewalt) cos
come violenta lazione di chi ad esso si oppone. Solo che il potere, detenendo il monopolio della forza, utilizza tale forza per qualificare la
propria azione come legale. Non pu mai parlarsi, dunque, di un diritto di
resistenza che si opponga ad un potere ingiusto, ma solo di una violenza
che si oppone ad unaltra violenza. A giudizio di Benjamin, dunque, tanto il potere costituito quanto la resistenza ad esso non sono n giusti n
ingiusti: il potere che di fatto riesce ad imporsi giustifica se stesso e si
pone come diritto, qualificando illecita lazione contraria. Se, per, tale
potere viene rovesciato, la resistenza ad esso, che prima veniva qualificata come violenza, costituir il nuovo potere e giustificher la propria
azione come legale [BENJAMIN, Per la critica della violenza, 1921].
Per ragioni opposte, dunque, tanto in Kant quanto in Benjamin non
pu parlarsi di un diritto di resistere al comando dellautorit. Si potrebbe, certo, obiettare che Kant nega s il diritto di resistenza, ma ci in
quanto egli ritiene che il cittadino sia (e debba operare come) parte attiva
del popolo sovrano e dunque non possa rivoltarsi contro di esso: la libert eguale partecipazione di tutti alla prassi dellautolegislazione e dunque si traduce nella facolt di non obbedire ad altra legge che a quella cui
ciascuno abbia prestato (bench indirettamente) il proprio consenso. Epper ogni coincidenza senza residui tra individuo e corpo sovrano, come
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Hobbes insegna, comporta dei rischi. Non certo un caso che, dopo la
Rivoluzione francese, Robespierre abbia sostenuto con decisione che lunico Tribuno del popolo il popolo stesso, cos ponendo le premesse
per il divorzio tra il diritto di resistenza e lidea stessa di sovranit popolare. In coerenza con tale assunto, la Dichiarazione dei diritti e dei doveri
delluomo e del cittadino del 1795 espunger il riferimento, pur presente
nella Dichiarazione del 1789, alla resistenza alloppressione. Il cittadino
ormai un sovrano e non ha ragione di rivendicare il diritto di ribellarsi
al potere costituito.
La teorizzazione del diritto di resistenza, non a caso, aveva trovato
numerose e feconde formulazioni nella fase del pensiero moderno in cui
la rivendicazione dei diritti delluomo doveva fare ancora i conti con le
pretese dello Stato assoluto. Paradigmatica la posizione di uno dei massimi esponenti del pensiero liberale, John Locke: lo Stato nasce da un
contratto e dunque ogni violazione di tale contratto giustifica la reazione
della parte lesa.
Scrive Locke: Ma allora ci si pu opporre ai comandi di un principe? Si
pu resistergli ogni volta che ci si trova offesi, e anche soltanto quando si
immagina che egli ci abbia fatto qualcosa che non aveva il diritto di fare?
Ma questo scardiner e sovvertir tutte le societ politiche, e invece del governo e dellordine non lascer che anarchia e confusione. A questo rispondo che la forza deve essere opposta soltanto alla forza ingiusta e illegale.
Chiunque fa opposizione in qualsiasi altro caso, attira su di s una giusta
condanna sia di Dio sia delluomo; e cos non ne seguir nessuno di quei
pericoli e di quelle confusioni, che spesso vengono suggerite [LOCKE, Second Treatise of Government, 1690, parr. 203-204]
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Ma il tema del diritto di resistenza, centrale nel processo di declinazione in senso liberale dello Stato moderno, pu dirsi ancora attuale dopo
listituzione e il consolidamento dello Stato di democrazia costituzionale? Questo non forse caratterizzato dalla proclamazione dei diritti delluomo come fondamentali ed inviolabili? Non sono sufficienti i dispositivi, in esso previsti, di protezione del sistema e di contenimento dei modi di esercizio del potere? Non lo stesso Stato di democrazia costituzionale la realizzazione sul piano istituzionale di quella visione dei diritti a
suo tempo sottesa alla rivendicazione del diritto di resistenza?
Sul punto gli stessi costituenti italiani mostrarono significative incertezze. Nel dicembre del 1946 lassemblea prese in esame e respinse una
proposta di positivizzazione del diritto di resistenza formulata nei termini
seguenti: La resistenza individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri, che violino le libert fondamentali e i diritti garantiti dalla presente
costituzione, diritto e dovere di ogni cittadino. La proposta fu respinta
anche grazie allintervento del costituzionalista Mortati il quale, tra
laltro, dichiar che il diritto di resistenza riveste carattere metagiuridico e in ogni caso mancano, nel congegno istituzionale, i messi e le possibilit di accertare quando il cittadino eserciti una legittima ribellione e
quando invece questa sia da ritenere illegittima. Lo stesso Mortati, peraltro, alcuni anni dopo sostenne che il diritto di resistenza si sarebbe
comunque potuto desumere dal combinato disposto degli articoli 1 e 3
co. 2. Il diritto di resistenza si trasfigura cos in una sorta di dovere di rispettare la Costituzione, dovere che pu arrivare fino a giustificare, in
uno stato di necessit, la violazione della legalit formale. Si tratterebbe,
dunque, di un diritto fondato sul fatto, eppure non per ci privo di carattere giuridico, essendo fondato proprio sui princpi fondanti dellordinamento costituzionale. Ecco che, a dispetto della tesi kantiana sullinutilit e contraddittoriet della resistenza in un ordinamento in cui i cittadini sono sovrani, deve ritenersi che quando i meccanismi di garanzia
istituiti al fine di sanzionare le rotture dellordine costituzionali risultino
impraticabili, il diritto di resistenza viene a configurarsi come lestremo
rimedio alleversione dallalto [FERRAJOLI, Principia iuris. Teoria del
diritto e della democrazia, 2007, vol. II, p. 109].
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Il diritto-dovere di resistenza diviene cos la via extralegale per la restaurazione dellordine violato. Il che, a ben vedere, conferma unidea di
fondo della tradizione giusnaturalistica: leccedenza dei valori, persino di
quelli evocati dai princpi fondanti di un ordinamento costituzionale, rispetto alla loro traduzione in norme e alla concreta applicazione di queste
nella vita di un ordinamento.
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stato. Io non ebbi fortuna, e il capo del mio stato ordin le deportazioni.
La mia parte fu quella assegnatami dal capo delle SS e della polizia
dovetti obbedire: vestivo ununiforme e cera la guerra per linsubordinazione il codice penale delle SS prevedeva la morte.
Lo stesso concetto ripreso dallavvocato di Eichmann, Robert Servatius, facendo leva sul supremo principio della responsabilit personale:
Limputato non pu espiare per ci che ha fatto lo Stato. lo Stato che
ordin certe azioni, ed esso soltanto ne deve essere responsabile.
In ogni caso non mancavano fondati argomenti atti a giustificare la condanna di Eichmann in quanto responsabile in prima persona e comunque
consapevole coautore dello sterminio. Basti pensare a quanto da lui affermato, alcuni anni prima, in unintervista ad un giornale danese: Quando ricevetti lordine di lottare contro gli ebrei, agii da vecchio nazista col pi
grande fanatismo. Potrei dire che ero costretto a tener fede al giuramento.
Ma sarebbero chiacchiere a buon mercato. Feci del mio meglio per capire
ci che facevo perch il destino mi aveva dato delle qualit particolarmente
adatte per quellazione. Non ero solo un subalterno che eseguiva gli ordini,
altrimenti sarei stato un imbecille. Io pensavo a quegli ordini e partecipavo
alla loro elaborazione.
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Il vero che, perch possano qualificarsi come intollerabili determinate condotte prescritte dallautorit, necessario che si possa contare su
dei fondamentali comuni a tutti senza i quali una societ non sarebbe
una societ e la stessa coesistenza delle plurime concezioni della giustizia non potrebbe darsi. Un nucleo minimo di diritto forte, spesso presidiato dalla sanzione penale, non pu dunque non esistere [ZAGREBELSKY, La virt del dubbio, 2007, p. 50].
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ricevere la somma da un terzo, neanche se offerta in misura superiore allimporto dovuto. Porzia, mascherata da giurista incaricato di fornire un parere al Doge di Venezia, sembra costretta a scegliere tra lesecuzione letterale dellaccordo tra le parti dunque lapplicazione della penale nei confronti
del debitore insolvente ed uno scavalcamento del dettato contrattuale al fine di approdare ad una decisione equa.
Per sfuggire allalternativa tra lapplicazione cieca della legge regolatrice
del rapporto, liberamente convenuta tra le parti, ed il suo scavalcamento da
parte del soggetto decidente, Porzia riesce a realizzare il giusto nel caso concreto facendo ricorso allarte dellinterpretazione. Il contratto, infatti, se
vero che consentiva il taglio di una libbra di carne del debitore insolvente,
daltronde non faceva alcun riferimento al versamento del sangue dello stesso. Il creditore, dunque, poteva a buon diritto esigere lapplicazione della
penale, ma se avesse versato una sola goccia di sangue del debitore, sarebbe
stato perseguito ai sensi della legge vigente a Venezia. Il richiamo alla lacuna del contratto e alla integrazione di questo in base alla disciplina di diritto
comune fu sufficiente ad indurre il creditore a rinunciare alle proprie bellicose (ma formalmente legittime) pretese.
Ecco che facendo salva la vita del debitore (indubbiamente insolvente,
eppure in grado di garantire ladempimento dellobbligazione in una forma
non prevista dal contratto), Porzia riesce a fare giustizia senza mortificare
laccordo sottoscritto dalle parti ed anzi scavando tra le pieghe del testo del
contratto ed integrandone la lacunosa regolamentazione, fino a rinvenire la
regola per unequa soluzione del caso [sul punto, rimane fondamentale il
contributo di ASCARELLI, Antigone e Porzia, 1955].
Con Bruno Romano pu ben dirsi che il giurista compie lopera dellinterpretazione custodendo il legame tra la fedelt al contenuto e lettura
originale del testo, alimentata dal richiamo al senso profondo, invisibile del
diritto. Come nellessere del parlante coesistono le due dimensioni del detto
e del non detto, cos nellesperienza giuridica il senso degli enunciati normativi si presenta e insieme si sottrae allopera dellinterprete. N lautore
n linterprete della norma possono rivendicare lesclusiva sul senso. Il senso situato nellintervallo tra le parole delle norme e il silenzio del diritto
[B. ROMANO, Scienza giuridica senza giurista, 2006, p. 154 ss.].
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III
LA LEGGE
E LA SUA INTERPRETAZIONE
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Ora, premesso che la sentenza di assoluzione poteva forse ritenersi adeguata in termini di equit al caso di specie, il punto se il giudice, assolvendo limputato, abbia effettivamente adempiuto al suo dovere di ufficio di applicare la legge.
Limputato stato assolto per aver commesso il fatto in stato di necessit.
Lart. 54, co. I, c.p. recita: Non punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessit di salvare s od altri dal pericolo attuale
di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, n altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo.
Lassoluzione del ladro di prosciutti si presenta fondata su una libera interpretazione sia in diritto che in fatto. Quanto al diritto: deve ritenersi che lo
stato di indigenza costituisca un pericolo attuale di un danno grave e
non altrimenti evitabile? La giurisprudenza, sul punto, appare divisa.
Quanto al fatto, si legge nella sentenza: non si pu escludere che limputato
fosse spinto nella sua azione dalla necessit di salvare se stesso dal pericolo
attuale di un danno grave alla salute e alla vita rappresentato dal bisogno
alimentare non altrimenti soddisfatto. Ma in assenza di un effettivo accertamento dello stato di indigenza in capo allimputato, sufficiente, ai fini
della sua assoluzione, affermare che tale stato non pu escludersi?
Del problema pare ben avvertita la Corte di Cassazione che, in relazione
allinterpretazione estensiva del concetto di danno grave alla persona (interpretazione per effetto della quale si qualifica come pericolo di un danno grave anche la situazione come la mancanza di un alloggio che minaccia solo indirettamente lintegrit fisica della persona) ha precisato che pi attenta e penetrante deve essere lindagine giudiziaria diretta a circoscrivere la
sfera di azione dellesimente ai soli casi in cui siano indiscutibili gli elementi costitutivi della stessa necessit e inevitabilit non potendo i diritti dei
terzi essere compressi se non in condizioni eccezionali, chiaramente comprovate (Cass. pen., sez. II, 19 marzo 2003 n. 24290, di recente richiamata
in Cass. pen., sez. II, 22 giugno 2011 n. 24987).
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Il reato di invasione di terreni o edifici di cui allart. 633 c.p., infatti, fa riferimento ad uninvasione arbitraria di terreni o edifici (art. 633 c.p.)
mentre nel caso di specie sarebbero mancate prove dellinvasione richiesta
dalla norma, ovvero di unintroduzione fatta con mezzi forzanti e modalit
eclatanti nella propriet altrui, trattandosi anzi di locale colpevolmente lasciato derelitto dalla P.A.. Nel caso che interessa, la donna aveva dichiarato
di essersi trovata in stato di necessit in quanto moglie di un venditore ambulante, madre di tre figli ed in attesa di un quarto ed in considerazione del fatto che aveva presentato invano domanda per ottenere un alloggio in una casa
popolare. Occupato abusivamente limmobile, la donna aveva altres presentato richiesta di sanatoria per uso abitativo.
Anche in tal caso doveroso chiedersi se il giudice, per la Costituzione
soggetto alla legge, avesse effettivamente il potere di emettere tale, sul
piano extragiuridico ragionevolissima, sentenza assolutoria o se invece tale
decisione sia stata assunta in via sostanzialmente equitativa e dunque anteponendo alla legge un superiore valore di giustizia.
Sempre in materia di occupazione di edifici hanno suscitato linteresse
dellopinione pubblica alcune sentenze di assoluzione di studenti che avevano occupato gli edifici scolastici. Non si trattava, forse, di occupazione
abusiva ex art. 633 c.p.? Tali occupazioni, impedendo il regolare svolgimento delle attivit formative, non concretavano altres il reato di interruzione di pubblico servizio di cui allart. 340 c.p.? La Corte di Cassazione
ha pi volte affermato che occupare la scuola in segno di protesta non pu
considerarsi reato: ma una tale valutazione fondata sulla legge o ne costituisce uno scavalcamento? Il dubbio non facile da sciogliere, specie se si
considera che in diverse sentenze la Cassazione ha confermato sentenze di
assoluzione emesse in fase di merito sulla base del seguente argomento: il
reato di occupazione di edifici sanzionato dallart. 633 c.p. presuppone che
linvasione sia abusiva o comunque illegittima, mentre ledificio scolastico, pur appartenendo allo Stato, non pu essere detto una realt estranea
agli studenti.
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vigenti, rispettosa del loro significato letterale o comunque intesa ad evidenziare lintenzione del legislatore. Interpretare significa lasciar emergere il senso esatto e veritiero della legge.
Inevitabile, muovendo da tali premesse, anche la svalutazione della
consuetudine: questa, infatti, non pu essere fonte in senso stretto, perch
nasce dal fatto, da comportamenti tramandati nel tempo, seguti per abitudine e spesso in modo inconsapevole. Il diritto invece prodotto di una
volont collettiva illuminata dalla ragione e capace, mediante una scelta
politica, di tradurre i valori di giustizia in norme positive. Il fatto regolato dal diritto, non regola di questo.
Di questa visione legicentrica dellesperienza giuridica vanno brevemente richiamate le premesse assiologiche. Il Legislatore, anzitutto, ha
una sua specifica legittimazione politica: parla in nome del popolo sovrano. Non a caso tale centralit del Legislatore viene teorizzata nellepoca dellIlluminismo e realizzata a partire dalla Rivoluzione francese:
le fonti del diritto sono sostanzialmente circoscritte alla legge perch
questa intesa come manifestazione di volont di quel legislatore che
parla in nome della classe borghese uscita vittoriosa dalla rivoluzione.
Tale legge sar per definizione giusta, perch il popolo, una volta liberato
dalle catene della schiavit ed uscito dalle tenebre dellignoranza, non
potr che perseguire il bene dei singoli e della collettivit.
Di qui la riduzione del giudice a macchina del legislatore: la volont
del popolo, rappresentata dallAssemblea parlamentare e oggettivatasi
nella legge, avr bisogno di un giudice non artefice di giustizia, ma fedele esecutore del dettato normativo. Un popolo potr dirsi davvero libero
finch sar suddito di quella legge che lui stesso, per bocca del legislatore, ha voluto e a condizione che la volont di tale legislatore, in sede di
applicazione, venga effettivamente rispettata.
Non a caso uno dei valori fondanti la tradizione giuridica continentale
la certezza del diritto. Il giudice, infatti, potr decidere la controversia
solo sulla base di una disposizione gi in vigore allepoca del fatto, dunque conoscibile da ogni cittadino e controllabile quanto alla sua applicazione. Se si vuole garantire la certezza del diritto, al giudice deve essere
proibito di creare ex post la regola per il caso.
Di qui lavversione del legicentrismo nei confronti dellequit come
criterio di eterointegrazione della legge e come parametro per la soluzione delle controversie. Il modello adottato dal codice civile napoleoni-
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nello sforzo teso a creare un diritto comune a tutto il regno, cominci ad inviare i giudici che agivano nellambito della Curia regis (organismo deputato allamministrazione della giustizia) a decidere le controversie pi delicate
applicando le stesse norme in tutto il regno. Questo diritto, comprendente sia
il diritto feudale che le consuetudini germaniche, viene definito common
proprio perch nato nel quadro del processo di nazionalizzazione del diritto e
dunque finalizzato a ricondurre ad unit i frammentari orientamenti delle diverse Corti.
Nel corso dei secoli, poi, il common law finir per indicare una produzione normativa ascrivibile a giudici dotati di ampi poteri e tale da tradursi in
un insieme di princpi e tecniche contenuti non in un testo legislativo, bens
nei precedenti giurisprudenziali. Ci in ossequio al principio dello stare decisis, sviluppatosi soprattutto nel XIX secolo, secondo cui la ratio decidendi
delle pronunce delle corti superiori era vincolante per le corti inferiori quando i fatti rilevanti ai fini della decisione della controversia erano gli stessi.
interessante osservare come la facolt del giudice di fondare la decisione sui precedenti giurisprudenziali porti con s un diverso stile nella redazione delle sentenze. Queste divengono pi lunghe, con una pi articolata
ricostruzione della fattispecie concreta nonch frequenti digressioni sui diversi orientamenti adottati dalle corti in determinate materie e sulle ragioni
che, volta per volta, inducono il giudicante a privilegiare lorientamento sul
quale viene costruita la motivazione e che dunque assurge a fonte della regula iuris. La personalizzazione dello stile delle sentenze si accentua anche
in considerazione della possibilit di allegare la dissenting opinion del giudice che non concordi con lorientamento prevalso nella corte.
Il progressivo consolidarsi degli orientamenti giurisprudenziali in determinate materie ed il crescente formalismo processuale aveva peraltro determinato un irrigidimento del common law, o comunque una sua relativa lentezza a rispondere alle cangianti esigenze della societ, il che aveva agevolato la diffusione del sistema dellequity, dunque di un diritto amministrato
dalla cancelleria di corte a seguito di petizioni formulate direttamente dal cittadino al re [sul tema v. ad es. VAN CANEGEM, I signori del diritto, 1987, tr.
it., cap. I].
Agli occhi del legicentrismo moderno dominante nellEuropa continentale, ma non privo di sostenitori anche in Inghilterra, basti pensare a
Jeremy Bentham il modello di common law conferirebbe al giudice
uneccessiva discrezionalit nella formazione della regola di soluzione
del caso ed in specie nellestrapolazione, dalle molte pronunce, del precedente appropriato al caso di specie.
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Le obiezioni manifestate dai giuristi di formazione legicentrica possono riassumersi nei termini seguenti: come potr il giudice orientarsi in
una massa sconfinata di precedenti giurisprudenziali? Come decider a
fronte di precedenti tra di loro contraddittori? Come potr un sistema di
diritto giurisprudenziale evolversi nel tempo? Orientamenti giurisprudenziali largamente maggioritari, ma ormai superati, potranno essere abbandonati per iniziativa del singolo giudice? Quando si sostiene che il
precedente non ha forza vincolante se risulta contrario a ragionevolezza,
cosa si intende per rationabilitas? Non c il rischio che il giudice finisca
per decidere il caso secondo il suo soggettivo sentimento di giustizia e
poi indichi il precedente giurisprudenziale conforme al suo convincimento, al solo fine di dare alla sentenza una motivazione formalmente congruente? E, soprattutto: come potr il cittadino sentirsi protetto nei
suoi diritti in un sistema in cui la soluzione delle controversie viene
demandata non al legislatore, espressione del popolo sovrano, ma ad
un giudice politicamente incontrollabile? Un tale sistema non contraddice fondamentali princpi illuministici quali nullum crimen sine lege e
nulla poena sine lege?
Le critiche di Bentham al common law, com noto, non furono sufficienti a convincere legislatori e giuristi inglesi dellopportunit di sposare
il modello codicistico e ci nonostante lapprezzamento che pur aveva
riscosso, sul finire del XIX secolo, il progetto di codice penale redatto
dal suo discepolo James Stephen.
Ci che di tali critiche va anzitutto considerato, ben pi che lavversione nei confronti del diritto giurisprudenziale, la sottolineatura della
funzione protettiva del cittadino e dei suoi diritti che la codificazione nel
settore penale pu svolgere.
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Non certo un caso che tale principio di legalit del diritto penale, di
chiara ispirazione liberale e garantista, sia stato palesemente mortificato
negli ordinamenti totalitari di stampo sia nazista che comunista, nei
quali la condotta del cittadino, pur in assenza di una tassativa fattispecie
di reato, poteva essere qualificata come criminosa dai giudici di regime
tutte le volte che venisse ritenuta contraria ai superiori interessi, ora della
nazione tedesca, spiritualmente incarnata nel Fhrer, ora del proletariato
e del partito che ad esso dava voce.
Basti pensare, quanto alla Germania nazista, allart. 2 del codice penale che, a seguito della modifica di cui alla legge del 28 giugno 1935, recitava: punito chi meritevole di punizione secondo il concetto fondamentale di una legge penale e secondo il sano sentimento del popolo.
Lo sconcertante dettato di tale articolo, prevedendo una punizione per chi
sia meritevole di punizione secondo un concetto e in base a un sentimento, emblematica della declinazione, al contempo, in senso antiformalistico della giurisdizione penale e in senso soggettivistico del diritto penitenziario: lordinamento, anzich limitarsi a sanzionare una condotta secondo uno schema normativo rigidamente predeterminato, intende colpire (e rieducare) il suo autore muovendo da uninterpretazione di
valori indefiniti operata dal giudice.
La medesima avversione per il modello illuministico e garantista della
legalit penale si manifestata nellordinamento dellUnione sovietica
dopo la rivoluzione dellOttobre del 1917. Significativa in tal senso la
modifica apportata, nel 1922, allart. 6 del codice penale: dalla previsione
secondo cui considerato reato lazione che al tempo del suo compimento vietata dalla legge sotto minaccia di pena si passati ad una
qualificazione del reato come azione od omissione socialmente pericolosa, che minaccia i princpi del sistema sovietico e il suo ordinamento
giuridico.
Affermava Piero Calamandrei nel 1940: Vi fu in Russia, negli anni immediatamente successivi alla rivoluzione comunista, un periodo di assoluto
trionfo del diritto libero: abolita in blocco la codificazione zarista, mandati a casa (o meglio a spazzar le strade) i giudici e gli avvocati responsabili
di aver studiato ed applicato quei codici, unica espressione del nuovo diritto
furono i tribunali del popolo, composti non pi da giuristi ma di operai e
contadini analfabeti giudicanti non pi secondo le leggi ma secondo quella
che fu chiamata la loro coscienza proletaria, strumenti dichiarati non di
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giustizia, ma di fiera lotta di classe. Cos i fautori del diritto libero ebbero
agio di veder attraverso le esperienza russa che cosa significavano, tradotte
in pratica, le loro teorie [CALAMANDREI, Fede nel diritto, 1940].
4. Vera giustizia?
Le virt di uninterpretazione della legge intesa a custodire il valore
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della certezza del diritto e la separazione tra legislatio e iurisdictio, peraltro, possono essere apprezzate non solo con riferimento alle patologie
degli ordinamenti totalitari, ma anche in relazione ad alcuni casi giurisprudenziali di particolare rilievo negli ordinamenti liberaldemocratici e
che hanno attirato lattenzione non solo degli operatori del settore, ma
anche dellopinione pubblica.
Un caso emblematico, in tal senso, quello che ha visto protagonista Serena Cruz, una bambina filippina introdotta in Italia nel 1988 da un uomo,
Francesco Giubergia, che dichiarava di esserne il padre legittimo, essendo
ella nata, a suo dire, da una relazione extraconiugale dallo stesso intrattenuta
con una donna filippina. Il Tribunale per i minorenni di Torino, per, rilevate
alcune incongruenze nelle dichiarazioni rese dal sedicente padre e dalla moglie italiana e conferito particolare rilievo al fatto che luomo non si fosse assoggettato alle prove ematologiche pur disposte dal Tribunale, dispose
lallontanamento della bambina dalla casa dei Giubergia. Lintransigenza del
Tribunale torinese era evidentemente dettata dallesigenza di combattere la
piaga dei falsi riconoscimenti di bambini, in specie considerando che tali riconoscimenti riguardano bambini oggetto di vera e propria compravendita da
donne indigenti di nazioni pi povere.
Avendo i signori Giubergia appellato tale sentenza, la Corte dappello di
Torino, non potendo ancora escludere del tutto che essi stessero dichiarando
il vero in ordine alla relazione di filiazione, dispose la sospensione degli effetti immediatamente esecutivi della sentenza. La piccola Serena, dunque,
sarebbe rimasta provvisoriamente presso i Giubergia, con gli immaginabili
effetti in termini di continuazione e consolidamento di un rapporto affettivo
che di l a poco si sarebbe potuto definitivamente interrompere per volont
dei giudici.
Nel prosieguo della vicenda giudiziaria, peraltro, i sospetti circa la veridicit di quanto asserito dai Giubergia si erano rafforzati e la stessa istanza di
adozione o affidamento della bambina era stata respinta. Ci in quanto
lintroduzione in Italia di un minore straniero a scopo di adozione consentita soltanto a chi sia stato preventivamente dichiarato idoneo dal Tribunale
nel caso specifico ed abbia altres ottenuto laffidamento del bambino dallautorit giudiziaria del Paese di origine, mentre Serena risultava essere,
giuridicamente, una cittadina filippina minore di et ed in stato di abbandono. Di qui la necessaria apertura della procedura per la dichiarazione dello
stato di adottabilit di Serena e il contestuale allontanamento dalla famiglia
in vista di un prossimo affidamento preadottivo ad altra famiglia dichiarata
idonea.
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Nel frattempo lopinione pubblica, la classe politica ed alcuni rappresentanti delle istituzioni avevano cominciato ad interessarsi al caso. Fortissima,
dunque, era divenuta la pressione nei confronti della Corte torinese affinch
decidesse non sulla base di una formale e legalistica interpretazione della
legge, bens considerando il preminente interesse della bambina come previsto, peraltro, dalla normativa in materia di adozione di cui alla l. n.
184/1983 cos lasciando continuare il rapporto affettivo tra la bambina e la
famiglia con la quale viveva ormai da 14 mesi.
La Corte, ormai convintasi dellinvalidit del riconoscimento della bambina, ritenne invece di respingere il ricorso dei signori Giubergia. Un eloquente passo della sentenza merita di essere riportato: sia consentito ()
far riferimento ad un punto di partenza che pu apparire freddo e formalistico, ma che costituisce un cardine essenziale nellordinamento costituzionale. I giudici sono soggetti soltanto alla legge (art. 101, 2 comma, Costituzione). E devono applicare la legge secondo coscienza, anche a costo di rischiare limpopolarit. Infatti la legge, emanata dal Parlamento, espressione della sovranit popolare. Quando i giudici avvertono che una legge
ingiusta, sollevano questione di legittimit costituzionale, aprendo la possibilit che quella legge venga cancellata (e questa Corte lo ha fatto pi di
una volta). Ma quando i giudici sono convinti in coscienza che la legge
giusta, devono applicarla con fedelt, anche andando contro corrente. Le
sentenze e i provvedimenti giudiziari non possono essere frutto di emozione
popolare, n tanto meno di pressioni o di minacce. E proprio per questo la
Costituzione si preoccupa di garantire i giudici contro pressioni e ricatti;
proprio perch possano essere davvero indipendenti nelle loro decisioni.
Lindipendenza dei giudici un valore importantissimo per tutta la collettivit. Ci non significa che il giudice sia autorizzato ad arroccarsi in uno
sprezzante isolamento. Anzi, siccome egli ha il compito, difficile e tremendo,
di applicare la legge dello Stato, voluta dal Parlamento in funzione del bene
collettivo, il giudice deve essere un servitore del bene comune. Sa che talvolta lapplicazione della legge pu provocare sofferenze a persone innocenti. Sa che, in certe situazioni, qualunque decisione criticabile, perch
qualunque decisione presenta, accanto ad aspetti positivi, aspetti negativi.
Sa di non avere il monopolio della verit e vive drammaticamente le sue decisioni.
Sulla vicenda presero posizioni molti intellettuali, giuristi e non. La scrittrice Natalia Ginzburg, ad esempio, autrice di un libro sullargomento dal titolo Serena Cruz o la vera giustizia nel quale critic duramente loperato
dei giudici, sostenne tra laltro che la legge deve venire in soccorso dei cittadini e che le leggi vanno applicate nella giustizia. Ben diversa fu la posizione assunta dal pi noto esponente del positivismo giuridico italiano,
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Norberto Bobbio. Dichiaratosi sorpreso per il fatto che la gente stata molto poco colpita dal modo illecito con cui la bambina stata presa e molto
colpita dal modo perfettamente legittimo, conforme alla legge, con cui stata tolta, dichiar che chi si fosse dato la pena di leggere la sentenza
avrebbe appreso che la malafede dei coniugi evidente e incontestabile e
cos prese le difese di una sentenza che chiunque abbia letto con il desiderio di capire la complessit della situazione e senza pregiudizi non pu non
riconoscere scritta con rigore e insieme grande senso di comprensione
[BOBBIO, I fratelli di Serena e ID. Giustizia nelle adozioni, 1989]. Ed singolare, concluse il pensatore torinese, che in un paese come il nostro in cui
linosservanza delle leggi un costume nazionale, la simpatia della gente
fosse andata ancora una volta verso chi senza tanti scrupoli le viola anzi che
verso chi scrupolosamente le fa osservare [BOBBIO, Alzare lo sguardo,
1989].
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feriorit psichica dei minori, costretti allaccattonaggio con finalit di sfruttamento economico ed accertata la continuit nel tempo di tale condotta ha
ricondotto la condotta della donna alla fattispecie di riduzione in schiavit ex
art. 600 c.p.
La Corte di Cassazione, per, bench i fatti fossero innegabili e la disposizione indubbiamente vigente, ha ritenuto che tali fatti dovessero essere ricondotti a diversa fattispecie di reato. La condotta doveva infatti essere qualificata come delitto di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p. e non di riduzione in schiavit.
Per servit, infatti, precis la Suprema Corte, deve intendersi lo stato di
soggezione continuativa a scopo di sfruttamento economico o sessuale, attuata mediante violenza o abuso di autorit, soggezione che si traduca in
una integrale negazione della libert e dignit umana del soggetto passivo.
Bench il reato di riduzione in schiavit possa configurarsi anche in capo a
genitori che impieghino i figli in attivit illecite, nel caso di specie la Corte
rilev che limputata praticava laccattonaggio solo in alcune ore del giorno,
che tale pratica rientrava nelle tradizioni culturali del gruppo di appartenenza
e che comunque la condotta era finalizzata a fronteggiare gravi necessit
economiche. Non potendo escludersi, peraltro, continu la Corte, che nella
restante parte della giornata, la donna si prendesse cura del bene dei figli in
modo adeguato, non ci si trovava di fronte ad unintegrale negazione della
libert e dignit umana del bambino. Sussisteva piuttosto il reato di maltrattamenti in famiglia, considerato che la donna, invece di avviare il minore
allistruzione scolastica e comunque di garantirgli una infanzia che ne facilitasse la crescita morale e materiale, lo aveva indotto a praticare laccattonaggio, appropriandosi poi del ricavato.
Ad una conclusione opposta, dunque alla qualificazione della condotta in
termini di riduzione in schiavit, giunse, in un caso significativamente diverso, la Corte di Cassazione con sentenza del 28 settembre 2012, n. 37368. La
pronuncia muove dal seguente accertamento in fatto: La corte territoriale,
richiamando integralmente la ricostruzione dei fatti operata dai giudici di
primo grado, ha evidenziato come la minore di nazionalit rumena A. F., in
un lungo arco di tempo antecedente al 23.12.2004, sia stata sistematicamente e continuativamente costretta alla pratica umiliante dellelemosina
(OMISSIS), finalizzata alla raccolta di somme di denaro, dalla stessa minore
consegnate a fine giornata ai genitori, secondo gli ordini da essi stabiliti, in
forza dello stato di soggezione permanente in cui si trovava, essendo obbligata a dedicarsi allaccattonaggio dalla mattina alla sera, dietro la minaccia e luso materiale della violenza nei suoi confronti da parte dellattuale
ricorrente, il quale, da un lato, abusava della posizione di potere che rivestiva [su di lei] in quanto convivente della madre, dallaltro approfittava della
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Attesa lineludibilit dellinterpretazione da parte del giudice, ma considerata altres la pericolosit di pronunce nelle quali linterprete forza a
tal punto il dettato normativo da porsi, di fatto, come autore di una nuova
legge, diviene opportuno precisare se e in quali contesti storico-istituzionali si sia effettivamente determinata, nellevoluzione della giurisprudenza, una contrapposizione tra metodi formalistici e metodi antiformalistici e se tale contrapposizione abbia ancora oggi ragion dessere.
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ma raramente praticata da giudici e avvocati dellepoca. Di ci si ha conferma dagli stessi commentari ai codici utilizzati dai professionisti
nellOttocento [Sul punto v. la tesi di SAVIGNY, Sulla vocazione del nostro tempo per la legislazione, 1814, tr. it. p. 140 ss.].
Si prenda, a mo di esempio, uno dei pi noti Commentari al codice civile
italiano del 1865, quello curato da Cattaneo e Borda. Nella Presentazione
viene sottolineata non tanto la novit del testo e la prima esegesi che lo accompagna, bens la presenza di riferimenti al diritto precedente, inteso come
verace sorgente del nuovo diritto. Del Commentario fanno parte, infatti, oltre
al testo del Codice, i lavori preparatori, le molte leggi romane alle quali si
riferisce o pu riferirsi la disposizione di ciascun articolo, e che sono per lo
pi la verace sorgente ed il tipo della nuova legge; la legislazione francese,
austriaca e dei Codici preunitari; brevi e concise annotazioni dirette a illustrare i mutamenti rispetto al diritto anteriore, a ricordare principii direttivi
del diritto, tratti in parte dalla giurisprudenza romana, e quasi sempre sottintesi nei moderni Codici, che si accontentano dei corollari; le opinioni dei
pi autorevoli commentatori francesi e le massime della giurisprudenza. E
siccome poi nei moderni Codici (come ben saputo) non si racchiude tutto
lo scibile del diritto, e molte questioni sono da essi abbandonate ai lumi della giurisprudenza, cos su molte materie ed obbietti pretermessi si voluto
dai compilatori dare in apposite Appendici ai vari titoli o Capi del Codice,
avvertenze, regole e massime forensi, affinch, per difetto di appropriato
luogo, non si tralasciasse la trattazione di importanti questioni.
Discorso uguale e contrario va fatto per la cosiddetta reazione antiformalistica. Non vi dubbio, infatti, che, nella cultura giuridica tedesca, si sia sviluppata, nel corso dellOttocento, una profonda avversione
nei confronti di alcuni dei valori portanti dellilluminismo giuridico francese. Oggetto di critica era innanzitutto lidea secondo cui il diritto fosse
un prodotto della ragione espresso in forma di legge.
Il giurista e storico del diritto Savigny, ad esempio, contrapponeva alla mitologia del codice, la lettura del diritto come prodotto della storia,
come fenomeno che si sviluppa gradualmente, generandosi e trasformandosi prevalentemente in modo spontaneo. Il diritto, per Savigny, costume prima che decisione del legislatore, coscienza sociale prima che imposizione autoritativa, consuetudine prima che legge. Alla credenza in un
diritto valido universalmente e che la ragione pu cogliere in modo infallibile (giusnaturalismo razionalistico), viene cos opposta lidea secondo
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cui ogni popolo ha il suo diritto cos come ha la sua lingua, le sue tradizioni, la sua identit. Se, in una simile prospettiva, ancora pu parlarsi
di un diritto di natura non nel senso di un diritto inscritto nella natura
del genere umano, illuminato una volta per tutte dalla ragione e consacrato da una legge infallibile ed immutabile, bens come diritto naturalmente
sentito e praticato da un popolo e che ha solo bisogno di essere ritrovato
nel concreto manifestarsi dei rapporti sociali [SAVIGNY, Sulla vocazione
del nostro tempo per la legislazione, cit.].
Di qui lavversione di Savigny, e pi in generale della scuola storica
tedesca, nei confronti del modello codicistico. Se il diritto si sviluppa
nella storia in modo spontaneo e continuo, lopera di codificazione arresta tale processo di evoluzione e riconduce forzosamente la variet e
multiformit dellesperienza sociale non solo alla rigidit delle fattispecie
generali ed astratte, ma allimpianto di un codice che in alcuni casi si
presenta addirittura come coerente, completo, assolutamente razionale.
La distanza rispetto allideologia della codificazione di marca francese si
avverte anche nella rivalutazione storicistica del ruolo del giurista nel processo di produzione del diritto: se vero, infatti, in Savigny ed in modo ancora pi evidente in Puchta, che il diritto non nasce dal comando del legislatore, bens costituisce una verace espressione dello spirito del popolo e del
suo naturale sentimento di giustizia, vi sar bisogno di qualcuno capace di
tradurre in modo razionale e sistematico tale sentimento della comunit. Il
giurista diviene cos lautentico rappresentante del popolo, capace di interpretarne lo spirito e di elevarlo a coscienza compiuta e razionale.
A ben vedere, per, la critica della Scuola storica nei confronti della
codificazione francese non implica n un anacronistico rifiuto della legge
come fonte del diritto in senso tecnico, n unapertura incondizionata nei
confronti della libera interpretazione da parte del giudice. Sebbene la
Scuola storica rivaluti il diritto consuetudinario, infatti, la legge mantiene pur sempre il suo primato tra le fonti, solo che di essa viene concepita in modo nuovo la ratio.
Ogni legge, infatti, fissa la natura di un rapporto giuridico in modo conforme allidea che di quel rapporto ha lo spirito del popolo. Alla base di ogni
istituto del diritto (ad es. la compravendita) vi unidea del rapporto, idea
condivisa da una comunit, ricostruita dal giurista ed infine giunta al legisla-
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tore che la traduce in un insieme organico di disposizioni. Quando linterprete si trover ad applicare quelle disposizioni, dunque, non potr operare in
modo discrezionale o farsi diretto interprete di interessi o valori del popolo,
ma sar tenuto a ritrovare nella volont del legislatore lidea-base di un istituto che lo ha guidato. Linterpretazione del giudice dovr, quindi, ripetere
allinverso loperazione compiuta dal legislatore: uninterpretazione non di
tipo creativo, dunque, bens riproduttivo del processo genetico della legge:
linterprete deve mettersi mentalmente dal punto di vista del legislatore, ripercorrere in se stesso artificialmente lattivit di questultimo. Perch loperazione ermeneutica intesa come ricostruzione del pensiero immanente alla legge riesca, secondo Savigny, linterprete dovr utilizzare un metodo nel
quale siano compresenti quattro elementi: grammaticale, logico, storico e sistematico. Quanto poco possa essere considerata discrezionale lattivit di un
simile interprete confermato da ci, che, in caso di formulazione lacunosa
della legge, lintegrazione potr avvenire solo in chiave logico-sistematica,
ovvero mediante ricorso allidea complessiva dellistituto cui la disposizione
appartiene; nellipotesi poi di formulazione difettosa di una disposizione, essa potr essere corretta sulla base dello scopo della legge ove il reale pensiero del legislatore sia chiaramente individuabile e comunque mai mediante ricorso a quello che oggi potrebbe chiamarsi un principio generale del
diritto perch ci avrebbe tutto il carattere di un perfezionamento del diritto, differente, come tale, dallinterpretazione. Uninterpretazione evolutiva,
per Savigny, costituirebbe, dunque, un evidente ed inaccettabile ossimoro.
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giudice-re o comunque del giudice-ingegnere che rivendica il diritto di organizzare la societ. Le correnti antiformalistiche sembrano dunque cos restare allinterno del perimetro del volontarismo giuridico.
Come deve leggersi, allora, la diffusione, sempre crescente nella cultura europea a cavallo del XX secolo, dellidea secondo cui la sentenza
non potr mai essere mera applicazione della legge? Quale significato
deve attribuirsi allaffermazione di Kantorowicz il pi noto esponente
del Movimento per il diritto libero secondo cui il diritto vigente irriducibilmente lacunoso e solo il giudice nella soluzione della controversia potr colmare tali deficit di regolazione? [KANTOROWICZ, La lotta
per la scienza del diritto, 1906]
Una risposta a tale domanda impone di spostare lattenzione dal dibattito tra le diverse correnti della scienza giuridica alla pi generale questione della crisi della legge (ed in specie dei codici borghesi) come effetto delle trasformazioni della societ liberale.
A partire dalla seconda met del XIX secolo, infatti, la scienza giuridica ha preso progressivamente coscienza del fatto che il modello borghese della legge come insieme di regole del gioco per una societ
monoclasse stava denunciando la sua inadeguatezza rispetto ad una
societ in cui si affacciavano sempre pi nuovi interessi, nuove classi,
nuovi poteri. Il codice civile, vera carta costituzionale di una societ borghese, poteva essere presentato come coerente e completo finch tale societ rimaneva fondata sulla fiducia nellinarrestabilit del progresso e
nella possibilit che il giusto equilibrio potesse discendere dallesercizio
dellautonomia privata e dallo spontaneo dispiegamento delle forze sociali.
Quando, per converso, per effetto dello sviluppo industriale della seconda met del XIX secolo, si delinearono nuove posizioni sociali meritevoli di tutela, anzitutto quelle della classe operaia, la centralit ed autosufficienza dei codici borghesi cominci ad incrinarsi. Alla legge veniva
chiesto non pi solo di fissare le regole del gioco per una societ ed un
mercato che si sarebbero sviluppati spontaneamente, bens di intervenire
in modo costruttivo sullordine sociale, tutelando posizioni economicamente svantaggiate, scegliendo valori, inventando un nuovo ordine del
mercato [IRTI, Let della decodificazione, 1979].
A soddisfare simili esigenze non poteva bastare pi il modello-codice,
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Ancora Romano: Listituzione da cui derivano le norme giuridiche conferisce a queste ultime una effettiva e obiettiva persistenza oltre il momento
in cui in esse si concreta la volont che le pone. proprio in questa persistenza che si rivela la funzione e, quindi, lessenza del diritto [ivi, p. 85]. Il
diritto ha dunque la funzione di stabilizzare, normalizzare, fissare alcuni
momenti e movimenti della vita sociale e, quindi, anche una funzione che potrebbe anche dirsi conservatrice senza che tale essenziale funzione di conservazione e ordinamento delle forze sociali assuma un qualsivoglia significato politico e dunque ostacoli in alcun modo la possibilit di rinnovarsi e
di far posto a modificazioni anche radicali e profonde della sua struttura e
del suo funzionamento [ivi, p. 86].
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zare la giustizia o proteggere la sicurezza e i diritti di tutti in modo eguale, bens conservare le forze sociali secondo unidea fondante che pu
anche risultare eticamente riprovevole.
Nelle societ di ladroni una certa giustizia, in senso relativo e limitatamente ai rapporti tra i soci, si cerca di attuare, ed essa, entro questa sfera e dal punto di vista delle esigenze interne di essi, pu anche essere piena,
mentre cessa di essere giustizia in confronto delle esigenze e quindi dei
principii propri di altre societ, cio propriamente dello Stato [S. ROMANO, Frammenti di un dizionario giuridico, p. 226].
Lo stesso discorso vale per il fenomeno rivoluzionario. Lorganizzazione rivoluzionaria, infatti, assume talora i connotati di un ordinamento
giuridico che vuole sovvertire lordinamento statale al fine di sostituirsi
ad esso. La sua illiceit una qualit relativa solo ai valori dello Stato. In
base a cosa, dunque, tra i due ordinamenti in conflitto deve attribuirsi la
qualit di ordinamento statuale alluno piuttosto che allaltro? La risposta
di Romano secca: in base alla fattuale necessit. Quellordinamento
che, al termine del conflitto, riesca a divenire effettivo, ad ottenere cio
stabilit, ad essere seguito e rispettato dalla gran parte dei consociati, deve essere considerato lordinamento giuridico statuale.
Lantigiuridicit della rivoluzione deriva, dunque, dal diritto contro il
quale la rivoluzione diretta e, quindi, sussiste finch questo diritto ancora vigente: se, viceversa, vien meno, viene anche meno ogni norma e ogni
criterio che qualificava illegittima la rivoluzione. Se, al contrario, la rivoluzione fallisce e il vecchio ordinamento viene restaurato, questo continuer a considerare illegittimi gli atti rivoluzionari [ivi, p. 223].
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to, registrando come al suo interno stessero sempre pi nascendo e rafforzandosi organizzazioni e associazioni che aggregavano una pluralit
di individui in funzione di uno o pi interessi. Tale proliferare di corporazioni e movimenti era anzitutto indice della crisi del modello di Stato
nato dalla rivoluzione francese, dunque dello Stato come esclusivo principio aggregatore delle identit e volont dei consociati. vero che la
moderna civilt del diritto si caratterizzava per la proclamazione dei diritti fondamentali e per lattribuzione di questi al singolo individuo. Ma
un tale individuo era stato pensato secondo la logica dellindividualismo
moderno, dunque da un lato esaltato come portatore di diritti, dallaltro
lasciato solo di fronte ai pubblici poteri e comunque privato del sostegno
di quei corpi intermedi o di quelle formazioni nelle quali si forma e si dispiega la sua personalit. N, insiste Romano, poteva costituire unadeguata espressione e tutela della natura sociale delluomo il solo istituto
della rappresentanza politica. Di qui il progressivo organizzarsi sulla
base di particolari interessi della societ che va sempre perdendo il suo
carattere atomistico [ROMANO, Lo stato moderno e la sua crisi, 1909,
p. 23]. Lidea moderna del primato dello Stato, dunque, sembra seriamente messa in discussione.
Va per osservato come, nel transitare dallanalisi diagnostica della
crisi dello Stato moderno (ed in specie della sua difficolt di contenere le
molteplici forze sociali che si muovono al suo interno e talora contro di
esso) allindicazione prognostica dei rimedi pi idonei per fronteggiare
tale crisi, il giurista siciliano appaia incerto. Da un lato egli sembra volgersi al passato, segnalando lesigenza che lo Stato svolga una funzione
di unit e contenimento delle tante forze organizzate che operano nellodierna societ pluralistica ed anzi auspicando un rafforzamento dello
Stato inteso come vera personificazione di quella collettivit ampia e
integrale, che una crisi momentanea pu mostrare in eclissi, ma che
destinata ad acquistare coerenza e consistenza sempre maggiore. Dallaltro egli ammette che nessuno pu oggi credere che la nostra vita costituzionale abbia trovato quelle forme nelle quali possa sperare di adagiarsi per un tempo indefinito [ivi, p. 25]. Lo Stato, dunque, da un lato
sembrava ancora rappresentare la pi alta sintesi delle volont e identit
particolari; dallaltro, costituiva pur sempre unaggregazione formatasi in
determinati contesti storici, dunque non una forma eterna e da preservare
indefinitamente nella sua pretesa superiorit.
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Ma se vero che lo Stato, bench orfano della moderna primazia, assolve ancora ad una funzione unificatrice del corpo sociale, quid iuris
quando una parte di quello Stato voglia proclamarsi indipendente e costituire un nuovo ordinamento costituzionale? Sembra che le sole categorie
giuridiche non consentano di fornire una risposta a tale domanda. Nel
saggio Linstaurazione di fatto di un ordinamento costituzionale Romano rileva come il problema della legittimazione non consista nel cercare le condizioni in presenza delle quali un ordinamento fattuale possa
dirsi giuridicamente legittimo, bens nellesaminare quando esso effettivamente esista: almeno nel senso che luna disamina si confonde con
laltra e non pu pervenire a risultati opposti. Legittimo dunque
lordinamento effettivamente esistente, cui cio non faccia difetto non
solo la vita attuale ma altres la vitalit [ROMANO, Linstaurazione di
fatto di un ordinamento costituzionale, 1901, p. 97]. La trasformazione
del fatto in diritto si fonda sulla sua necessit, sulla sua corrispondenza
ai bisogni e alle esigenze sociali. Il segno di tale corrispondenza si ha
quando il nuovo ordinamento capace di acquisire stabilit nel tempo.
Di qui la conclusione: Legittimo lo Stato che esiste, solo perch esiste,
dal momento che esiste. Lo Stato, dunque, nasce legittimo, non si legittima; ma per effetto di tale nascita, si legittima il processo da cui esso
deriva [ivi, p. 103].
Per la teoria istituzionale, dunque, una comunit ordinata e organizzata in s un ordinamento giuridico: la sua ambizione ad istituirsi come
ordinamento statale pu essere ritenuta illecita o illegittima solo sul presupposto, di chiara matrice normativistica, del primato della costituzione
posta al vertice dellordinamento da cui quella comunit vuole distaccarsi. Se, per converso, di prescinde da tale presupposto, lordinamento dovr ritenersi legittimo per il solo fatto della sua esistenza e della sua corrispondenza ai bisogni sociali.
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che sembrano derivare la propria legittimit dalla corrispondenza ai bisogni sociali della comunit di riferimento, a prescindere dalla conformit o
meno ai princpi fondanti la costituzione spagnola.
Nel giudicare su tale vicenda, per converso, il Tribunale costituzionale
spagnolo sembra aver adottato una logica opposta, riaffermando il primato della costituzione. Con la sentenza n. 31 del 28 giugno 2010, infatti, la
Corte di Madrid ha dichiarato lincostituzionalit di ben 14 articoli dello
Statuto catalano, fornendo altres, di molte altre disposizioni, uninterpretazione vincolante, atta a circoscrivere il significato costituzionalmente legittimo di enunciati e concetti utilizzati dal legislatore catalano. Lintervento dei giudici costituzionali ha di fatto spogliato lo Statuto regionale catalano della sua valenza di atto propedeutico allinstaurazione di un
nuovo ordinamento costituzionale.
La Corte ha, ad esempio, precisato che i riferimenti alla nazione catalana
possono avere solo una rilevanza culturale, dato che, sul piano strettamente
giuridico-costituzionale lunica nazione la Spagna. Di diritto della Catalogna allautogoverno, poi, pu parlarsi solo nei limiti in cui tale potest normativa viene conferita, dalla Costituzione spagnola, alla regione catalana
come ad altre comunit autonome spagnole. Stesso discorso stato fatto dalla Corte per espressioni come Stato, popolo, cittadini: lunico Stato nazionale la Spagna che, pur ammettendo al proprio interno Stati regionali, fondato sulla volont del popolo spagnolo, unico legittimo titolare della sovranit. Di cittadinanza catalana potr parlarsi, al limite, come specie del genere
cittadinanza spagnola.
La Corte stata particolarmente severa nel giudizio sulle norme dello
Statuto relative alla lingua, dichiarando incostituzionali sia la qualifica di
preferenziale attribuita al catalano come lingua dellamministrazione pubblica sia il preteso dovere di ogni cittadino di conoscere la lingua catalana.
Quanto, poi, alla proclamazione di diritti fondamentali, il Tribunale costituzionale spagnolo ha precisato che uno Statuto regionale non fonte idonea
ad istituirli e che dunque i relativi articoli possono ritenersi costituzionalmente legittimi solo ove siano intesi come riproduttivi di quanto gi previsto
da norme della Costituzione spagnola.
Inevitabilmente severo, infine, il giudizio della Corte sullattribuzione,
al Consiglio delle garanzie statutarie, del potere di esprimere un parere vincolante in relazione ai progetti e proposte di legge incidenti sui diritti del popolo catalano. Un simile controllo stato ritenuto in ogni caso costituzionalmente illegittimo, atteso che, ove venisse esercitato in funzione preventi-
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La controversa sentenza emessa dal Tribunale costituzionale di Madrid, dopo quasi quattro anni dal deposito del ricorso, rappresenta una
sorta di rivincita del modello kelseniano di ordinamento costituzionale
sul modello istituzionalistico.
Sta proprio in ci, invero, almeno sino a che si mantiene lindagine nei
confini dellordinamento nazionale, il senso pi profondo della costruzione a gradi dellordinamento suggerita da Kelsen: un ordinamento ha
una sua precisa identit se e fino a quando tutte le sue norme vengono ricondotte ad una stessa costituzione; ogni norma tale se la sua validit
resa possibile da una norma superiore. In tal senso lo statuto regionale
catalano, costituendo una fonte sottoordinata rispetto alla costituzione
spagnola, legittimo solo se rientra nella struttura piramidale dellordinamento giuridico il cui vertice rappresentato da tale costituzione.
La medesima valutazione pu fornirsi in ordine ai pi recenti sviluppi del
braccio di ferro tuttora in atto tra il governo spagnolo e la comunidad catalana. Il 9 dicembre del 2015, infatti, la maggioranza dellassemblea regionale
catalana ha approvato una Risoluzione che prelude alla costituzione di un
nuovo ordinamento statale. La premessa di tale Risoluzione che gli elettori,
nelle elezioni regionali del 27 settembre 2015, hanno attribuito la maggioranza ai partiti di ispirazione indipendentista. In tal modo essi avrebbero
conferito al Parlament catalano, depositario della sovranit ed espressione
del potere costituente, un mandato ad avviare un processo costituente verso
un nuovo ordinamento avente forma di stato repubblicana. Nellesercizio di
tale potere costituente, il Parlament catalano afferma che il processo di formazione di un nuovo ordinamento non si assoggetter alle decisioni delle
istituzioni dello Stato spagnolo, in particolare del Tribunale costituzionale,
che considera privo di legittimit e competenza a seguito della sentenza del
giugno del 2010 sullo Statuto dellautonomia della Catalogna, precedentemente approvato dal popolo mediante referendum. Di pi: il Parlament catalano esorta il futuro governo a dare esecuzione esclusivamente alle norme
da esso emanate al fine di proteggere i diritti fondamentali che possano venire lesi dalle decisioni delle istituzioni dello Stato spagnolo.
Il governo centrale ha immediatamente eccepito lincostituzionalit di ta-
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dunque senza esprimere giudizi di valore sulla meritevolezza della condotta da essa prescritta.
In tal senso lordinamento giuridico viene rappresentato da Kelsen come
un insieme di norme gerarchicamente strutturate, ciascuna delle quali deriva
la sua validit formale da una norma superiore che la rende possibile. Qui va
rinvenuta la differenza del funzionamento dellordinamento giuridico rispetto a quello morale. Anche lordinamento morale (di un individuo come di un
gruppo sociale), infatti, pu essere rappresentato come una gerarchia di regole, solo che in questo caso ogni regola (ad esempio: non rubare) tale in
quanto coerente sul piano dei contenuti alle norme superiori (ad esempio: la
propriet privata un valore) ed in ultima istanza ai principi morali che si
assumono come fondanti. Perch una regola appartenga allordinamento, invece, sufficiente che, a prescindere dai suoi contenuti, sia stata prodotta in
modo conforme ad una regola ad essa sovraordinata, come nel caso di una
legge prodotta nel formale rispetto dei modi di produzione normativa previsti dalla Costituzione.
Unaltra tesi, sostenuta da Kelsen e frequentemente equivocata, riguarda la nozione di Stato di diritto. Si tratta di una nozione priva di
senso giuridico, precisa il giurista praghese, perch, giuridicamente parlando, tutti gli Stati sono Stati di diritto. Se vero, infatti, che il diritto
tale perch posto dallo Stato secondo le norme di produzione previste in
quellordinamento, uno Stato autoritario dovr essere considerato Stato
di diritto alla stessa stregua di uno Stato democratico. In caso contrario
lespressione Stato di diritto assume un significato etico-politico e dunque esula dalla sfera di competenza del giurista. Tutto ci non significa,
evidentemente, negare ogni differenza di valore tra una dittatura ed un
regime democratico, ma solo escludere i giudizi di valore dalla sfera della giurisprudenza.
La domanda sulla giustizia, infatti, esula dallambito di competenza della
giurisprudenza e comunque non darebbe luogo a risposte univoche in considerazione dellirriducibile relativit dei valori etici di riferimento. Il diritto
non ha un rapporto necessario con la giustizia, riducendosi, appunto, a tecnica di controllo del comportamento sociale. Il modello suggerito da Kelsen
una dottrina pura del diritto, purificata da contaminazioni etiche e politiche
vuole anzi avere un significato antiideologico, dunque offrire un modello di
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conoscenza valido per qualunque ordinamento, a prescindere dai valori etico-politici che lo caratterizzano [ivi, cap. II].
Invero tale scetticismo etico costituisce il punto debole del normativismo kelseniano insieme alla radicale svalutazione della certezza del diritto nel processo di interpretazione della legge.
Si gi segnalata lincidenza della definizione kelseniana del diritto come insieme di norme sul piano della teoria dellinterpretazione. Tale incidenza trova una precisa giustificazione proprio nella costruzione a gradi
dellordinamento. Ad ogni livello della scala normativa, infatti (costituzione,
legislazione, giurisdizione e amministrazione, ecc.), vi , a giudizio di Kelsen, sia applicazione di norme superiori che produzione di norme inferiori e
ci con la sola eccezione del vertice dellordinamento (la costituzione, in cui
vi pura posizione di diritto) e della base (in cui vi solo un atto esecutivo
incidente sulla condotta dei consociati). Se ci vero, continua Kelsen, va
dunque superata lilluministica separazione tra produzione e applicazione del
diritto, che lasciava intendere che la prima spettasse al legislatore e la seconda a giudici, amministratori, consociati. la stessa analisi del linguaggio
giuridico a confermarlo: in conseguenza della vaghezza costitutiva del linguaggio, infatti, latto di posizione di una norma superiore lascia comunque
un margine di discrezionalit alla produzione della norma inferiore. Ne discende che la funzione giurisdizionale sempre anche produttiva di diritto e
che la sentenza va considerata una norma a tutti gli effetti. Ogni norma infatti uno schema di qualificazione allinterno del quale possono rientrare diverse applicazioni, tutte compatibili con il dettato normativo: non esiste,
dunque, conclude Kelsen, unesatta interpretazione della norma, n pu ritenersi preferibile luno o laltro metodo interpretativo [ivi, cap. VI].
Rispetto alle esigenze degli odierni ordinamenti di democrazia costituzionale, che vivono e si trasformano grazie a interpretazioni della legge
spesso compiute in relazione a valori, il radicale scetticismo etico di Kelsen e la sua svalutazione dellideale della certezza del diritto, risultano
decisamente inadeguate.
5. Dallordinamento al riconoscimento
A dispetto dei ricorrenti giudizi sulla pretesa amoralit della visione
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normativistica che riduce il diritto a tecnica di controllo del comportamento sociale, prescindendo del tutto dai suoi contenuti il vero punto
debole del normativismo kelseniano va visto altrove: in specie nella tesi
secondo cui il giurista deve considerare solo la formale validit delle
norme e non il loro rispetto effettivo da parte dei consociati o delle autorit chiamate ad applicarle. Tale rigida separazione tra validit ed efficacia si rivela tecnicamente impraticabile, come costretto a riconoscere
lo stesso Kelsen quando si interroga sul fondamento ultimo di legittimazione di un ordinamento.
Se, infatti, ogni norma legittimata da una norma superiore (cos: latto esecutivo trae validit dalla sentenza del giudice o dal provvedimento
amministrativo, questi dalle leggi, le leggi dalla Costituzione, ecc.), il
giurista, giunto al vertice della gerarchia normativa, non pu non chiedersi la Costituzione da cosa tragga la sua validit. La risposta di Kelsen
denuncia il limite del suo normativismo: dobbiamo presupporre una norma fondante, al di sopra della Costituzione, che imponga di obbedire ad
essa e dunque idealmente conferisca legittimit allatto con cui il potere
costituente ha istituito lordinamento costituzionale. Tale ipotetica norma, per, precisa lo stesso Kelsen, conferisce legittimit allordinamento
vigente sul presupposto che vi sia un minimo di corrispondenza tra le
condotte prescritte dalle sue norme ed il comportamento effettivo dei destinatari di queste. Se, per converso, vi una disobbedienza diffusa alle
norme vigenti di un ordinamento, questo, privo del tutto di efficacia,
dunque di capacit di condizionarne le condotte dei consociati, finir per
perdere anche la sua validit.
Ecco che, giunti al vertice dellordinamento, ci rendiamo conto che
lindicazione metodologica fornita da Kelsen (secondo cui il giurista deve considerare solo la formale validit delle norme e non lefficacia di
queste) non pu essere rispettata appieno e soprattutto non sufficiente
per qualificare giuridicamente le fasi di crisi della vita di un ordinamento.
Il vero significato della norma fondante, confessa lo stesso Kelsen, si
lascia cogliere nel prendere in esame il fenomeno della rivoluzione. Vi
sono casi, infatti, in cui, nel corso di una radicale e massiccia contestazione di un ordinamento vigente, a tale ordinamento si contrappone un
nuovo ordinamento che i rivoluzionari vogliono istituire, sostituendolo al
primo. Di fronte a tale irriducibile conflitto, quale dei due ordinamenti
potr dirsi valido? A tale domanda, non sufficiente dare una risposta in
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lo unautorit che rappresenti la totalit del popolo in modo non solo legalistico e detenga il controllo dellesercito e della polizia pu difendere
la costituzione.
Che fosse questo lunico modo efficace di difendere lordinamento
costituzionale, Schmitt lo affermava sulla base della lettura dellart. 48
della Costituzione della Repubblica di Weimar. Si legge infatti in tale articolo: Il Presidente pu prendere le misure necessarie al ristabilimento
dellordine e della sicurezza pubblica, quando essi siano turbati o minacciati in modo rilevante, e, se necessario, intervenire con la forza armata. A tale scopo pu sospendere in tutto o in parte la efficacia dei diritti fondamentali stabiliti dagli articoli 114, 115, 117, 118, 123, 124 e
153.
Questa disposizione sembra affidare la difesa dellordinamento costituzionale ad un sovrano posto al di sopra di esso: non a caso il Presidente, quando ritenga sussistere una minaccia per lordine e la sicurezza
pubblica, ha il potere di sospendere lefficacia dei diritti fondamentali in
materia di libert personale, inviolabilit dellabitazione, segretezza delle
comunicazioni, libert di manifestazione del pensiero, libert di riunione
e associazione e tutela della propriet privata. La pretesa normativistica
di imbrigliare il potere del sovrano mediante un insieme di norme sembrerebbe essere destinata al fallimento: ci in quanto il sovrano, quando
lo ritenga, sembrerebbe porsi al di sopra del parlamento e addirittura al di
fuori dellordinamento costituzionale, costituendone il supremo garante.
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chstag lo richieda. Il potere sovrano nello stato di eccezione, dunque, disciplinato da norme e, sulla base di queste, sempre soggetto al controllo del
parlamento.
Fu proprio sulla base dellart. 48 Cost. II co., infatti, che il 28 febbraio
1933, giorno successivo allincendio del Reichstag (le cui responsabilit non
vennero mai accertate), il Presidente von Hindenburg, convinto dal Cancelliere Hitler che la sicurezza dello Stato fosse a rischio e che quindi vi fossero
i presupposti per proclamare lo stato di eccezione, eman il Decreto per
la protezione del popolo e dello stato (noto come Decreto dellincendio del
Reichstag) che dispose la sospensione delle principali garanzie costituzionali. Vennero posti limiti ai diritti di libert personale, di stampa, di riunione
e associazione, di segretezza della corrispondenza e delle comunicazioni
nonch al diritto di propriet e venne previsto il potere di disporre perquisizioni anche in assenza di formale autorizzazione. Significativa, in coerenza
con quanto detto nel capitolo precedente in ordine allantiformalismo, la
vaghezza della fattispecie di reato prevista al 4.3: Chiunque provochi o inciti atti volti a cagionare un pubblico danno punto con la reclusione o, in
presenza di circostanze attenuanti, con larresto per un periodo non inferiore ai tre mesi.
In virt dei poteri speciali previsti da tale decreto, entrato in vigore il
giorno successivo alla sua promulgazione, la polizia procedette allarresto di
numerosi leader dellopposizione, anche in spregio delle immunit parlamentari. Ci incise in modo decisivo sullesito delle elezioni politiche che
ebbero luogo il 5 marzo e nelle quali Hitler conquist la maggioranza relativa del Parlamento.
Il 23 marzo venne quindi emanato il Decreto dei pieni poteri con cui fu
conferito a Hitler il potere di emanare leggi senza lapprovazione del Reichstag. Non disponendo della maggioranza qualificata pari a 2/3, infatti, Hitler
era riuscito a far dichiarare decaduti, nella prima adunanza dellassemblea,
ben 81 dei deputati regolarmente eletti. Ad altri deputati dellopposizione fu
impedito di partecipare al voto.
La sospensione delle garanzie costituzionali, decretata poche settimane
prima, aveva costituito la necessaria premessa per la definitiva instaurazione
della dittatura. Ma tale sospensione era stata ratificata dal Reichstag solo
grazie ad una massiccia azione di repressione delle forze ostili al partito nazionalsocialista.
Che lo stato di eccezione non costituisca necessariamente un fenomeno ingovernabile dal diritto sembra dimostrato dallanalisi di due recenti
vicende.
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La prima riguarda le misure eccezionali adottate in Francia per fronteggiare lemergenza terroristica determinatasi a sguito degli attentati
compiuti da terroristi islamici il 13 novembre 2015, misure a proposito
delle quali diversi osservatori hanno parlato di uno scivolamento della
democrazia costituzionale verso la dittatura. Il giorno successivo agli attentati, infatti, il governo, con il decreto n. 2015-1501 (poi n. 2015-1478),
ha proclamato lo stato di emergenza previsto dalla legge del 3 aprile
1955 n. 385. Tale legge prevede che lo stato di emergenza possa essere
dichiarato, in caso di gravi violazioni dellordine pubblico o di calamit
pubbliche, dal Consiglio dei ministri per una durata di dodici giorni, prorogabile per ulteriori trenta giorni dietro autorizzazione del Parlamento.
I poteri eccezionali previsti dallo stato di emergenza, peraltro, non possono essere esercitati in modo incontrollato. Significativa, in tal senso, la
pronuncia con cui il Consiglio di Stato francese, il 25 gennaio 1985, ha effettuato un controllo sulla legittimit dei provvedimenti assunti dalle autorit di
polizia sotto il profilo dellerrore manifesto di valutazione. La provvisoria
limitazione di alcune prerogative costituzionali e lattribuzione allautorit di
polizia di poteri eccezionali, dunque, non implicano la sospensione dellintero ordinamento costituzionale o addirittura il disconoscimento del suo
principio ordinatore secondo cui il potere e la forza devono sempre essere
governati dalla legge.
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Diversamente dal modello teorizzato da Carl Schmitt, la proclamazione e il governo dello stato di eccezione nellordinamento francese contemporaneo non sono affidati a decisioni sovrane discrezionali e incontrollabili. E ci per una serie di ragioni; durante lo stato di eccezione,
anzitutto, il Capo dello Stato, sebbene riunisca in s poteri legislativi, regolamentari e amministrativi e possa limitare alcune garanzie costituzionali, non pu modificare la Costituzione; inoltre lassemblea nazionale
non pu essere sciolta; e soprattutto il Consiglio costituzionale deve fornire un parere, bench non vincolante, in ordine alla sussistenza di quei
due presupposti (grave e immediata minaccia per le istituzioni della Repubblica e interruzione del regolare funzionamento dei poteri costituzionali) richiesti perch la proclamazione dello stato di eccezione possa dirsi
legittima.
Va peraltro osservato che, al fine di fronteggiare la recente emergenza
terroristica, il governo francese, con il decreto n. 2015-1501, ha proclamato non lo stato di eccezione (prerogativa del Capo dello Stato ai sensi
dellart. 16 della Costituzione del 1958), bens lo stato di emergenza previsto dalla legge del 1955. Il che, per, fa sorgere un problema: come
pu una legge ordinaria, approvata su impulso dellesecutivo, disporre la
sospensione, bench temporanea, di alcune garanzie costituzionali e limitare lesercizio di alcuni diritti fondamentali? Se vero che, in casi eccezionali, il potere riafferma la sua superiorit, non viene smentita la lettura
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