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Franco Cambi

MANUALE
DI
STORIA
DELLA PEDAGOGIA

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INTRODUZIONE

Dalla storia della pedagogia alla storia dell’educazione.


Per comprendere come, negli ultimi anni, si sia passati da una storia della pedagogia ad una
storia dell’educazione, è opportuno ripercorrere le tappe dello sviluppo della storia della scienza
pedagogica. Questa nasce alla fine del ‘700 e si sviluppa nel corso del sec. XIX, essenzialmente
come indagine mirante ad organizzare un’istituzione in grado di formare i cittadini, attraverso la
valorizzazione dei principi e degli ideali, visti soprattutto da un’ottica filosofica, tramandatisi nel
corso dei secoli.
Possiamo, quindi, dire che si trattava di una storia della pedagogia lontana dalla realtà, e lontana dai
reali meccanismi sociali ed educativi delle diverse società, una storia che poneva l’accento sulle
ideologie, sulle teorie, e non sulla pratica, e pertanto fortemente idealistica e condizionata
dall’influenza della filosofia. Le concrete problematiche dell’educazione emergevano soltanto in
alcuni studi più settoriali e specifici ma, per il resto, in Europa e negli USA, prevaleva
un’impostazione prettamente teorica.
Nel nostro Paese questa impostazione fu particolarmente evidente nell’idealismo gentiliano che
sviluppava la storia della pedagogia in totale simbiosi con la filosofia. Questo tipo di sistema
influenzò la disciplina per molto tempo.
Un cambiamento, e dunque un passaggio da un modo chiuso di fare storia della pedagogia, ad un
modo aperto, cominciò ad aversi nel secondo dopoguerra quando andarono diffondendosi nuovi
orientamenti e la pedagogia perse la sua connotazione esclusivamente filosofica per essere intesa
come un sapere interdisciplinare, cioè in grado di intrecciare la sua storia con quella di altri saperi;
anche il suo scopo fu ripensato: la pedagogia divenne lo strumento per la formazione dell’individuo
socializzato, una formazione che richiedeva l’impiego di molteplici tecniche e canali formativi. Tale
trasformazione nel modo di fare storia della filosofia, derivava da una nuova concezione della storia
in generale, intesa come ricostruzione non solo delle idee e dei fatti ma anche dei settori specifici
che si intersecano con la cultura e con la società.
Per tutte queste ragioni, a partire dagli anni ’50 e ’60, si sviluppò la storia dell’educazione, sulla
base di un’indagine che andò facendosi sempre più pluralistica e complessa, e che giunse a
concepire la pedagogia come insieme di saperi e, al contempo, come insieme di pratiche sociali.
Questa svolta si è fatta ancora più decisa e incisiva nel corso degli anni ’70, in cui si è avuta una
vera e propria rivoluzione storiografica che ha completamente trasformato il dominio storico
dell’educazione.

Tre rivoluzioni in storiografia.


La trasformazione metodologica di cui abbiamo parlato, si è sviluppata nel corso di quelle
che possiamo definire le tre rivoluzioni storiografiche del dopoguerra.
Ad essa hanno contribuito almeno 4 orientamenti:
1. marxismo: ha posto in luce l’importanza della struttura economica e sociale ai fini di
cogliere gli intrecci tra economia e politica, politica e cultura, cultura e società. La storia,
secondo l’impostazione marxista, è lotta di classe, articolata intorno ai sistemi di produzione
che influenzano ogni ambito della vita sociale.
2. scuola delle Annales: si tratta di una scuola nata intorno ad una rivista francese, ispirata al
marxismo, ma che ha avuto il merito di introdurre, oltre alle strutture economiche, anche
tutte le altre strutture (mentalità, credenze…) in modo da concepire la storia come un
complesso pluralista, che va indagato a partire da molteplici prospettive e collegandola alle
diverse scienze sociali.
3. psicoanalisi: il suo contributo è stato particolarmente forte nell’area americana, attraverso la
psicostoria, ovvero lo studio delle mentalità collettive ed individuali, analizzate a partire dal
pensiero freudiano. In particolare, la psicostoria si è concentrata sull’analisi della famiglia,
sul suo ruolo di collante nelle diverse società.

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4. strutturalismo e indagini quantitative: hanno posto l’attenzione su tutto ciò che è
impersonale nella storia, cioè sulle strutture che regolano i comportamenti in profondità e le
hanno studiate mediante ricostruzioni statistiche, come variabili quantitative. In tal modo, è
stato possibile rilevare, nel percorso storico, delle permanenze oggettive, dei dati di fatto
collegati sempre alla natura.
Dal contributo di queste posizioni, ma anche di altre, sono derivate le tre grandi rivoluzioni della
storiografia contemporanea, quali:
1. La rivoluzione dei metodi: la storia “si fa” mediante metodologie molteplici, differenziate,
diverse per procedure cognitive e per strumenti logici impiegati, in modo da far emergere il
pluralismo della ricerca storica. Essa si compone di ambiti diversi e tutti necessitano di metodi
specifici, ad hoc. Non parliamo più, quindi, di certezza del metodo, quanto piuttosto di più
metodi.
2. La rivoluzione del tempo: Braudel ha messo in evidenza come il tempo storico sia radicalmente
diverso dal tempo artificiale (delle ore, dei minuti…) o da quello vissuto (percepito nelle prassi
quotidiane). Il tempo della storia non è mai univoco, né unitario, ma plurale e problematico, non
è oggettivo ma è legato al punto di vista e all’intenzionalità. Per Braudel, i tempi dello storico
sono tre, tutti necessari per la comprensione della storia: quello degli avvenimenti, il tempo
della storia-narrazione, frantumato e variegato, che è vicino al tempo vissuto e cronologico;
quello delle brevi durate, connesso alle strutture politiche, sociali e culturali, al di sotto degli
avvenimenti, cioè il tempo della storia-scienza; quello, infine, delle lunghissime durate che
coglie le strutture profonde e quasi invariabili, il tempo della storia-interpretazione.
3. La rivoluzione dei documenti: i documenti non sono più intesi come monumenti, quanto come
dati frutto di interpretazione, che comprendono tutto quanto la memoria collettiva ha
conservato, immagazzinato, tramandato. I documenti comprendono ormai tutto quanto è
soggetto ad interpretazione storica e vengono utilizzati in modo dialettico, servendosi non solo
di quelli ufficiali ma anche di quelli marginali, come quelli relativi all’immaginario, per
esempio.

Le molte storie educative.


Oggi, la storia dell’educazione si connota di molte storie diverse, dialetticamente
interconnesse, di cui ambiti privilegiati sono:
 Le teorie: in questo contesto, la ricerca si lascia guidare principalmente dalle filosofie e
dalle concezioni del mondo. Dall’intersecarsi di questi saperi si ricostruisce il percorso
dell’educazione come costruzione razionale ed organica.
 Le istituzioni: in tale ambito, si studiano tutte le istituzioni educative, prima fra tutte la
scuola, ma anche la famiglia, le associazioni, la fabbrica ecc… indagando, in maniera
sociologica, il loro ruolo formativo nelle diverse società. Ciascuna di queste istituzioni viene
poi indagata in maniera specifica, fino a costruire una sorta di mappa dei campi di ricerca,
estremamente complessa e articolata.
 Le politiche educative: si tratta, qui, di studiare le varie proposte educative succedutesi nel
tempo, con i rispettivi agenti che le hanno poste in essere, come gli Stati, la Chiesa, i gruppi
sociali e professionali.
 La storia sociale: questo è il settore di più recente sviluppo, ma anche il più ricco e
laborioso da indagare; esso, infatti, comprende tutti percorsi di formazione delle mentalità
educative, dei valori pedagogici, delle pratiche formative, e, pertanto, va studiato servendosi
di metodi diversi, da quello statistico a quello narrativo, senza contare che le fonti impiegate
sono anch’esse ampie e variegate e arrivano fino alla documentazione più frammentaria e
pressoché invisibile. Si tratta di un settore ancora aperto e problematico.
 L’immaginario: in questo ambito, i pionieri sono stati i medievalisti ed esso è ampiamente
indagato dagli storici in generale, ma resta ancora poco usato nella ricerca pedagogica e

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formativa. Tuttavia, l’immaginario ha avuto e ha un ruolo essenziale nello sviluppo
dell’educazione e anche negli effetti che essa ha sulla società.

Discontinuità nella ricerca e conflitto di programmi.


L’attuale ricerca sull’educazione, proprio per la sua pluralità, manifesta un carattere di
discontinuità, sia negli approcci che nei metodi e negli ambiti. La sua complessità è peraltro
notevolmente accresciuta dal fatto che approcci, metodi e ambiti, oltre che discontinui, sono anche,
in alcuni casi, conflittuali tra loro. Ma tutto ciò, lungi dal rendere la ricerca vaga o priva di
razionalità, è invece garanzia di una metodologia critica, l’unica in grado di portare ad una
conoscenza realmente “vera”. Infatti, conflittualità e pluralismo consentono di fare una ricerca
capace di leggere in profondità tutti i processi della storia e di afferrarne la complessità. Senza
contare che in tal modo si ha la possibilità di indagare in modo audace, aperto a tutte le possibilità,
senza preconcetti o vizi originari.
Va tuttavia detto che la ricerca storiografica attuale non si è ancora del tutto affrancata dai propri
condizionamenti ideologici e filosofici e resta ancora ancorata a modelli tradizionali che si
allontanano dal pluralismo tanto proficuo.

Attivare la memoria per comprendere il presente.


Indipendentemente dall’orientamento seguito, la storiografia è sempre un’attività utile ed un
momento centrale della cultura, poiché la storia rappresenta la memoria del passato ai fini di
comprendere il presente e orientare il futuro, e quindi è un’immersione del tempo e nei suoi
molteplici itinerari, per procedere con la ricostruzione del passato.
La memoria è un’attività essenziale del fare storia con tutti i suoi condizionamenti e le sue amnesie,
perché anche le sue manchevolezze soggette inevitabilmente ad interpretazione, contribuiscono a
ricostruire il passato in ogni sua forma.

La storia che ci sta alle spalle: l’Antichità e il Medioevo, la Modernità e la Contemporaneità.


Il processo storico è un processo continuo, dall’antichità più remota fino ai nostri giorni,
passando attraverso tutte le età del passato, tuttavia si tratta di un processo non lineare, ma fatto di
rotture, inversioni, possibilità non realizzate, molteplicità di risposte.
In effetti, la maggioranza delle strutture più profonde e dei valori da noi condivisi (famiglia,
organizzazione statale, riti di passaggio…) ci sono stati tramandati dall’Antichità, benché abbiano
subito delle evoluzioni nel corso del tempo.
Questo discorso vale a maggior ragione per l’educazione, nata anticamente con la paideia greca,
modificatasi nel corso della rivoluzione cristiana, del Medioevo, del Moderno, fino ad oggi.
Ognuno di questi periodi ha dato il suo autonomo e peculiare contributo alla storia dell’educazione.
E questo testo intende appunto ripercorrerne tutte le tappe.

PARTE PRIMA

IL MONDO ANTICO

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Caratteri dell’educazione antica.

Il mondo antico nella ricerca storica contemporanea.


La ricerca contemporanea ha trasformato l’immagine idealizzante e mitizzata dell’antichità
greca e romana come età della serenità, dell’equilibrio, dell’armonia, sia nell’arte che nel pensiero.
Questo mito, oggi messo in discussione, era stato al centro della concezione dell’antico, fino all’età

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neoclassica. La contemporaneità ha invece recuperato la dimensione passionale, concreta. Violenta,
tragica, del mondo antico, ponendo al centro dell’indagine conoscitiva non solo la theoria cioè il
sapere puro, ma anche il sapere tecnico-pratico. Il mondo classico, soprattutto greco, è stato studiato
anche per gli apporti che le altre culture vi hanno dato, ridimensionandone il peso o la presunta
superiorità rispetto alle altre civiltà coeve. Il nuovo approccio storiografico ha inoltre rivalutato
l’importanza di aspetti troppo a lungo sottovalutati, (in nome della razionalità platonico-aristotelica
o dell’ordine e dei valori espressi dai poemi omerici) come il linguaggio, il mito, la sessualità, la
tragedia, la figura dello straniero, e, soprattutto, la vita quotidiana che rappresenta il complesso
delle pratiche che incidono direttamente sulla cultura e sulla società. Il merito di questa svolta va
dato a molti studiosi che hanno posto l’antichità classica sotto una luce completamente nuova,
anche dal punto di vista della scienza pedagogica.
Certamente, in questo modo, l’unità del mondo greco è stata infranta, ma questo stesso mondo si è
reso più ricco, più complesso e decisamente molto più interessante da conoscere.

Il Mediterraneo-crocevia.
Come abbiamo già detto, la visione del mondo antico si è ampliata: esso non è più limitato
alla Grecia e a Roma, ma si estende a tutto il Mediterraneo che è stato un vero e proprio crocevia di
scambi culturali, economici, fra molteplici civiltà, di cui quella greca è stata l’interprete più matura.
Quest’ultima ha infatti saputo interpretare e rimodellare l’eredità proveniente dal mondo egiziano,
dalle grandi e fertili pianure del Nilo, del Tigri e dell’Eufrate e, per certi versi, anche dal mondo
orientale. Basti pensare a tutto il complesso di ideologie e miti religiosi, che sono stati la fusione di
modelli provenienti da diverse culture ed etnie. Da tale crogiuolo mitopoietico, la Grecia ha poi
prodotto l’emancipazione del pensiero dal mito, la razionalizzazione che segnerà la frattura tra il
mondo greco e quello orientale.
Possiamo quindi affermare che proprio nel Mediterraneo si è operata la svolta dinamica e pluralista
che ha modellato i caratteri e le peculiarità dell’Occidente rispetto alla cultura orientale.

Dalla “paideia” al costume educativo.


Anche dal punto di vista educativo, il Mediterraneo e la Grecia hanno avuto un ruolo
decisivo. Sia in Egitto che in Grecia, l’istituzione scuola si pone al centro della vita sociale: si tratta
di scuole statali frequentate dai figli delle classi dirigenti e medie; lo scopo è dare a questi giovani
un’educazione di base fondata principalmente sulla formazione retorico-letteraria. In una prima
fase, questo tipo di scuole era costituito dai tiasi, che poi divengono collegi fino a trasformarsi, in
piena età ellenistica, in scuole vere e proprie. I giovani vengono seguiti dal pedagogo, che li sprona
e li controlla, ma questa figura va modificandosi e viene enfatizzata tanto che i pedagoghi vengono
considerati dei veri e propri “maestri di verità”, educatori spirituali, estremamente presenti nella vita
dei discepoli (pensiamo a Socrate) e quindi figure chiave della formazione del cittadino greco.
Il mondo greco, ma anche quello romano, fino ad Origene, pone grande attenzione alla formazione
umana, alla paideia, intesa come contatto organico con la cultura, attraverso un corso di studi che
pone al centro gli studia humanitatis, e pone altrettanta attenzione alla teorizzazione della paideia
stessa, di cui troviamo tracce copiose nelle opere antiche (Platone, Aristotele, Quintiliano…).
Solo recentemente, tuttavia, la storia ha finalmente posto l’accento sulle pratiche educative, oltre
che sulle teorie, ricostruendo le istituzioni agenti dell’educazione, e le diverse figure sociali, nonché
gli strumenti della formazione scolastica, peraltro organizzati secondo precise fasi temporali, oltre
che culturali e geografiche. Ne è emersa l’immagine di un vero e proprio costume educativo
pluralista, in piena corrispondenza con la società complessa e articolata della koinè greca e del
mondo antico in generale.

Modelli di formazione in una società statica.


Nel mondo greco, l’educazione è differenziata per classi e funzioni sociali. Essa riflette
innanzitutto la contrapposizione fra gli aristoi (gli eccellenti) e il demos (il popolo) e quindi tra ceti

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dominanti e ceti sottoposti. Ai primi spetta l’educazione retorica, finalizzata a formare coloro che
intendono partecipare attivamente alla direzione della cosa pubblica e alla vita della polis. Si tratta
perciò di un’educazione che emargina la tecnica, il lavoro manuale, valorizzando al massimo
l’esercizio della parola. Anche con Platone, si ha una netta distinzione fra la formazione dei filosofi-
re, alimentata dalla dialettica, libera, autonoma, e la formazione banausica (tesa a finalità pratiche)
cui sono destinati coloro che compiono i lavori legati all’esperienza, come gli artigiani, una
formazione quindi non autonoma e non disinteressata.
Questo dualismo tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, e quindi questo doppio canale della
formazione, resta vivo e operante fino alla rivoluzione culturale del Cristianesimo. Lo ritroviamo,
per esempio, nell’Odissea, nell’episodio di Ulisse che resiste al canto delle sirene: qui, si indica,
infatti, una vera e propria prassi educativa. I marinai rappresentano il demos che viene privato di
alcune capacità propriamente umane (come l’udito) per essere preservato dal fascino delle idee (il
canto delle sirene), mentre il capitano Ulisse (aristos) è la loro guida e immerge se stesso nel rischio
e nell’ignoto, auto-limitandosi, mantenendo però la prerogativa di guidare gli altri con la sua libera
scelta. Non solo: la separazione e il dualismo fra logos e techne, fra scienza retorica e scienza
pratica, è alla base del metodo pre-socratico e dei sofisti, nell’età ellenistica e anche a Roma. Si
tratta di modelli pedagogici che riflettono una società statica e che ritroviamo anche nelle civiltà dei
popoli nomadi o ex-nomadi, come gli Ebrei.

Le origini e la differenza.
Abbiamo più volte ripetuto come la Grecia, grazie agli apporti delle altre civiltà sue
contemporanee, sia stata la terra in cui è nata e si è formata la cultura occidentale con tutti i valori
etici, morali e cognitivi e con tutte le lunghe prassi sociali, che si sono tramandate fino ai nostri
giorni (basti pensare alla ragione, all’etnocentrismo, al linguaggio, all’emarginazione femminile, al
governo come esercizio dell’autorità…). Dunque, conoscere il mondo classico significa risalire alle
origini del nostro mondo, tenendo conto non solo delle possibilità e delle alternative vincenti, ma
anche dei modelli culturali che non hanno avuto modo di esprimersi e diffondersi; se prendiamo ad
esempio la ragione, possiamo vedere come oltre al modello metafisico, il mondo antico avesse
sviluppato altre alternative come il modello scettico, quello tecnico; oppure pensiamo al modello
dell’uomo razionale socratico e platonico, soggettività metafisica e insieme concreta, composta da
corpo e anima, cui si contrappone l’idea dell’uomo tragico, che accetta gli istinti della sua
condizione vitale e che valorizza la lotta e la passionalità.
Come il mondo antico elabora diversi modelli di società, così esso produce differenti modelli
pedagogici, che vanno dalla valorizzazione del corpo (modello ginnico-agonale, cioè degli agoni, le
gare di atleti) alla razionalità deduttiva e non deduttiva, alla soggettività dei saperi, alla dialettica.

L’educazione in Grecia.

L’età arcaica e il modello omerico: le armi e il discorso.


Il popolo greco non è unitario ma è una mescolanza di etnie e culture stanziatesi nell’Ellade
a ondate successive. Qui, nel III millennio a.C., si forma la civiltà cretese, o minoica, molto evoluta
dal punto di vista tecnico, governata da re-sacerdoti, e legata ai culti religiosi mediterranei; intorno
al 1600 a.C. questa splendida civiltà viene sottomessa dai Micenei e, ad ondate successive, si
succedono gli Achei, i Frigi, i Dori. Lentamente la struttura geografica della Grecia si modifica:
vanno creandosi regni isolati e indipendenti che, in determinate situazioni, si alleano, poi si
contrappongono, si combattono, ma, nel complesso, costituiscono un’unità culturale e commerciale,
legata dalla stessa lingua, dallo stesso alfabeto, dalla stessa attività mitopoietica.

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Testimoni di questa unità sono i poemi omerici, frutto di secoli di tradizione poetica orale, in cui si
esprimono i valori e gli stili di vita della Grecia arcaica. L’Iliade racconta l’affermarsi di una
comune storia mitica ed etnica, mentre l’Odissea esalta le capacità dell’individuo, la sua
intelligenza e la sua capacità di accettazione del destino. Omero ci racconta il passaggio da una
società sfrenata e cruenta, legata ai culti orgiastici, verso una nuova società rigidamente
gerarchizzata, razionale, organizzata intorno ai valori della persuasione, dell’eccellenza fisica, delle
armi e della parola. In particolare, l’educazione tratteggiata nell’Iliade riprende la formazione di
Achille e si delinea come un’educazione pratica basata sulla parola e sul corpo, e organizzata
attraverso un rapporto personale di maestro e scolaro; essa si collega probabilmente alla pratica
della pederastia che prevede un rapporto personale tra maestro e scolaro, un rapporto di tipo anche
carnale (come accade tra Chitone, il centauro, e il suo discepolo Achille, appunto); nell’Odissea,
questo stesso modello lo si ritrova in relazione al giovane Telemaco. Tale formazione eroica è
rivolta agli adolescenti aristocratici che vengono educati nel palazzo del re ai combattimenti, alle
gare di atletica, e all’agonismo in generale, in un contesto ginnico, ma anche retorico, musicale, in
quella che si definisce una pedagogia dell’esempio, di cui Achille incarna il modello più completo e
ideale.

Atene e Sparta: due modelli educativi.


Le due opzioni radicalmente alternative dello spirito greco sono incarnate da due città
protagoniste del mondo antico: Atene e Sparta. La prima rappresenta il modello dello stato
totalitario, e la seconda il modello dello stato democratico.
A Sparta, l’educazione è calata in un contesto militare e mira alla formazione di cittadini- guerrieri,
secondo una prospettiva sociale chiusa, compatta; ad Atene, invece, l’educazione è di tipo
soggettivo, tesa a valorizzare l’individuo e le sue capacità di costruire il proprio mondo interiore ma
anche di plasmare la società. Possiamo quindi dire che l’ideale educativo spartano si basa sul
conformismo e lo statalismo, mentre quello ateniese si fonda sulla paideia, sulla formazione umana
libera.
In particolare, Sparta è una città agricola, lontana dal mare, divisa rigidamente in classi, governata
da un’assemblea cittadina; questa elegge un consiglio di 28 membri a capo dei quali ci sono due re
per diritto ereditario. I bambini maschi, a partire dai 7 anni, vengono sottratti alle famiglie e inseriti
in scuole-ginnasi, dove restano fino ai 16 anni e ricevono una formazione di tipo militare,
imparando ad usare le armi, vivendo in comune e sviluppando legami di amicizia e imparando
l’obbedienza. La cultura è considerata meno importante, ed è limitata allo stretto necessario. Le
stesse donne vengono educate ad irrobustire il proprio corpo con l’educazione fisica, per sopportare
bene la gravidanza e per sviluppare i nobili sentimenti della virtù e della gloria, come ci tramanda
Plutarco.
Quando Sparta entra in conflitto con Atene, ne deriva la lunga guerra del Peloponneso dalla quale
Sparta esce stremata e si avvia al declino. Rimane tuttavia tenacemente legata alle proprie tradizioni
e ai propri ideali benché, nel momento in cui viene ridotta ad una semplice città inglobata
nell’impero romano, ormai la formazione del guerriero diventa solo un’attrattiva per i turisti.
Atene, invece, sotto la guida di Solone, diventa la città più fiorente e avanzata del mondo greco,
anche perchè il famoso legislatore, in una fase di profonde lotte sociali ed economiche, dà agli
ateniesi una costituzione di tipo democratico. In questo modo, anche dopo la tirannia di Pisistrato,
di Ippia, poi la nuova democrazia di Clistene, fino alla guerra vittoriosa contro i persiani, Atene
continua a far crescere i commerci, la cultura, il suo prestigio. Nel V secolo, Atene diventa quindi
una città leader, dotata di una complessa burocrazia, in cui prende piede un ideale di formazione
colto, civile, legato alla bellezza e all’eloquenza, universale, profondamente legato all’humanitas e
orientato a superare i confini della polis. In una prima fase, i ragazzi vengono istruiti nella scuola e
nella palestra attraverso la lettura, la scrittura, la musica, la ginnastica; sono seguiti da tre istruttori:
il grammatistes (maestro), il kitharistes (insegnante di musica) e il paidotribes (insegnante di
grammatica). Accanto ai giovani c’è sempre un pedagogo, uno schiavo che li guida e li controlla. A

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18 anni, si iscrivono al proprio demo, cioè alla propria circoscrizione, e diventano cittadini veri e
propri, prestando poi servizio militare per due anni. Questo tipo di formazione si fonda dunque su
un ideale di armonico sviluppo della personalità individuale mediante la cultura e lo sport, per
preparare il cittadino ateniese ed educarlo ai valori base della società greca.

La nascita della “paideia”.


Nei secoli V-IV, quando ormai Atene ha un ruolo di assoluta egemonia, si affermano nuovi
ceti sociali che, arricchitisi col commercio, reclamano una maggiore partecipazione alla vita politica
e premono per un ricambio della classe dirigente. Di pari passo, si diffonde l’esigenza di una cultura
ancora più aperta, che esalti il libero esercizio della ragione e dell’iniziativa del singolo, e che
quindi diventa più critica nei confronti della tradizione. Interpreti di questa trasformazione culturale
sono i sofisti, maestri di retorica e di sophia, cioè di sapienza tecnica legata all’arte del discorso. La
novità di questi maestri sta nel fatto che si fanno pagare per i loro insegnamenti e mostrano
un’attenzione totale all’uomo, ai suoi problemi, mettendo in discussione i saperi e le credenze
tradizionali. Essi non mirano ad insegnare una verità ma mostrano il relativismo di ogni sapere.
Emblematici, in tal senso, sono Protagora e Gorgia, che sottolineano l’assunto per cui l’uomo è
misura di tutte le cose. Inoltre, i sofisti insegnano ad utilizzare l’abilità retorica e linguistica per
persuadere, legando l’educazione alla formazione dell’uomo come oratore, sottraendola alla
dimensione familiare e sacra per calarla in un contesto pubblico. L’individuo viene ancorato
all’ideale del kalòs kai agathòs, cioè del bello e del buono, per elevarlo ad una condizione di
eccellenza che non si possiede per natura ma si sviluppa con lo studio e con l’impegno.
Questa nuova impostazione mette in crisi l’ethos tradizionale della polis greca, a cui si contrappone
il singolo, preda di un profondo disorientamento e alla ricerca di una nuova identità. Siamo di fronte
al trionfo dell’individualismo, portato ancora oltre da Socrate che teorizza l’idea di un soggetto che
costruisce la propria identità dal profondo, mediante l’attivazione di daimon interiore che lo guida e
che, attraverso la dialettica e la discussione razionale, gli consente di raggiungere la conoscenza di
se stesso. Si delinea l’ideale di una paideia universale, intesa come formazione di una umanità
superiore nutrita di cultura e di civiltà. Essa parte dalla concezione dell’uomo come idea, cioè come
immagine universale ed esemplare della specie. È in questa fase che si delinea il passaggio
dall’educazione alla pedagogia, e questa è la svolta determinante della cultura occidentale.

I grandi modelli teorici: Socrate, Platone, Isocrate, Aristotele.


La paideia si arricchisce e si sviluppa in modo sempre più completo a partire da Socrate fino
ad Aristotele.
L’insegnamento di Socrate (470-399 a.C.) è disinteressato e fortemente motivato da ragioni etiche
ed antropologiche; il suo scopo è liberare le coscienze e radicalizzare il pensiero del singolo, tanto
che il filosofo viene accusato di corrompere le coscienze dei giovani e parlare in modo empio, e, per
questa ragione, viene condannato a morte. La sua paideia è una ricerca problematica che intende
spingere il soggetto a migliorarsi e maturare interiormente. La formazione si svolge mediante la
maieutica (l’arte di far partorire, di trarre fuori le idee) e il dialogo, in modo che la conoscenza esca
dall’interno del soggetto e gli consenta di realizzarsi nella propria libertà e universalità; è una
formazione problematica ed aperta che non comunica verità precostituite ma rivaluta il carattere
personale della conoscenza e quindi si qualifica come modello di pedagogia della coscienza
individuale.
Allievo di Socrate è Platone (427-347 a.C.) che, nei suoi dialoghi, fissa due tipi di paideia, una
connessa alla formazione dell’anima individuale (di derivazione socratica), l’altra, invece, legata
all’ambito politico, ai ruoli sociali dei soggetti che dipendono dalla loro qualità intrinseche. Nei
dialoghi “Fedone”, “Fedro” e “Simposio”, Platone teorizza la formazione dell’anima che suddivide
in tre parti: concupiscibile, irascibile, razionale. Attraverso la bellezza, l’anima si spiritualizza fino
ad elevarsi al di sopra del mondo razionale come il filosofo spiega attraverso il famoso mito della
caverna. La visione politica è invece esplicitata nel dialogo “La Repubblica”; qui Platone suddivide

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la società in tre classi cui corrispondono tre tipi umani e morali molto diversi: i governanti,
razionali; i custodi, coraggiosi; i produttori, attivi. Ogni classe svolge separatamente le proprie
funzioni e tutte insieme sono vitali per la polis. Inoltre, ad ogni classe corrisponde un’educazione
differente: i produttori sono educati sul luogo di lavoro, attraverso l’apprendimento tecnico; i
custodi, che poi sono i guerrieri, sono educati attraverso il coraggio e la moderazione; infine, i
governanti sono i filosofi e la loro educazione si avvale della dialettica. Questi ultimi sono scelti tra
i migliori custodi, e quindi, in una prima fase, sono educati alla ginnastica, alla poesia, alla musica,
dopodichè sono avviati alla dialettica e questa istruzione dura fino ai 35 anni di età, educando gli
uomini al Bene, fonte della luce intellettuale, unico modo per assicurare il benessere della polis. In
questo modello di paideia, le discipline come la matematica, la geometria, l’astronomia, sono
preparatorie alla dialettica e contribuiscono allo sviluppo del pensiero astratto elevando l’anima
verso la contemplazione. Essa si fonda sull’idea di una società perfetta, di tipo aristocratico,
conservatrice, contraria ad ogni spinta di tipo democratico. E resterà un modello altissimo destinato
a perpetrarsi nel tempo, soprattutto per l’importanza data alla matematica e alla filosofia come
scienze ad altissimo valore formativo.
Modello alternativo a quello platonico è quello di Isocrate (436-338 a.C.), seguace di Socrate e dei
sofisti, fondatore di un’importante scuola di retorica. Infatti, l’oratoria è al centro dei suoi interessi;
nella sua scuola, l’insegnamento retorico dura 4 anni e si accompagna anche ad una filosofia della
vit pratica proprio perché egli è contrario ad un apprendimento fondato solo sui manuali; la retorica
dipende certamente da doti naturali ma anche dallo studio e dall’esercizio, e richiede un impegno e
una preparazione che formino il corpo oltre che l’anima. Ecco perché accanto alla filosofia, è
importante anche la ginnastica. Ad ogni modo, al centro della paideia di Isocrate c’è la parola
“creatrice di cultura”, grazie alla quale il soggetto si pone in posizione autonoma ma sempre come
interlocutore della città. Si tratta di un modello che avrà grande influenza nel mondo romano, su
Cicerone e Quintiliano, ma anche sul Cristianesimo, nel Medioevo e addirittura nella Modernità.
Ancora più significativa è la figura di Aristotele (384-322 a.C.) che peraltro svolge anche una vera
e propria attività di pedagogo e precettore di Alessandro il Macedone. Il grande filosofo riconferma
la pedagogia come disciplina in grado di formare l’anima ma anche di svolgere un’azione civile
legata alla polis. Sotto il primo aspetto, Aristotele pone al centro dell’individuo l’intelletto che
permette all’uomo di sviluppare la propria vita psichica e morale e di realizzarsi pienamente.
L’uomo, però, è anche un cittadino, inserito in uno stato e in una società. Infatti, nella “Politica”, il
filosofo delinea una concezione dello Stato molto realistica, non utopica, tesa a individuare il
modello di Stato migliore non in assoluto ma in base a circostanze concrete. Lo Stato aristotelico
non è ugualitario, e in esso gli uomini si dividono in liberi e popolo; i liberi vanno educati a vivere
in ozio per raggiungere la sapienza e la virtù e saper dominare le passioni e gli appetiti. A 7 anni,
vengono inseriti nelle scuole pubbliche dove apprendono 4 discipline: grammatica, ginnastica,
musica e disegno. Esse sono preparatorie alla filosofia e quindi, in questo senso, la paideia
aristotelica non è molto distante da quella platonica.
Meritano, infine, di essere menzionati, altri due modelli di paideia; da un alto, abbiamo quello
sviluppato dai medici, sotto la guida di Ippocrate, la cui formazione privilegia la dietetica e
l’attività ginnica giacché la salute del corpo è utile alla valorizzazione dell’intelligenza empirica e
sperimentale quale strumento di comprensione dei fenomeni. Dall’altro lato, abbiamo la paideia di
Senofonte (435-354 a.C.) che individua nell’educazione spartana il modello più adatto ad aiutare
Atene ad uscire dalla cristi che la attraversa; quindi, egli teorizza un’educazione familiare,
tradizionale, che valorizzi un’intelligenza solo pratica, e si oppone alla virtù platonica che si
identifica con la conoscenza.

L’Ellenismo e l’educazione: le teorie e la prassi.


L’Ellenismo comincia all’incirca con la morte di Alessandro Magno (323 a.C.) e arriva fino
alla morte di Augusto, benché lasci degli influssi fino al IV secolo.
Possiamo indicare come principali trasformazioni dell’Ellenismo, i seguenti processi:

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 Sviluppo dell’egemonia culturale greca sull’intero Mediterraneo
 Affermazione del modello culturale dell’humanitas
 Costituzione della koinè greca (la lingua comune)
 Sviluppo di una cultura scientifica e specializzata
 Stabilizzazione di filosofia e storiografia in forme più mature
 Costituzione di una vera e propria enciclopedia del sapere
 Declino delle polis e nascita di monarchie territoriali burocratiche
 Affermarsi del soggetto come uomo e non più solo come cittadino.
Siamo, quindi, di fronte ad un’età che matura intorno alla crisi nel rapporto fra l’individuo e lo
Stato, e che vede la crescita della cultura. In questa fase, accanto ad Atene, si sviluppano altri centri
culturali come Rodi, Pergamo e, soprattutto, Alessandria che, con la sua Biblioteca e con il suo
Museo, diviene il centro principale di tutta la cultura ellenistica. Dal punto di vista filosofico, si
sviluppano sistemi di pensiero nuovi legati alla ricerca della vita “buona” e ai problemi dell’etica,
nonché alla definizione del saggio, visto come colui che limita i propri bisogni e ricerca la felicità
individuale mediante l’ascesi. Nascono così l’epicureismo e lo stoicismo che individuano come
virtù proprie del sapiente l’atarassia (indifferenza) e l’apatia (imperturbabilità). Lo scetticismo,
invece, critica ogni tipo di ricerca della verità esaltando la sospensione del giudizio, l’afasia,
l’impossibilità di pervenire al vero oggettivo. Questi concetti, dalla filosofia, penetrano in tutte le
pieghe della cultura, in una unificazione spirituale che si compie grazie a Roma, conquistatrice
dell’Oriente e,a sua volta, conquistata dalla cultura greca.
La formazione alessandrina ed ellenistica è la formazione dell’uomo completo, moralmente
sviluppato, dotato di personalità autonoma ma, al contempo, legato alla tradizione scolastica e
libresca. La pedagogia di questo periodo si esprime nelle voci del commediografo Luciano, del
moralista Plutarco, dei filosofi Sesto Empirico e Plotino. Si valorizza l’educazione dei fanciulli,
considerata come compito di estrema importanza che porta all’eccellenza morale, e che deve essere
affidata a maestri competenti, in grado di sviluppare una prassi formativa sincera, non preconcetta, e
pratica, sensoriale, onde evitare di sviare la conoscenza verso la corruzione e il formalismo.
Soprattutto con Plotino, l’educazione si inserisce in una dimensione etica e religiosa, non solo
interiore ma anche metafisica: essa consente, mediante l’ascesi, di ricongiungere gli uomini verso il
principio, l’Uno, principio animatore e creatore di tutta la realtà. La paideia ellenistica esalta l’auto-
regolazione, l’armonia tra piaceri e rinunce, la capacità del singolo di ordinare e assicurare il
raggiungimento della perfezione individuale.

La scuola greca e la scuola ellenistica.


La scuola ellenistica, con il concetto di enkyklios paideia che sottolinea il valore
linguistico-letterario ma anche quello relativo alla formazione del carattere, siamo all’ultima tappa
dell’evoluzione della scuola in Grecia. Il cammino verso questo punto inizia molto tempo prima.
All’inizio, la scuola è una sorta di setta culturale e religiosa, il thiaso, in cui sono uomini e donne
legati da una stessa attività o da una comune idea religiosa; tra essi si creano forti legami personali e
si viene educati ai valori collettivi e comunitari; ne sono esempi le scuole pitagoriche, organizzate
mediante un sapere sacrale, con riti e misteri propri. Più laiche sono le scuole di Talete e Parmenide,
mentre più vicine al modello di scuola moderna sono quelle dei sofisti, dove, come abbiamo detto,
gli insegnanti ricevono anche un compenso per le loro prestazioni. Con la nascita dell’alfabeto, poi,
la carriera educativa del fanciullo greco si delinea in maniera molto più organizzata: essa comincia
nella famiglia, dove la nutrice e la madre seguono il fanciullo, e continua con la guida del pedagogo
e del padre che gli insegnano ciò che è bene e ciò che è male, ricorrendo anche alle percosse e alle
minacce. Oltre all’insegnamento di grammatica, musica, poesia, ginnastica, si apprende anche nelle
botteghe artigiane, attraverso l’imitazione e l’osservazione, anche qui ricorrendo a misure coercitive
anche molto dure. Nelle scuole di Atene e Sparta, poi, l’insegnamento è di tipo pubblico, e
l’educazione è uguale per tutti e unica; essa si svolge principalmente nel ginnasio. Nel frattempo, si
sviluppano l’Accademia di Platone e il Liceo di Aristotele: la prima impartisce insegnamenti di tipo

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scientifico e umanistico, mentre la seconda mira piuttosto ad insegnare un’enciclopedia del sapere,
anche se, in un secondo tempo, vi prevale sempre più l’aspetto scientifico.
In età ellenistica, infine, il sistema degli studi è organizzato in maniera più capillare dal livello
elementare a quello superiore, come abbiamo detto, con l’enkyklios paideia. La scuola elementare
inizia a 7 anni con lettura, scrittura, grammatica, musica e disegno. A 12 anni si passa alla scuola
secondaria al cui centro è collocata la grammatica ma si dà spazio anche alla matematica. Seguono
due o tre anni di efebeia in cui si forma il carattere del giovane mediante attività fisica, scambi
culturali, discussioni. La formazione scientifica si realizza invece nelle scuole filosofiche, di cui un
esempio è il Museo di Alessandria, grande centro culturale e massimo istituto di istruzione del
mondo ellenistico, affiancato dalla Biblioteca che raccoglie tutte le opere dell’antichità. In esso
l’insegnamento scientifico è molto importante proprio perché la condizione dell’uomo di scienza,
nell’età ellenistica, assume un ruolo nuovo: egli diviene uno studioso specializzato che trascura la
filosofia e la retorica per perfezionare unicamente il proprio lavoro scientifico.

Roma e l’educazione.

L’educazione ellenistica a Roma: modelli e figure.


Nel momento in cui Roma entra in contatto con la Grecia, riorganizza la propria identità
culturale incorporando gli elementi di quella cultura, accogliendo, per esempio, il greco come
lingua colta, e rimodellando la propria letteratura, l’architettura e la stessa filosofia sul modello
greco. Anche la pedagogia ne risente, ovviamente, e si ristruttura intorno alla figura dell’uomo
romano legato al mos maiorum (agli antichi usi) e alla politica. Già con Cicerone, la pedagogia
nasce come disciplina autonoma, universale e razionale. Anche qui è forte l’influsso dello
stoicismo, ma soprattutto si tratta di una pedagogia che, su un impianto non originale ma derivato
dal mondo greco, innesta un sapere pratico fortemente vicino alle problematiche dell’attualità.
A Varrone (116-27 a.C.) va il merito di aver fissato lo schema delle arti liberali e del processo
dell’istruzione, comprendenti grammatica, logica, retorica, musica, astronomia, aritmetica,
geometria e anche medicina e architettura. Lo stesso intento enciclopedico è presente nelle
teorizzazioni di Plinio, che esalta soprattutto l’importanza dell’osservazione e della raccolta delle
fonti. Ma il manuale per l’insegnamento per eccellenza è la Institutio Oratoria di Quintiliano (35-
96 d.C.), un’opera rivolta agli insegnanti di retorica ma che tratta anche dell’educazione in generale.
Lo scopo è la formazione del ciceroniano vir bonus dicendi peritus, cioè del buon cittadino,
moralmente formatosi attraverso la retorica; le tappe di questo percorso educativo comprendono la
preparazione in tutte le discipline retoriche e grammatiche, ma anche in quelle scientifiche, nella
matematica e nella musica. La particolarità di Quintiliano sta però nell’attenzione che presta alla
prassi dell’insegnamento vero e proprio che egli cerca di illustrare sia dal punto di vista del maestro
che da quello del bambino del quale si deve tener presente la psicologia e su quella misurare la
tecnica di insegnamento; in particolare, l’insegnante deve sollecitare nel ragazzo la memoria e
stimolare la plasticità della sua mente.
Il riferimento alla filosofia stoica è presente poi nel Manuale di Epitteto (50-138) mirante ad
insegnare all’uomo a raggiungere l’imperturbabilità, unica condizione della felicità, mediante
l’auto-controllo. Sono gli stessi temi che ritroviamo in Seneca (4 a.C.- 65 d.C.) grande letterato e
filosofo latino che, nelle sue diverse opere morali e filosofiche, espone gli elementi basilari dello
storicismo e delinea la figura del perfetto sapiente, in grado di controllare le proprie passioni e
intervenire nella propria vita per indirizzarla alla felicità. E ancora: gli stessi temi, arricchiti
dell’apporto personalissimo di una forte coscienza individuale, si riscontrano nei pensieri
dell’imperatore Marco Aurelio, l’imperatore filosofo, portatore di una sensibilità problematica e

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moderna che vede la formazione dell’individuo come un percorso da costruire giorno per giorno
mediante un processo educativo costante e autogestito.
È evidente, in questa carrellata sommaria e superficiale dello sviluppo del pensiero antico, il
cambiamento che si è avuto dall’antichità greca, fino al maturo impero romano.

La scuola, il lavoro, le “corporazioni”.


A Roma, le scuole sul modello greco vengono organizzate a partire dal II sec. a.C. e ben
presto si stabilizzano e si dotano di un apparato didattico e di specifici manuali. Le scuole sono
divise per gradi in:
1. elementari, miranti all’alfabetizzazione primaria; esse sono situate in locali presi in affitto e i
fanciulli vi sono accompagnati dal pedagogus; imparano le lettere dell’alfabeto, a scrivere, a
leggere e fare i conti. I ragazzi trascorrono qui buona parte della giornata e sono sottoposti
ad un magistero severo, che none esclude le pene corporali;
2. secondarie, in cui si apprendono tutti gli aspetti della cultura (musica, geometria, aritmetica,
letteratura, oratoria) anche se l’insegnamento grammaticale e filologico è prevalente;
3. scuole di retorica in cui si approfondisce la retorica, appunto, e ci si allena a sostenere i
dibattiti, e a declamare le orazioni.
I secoli dell’Impero manifestano una crescente attenzione per la scuola e, benché essa venga sempre
concepita in funzione della preparazione della classe dirigente, non vengono trascurate, nelle scuole
secondarie, le attività manuali che invece in Grecia erano state disprezzate, infatti, nel mondo
romano si sviluppano le tecniche artigiane e si specializzano ad un punto tale da richiedere luoghi di
apprendimento appositi. Nascono allora le prime vere scuole professionali (il pedagogium), una
palestra di formazione per liberti e schiavi in cui si apprendono le tecniche dell’artigianato, ma
anche l’alfabeto e la scrittura, e si crea un rapporto intenso sia tra i discepoli che tra gli stessi e i
maestri. Questi ultimi, peraltro, hanno delle proprie corporazioni in cui vengono preparati e sono
sottoposti a verifiche professionali e a controlli disciplinari per essere formati e avviati
all’insegnamento.
Inoltre, a Roma, esistono anche scuole sacerdotali (collegia) in cui si preparano i sacerdoti, appunto,
che col tempo assumono anche incarichi di tipo giuridico: essi, infatti, sono anche uomini di legge e
di lettere, oltre al fatto che presiedono agli auspici, ai sacrifici e a tutti i riti pubblici. Altri collegia
sono poi quelli per i soldati, cittadini normali o militari di professione, che qui imparano l’esercizio
delle armi e i valori militari della devozione al servizio e della fedeltà all’imperatore. Questo tipo di
scuole rappresenta un vero e proprio mondo a parte, chiuso, isolato, con un proprio linguaggio (il
sermo militaris), i cui membri hanno un diverso livello di alfabetizzazione. Il servizio militare
riveste un ruolo importante per l’omogeneizzazione culturale di tanti giovani provenienti dalle più
disparate province dell’immenso impero romano.

L’età imperiale: diffusione e declino dell’educazione antica.


Le scuole romane sono disseminate in tutto l’Impero, e in questo modo contribuiscono a
creare una unità spirituale legata alla lingua e alle tradizioni letterarie, pur essendo l’Impero un
insieme di elementi diversi e anzi difformi tra loro per etnia, fede religiosa, costumi e lingua. Si
attua così la romanizzazione delle province e di tutti i territori dell’impero, e anzi gli imperatori
considerarono questo come un compito indispensabile per le scuole e l’educazione. Infatti, proprio
il fatto di leggere i medesimi testi, studiare i medesimi classici e le medesime lingue (greco e latino)
crea, soprattutto a livello della classe dirigente, un fondo culturale comune, sul quale verrà poi a
formarsi il sostrato dell’Europa.
Questa unità viene parzialmente infranta dalla diffusione del Cristianesimo che svaluta la retorica e
la cultura dei pagani in genere per diffondere valori diversi. Tuttavia, gli stessi cristiani si servono di
quella cultura e si formano su di essa, fino a riconoscerne finalmente il valore e ad introiettarla entro
la propria paideia, dopo averne modificato alcuni aspetti e averli “cristianizzati”.

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Ma nel IV secolo d.C. lo scontro fra questi due modelli culturali è inevitabile, e vede la cultura
pagana soccombere anche per la stanchezza con cui ormai si tramandano pratiche e teorie concepite
in un contesto sociale e storico ben diverso. A ciò si aggiunga l’impoverimento delle scuole causato
dalle invasioni barbariche e dall’impatto, quindi, con popoli ignoranti e poco legati alla cultura
scritta. Le scuole cominciano a declinare e sopravvivono solo i grandi centri culturali di Oriente,
come Atene ed Alessandria, ma anch’essi sono destinati al tramonto, alla fine del VII secolo.

Il Cristianesimo come rivoluzione educativa.

Concezione del mondo, modello di cultura, ideale di formazione.


L’avvento del Cristianesimo è dirompente per il mondo antico perché, prima ancora che
trasformarne la cultura, opera una trasformazione radicale della mentalità; nasce una nuova
concezione dell’uomo visto in una dimensione di eguaglianza, di umiltà, di solidarietà, si afferma
una nuova visione della famiglia, del lavoro, e anche dello Stato e della società che devono ispirarsi
al Vangelo, all’amore, e devono avere come guida la Chiesa, l’istituzione umana più alta. In
definitiva, il cristianesimo pone al suo centro proprio quelli che i pagani consideravano elementi
negativi e di debolezza, mentre mette da parte i valori della guerra, dell’eroismo,
dell’individualismo, che sono stati i cardini del mondo antico. Naturalmente, poi, il richiamo
all’universalismo, all’eguaglianza e alla solidarietà prospetta un nuovo tipo di rapporto fra le classi
e con il potere che viene a modificare la tradizionale concezione politica. Infine, il cristianesimo si
rivela portatore di un messaggio rivoluzionario nel porre l’attenzione sugli emarginati, sui
perseguitati, e opera un rovesciamento di valori per cui si prospetta una rinascita del mondo
attraverso il messaggio di Cristo, e tutta l’esistenza viene ripensata alla luce della religione, alla
storia stessa si attribuisce un senso escatologico di salvezza. Una società interamente orientata in
senso religioso diventa essa stessa educatrice e, in generale, tutti i processi formativi, sia a livello
pratico che teorico, si trasformano e vedono la Chiesa farsi più entrale rispetto a tutte le altre
istituzioni. Infatti, possiamo affermare a buon diritto che il cristianesimo è anche una rivoluzione
educativa e pedagogica.

Nuovo Testamento, Cristianesimo primitivo ed educazione.


Il messaggio educativo e formativo originario del cristianesimo è evidente dai documenti
canonici tra i quali 4 sono quelli più significativi:
1. Vangeli: l’educazione è guidata da un maestro-profeta (Cristo) che mira ad un rinnovamento
spirituale, attraverso un nuovo messaggio che sfida l’indifferenza e i luoghi comuni; il tutto
si realizza in una dimensione comunitaria, di contatto e di amore verso gli altri, un amore
ben diverso da quello della concezione antica.
2. lettere di San Paolo: due sono gli aspetti pedagogici che emergono da questo testo; da un
lato c’è il dualismo fra anima e corpo, e il corpo viene condannato come peccato, per cui ciò
implica una pedagogia della repressione degli istinti e della lotta contro se stessi. San Paolo
riprende il modello ellenistico della ricerca di se stessi e dell’autosufficienza e lo lega
all’esaltazione del Cristo come modello umano da seguire, fondato sulla sofferenza e la lotta
per la giustizia.
3. Apocalisse di San Giovanni: questo è il testo della tensione escatologica nella storia e della
rigenerazione finale dell’uomo verso cui incamminarsi seguendo il cammino educativo
proprio delle comunità cristiane, guardando oltre la storia per superarla verso la redenzione.
Questo deve spingere l’uomo a prestare meno attenzione alla realtà e ad orientare la propria
vita verso gli ideali ultraterreni.
4. Atti degli Apostoli: sono i testi che pongono al centro l’azione educativa delle primissime
comunità cristiane, in lotta contro le persecuzioni e le eresie, e che si strutturano intorno alla

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Chiesa come comunità in autodifesa che si cementa mediante i valori e che insegna e
diffonde il proprio messaggio.

La nascita della Chiesa e l’organizzazione educativa.


La Chiesa primitiva fissa le prime pratiche e i primi riti comuni. In essi, i fanciulli occupano
un ruolo privilegiato come depositari della grazia e della purezza; pertanto i fanciulli, pur
continuando ad essere marginali, vengono valorizzati. Ma l’educazione cristiana non si orienta solo
all’infanzia in quanto è diretta a tutta la comunità; per questa ragione, con il tempo, la Chiesa
romana diventa una vera e propria istituzione culturale, all’inizio solo impegnata nella lotta contro
le eresie, nella fissazione del messaggio evangelico canonico e nell’organizzazione e il
coordinamento fra le diverse chiese locali, e in un secondo tempo strutturata come una vera e
propria macchina amministrativa e retta da un suo specifico pensiero, non solo teologico ma anche
giuridico. Soprattutto nel caos determinato dal contatto e dalle invasioni barbariche, la Chiesa
svolge ormai tutte le funzioni che l’Impero romano ormai in disgregazione non riesce ad espletare;
quindi la sua azione va ben oltre il mero ambito religioso. Dal punto di vista educativo, ci sono due
aspetti complementari e contrapposti che animano il dibattito pedagogico del primo cristianesimo:
da un lato la centralità dell’imitazione della figura del Cristo, e dall’altro l’assimilazione della
cultura classica pagana, soprattutto retorica, filosofica e letteraria. L’imitazione del Cristo non è
certo compito facile, e richiede la definizione di una dottrina che indichi anche i percorsi etici e le
pratiche religiose in grado di consentire agli uomini di raggiungere quel modello; per fare ciò, è
essenziale la mediazione della filosofia e della cultura antica perché i cristiani non hanno ancora a
disposizione gli strumenti culturali adeguati.

Sant’Agostino: il maestro della pedagogia cristiana.


Come abbiamo detto, il conflitto tra paganesimo e cristianesimo vede la vittoria di
quest’ultimo. A questo punto, si rende necessario operare una sintesi e una sistematizzazione
completa del pensiero cristiano e a questo compito si dedica l’opera di Sant’Agostino (354-430).
Questi si dedica ad una sintesi tra teologia e morale cristiana e filosofia antica, soprattutto platonica
e neo-platonica, e dal punto di vista pedagogico si presenta come il maestro dell’Occidente
cristiano, teorizzando una pedagogia di tipo prettamente religioso. Agostino ritiene che la verità
illumini la coscienza e si manifesti in essa imponendosi nell’intelletto ma non essendo da questo
creata, bensì avendo natura trascendente. Infatti, la verità viene da Dio che ha lasciato traccia di sé
nell’anima, e, poiché Dio è Trinità, triplici sono anche le modalità di avvicinamento dell’uomo a
Dio: con l’anima, con la conoscenza e con l’amore. L’etica cristiana si condensa nell’ascesi ed è
quindi incarnata dalla figura del monaco che si unisce in comunione mistica con Dio reprimendo le
proprie passioni. Sant’Agostino, peraltro, in molte sue opere tratta specificamente di pedagogia
(Confessioni, De Magistro, ecc…) delineando il percorso di formazione del cristiano ed esponendo
un vero e proprio programma di istruzione e di cultura. Soprattutto le Confessioni mostrano
l’itinerario formativo cristiano attraverso un racconto di tipo autobiografico: l’uomo, attraverso il
pentimento e l’ascesi, deve liberarsi dalle passioni e avvicinarsi a Dio; questo percorso deve essere
affrontato con la consapevolezza della propria fragilità e della lotta che si deve sostenere sotto la
guida della ragione. Si tratta di un processo di auto-educazione e crescita interiore che dipendono
dalla razionalità e dalla volontà dell’individuo. Inoltre, il vero cristiano deve apprendere una serie di
conoscenze di tipo enciclopedico che sono verità presenti dentro di noi, e compito del maestro è
proprio quello di risvegliarle e riportarle alla luce. Si tratta di una pedagogia diversa dalla paideia
classica per il suo carattere drammatico e personale e il suo richiamo a un modello di Maestro
supremo, Cristo, che unisce cultura e ascesi, razionalità e spirito.

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PARTE SECONDA

L’ETÀ MEDIEVALE

I caratteri dell’educazione medievale

Il Medioevo nella storiografia contemporanea.


Da tempo ormai è stato superato il luogo comune che vedeva il Medioevo come un’epoca
buia, a cavallo tra due momenti “alti” dello sviluppo della civiltà (il mondo antico e quello
moderno). Oggi sappiamo che il Medioevo è il momento in cui si forma l’Europa cristiana e
maturano i requisiti fondamentali dell’uomo moderno. La sua caratteristica fondamentale è la
profonda religiosità che contrassegna tutta questa lunga età; il Medioevo è il tempo della Chiesa ma
anche dei popoli e degli ideali comuni europei. Già a partire dal Romanticismo si è rivalutata questa
visione positiva, e ad essa hanno fornito importanti contributi il Positivismo, le riletture in chiave
marxista e soprattutto lo studio svolto nel Novecento dalla scuola degli Annales (Bloch, Le Goff,
Duby) che hanno proceduto ad una revisione del Medioevo e ne hanno esaltato la società e le sue
caratteristiche specifiche. Prima fra tutte le specificità di quest’epoca è il suo pluralismo che è
comunque intessuto in un contesto unitario dato proprio dalla religione, dal comunitarismo,
dall’internazionalismo. Si tratta quindi di un’epoca contraddittoria e piena di chiaroscuri, pervasa
dal Cristianesimo ma anche dalla cultura latina profondamente radicata.

La formazione dell’Europa e la coscienza cristiana.


Come ha sottolineato Braudel, l’Europa è il prodotto di una serie di guerre e di
colonizzazioni che hanno spinto il cristianesimo verso il Nord, e che hanno creato, con il
feudalesimo, una nuova forma economica. Si delinea un nuovo spazio geografico, politico e
culturale, governato dalla Chiesa e dall’Impero, multiforme per etnie, lingue, credenze, ma
comunque unito dalla condivisione di valori di fondo. In questo contesto variegato, prende sempre
più peso il concetto di libertà, ma più che di una sola libertà intesa in modo generico, si parla di
molteplici libertà, legate ai gruppi, ai ceti, alle corporazioni, insomma al pluralismo sociale
medievale. Da questa molteplicità derivano conflitti sottoforma sia di dispute teologiche, politiche,
letterarie, sia di guerre vere e proprie (basti pensare alle Crociate), e da questi conflitti nasce l’idea
dell’Europa che ci portiamo dietro fino ai nostri giorni. A livello spirituale e culturale, è la Chiesa il
collante dell’identità europea, come ci testimonia chiaramente l’educazione, che si sviluppa in
stretta simbiosi con la Chiesa stessa, anzi possiamo affermare che per un lungo periodo è solo
quest’ultima che si fa agente dell’educazione e della formazione e che organizza istituti ed
interventi appositi. La scuola come la conosciamo noi oggi (con un maestro che insegna a più
ragazzi, con un ciclo di lezioni, esercitazioni, interrogazioni, premi, castighi…) nasce proprio nel
Medioevo.

L’immaginario cristiano e l’educazione: aristocrazia e popolo.


L’immaginario medievale è un campo sociale educativo centrale, anch’esso, ovviamente,
strutturato intorno all’ideale religioso. Si lega ad un’immagine del mondo come ordine voluto da
Dio e stabilito una volta per tutte, quindi definitivo e immutabile. Ribellarsi contro quest’ordine
equivale a peccare contro Dio; la Chiesa è la depositaria del potere di perdonare o di imporre
sanzioni e questo potere, che può essere esercitato anche contro lo stesso potere politico, trova la
sua punta massima nella scomunica che equivale ad estromettere l’individuo dall’intera comunità
cristiana. Ne deriva una lunga disputa a proposito del rapporto fra potere imperiale e potere
ecclesiastico e che culmina nella teoria dei due soli che illuminano il mondo e guidano gli uomini,
rispettivamente, verso la felicità nella vita terrena e la felicità al di là di questa vita. L’uomo del

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Medioevo deve vivere sulla terra tendendo sempre a superare la dimensione mondana per elevarsi
nella religione; egli, dunque, vive sempre una profonda lacerazione tra carnalità e misticismo,
elevazione spirituale e possesso, sofferenza e etica del sacrificio. Questa concezione del mondo dà
vita ad un duplice immaginario: aristocratico, veicolato dal libro, e popolare, veicolato
dall’immagine. Il secondo è notevolmente più semplificato, e trova testimonianza nei predicatori
che si servono di un linguaggio fortemente aggressivo ed evocatore, o provocatorio e controcorrente
(basti pensare a Francesco d’Assisi) o nei cicli pittorici (la cosiddetta Bibbia dei poveri) che
attraverso le immagini codificano modelli di vita e comportamenti esemplari. In entrambi questi
immaginari, si sviluppano i processi educativi, cui contribuiscono anche i testi letterari (per esempio
le opere di Dante), le agiografie dei santi, le raccolte di meditazioni e poesie religiose. Ai sistemi
educativi diretti dalla Chiesa non è sottratta alcuna classe sociale: sia i depositari del potere che le
classi medie e i poveri sono avvolti da questo complesso tessuto culturale e dalla visione del mondo
edificata dal Medioevo.

Tra società gerarchica e mondo borghese, tra Alto e Basso Medioevo.


I mille anni del Medioevo (476-1492, dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente, alla
scoperta dell’America) sono distinti in due fasi profondamente diverse:
1. Alto Medioevo: va dalle invasioni barbariche fino all’anno Mille; è contrassegnata dal
feudalesimo, da scambi ridotti, da problemi di sopravvivenza, da grandi tensioni religiose
come il monachesimo e da continui fermenti sociali;
2. Basso Medioevo: va dall’anno Mille fino all’età Moderna, attraverso la formazione dei
grandi stati nazionali; in questa fase, si sviluppa una società più dinamica, fiorisce il
commercio, le scienze, le arti, ci sono lotte sociali e religiose, ma anche nuovi modelli
politici e culturali che portano alla nascita di un nuovo tipo di uomo che lentamente va
affrancandosi dalla religione e va sviluppando una sensibilità più moderna.

Una lunga età di trasformazioni e lo “sfondo” del moderno.


Il Medioevo, età di complesse trasformazioni, dissolve il mondo classico e antico e gli
sostituisce un mondo nuovo connotato dall’ideale cristiano e da altre 3 strutture originali:
1. l’Europa: è lo spazio geografico in cui si muove l’avventura del Medioevo e della
Modernità
2. la cultura laica: è la protagonista della scienza moderna e delle istanze di libertà che
animeranno poi le rivoluzioni successive
3. le nazioni: sono le forze animatrici della vita collettiva, e gli attori della politica.
Tutti gli effetti del Medioevo dureranno a lungo, e questo accade anche per la pedagogia e
l’educazione, come nel caso delle università e dei loro modelli didattici, della formazione
professionale artigiana, della famiglia, e delle istituzioni sociali di carattere religioso.

L’Alto Medioevo e l’educazione feudale.

L’educazione dell’Alto Medioevo è tutta incentrata intorno alla Chiesa, è uniforme e statica
e sono gli ecclesiastici a curarla e a radicarla profondamente negli individui; qui l’immaginario ha
un ruolo fondamentale. Nelle alte sfere, l’educazione si raffina e si formalizza: nasce la cultura
letteraria della Cavalleria, legata al castello, alle Crociate, si diffonde l’immagine della donna
idealizzata. È una cultura che si richiama ai modelli classici (Virgilio primo fra tutti) e ai miti
antichi. Presso il popolo, al contrario, la cultura parte dal basso, e si coagula intorno ai temi del
sesso, della morte, della magia, del godimento, del rovesciamento dei ruoli (pensiamo al
Carnevale). Possiamo dire che questa educazione popolare è molto più calata nel reale rispetto a

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quella aristocratica, poiché si svolge negli spazi aperti del sociale e non nell’interno delle corti di
palazzo, nei castelli o nei monasteri.

L’educazione nella società feudale.


La società feudale si struttura intorno al feudo che è un’unità territoriale su cui governa un
signore; questi si impegna a difendere il feudo militarmente, esercita il diritto e impone in cambio
agli abitanti del feudo fedeltà assoluta e sottomissione. La sua struttura economica si fonda
sull’agricoltura e mira alla sussistenza, con scambi e commerci ridotti al minimo. La cultura viene
prodotta e fruita principalmente nel castello e nei luoghi sacri, chiese, monasteri, conventi, e
anch’essa non prevede scambi ma è tutta controllata dalla Chiesa e improntata alla fede cristiana. In
definitiva, la società feudale è statica e chiusa, strutturata in tre ordini: i bellatores (i guerrieri), gli
oratores (i chierici) e i laboratores (il popolo che lavora). Ogni ordine ha precisi compiti e precisi
doveri e soprattutto i laboratores sono vincolati ad una serie di condizioni assimilabili al servaggio.
Questa chiusura della società è causata da una serie di fenomeni concomitanti: le invasioni dal nord
Europa, l’eccessiva rischiosità del Mediterraneo a causa delle lotte con l’Islam, l’insicurezza delle
vie di comunicazione terrestri, lo spopolamento delle città, la caduta dell’Impero Romano che fa
venir meno ogni tipo di autorità centrale e lascia spazio alle invasioni dei barbari. Tutto ciò produce
l’economia feudale, sposta la vita dai centri urbani alle campagne, disprezza la vita mondana e i
beni terreni e ritiene importanti solo gli organismi spirituali, unici rilevanti per svolgere le funzioni
di tipo collettivo.
Dal punto di vista sociale, gli uomini del Medioevo non sono più accomunati dall’appartenenza alla
polis o alla civitas, ma sono tra loro legati da “legami di sangue”, da rapporti di parentela che
determinano usanze e pratiche (si pensi per esempio alla faida) di tipo pre-civile.
In tale contesto, il problema dell’educazione prevede percorsi rigidamente distinti e separati fra la
formazione dei ceti superiori (scuola) e quella del popolo (apprendistato), un dualismo che si riflette
anche nelle due istituzioni agenti della cultura, cioè Chiesa e Impero, entrambe accomunate
dall’adesione ai valori cristiani. L’egemonia culturale cristiana, tuttavia, non è impermeabile a
influssi e apporti di altre culture dal momento che il Medioevo, pur nella sua staticità, è percorso da
spostamenti (pellegrinaggi e fiere) e da scambi in determinate aree dell’Europa, e tutto ciò alimenta
esperienze e modelli diversi.

Il Basso Medioevo e l’educazione cittadina.

La rivoluzione più importante del Basso Medioevo è la nascita della borghesia che implica
una rivoluzione culturale ed anche economica; si tratta di una classe sociale in dualistica e
autonoma, attenta alla produzione dei beni e all’incremento della ricchezza. La borghesia fa
pressione sugli organismi politici e religiosi e comporta una trasformazione della mentalità. Infatti, i
nuovi ceti mercantili hanno una nuova visione del mondo, laica, attenta ai bisogni individuali e
sociali ma anche alla propria auto-realizzazione. Non a caso, anche la fede cristiana viene sottoposta
a rinnovamento sotto la spinta di movimenti ereticali ed escatologici, e la comparsa di voci religiose
nuove e profetiche. L’educazione naturalmente non può sottrarsi a queste trasformazioni; essa,
infatti, al livello superiore, si istituzionalizza nell’universitas studiorum, associazioni libere di
docenti e studenti in cui si formano i professionisti della cultura. Ma i processi educativi si
trasformano anche all’interno della famiglia e si rinnovano i processi formativi nelle botteghe, nei
conventi, nelle parrocchie; nascono istituti di carità e assistenza per orfani, malati, figli illegittimi,
emarginati in genere.

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Dopo il Mille: una svolta anche educativa.
Dopo l’anno Mille, si ha una vera e propria rivoluzione nella società medievale, in cui si
aprono nuove prospettive, si assiste alla rinascita delle città con una ripresa degli scambi, dei
rapporti commerciali (con le Repubbliche marinare in Italia, per esempio), con la comparsa della
nuova classe borghese, e con nuovi protagonisti (i Comuni, le Signorie) che si aprono a nuove
istanze di libertà.
L’anno Mille trova l’Europa cristiana in una posizione più favorevole rispetto al resto del mondo, e
questo le permette di sviluppare al massimo la propria civiltà. La rinascita dei centri urbani implica
anche una trasformazione nella concezione dell’educazione. Infatti, mutano le tecniche e il lavoro si
fa specializzato ad un punto tale da richiedere una preparazione specifica che viene attuata mediante
associazioni di individui legati da abilità e conoscenze comuni; è così che nascono le corporazioni.
Al contempo, col procedere delle lotte sociali per la conquista di diritti e libertà da parte del popolo,
si riorganizza l’ideologia e le lotte diventano lo strumento attraverso cui le città educano i propri
cittadini.

Le università, i “clerici vagantes”, la “lectio”.


Il modello di istituzione educativa destinato a perdurare nei secoli fino ai giorni nostri
prende piede a partire dalle scuole cattedrali che, ben presto si evolvono trasformandosi in
Università, soprattutto in Italia e in Francia. A Parigi, per opera di Abelardo, intorno al 1150, viene
istituito il corso del trivium, cioè delle arti liberali, cui si aggiungono medicina, diritto e teologia. In
seguito questo tipo di corso viene sancito dall’approvazione del Papato e dell’Impero, in particolare
da Papa Gregorio IX nel 1231, con una bolla che impone ai docenti di prestare giuramento, ma
riconosce loro la piena libertà. Nelle Università medievali, sono gli stessi studenti dei corsi superiori
a tenere lezioni a quelli inferiori; il percorso di studi dura dai 5 ai 7 anni e si conclude con una
“disputazione” che attribuisce allo studente il titolo di baccelliere; dopo altri due anni di studio egli
diventa magister, e comincia l’effettivo insegnamento con la licentia, dopo altri sei mesi.
A Parigi, l’università più importante è quella di teologia, mentre Bologna è famosa per il diritto.
Qui, il riconoscimento dell’Università, viene conferito da Federico Barbarossa nel 1158 e questo
spinge gli studenti a richiedere alle varie città il diritto agli alloggi e le esenzioni dalle tasse, fino a
ottenere il diritto ad organizzare le proprie università, a eleggere i propri rettori e addirittura ad
esercitare un controllo sul corso di studi. Ad ogni modo, da Parigi e da Bologna, le università si
diffondono in tutta Europa e grossomodo sono organizzate allo stesso modo. I docenti sono nuovi
tipi di intellettuali, inquieti e sui generis, i clerici vagantes, che esprimono una concezione della vita
disincantata, legata al godimento, al gioco, al buon cibo, ma anche alla cultura, all’idea del destino e
della morte. I clerici si spostano in tutta l’Europa e contribuiscono alla diffusione culturale e agli
scambi intellettuali. Per quanto riguarda il metodo di insegnamento, esso è molto rigoroso e si
richiama alla dialettica come principale forma del pensiero e alla logica come strumento di
regolamentazione del linguaggio, secondo il modello elaborato da Abelardo. I testi, di qualunque
tipo essi siano, sono posti come auctoritates assolute e vengono studiati e commentati; intorno ad
essi e ai loro commenti, si svolge la lectio che prima ne stabilisce il significato letterale, poi ne offre
la spiegazione logica (sensus) e infine ne fa l’interpretazione e l’esegesi. Tutta questa analisi fa
scaturire un dibattito, una discussione da cui emerge la quaestio, cioè il problema che poi alimenta
la disputa chiamata “giostra dei chierici”; essa si svolge sotto la guida del maestro al quale spetta
poi la questione finale. Appare chiaro, dunque, che nel processo di apprendimento, il libro, gli
auctores e i maestri svolgono un ruolo fondamentale; in particolare, circa il libro, si rende
necessario ridurne i tempi di produzione e velocizzarne la diffusione per cui migliorano e si
trasformano anche le tecniche di scrittura e di copia dei testi.

Maestri della pedagogia scolastica.


Sia nelle scuole che nelle università si rielabora anche la concezione della pedagogia ad
opera, soprattutto, della scolastica attraverso le metodologie impiegate nelle grandi dispute sulla

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fede e sulla ragione che attraversano tutto il Medioevo. I principali modelli di teorizzazione sono
offerti dai due grandi Ordini mendicanti: da un lato, i Domenicani che esaltano la ragione come
strumento per penetrare e comprendere pienamente il significato della fede; dall’altro, i
Francescani che sottolineano la preminenza della fede rispetto alla ragione, perché più piena e più
ricca dal punto di vista conoscitivo.
All’interno delle scuole, troviamo due personalità significative nella elaborazione di un quadro
innovativo dei processi educativi: Pietro Abelardo e Ugo da San Vittore. Abelardo, nelle sue opere,
si pone come individuo portatore di una personalità complessa e conflittuale, razionale e libera; la
sua idea di educazione (nell’opera Sic et non) si incentra sulla dialettica e si rivela critica nei
confronti del pensiero filosofico. La sua è indubbiamente una figura molto vicina alla sensibilità
moderna. Ugo di San Vittore, nel suo Didascalicon propone un approccio mistico alla realtà per
cui al formazione di ogni individuo, anche degli uomini del clero, si articola in tre momenti distinti:
cogitatio, meditatio e contemplatio. Questo significa che la conoscenza viene valorizzata in ogni
suo aspetto, poi viene circoscritta a precisi ambiti teorici ed infine fatta culminare con la conoscenza
religiosa. Ma l’aspetto più rilevante è il fatto che questa conoscenza venga poi fissata nel discente
attraverso la memoria e quest’ultima diventa la facoltà di apprendimento per eccellenza. Importante
è poi l’elaborazione pedagogica dei maestri di Chartres, che elaborano una metodologia
naturalistica e alle auctoritates del passato privilegiano piuttosto le posizioni dei moderni.
Il secolo XII è tutto percorso dalla grande disputa fra gli aristotelici (razionalisti) e gli agostiniani
(mistici) che è simboleggiata dalle due personalità contrapposte di San Tommaso d’Aquino (1224-
1274) e San Bonaventura da Bagnoregio (1221-1274). Il primo, nella sua massima opera, la
Summa Teologica offre l’immagine di un sapere cristiano in cui fede e ragione si armonizzano, al
punto che anche Dio può essere razionalmente provato. San Tommaso si occupa anche
dell’educazione nel De Magistro in cui si ricollega a Sant’Agostino sottolinea l’importanza della
figura del maestro nel risvegliare i saperi latenti nella mente dello scolaro. La formazione intesa da
san Bonaventura è tutta intrisa di misticismo invece; nel suo Itinerarium mentis in Deum, condanna
ogni posizione razionalistica per valorizzare una particolare lettura della natura e della storia,
riconducendo tutto il sapere alla teologia.
Nel secolo XIV, la Scolastica si arricchisce con i contributi sia di altri mistici che di razionalisti e
nuove figure di studiosi, come Duns Scoto, Guglielmo d’Occam, Marsilio da Padova. Qui il tema
della formazione e dell’educazione è imprescindibile dal rapporto fra fede e ragione e tra individuo
e libertà e questo significa che la riflessione pedagogica resta ancorata alla metafisica che è
considerata la principale tra le scienze. In tal modo, la pedagogia assurge ad un livello di
universalità.

PARTE TERZA

L’ETÀ MODERNA

Caratteri dell’educazione moderna.

La Modernità come rivoluzione pedagogica.


Con la fine del ‘400, si apre un nuovo ciclo storico che indichiamo come Modernità e che
rappresenta una svolta rivoluzionaria rispetto alla società statica, sia socialmente che
economicamente, del Medioevo. Declina il modello sociale suddiviso in ordini e guidato da Chiesa
e Impero in virtù del legame alla fede e alla religione cristiana. La Modernità esalta invece
l’individualismo, l’apertura laica al sapere, l’autonomia del pensiero e dell’arte. Si tratta di una
rivoluzione di tipo:

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 geografico: l’asse della storia si sposta dal Mediterraneo all’Atlantico, con i viaggi-scoperta
e la colonizzazione di nuove terre
 economico: si chiude il sistema feudale basato sull’agricoltura e si attiva, invece,
un’economia di scambio fondata sul capitale, sul commercio e sul denaro. Nasce il
capitalismo come sistema economico indipendente da principi etici e basato sul puro calcolo
economico
 politico: nasce lo Stato moderno, accentrato e controllato dal sovrano mediante una rete di
istituzioni e di apparati burocratici
 sociale: la nuova classe, la borghesia, emancipa la mentalità, laicizzandola e
razionalizzandola, opponendosi ad ogni forma di pregiudizio, e rivoluzionando i saperi. In
effetti, la cultura si sgancia dalla metafisica e si concentra sulle scienze e sul libero uso della
ragione.
Di conseguenza, si rivoluziona anche l’educazione; la formazione vive la trasformazione in senso
laico e razionale che invade tutta la cultura e l’ideologia. In un certo senso, si riattiva la paideia
antica e si segue il modello dell’Homo faber e del soggetto come individuo, potenziandone le sue
capacità di trasformazione della realtà. L’educazione non mira più a formare l’uomo per la città di
Dio, ma si rivolge ad un individuo attivo che intende farsi artefice della propria fortuna e
trasformare il mondo in cui vive. Oltre alla famiglia, alla bottega e alla chiesa, i luoghi educativi si
arricchiscono di altri istituti (esercito, scuola, prigioni, manicomi, ospedali) che operano sia in
funzione dell’educazione che per il controllo sociale. Le teorie pedagogiche non sono più un
esempio unitario definito a priori, ma si fanno carico di nuove esigenze sociali di formazione e
istruzione; questa si modella sul momento storico e sulle condizioni dell’uomo che ne fruisce.
Nasce una pedagogia come scienza e scienza che si applica a tutti gli ambiti: sociale, antropologico,
culturale, naturale.

Stato moderno, controllo sociale, progetto educativo.


La caratteristica del mondo moderno è l’ambiguità; esso è contrassegnato da una serie di
spinte opposte verso la libertà e l’azione di governo, verso il conformismo produttivo e la spontanea
individualità. Peraltro, questa antinomia resta latente fino al 1789, e poi emerge in superficie e
scatena le spinte rivoluzionarie che rivelano la drammaticità e l’incompiutezza del Moderno. Infatti,
fino alla Rivoluzione Francese, si delinea uno stile di vita radicalmente nuovo con al centro la
razionalizzazione di tutti gli aspetti della vita sociale (si passa da un’etica della convinzione ideale
ed ideologica, ad un’etica della responsabilità) e l’istituzionalizzazione generale, ai fini di costituire
una società integrata e produttiva pur nelle sue differenze e nella sua variegata composizione.
Il ruolo che nel Medioevo spetta alla Chiesa, ora è assunto dallo Stato con al centro la figura
indiscussa del Re. Questi governa secondo un modello di efficienza, in competizione con gli altri
poteri, quello ecclesiastico e quello aristocratico, lontano però dalla massa di emarginati e poveri
che pure sopravvivono nel territorio. L’esempio più completo di questo apparato statale è dato dalla
monarchia francese, ma lo stesso accade anche in Francia, Inghilterra, e Spagna. Foucault ha messo
in rilievo quella che definisce una “microfisica del potere” nel senso che il potere agisce in tutti i
luoghi del sociale in forma capillare, tendendo a penetrare nelle coscienze e a controllare tutti gli
individui a partire dal corpo, fino ai loro comportamenti e meccanismi mentali. Per questa ragione,
lo Stato si fa principale agente dell’educazione, anche attraverso nuovi istituti educativi come gli
ospedali, i manicomi, le prigioni. Per Foucault sono soprattutto le prigioni il caso esemplare di
questi interventi istituzionali: esse esercitano un assoluto controllo invisibile, rappresentato dal
Panopticon, cioè una struttura carceraria in cui i prigionieri possono essere visti e controllati dai
guardiani in ogni momento e in ogni loro azione, senza però vedere essi stessi i guardiani. Inoltre, le
prigioni ritualizzano una serie di attività, con orari e luoghi prestabiliti, al fine di normalizzare gli
individui. Tutta al società moderna si presenta come società educante, per il potere e per la
conformazione ai suoi modelli e ai suoi obiettivi. Possiamo quindi dire che la Modernità nasce
come una progettualità pedagogica e realizza questo progetto in modo capillare e razionale.

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Istituzionalizzazione educativa e scuola moderna.
Sono in particolare due le istituzioni che assumono una nuova identità e si trasformano
radicalmente nell’età moderna: la famiglia e la scuola. Sappiamo che entrambe erano molto
importanti nel Medioevo, in cui la famiglia era considerata in senso ampio, era più dispersiva e
guidata dal padre che vi esercitava la sua totale autorità; la scuola, invece, era religiosa e legata ai
monasteri, non articolata per classi di età e si serviva di una didattica chiusa e poco specifica.
Le trasformazioni di scuola e famiglia nella Modernità sono state messe in rilievo dagli studi di
Ariès: in generale, la famiglia si ridefinisce come nucleo e si anima di una nuova attenzione verso
l’infanzia, per cui il bambino diventa il centro e il motore della vita familiare. Il bambino è ancora
visto come un adulto in miniatura ma se ne esalta la spontaneità e l’innocenza fino a valorizzarlo
come mito. Nasce uno spazio sociale per il bambino, si comprende che egli ha bisogno di cure e
affetto prima di essere responsabilizzato e trattato come un adulto. Inoltre, la nuova concezione
della famiglia impone di dare un’educazione a tutti i figli e non più solo al primogenito, l’erede.
Anche la scuola non serve più solo a trasmettere conoscenze ma insegna comportamenti e educa
alla vita sociale, pertanto, l’insegnamento viene programmato e razionalizzato, diviso per classi di
età, con una disciplina interna che limita la libertà degli scolari. Va detto che la disciplina scolastica
ha comunque una radice in quella religiosa, come testimonia il grande successo delle scuole dei
Gesuiti, organizzate per la formazione della gioventù. Il controllo, come abbiamo detto, parte dal
corpo: da qui deriva l’insegnamento delle buone maniere, delle pratiche ginniche, igieniche e simili.
Ma soprattutto, la scuola tende ad organizzare rigidamente il tempo, insegnando quindi a servirsene
nella maniera più produttiva, il che rappresenta un elemento chiave della mentalità moderna. Infine,
si dà grande valore all’esame come momento di massimo controllo e di conformazione dei soggetti.
Infatti, come afferma Foucault, tutta la trasformazione della scuola comporta la creazione di un
individuo normalizzato che si conforma al potere e quindi anch’essa assume un profilo ideologico.
Sostanzialmente, la scuola si fa apparato ideologico di stato, secondo la felice definizione di
Althusser.

Una nuova cultura per l’istruzione.


Per quanto riguarda il curriculum degli studi, la Modernità rilancia la paideia classica, e
quindi opera un recupero degli antichi come modello di formazione dell’uomo. Tuttavia, questi testi
antichi vengono studiati con un’attenzione del tutto nuova, secondo il metodo della filologia
umanistica che è il primo passo verso la rivoluzione scientifica che culminerà nel ‘600. non solo: la
Modernità, oltre gli interessi filologici, scientifici, letterari, pone attenzione anche agli aspetti
religiosi, politici, economici, e anche ai fenomeni dello spirito, come il dialogo, la comprensione, la
tolleranza; siamo in un contesto in cui si discute di tutti gli aspetti che riguardano la vita umana,
della miglior forma di governo (Machiavelli), dell’importanza di apprendere nuove lingue, delle
virtù del cittadino…
Il latino resta la lingua principale ma vanno già delineandosi discussioni sull’importanza delle
lingue volgari e sul loro ruolo formativo (con la famosa querelle des anciens et des modernes). Ma
è soprattutto l’ambito scientifico che dà nuovo slancio agli studi e alla formazione e la scienza viene
collegata alla tecnica, per cui anche quest’ultima trova spazio nel curriculum degli studi.
L’educazione non mira più alla formazione del “buon cristiano” ma a quella del buon cittadino;
l’educazione si fa nazionale e si lega al patriottismo, cioè all’appartenenza dell’individuo ad una
comunità umana che non trova il suo punto di riferimento solo nella figura del sovrano. È per
questo che, come abbiamo detto, la scuola si fa statale e pubblica, e riproduce la complessa
organizzazione dell’apparato statale. A questo punto si fa strada l’esigenza di ripensare
completamente la cultura educativa. Fino al ‘700 questa resterà un’esigenza alla quale gli uomini
della modernità non sapranno dare delle chiare risposte; vi provvederanno poi i movimenti di
pensiero dell’800; tuttavia, nella Modernità, si elabora un dibattito di critica al vecchio modello

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formativo, al grammaticalismo, ai residui della scolastica medievale, e si pongono le basi per la
pedagogia moderna.

Avventure del sapere pedagogico.


La nuova pedagogia tende a perdere il suo carattere metafisico ed universale per farsi più
empirica, più connessa ai bisogni della società e del momento storico. Non si guarda più all’uomo
come deve essere ma all’uomo come è. Si delineano quindi più percorsi pedagogici, talora anche in
conflitto tra loro. Gli effetti, quindi, sono principalmente due: il pluralismo dei modelli e il declino
del paradigma metafisico. Si tratta, però, di un processo assolutamente non lineare, ma anzi
percorso da rotture e inversioni, ritardi e accelerazioni ed è da questo percorso accidentato che
nasce la problematicità della teorizzazione pedagogica che poi aprirà la strada al rinnovamento
nell’800 e nel ‘900. Ad ogni modo, il dato importante è che la pedagogia si pone al centro della
cultura: grandi personalità come Comenio, Locke, Rousseau, la considerano il luogo di
ricostruzione della vita sociale e le attribuiscono un ruolo fondamentale nella costruzione del potere
e nell’omologazione degli individui ad esso.

La pedagogia tra conformazione ed emancipazione.


Abbiamo chiarito a sufficienza come l’età moderna sia caratterizzata da una forte antinomia
fra conformazione ed emancipazione. Tutto ciò, ovviamente, si riflette nella pedagogia per cui da un
lato abbiamo una serie di istanze di libertà (libertà di insegnamento, dell’allievo, del docente, della
scuola…) e dall’altro, invece, l’educazione mira a conformarsi allo stato, a controllare lo sviluppo
dell’individuo. I pedagogisti più attenti sono consapevoli di questa antinomia e sanno che essa è
strutturale, cioè fa parte della società e della cultura. Ne è un esempio Rousseau; egli delinea due
pedagogie dal punto di vista teorico: una politica e civile, mirante alla conformazione (nel
Contratto) e un’altra individualistica e libertaria (nell’Emilio) che antepone l’uomo al cittadino. In
quest’ultima opera, inoltre, Rousseau affronta il problema del rapporto tra pedagogo e allievo: esso
sembra un rapporto libero e paritario, ma in realtà il precettore domina e guida nascostamente
l’allievo, talvolta in modo subdolo e intrigante. In ogni caso, i due tipi di pedagogia non possono
essere tra loro separati, procedono di pari passo mirando l’una alla conformazione e quindi alla
formazione di un cittadino funzionale alla sopravvivenza della compagine sociale, l’altra
all’emancipazione dell’individuo come costruttore della propria vita.
Questa antinomia rappresenta l’elemento di incompiutezza della Modernità, in un percorso che non
si è ancora risolto e continua a rivelarsi aperto a molteplici possibilità.

Tra Quattrocento e Cinquecento: il rinnovamento pedagogico.

La “rivoluzione” umanistica.
Da tempo, ormai, è stata superata la tesi di Kristeller per cui Umanesimo e Rinascimento
sarebbero due momenti separati, il primo contrassegnato dalla filologia e dalla letteratura, e il
secondo, invece, dalla scienza e dalla filosofia. Infatti, studiosi più aperti, come Burckhardt, li
vedono invece come due aspetti complementari della stessa civiltà di cui il Rinascimento
rappresenta il trionfo dell’irreligiosità, dell’individualismo e del materialismo, in netta
contrapposizione al Medioevo. La storiografia moderna, in particolare con Garin, non ritiene ci sia
più un’opposizione tra Rinascimento e Medioevo dal momento che il primo si sviluppa proprio a
partire dalle trasformazioni messe in atto in età medievale. Sono soprattutto due i fenomeni che
aprono la strada alla Rinascita dell’Europa: il declino del Papato e dell’Impero, da cui scaturiscono
le grandi identità nazionali, e la nascita della borghesia che mina il prestigio delle vecchie classi
egemoni. Infatti, il monopolio economico e politico è detenuto ormai dai grossi banchieri e mercanti
che si pongono anche come protettori del sapere non tanto per amore verso la cultura quanto per

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ragioni di prestigio. In questo nuovo contesto di rinascita economica e politica, la borghesia delle
grandi città italiane continua a dominare la cultura e la società, fino al ‘500, quando a seguito della
scoperta di nuovi spazi geografici, con conseguente spostamento del baricentro commerciale, e a
seguito della formazione dei grandi regni assolutistici, si assiste ad una fase di lento declino.

La Riforma e l’educazione.
La Riforma protestante rappresenta il culmine della trasformazione politico-religiosa i cui
inizi erano radicati già nel ‘200. La Riforma prende avvio per ragioni religiose, cioè per
l’avversione nei confronti della gerarchia ecclesiastica considerata colpevole di aver permesso la
corruzione del clero romano, e per il desiderio di un ritorno all’autentico spirito del Cristianesimo,
vicino e in diretto contatto con i fedeli, senza la necessità di una mediazione da parte di un
ecclesiastico. Alla Riforma, però, contribuiscono anche motivazioni di tipo politico ed economico
come l’ostilità della borghesia finanziaria verso il fiscalismo papale. La richiesta di un
Cristianesimo rinnovato sfocia nella rottura dell’unità della Chiesa e la nascita della Chiesa
protestante, appunto. Si tratta di un rinnovamento che non investe solo l’aspetto religioso ma che
pervade l’intera vita degli uomini; sul piano dottrinale, il ruolo della Chiesa romana è messo in
discussione dai principi del libero esame e della salvezza tramite la sola fede, che svalutano la
figura dei sacerdoti come mediatori fra uomo e Dio per mezzo dei sacramenti. Dal punto di vista
sociale, invece, si va oltre la distinzione fra stato laicale e clericale e il mondo terreno diventa il
luogo in cui si compie l’opera di Dio. Soprattutto con l’azione di Calvino, poi, viene modificandosi
anche la concezione del lavoro che non è svalutato sotto nessun aspetto ma che è ritenuto strumento
di salvezza e stimolo per la fondazione del mondo moderno; i calvinisti, infatti, attribuiscono grande
valore al lavoro come produttore di ricchezza, ed è proprio da questo momento che nasce il
capitalismo coniugato all’etica del lavoro di matrice prettamente protestante.
La Riforma prende le mosse dalla predicazione di Martin Lutero in Germania (cui si affianca
anche quella di Melantone) e, sin dagli inizi, assume un importante significato educativo: infatti, se
lo scopo è creare un rapporto più stretto e diretto fra individuo e Dio e fra individuo e Sacre
Scritture, allora deve essere valorizzata la religiosità interiore e il principio del libero esame del
testo Sacro (cioè la possibilità di accedere direttamente ad esso, senza alcuna intermediazione);
pertanto, è necessario che i cristiani possiedano gli strumenti basilari della cultura, e che le
comunità religiose diffondano questo possesso il più possibile, attraverso istituzioni scolastiche
pubbliche. Possiamo dire che proprio con la riforma si afferma il principio del diritto di tutti allo
studio, e ad uno studio gratuito. Il modello culturale in questione è quello umanistico; Lutero si
richiama alla validità universale dell’istruzione che mette ogni uomo in grado di compiere i propri
doveri sociali. Infatti, l’istruzione prescinde dalla religione, ed è un obbligo sia per i cittadini che
per gli amministratori; questi ultimi non possono che trarre dei benefici dalla formazione di cittadini
colti perché essi saranno anche rispettosi della legge e ciò favorirà la pace sociale e rappresenterà di
conseguenza una fonte di risparmio per l’amministrazione della città.
Per Lutero, l’educazione deve basarsi innanzitutto sullo studio delle lingue, il mezzo per arrivare a
comprendere la verità del Vangelo. Oltre a questo settore, le scuole ne prevedono altri tre: quello
delle opere letterarie, quello delle scienze e delle arti, e quello della giurisprudenza e della
medicina. Tuttavia, la frequenza scolastica è limitata a poche ore nell’arco della giornata; il resto del
tempo va dedicato a imparare un mestiere e lavorare in casa. Centro della vita scolastica è la figura
del maestro, che sostituisce la famiglia, e deve mostrare di possedere il giusto equilibrio fra amore e
severità, il che significa che non ci devono essere punizioni eccessive e che lo studio deve sempre
avere una finalità precisa. Proprio grazie a questa predicazione, in Germania nascono i ginnasi e le
scuole aristocratiche ben organizzate e diffuse ampiamente, mentre più lenta è la diffusione delle
scuole popolari.
A Melantone, invece, spetta il merito di aver elaborato i contenuti culturali propri delle scuole
secondarie (infatti viene definito “precettore della Germania”); il suo modello di formazione si
indirizza esclusivamente ai rappresentanti della nuova religione e quindi ne esclude i ceti

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aristocratici, la nascente borghesia e la classe dei contadini. Melantone è un sostenitore
dell’importanza della cultura antica per penetrare la verità delle Scritture; per lui il principale
nemico della fede è l’ignoranza che quindi va combattuta mediante una radicale riforma delle
scuole e un recupero dell’autorità morale e culturale degli educatori. Egli propugna la divisione del
corso di studi in tre cicli:
1. indirizzato ai principianti: finalizzato all’apprendimento dei rudimenti del latino, in cui si
studiano semplici brani di Catone e Donato
2. finalizzato allo studio della grammatica: vi si studiano Terenzio e Virgilio
3. orientato alla dialettica e alla retorica, con lo studio di tutti gli altri autori latini (Cicerone,
Orazio, Ovidio…); in questa fase, gli alunni migliori sono iniziati alla conoscenza del greco
e dell’ebraico, della matematica e delle arti.
Il piano di apprendimento organizzato da Melantone attribuisce molta importanza alla lettura e alla
conversazione. E lo stesso egli fa riguardo l’istruzione universitaria, di cui rinnova il corso di studi
introducendovi nuove materie come la matematica.
Il problema dell’istruzione viene affrontato anche da Calvino che vi contribuisce dando grande
impulso all’operosità, all’etica del lavoro e alla responsabilità personale degli individui.
Nell’ambito della Chiesa Romana, invece, un posto di rilievo va attribuito ad Erasmo da
Rotterdam, che, nel corso di un viaggio in Italia, resta profondamente colpito dal livello di
corruzione della Chiesa e del clero. Le sue idee sull’educazione sono presenti in molte opere: egli si
richiama agli studi classici ma ne accentua l’aspetto cristiano a scapito della dimensione laica. La
sua concezione delle lingue classiche lo porta ad opporsi al latino contemporaneo, a suo avviso
imbarbarito perché ridotto a mero apprendimento grammaticale; pertanto, egli propugna un latino
vivo, studiato mediante i testi degli autori classici che si interessano a problemi concreti e non fanno
solo esercizi di stile (perciò preferisce, per esempio, Ovidio a Cicerone). Ma Erasmo affronta anche
il problema del valore dell’educazione in un saggio (De pueris instituendis del 1529) che, pur nella
sua brevità, è uno dei documenti più importanti della storia dell’educazione della civiltà
occidentale. Il tratto peculiare dell’uomo è l’utilizzo della ragione, essenziale per realizzare la vera
umanità; il compito di coltivare la ragione spetta proprio alla scuola e all’educazione e questa deve
intervenire sin dalla più tenera età, cioè dal terzo anno di vita, in modo da impedire da subito che si
manifestino nel fanciullo delle cattive abitudini. Tre sono i fattori chiave dell’educazione: la natura,
il metodo e la pratica, ma essi non sono niente senza la figura dell’insegnante perché è costui che ha
il compito di individuare le diversità individuali dei soggetti e adattare le modalità di insegnamento
più opportune ad esse. Accanto all’insegnante, Erasmo pone anche la scuola e la comunità, tutti
responsabili allo stesso modo della funzione pubblica della scuola e quindi della formazione dei
fanciulli. Siamo così di fronte al sistema didattico più compiuto dell’Umanesimo europeo.

La pedagogia della Controriforma e le nuove istituzioni educative.


Di fronte alla Riforma Protestane, la Chiesa cattolica si vede costretta a reagire con eguale
impulso rinnovatore: nasce così il movimento della Controriforma che parte con l’elezione del Papa
Paolo III che convoca il Concilio di Trento (1546-1563). Il Concilio conferma i capisaldi della
dottrina cattolica e rinnova l’impianto ecclesiastico sia in relazione ai compiti del clero che in
relazione alle strutture e alla cultura della Chiesa. Tuttavia, nel tentativo di arginare l’avanzata della
Riforma, tutti questi tentativi di rinnovamento cadono in un atteggiamento di rigidità e di resistenza
alle aperture che riporta la Chiesa indietro fino al Medioevo, e alla filosofia aristotelica e di San
Tommaso. Questo movimento ha un valore essenzialmente pedagogico perché, col Concilio di
Trento, la Chiesa recupera il senso della propria funzione educatrice e, diversamente dalla Riforma,
la indirizza non solo ai ceti borghesi e popolari, ma anche alla classe dirigente, in quanto propone
un modello formativo aderente al modello politico e a quello sociale. Contestualmente, si elabora
una nuova concezione dell’uomo: egli si redime dal peccato non solo mediante la fede ma anche
attraverso le opere, dal momento che la grazia di Dio può agire solo se l’uomo si dispone ad
accettarla e, per fare ciò, è indispensabile un intervento formativo da parte della Chiesa. Ecco quindi

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che i sacramenti, le pratiche religiose, la catechesi, vengono strutturate e organizzate in modo
rigoroso, per agire sui comportamenti e sulle coscienze, soprattutto dei giovani. Mezzo e fine
dell’educazione, anche entro la famiglia, sono l’abitudine e l’obbedienza; quest’ultima deve essere
cieca e, in tutti i rapporti sociali, deve rappresentare l’accettazione dell’ordine stabilito.
La trattazione più ampia di questi temi si trova nell’opera di Silvio Antoniano in cui l’autore
considera l’educazione come mezzo per migliorare la società ed eliminare la corruzione, ma la
confina entro le pratiche della chiesa cattolica, tanto che le principali figure educative sono per lui il
padre naturale e soprattutto il padre spirituale che accompagna l’uomo nel suo cammino verso Dio.
L’elemento più importante della Controriforma è costituito dalla fondazione di nuove istituzioni
scolastiche legate al modello del collegio/convitto come quelli delle Orsoline, dei Barnabiti, degli
oratori, dei Gesuiti (a questo punto, il capitolo fa una descrizione dei diversi ordini religiosi ma è
una descrizione sommaria, come del resto è tutto il libro, ed inutile riassumerla. Mi limito a
parlare dei Gesuiti che sono i più importanti. Pertanto, la tralascio, ma, se hai intenzione di
leggerla, vedi pagg. 127-128). Il sistema di istruzione più organico e meglio strutturato è senza
dubbio quello dei Gesuiti (o Compagnia di Gesù), fondato da Sant’Ignazio di Loyola nel 1540,
come una sorta di milizia al servizio della Chiesa per ripristinare il controllo su tutti gli aspetti della
vita sociale ed individuale e diffondere la parola di Dio presso tutti i popoli del mondo, anche quelli
delle terre da poco scoperte. Si tratta di una congregazione dalla struttura fortemente gerarchica,
improntata alla totale obbedienza al capo supremo, ma anche un ordine missionario che attribuisce
grande importanza allo strumento educativo nell’affermazione del Cristianesimo. I Gesuiti aprono
quindi numerosi collegi per religiosi e per laici, in tutta Europa; per strutturarli in modo coerente e
unitario, questi vengono organizzati secondo una Ratio studiorum, apparsa nel 1599, che prevede
una rigida normativa relativa a tutta l’organizzazione della vita del collegio e degli studi. Oltre a
ribadire il principio chiave dell’obbedienza, la Ratio elabora un vero e proprio disegno di politica
culturale: il corso di studi dura complessivamente 8 anni (5 anni di studi linguistici e letterari e 3 di
filosofia, mentre gli ecclesiastici gesuiti vi aggiungono altri 4 anni di teologia). Non vi è spazio, in
questo curriculum, per la lingua madre ma il tutto privilegia il latino e il greco. Dal punto di vista
metodologico, si fa ricorso alla praelectio (lettura di un passo scelto, con spiegazione
dell’argomento nelle sue parti più oscure) e della concertatio (una discussione sollecitata dalla
domanda del docente, cui gli altri allievi contribuiscono con correzioni o interrogandosi a vicenda).
La Ratio resterà immutata fino al 1773, quando l’ordine dei Gesuiti verrà sciolto per ragioni
politiche, ma eserciterà notevole influenza sulle leggi successive relative alle istituzioni scolastiche
(la legge Boncompagni del 1848 e la legge Casati del 1859), per la sua capacità di organizzare gli
studi in maniera razionale, prevedendo un sistema premiante ma anche punitivo, anche se, e questo
è il limite dell’insegnamento gesuitico, si tratta di un sistema educativo troppo chiuso in se stesso e
inadeguato a rappresentare e interpretare le istanze del mondo moderno.

Il Seicento e la rivoluzione pedagogica borghese.

Comenio e l’educazione universale.


Con il ‘600, assistiamo all’avvento di una pedagogia socialmente impegnata, alimentata
principalmente dal pensiero degli utopisti rinascimentali con i loro ideali di giustizia e pacificazione
universale. In questo ambito, possiamo menzionare tre autori che si interessano di problemi didattici
e della riorganizzazione del sapere: Wolfgang Ratke, Johann Heinrich e Alsted Johan Valentin
Andrete. In particolare, Ratke (1571-1635) elabora un ideale pansofico (cioè comprendente tutto il
sapere diretto a tutti) che poggia su tre pilastri, la grazia, la natura e le lingue. Nel suo Memoriale,
tratta il problema del metodo e dell’apprendimento; egli afferma che l’insegnamento deve adeguarsi
alla natura e procedere dal semplice al complesso, partendo dalle cose concrete per poi arrivare alle

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regole. Ratke si oppone all’insegnamento mnemonico che considera passivo e sterile, anche perché
non può esserci apprendimento se la ricerca non si nutre anche di esperimento. Inoltre, afferma
l’importanza dell’istruzione per tutti, indipendentemente dalle loro condizioni economiche e sociali.
Il ‘600, in generale, pone la formazione in stretto contatto con i problemi dell’uomo e dell’esistenza,
e si avvia verso un modello di istruzione aperto a tutti, ma è con Comenio (1592-1670) che si porta
a compimento questo processo nel nome dell’universalità dell’educazione contro le tradizioni e gli
interessi di gruppo o di classe. La sua è una pedagogia scientifica, la sola che possa esaltare la
funzione creatrice dell’educazione, tesa a pacificare e ordinare il mondo, secondo un’esigenza tipica
degli uomini del ‘600, un secolo travagliato da calamità e guerre sanguinose, come quella dei
Trent’anni, di cui Comenio stesso fu spettatore. Le sue prime opere sono un’enciclopedia universale
e un vocabolario della lingua boema, e mirano a fornire ai suoi connazionali (i boemi, appunto) gli
strumenti per conoscere la propria storia. Di carattere fortemente combattivo, a causa delle lotte
politiche e religiose di quegli anni, Comenio è costretto a lasciare il suo paese e a pellegrinare per
tutta l’Europa, dove si dedica a ricerche sulla didattica delle lingue, e dove fonda anche alcune
scuole che però suscitano l’opposizione delle autorità. I suoi viaggi e i numerosi contatti con
personalità eminenti della cultura e della religione, lo mettono in condizione di elaborare un
modello di riforma didattica e religiosa del tutto originale, testimoniata dalla Didactica magna del
1657. Per Comenio, l’uomo e la natura sono le manifestazioni di un preciso disegno divino;
attraverso l’educazione, si può creare un modello universale di uomo virtuoso in grado di riformare
la società e i costumi. Questa formazione deve cominciare dalla più tenera età, all’interno di scuole
riformate, ben ordinate, e organizzate intorno agli ideali della sapienza, dell’onestà e della pietà.
L’educazione deve procedere con delicatezza e dolcezza, senza alcuna severità e coartazione, in
modo che la cultura appresa non sia né apparente, né superficiale, né faticosa soprattutto. Essa,
inoltre, deve essere universale, aperta a tutti, e, considerando lo stretto legame che deve avere con la
religione cattolica, Comenio propone una consultatio catholica, una riunione di tutti i cristiani per
una riforma di tutte le cose. Il principio di fondo è quello del “tutto a tutti completamente” cioè
dell’insegnare ogni cosa, servendosi di un metodo completo, a tutti gli uomini indipendentemente
dalla classe o dall’età.

La nascita della scuola moderna.


Il ‘600 trasforma la scuola e la rende più centrale nella formazione dell’uomo e della società,
e quindi più vicina alla scuola come noi la conosciamo oggi. Il sistema scolastico si propone di
indirizzarsi a tutti e, per fare ciò, si delinea secondo tre binari: scuola pubblico-statale, scuola
religiosa, e scuola privata. In ogni caso, l’insegnamento è specializzato e distinto per classi di età, e
si articola in scuola elementare, scuola media o secondaria, di tipo professionale, e scuola superiore
e università, per la formazione che indirizza alle professioni superiori o liberali. La pratica didattica
viene istituzionalizzata intorno alle lezioni, spiegazioni e interrogazioni, con un esame finale che è
fortemente ritualizzato per sancirne il carattere di traguardo finale di un lungo percorso. Per quanto
riguarda il metodo, si pone maggiore attenzione ai processi naturali di apprendimento, procedendo
sempre dal concreto verso l’astratto, dal semplice al complesso. I programmi vengono rinnovati con
l’introduzione della storia degli Stati nazionali, della loro geografia, delle lingue moderne;
insomma, l’istruzione si rende più internazionale e concreta e anche i testi si adeguano a queste
nuove esigenze per cui nascono i manuali di insegnamento specializzati per le varie discipline. I 3
aspetti fondamentali di questa trasformazione della scuola moderna, come ha evidenziato Arlès,
sono le classi di età, la disciplina, l’ideologia. Il primo elemento è di importanza cruciale dal
momento che dividere i ragazzi per classi di età, significa sottrarli agli influssi degli adulti e quindi
preservarne l’ingenuità e l’innocenza. La disciplina, invece, serve a diffondere la civiltà delle buone
maniere, cioè a diffondere divieti, norme, regole, riguardanti il linguaggio, il corpo, il discorso, le
relazioni sociali in modo da favorire la normale convivenza tra tutti gli uomini. In definitiva, la
scuola si laicizza, si fa sempre più centrale, come istituzione, nella vita dello Stato e, di
conseguenza, è sempre più sottoposta alla pianificazione e al controllo da parte del potere politico.

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Locke: il nuovo modello pedagogico.
Tra ‘600 e ‘700 si diffondono due nuovi modelli pedagogici e culturali: da un lato lo
storicismo di Vico, dall’altro l’empirismo di Locke. Entrambi, pur essendo tra sé contrapposti, si
oppongono al razionalismo in nome di un’immagine educativa totalmente nuova. Lo storicismo
valorizza la storia e la considera il luogo deputato alla formazione e alla cultura, il che implica che
la personalità si costruisca proprio in quanto prodotto delle varie stratificazioni culturali e storiche.
L’empirismo, invece, valorizza la scienza come strumento e come fine dell’educazione. Il suo
rappresentante più significativo è John Locke (1632-1704) che è stato anche il teorico della
tolleranza e della democrazia liberale. Per Locke, ogni affermazione deve essere sottoposta alla
prova dell’esperienza in nome di un pensiero critico che procede sempre attraverso la verifica
sperimentale. Dal punto di vista pedagogico, egli sottolinea il legame tra lo sviluppo interno della
mente e delle funzioni intellettuali dell’individuo, e l’educazione che egli riceve dal mondo esterno.
Inoltre, come fautore della tolleranza, polemizza contro l’autoritarismo e le punizioni corporali che
minano la libertà e l’autonomia degli studenti. Il curriculum di studi lockiano, si modella sulla
figura del gentleman, il nuovo modello ideale della classe dirigente inglese, proprio in connessione
con le profonde trasformazioni sociali ed economiche dell’Inghilterra attraversata dalla rivoluzione
industriale. Il gentleman è l’uomo capace di moderare le proprie inclinazioni per seguire solo ciò
che la sua ragione gli indica come migliore, è un aristocratico nei modi e non certo per il fatto di
discendere da un nobile lignaggio, prova sentimenti di umanità, si esprime e si comporta con
cortesia e buona educazione. Raggiungere questo obiettivo di uomo virtuoso è fondamentale, per
cui le famiglie devono impegnarsi e perché i loro figli ricevano la giusta educazione, nell’interesse
non solo personale ma dell’intera Nazione. Nell’opera Pensieri sull’educazione, Locke indica i
principi fondamentali dell’educazione del futuro gentleman:
1. mens sana in corpore sano
2. insegnare ragionando con i fanciulli
3. privilegiare la formazione pratica e morale rispetto a quella intellettuale
4. seguire il criterio dell’utilità e porre al centro l’esperienza poiché questa sviluppa la naturale
curiosità dei fanciulli, ne matura gli interessi e si afferma mediante il lavoro e il gioco.
Per quanto riguarda il corpo, Locke ritiene che esso vada temprato escludendo le eccessive
tenerezze e le cure, vestendosi in modo né troppo leggero né troppo pesante, mangiando in modo
regolare e semplice. Il carattere, invece, va modellato mediante l’abitudine, l’esercizio e,
soprattutto, il ragionamento e quindi è necessario parlare con i bambini in modo razionale,
trattandoli come esseri ragionevoli. La parte più difficile, e al contempo la più importante,
dell’educazione riguarda però la morale; essa deve essere guidata dalla virtù stimolata dall’esempio
e favorita da un’attenta analisi delle naturali predisposizioni del fanciullo da parte dell’educatore. Il
gentleman può pertanto fare a meno di tante delle nozioni abitualmente insegnate nelle scuole,
perché per Locke sono molto più significative le attività pratiche. Infatti, l’allievo dapprima deve
dedicarsi alla scrittura e alla lettura di testi piacevoli, per poi passare al disegno e alla stenografia, di
seguito alle lingue moderne e a quelle classiche, che devono essere apprese come quella materna,
quindi mediante la conversazione. Infine, l’allievo deve dedicarsi allo studio delle scienze, tra cui
principalmente l’aritmetica; la sua formazione si conclude con la filosofia naturale e con una serie
di ornamenti (ballo, scherma…) e l’apprendimento di un mestiere manuale. Locke attribuisce
rilievo anche ai viaggi, importanti per conoscere le arti, il carattere e le inclinazioni degli uomini,
ma anche per apprendere nuove lingue.
Notevole è l’attenzione e frequenti sono i richiami alla curiosità innata del bambino che deve essere
stimolata attraverso il gioco e le attività manuali. Locke ritiene pertanto che il precettore debba
essere dotato di buona educazione e conoscenza del mondo, ma anche di un carattere mite e calmo
in modo da forgiare il fanciullo e tenerlo lontano dal male, soprattutto attraverso l’esempio. La sua è
una proposta pedagogica di grande rilievo per quanto sia indirizzata esclusivamente all’educazione

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borghese e non si curi di quella popolare che egli relega ai margini e risolve mediante corporazioni
caritative o scuole di lavoro coatto per i ragazzi poveri.

Il Settecento: laicizzazione educativa e razionalismo pedagogico.

Illuminismi europei e pedagogia: dalla Francia, alla Germania, all’Italia.


Il ‘700 è percorso dalla grande disputa sui rapporti tra natura e cultura, ed è il secolo di una
ulteriore profonda trasformazione pedagogica. Il merito va soprattutto agli illuministi orientati alla
formazione dell’uomo moderno, libero, attivo, responsabile, e nutrito di spirito utilitario e
scientifico. Le teorie pedagogiche più innovatrici si diffondono in Francia dove abbiamo la
discussione teorica più ampia ma essa non lascia riflessi concreti nelle istituzioni educative reali.
Una personalità di spicco in questo ambito è quella di La Chalotais, un borghese, autore di
un’opera sull’educazione nazionale in cui delinea un modello di educazione gestita dallo Stato,
opposta al modello fornito dai gesuiti, improntata alle scienze, alla storia, alle lingue moderne.
Sempre nutrito di spirito borghese è il progetto educativo dell’Encyclopedie ideata da Diderot e
D’Alambert, in cui si sostiene che l’educazione sia utile alla società e allo Stato, e che essa debba
essere impartita in scuole rinnovate nei programmi di studio e che prendano a modello la scuola
militare. Ancora in Francia, troviamo la teorizzazione di Condillac il cui itinerario formativo è a
base rigorosamente sensista e mira a risvegliare tutte le capacità umane a partire dal senso del tatto:
infatti, le idee si formano a partire dalle sensazioni, dal semplice verso il complesso. Su un piano
più radicale si trova la pedagogia di Rousseau, la voce più alta e originale del secolo (che vedremo
nel prossimo paragrafo). In Germania, invece, le trasformazioni del sistema scolastico sono più
proficue rispetto alle teorizzazioni che sopraggiungono solo in un secondo momento. La voce più
autorevole è quella di Johann Basedow che, attraverso il suo Libro elementare, fissa i canoni di
una pedagogia civile e sociale dal metodo graduale adattato alla condizioni psicologiche
dell’infanzia. Altri contributi vengono da Lessing ed Herder, entrambi si richiamano ad una
pedagogia universale il cui principio animatore è l’umanità tutta. Diverso il discorso di Kant che
invece pone al centro del rinnovamento pedagogico il soggetto morale.
In Italia, la pedagogia illuminista è contraddistinta da tre caratteri fondamentali in quanto essa:
1. sottolinea l’importanza sociale e politica dell’educazione che deve essere laica e statale,
aperta a tutti i cittadini, proprio perché contribuisce al benessere dello Stato
2. sviluppa un progetto di riforma degli studi che adeguino il curriculum scolastico alle nuove
esigenze della scienza moderna e della società borghese
3. afferma il principio dell’utilità della cultura.
A Napoli operano due esimi pedagogisti: Antonio Genovesi e Gaetano Filangieri. Il primo mette
in rilievo come gli uomini si formino proprio attraverso l’educazione e come essi siano tutti uguali
per natura. Egli ritiene necessario fondare una scuola elementare gratuita e introdurre nella scuola
media lo studio della matematica e della fisica. Filangieri, invece, dedica il quarto libro della sua
Scienza della legislazione all’educazione che, a suo avviso, deve essere non uniforme ma pubblica e
universale. Le scuole dovrebbero essere differenziate in base alle diverse classi; infatti delle due
classi fondamentali, quella produttiva, cioè dei lavoratori, prevede cicli di studio per bambini dai 6
ai 18 anni, in cui ci si concentra sul lavoro e l’istruzione intellettuale è limitata al leggere, scrivere e
far di conto, oltre alla conoscenza delle leggi civili. In questo tipo di scuola si formano, quindi,
buoni cittadini e padri di famiglia. Invece, la classe improduttiva, quella degli amministratori e degli
intellettuali, riceve un’educazione prettamente umanistica che stimola la percezione, la memoria,
l’immaginazione e l’uso della ragione. Anche in questo caso, lo scopo è la formazione di una
rigorosa coscienza morale, garanzia di una società ben ordinata.

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Oltre a Napoli, in Italia ci si occupa di pedagogia solo indirettamente, come accade per gli
intellettuali milanesi Soave e Gorani, mentre una figura del tutto a sé stante è quella di Sigismondo
Gerdil, professore di teologia assai ostile alle idee illuministiche, la cui proposta educativa si lega
allo spiritualismo cattolico, in pieno contrasto con Rousseau. Possiamo parlare, per lui, di una
pedagogia della restaurazione, nel senso che si richiama al principio dell’autorità e al valore del
metodo logico-sistematico, propugnando un metodo di studio rigoroso, disciplinato, metodico, in
polemica con le pratiche educative del tempo, accusate di utilitarismo e faciloneria.
In generale, nel ‘700, in varie regioni d’Italia, si moltiplicano iniziative pedagogiche di vario tipo
ma tutte mirano primariamente a formare funzionari più preparati ed efficienti per lo stato, non
certo a diffondere una nuova educazione pubblica, laica e moderna.

Rousseau: il “padre” della pedagogia contemporanea.


Rousseau (1712-1778), grande filosofo e uomo di lettere di origini ginevrine, collaboratore
dell’Enciclopedia francese, è considerato il padre della pedagogia contemporanea, in quanto a lui va
il merito di aver rivoluzionato la pedagogia mettendo al centro di essa il bambino in contrasto con
tutte le teorie pedagogiche del suo tempo. La sua è un’immagine dell’infanzia come di una sorta di
stato beato, vicino allo stato di natura, una condizione di bontà e predisposizione alla socievolezza.
Questa età è scandita da tappe evolutive molto diverse per capacità cognitive e comportamenti
morali. L’intento di Rousseau è quello di rinnovare l’uomo sottraendolo all’alienazione causata
dalle società ricche e dominate da falsi bisogni; il suo problema è principalmente come far uscire
l’uomo dal male. Per fare ciò, egli teorizza due modelli educativi, uno rivolto all’uomo e l’altro al
cittadino, alternativi e complementari. In quanto grande filosofo, si interroga sulle cause del “male”
all’interno della società e le individua connaturate in essa, poiché ritiene che il progresso, con la
divisione del lavoro e l’affermazione della proprietà privata, ha allontanato gli uomini dal loro stato
di natura. Tuttavia, se il male deriva dalla società, anche il rimedio al male può trovarsi in essa e
Rousseau lo identifica nel contratto sociale che è l’unica possibilità di ricreare, nella società malata,
un uomo nuovo, naturale ed equilibrato. La peculiarità dell’analisi rousseiana sta nella stretta
unione di politica e pedagogia, entrambe sottoposte ad una revisione praticabile solo con un radicale
sforzo razionale.
Il pensiero pedagogico di Rousseau si articola secondo due modelli rappresentati da due opere,
Emilio e Il Contratto sociale entrambe del 1762.

L’ “Emilio”e l’educazione naturale.


L’opera non solo esce parallelamente al Contratto, ma si rivela ad esso connessa in quanto propone
un intervento alternativo per la riforma della società. L’Emilio ha un percorso travagliato (la sua
composizione dura circa dieci anni, a partire dal 1753-54) e, peraltro, alla sua pubblicazione, non
riceve grandi applausi da parte dell’opinione pubblica, per quanto venga elogiato nei circoli privati
europei e diventi addirittura un testo che va “di moda”. L’opera si presenta come un romanzo
pedagogico e un manifesto educativo ma è, al contempo, anche un trattato di antropologia filosofica
e un rilevante testo politico. Il tema centrale è la teorizzazione di un’educazione dell’uomo in
quanto uomo, quindi non come cittadino, che deve essere attuata riportando gli individui allo stato
di natura, quando si valorizzano i reali bisogni, quelli più profondi, in un’esaltazione delle
caratteristiche specifiche dell’età infantile. Pertanto, l’educazione deve porre al suo centro il
fanciullo e deve essere amministrata da un pedagogo illuminato che lo tenga lontano dalle
corruzioni dell’ambiente sociale, e ne segua lo sviluppo e le inclinazioni naturali. Attraverso questo
naturamento dell’uomo, la società tutta si rinnova; va chiarito, tuttavia, che, per Rousseau, il
termine natura assume tre diversi significati: essa è opposizione a ciò che è sociale, valorizzazione
dei bisogni spontanei e dei liberi processi di crescita del fanciullo, e, infine, contatto continuo con
un ambiente più genuino che non sia quello urbano. Gli aspetti più innovativi della pedagogia
rousseiana sono 3: innanzitutto la scoperta dell’infanzia come età autonoma e dotata di specifici
caratteri e specifiche finalità, (puerocentrismo) cosa fino ad allora ignorata del tutto; in secondo

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luogo, egli unisce motivazione ed apprendimento di modo che la formazione intellettuale e morale
del fanciullo parta sempre da un preciso riferimento all’utilità e all’esperienza concreta dello stesso
(questo legame verrà ripreso successivamente dalla pedagogia dell’attivismo); infine, l’attenzione
per la contraddittorietà del rapporto educativo che Rousseau vede come improntato alla dialettica
tra autorità e libertà. Alla base di tutti questi concetti c’è sicuramente l’influsso dei contemporanei
come Montaigne e Fénelon, ma anche le tradizioni educative spartana, plutarchiana, o quella legata
a Locke e Condillac. Ma l’Emilio assume anche un carattere radicale e polemico nella sua
opposizione all’educazione aristocratica, o a quella legata ai collegi, come per esempio quella dei
gesuiti. A questi ultimi, in particolare, il filosofo ginevrino rimprovera l’intellettualismo, la
pedanteria, l’abitudine di abituare i fanciulli ad imitare passivamente gli adulti, in una parola,
l’artificiosità dell’educazione che trascura del tutto i reali bisogni dei giovani allievi. Protagonista
dell’opera è un giovane nobile ed orfano, Emilio, appunto, che viene allevato in campagna sotto la
guida attenta di un precettore; questi lo indirizza verso la via che segue la natura, per cui Emilio,
lentamente ma al momento giusto, apprende tutto ciò che gli è utile, ed è abbastanza maturo per
assimilare profondamente ogni cognizione. Il precettore fa di tutto per ritardare questo
apprendimento in modo che Emilio abbia tutto il tempo di godersi la sua infanzia e la sua libertà,
evitando inutili e pericolose anticipazioni. Al contempo, il precettore lo tiene lontano dalle cattive
abitudini, dalle deviazioni rispetto al cammino naturale, e fa tutto questo standogli costantemente
vicino ma senza che Emilio se ne accorga. Il suo scopo non è farlo diventare un dotto o un
gentiluomo, ma farlo essere uomo, insegnarli a vivere. Il romanzo è diviso in 5 libri, ognuno per
ogni tappa della formazione dell’uomo naturale:
1. infanzia: il fanciullo è allevato tenendo conto di prescrizioni igieniche che lo tengano
lontano dal contrarre cattive abitudini; si fa in modo che gli adulti non sviluppino una dipendenza
dai capricci dei bambini. Rousseau è contrario all’uso delle fasce in nome della libertà di
movimento, ed elenca anche quali debbano essere le caratteristiche della balia adeguata e come
debbano comportarsi i genitori verso il bimbo se piange, se ha fame ecc…
2. puerizia: (dai 3 ai 12 anni) questa età deve essere ben regolata dal momento che è un’età
debole, curiosa, caratterizzata dalla libertà, un’età pre-morale e pre-razionale, felice perché rivolta
solo agli interessi del presente. In questa fase, il precettore deve evitare di trasmettere qualunque
forma di informazione precoce, ma far prendere al fanciullo contatto con cose concrete, attraverso
l’esperienze, mirando principalmente alla fortificazione del corpo e al corretto uso dei sensi.
3. età dell’utile: noi la definiremmo una sorta di pre-adolescenza. In questa fase, Emilio è
ancora lontano dalle passioni ma è forte e curioso; è dunque il momento di iniziarlo allo studio di un
limitato novero di lezioni giuste, attraverso lo studio dell’ambiente che lo circonda, con l’esperienza
e non con lezioni astratte. Il suo unico libro deve essere il Robinson Crusoe, che rispecchia
l’autosufficienza del fanciullo; inoltre, Emilio deve imparare un mestiere onesto per imparare a
rispettare le regole, a stare a contatto con gli altri e per guadagnare qualcosa in modo da rendersi
autonomo; in tal senso, il mestiere più adatto è quello del falegname.
4. adolescenza: rappresenta una seconda nascita, in cui Emilio comincia a provare interesse,
pietà e amicizia per gli altri uomini. Questo è il momento giusto per insegnarli la storia, la morale e
la religione. A proposito di quest’ultima, Rousseau inserisce al centro del quarto libro la
“Professione di fede del vicario savoiardo” che è la sintesi dell’idea religiosa rousseiana: una
religione vicina al deismo con la differenza che pone al centro del sistema la coscienza come sede
della credenza nel divino e della legge morale. Emilio, intanto, è ormai un uomo e può innamorarsi
della sua donna ideale, Sofia.
5. maturità: Rousseau si concentra nell’ultimo libro sulla felice storia d’amore di Emilio e
Sofia e con la nascita di un bambino cui lo stesso Emilio farà da precettore. Questo è un libro
interessante in quanto comprende due parti assai significative: un progetto di educazione della
donna, esaltata come modello di virtù e di saggezza ma relegata comunque ai margini della società e
sottomessa al marito, peraltro in aperto contrasto con le istanze di emancipazione che proprio in
quel periodo si diffondevano in Europa. La seconda parte riguarda invece un progetto di educazione

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sociale e politica di Emilio, attraverso i viaggi e lo studio dei caratteri degli altri popoli; tutto questo
può servire a migliorare la società: infatti, Emilio sceglie di fermarsi a vivere nel proprio paese di
nascita, in campagna, lontano dalla città, per contribuire ad aiutare gli altri uomini, in qualità di loro
benefattore e modello.

L’educazione negativa e l’educazione indiretta.


L’educazione negativa è l’espressione con cui Rousseau indica il non intervento da parte
dell’educatore che non vuole trasferire conoscenze nel fanciullo ma si limita a seguirne lo sviluppo
e la crescita e a guidarlo tenendolo lontano dalla società corrotta. Il ragazzo si accosta alle
conoscenze più complesse spontaneamente, seguendo naturalmente il proprio processo di crescita,
nei tempi e nei luoghi che gli sembrano più idonei. Per questa ragione, Rousseau non impone ad
Emilio orari e regole ma lo lascia usufruire di una libertà ben regolata che esclude i castighi e le
lezioni verbali. Inoltre, una corretta educazione non può prescindere da una valorizzazione della
natura e delle cose che devono anche fungere da tramite per mettere l’educatore a contatto con
l’allievo. Nonostante quanto detto, vi sono alcuni passi del testo rousseiano che, in apparente
contraddizione con l’educazione negativa e quella indiretta, richiamano il ricorso da parte del
precettore all’autorità e alla coercizione. Tuttavia, per il filosofo, questo autoritarismo deve essere
nascosto, fatto in modo che il fanciullo non se ne accorga. In pratica il fanciullo deve essere portato
a non volere mai quel che il precettore non vuole che faccia. Questa contraddizione è la prova della
complessità e dell’antinomicità presenti in ogni atto educativo, cosa di cui Rousseau si mostra ben
consapevole.

Le due pedagogie di Rousseau.


Abbiamo detto in precedenza che in Rousseau sono presenti due modelli di pedagogia, quella
dell’uomo, che abbiamo visto nell’Emilio, e quella del cittadino, rappresentata nel Contratto
sociale. La prima va perseguita laddove non esiste istruzione pubblica perché non vi è patria (e
quindi non possono esservi cittadini) mentre la seconda si rivela la più giusta e la più praticabile
dove si ha la possibilità di riformare la società restituendole uno spirito nazionale. In questo
secondo caso, l’istruzione deve porre al centro proprio l’amore per la patria, e deve essere pubblica,
affidata ad istitutori sposati, trasmessa in collegi in cui i fanciulli vivano e apprendano insieme,
imparando anche ad agire in unità. Rousseau si ispira sia all’educazione degli antichi che al modello
calvinista. Non dobbiamo pensare che questi due pensieri siano in contrapposizione: piuttosto essi
sono l’uno alternativo all’altro, nel senso che l’Emilio si applica a società complesse e ormai troppo
corrotte, mentre le regole del Contratto si possono realizzare laddove le condizioni storiche dei vari
paesi lo consentano. Dei due modelli, però, è il primo quello che ha influenzato maggiormente la
pedagogia moderna, soprattutto per quanto riguarda la nuova visione del fanciullo e la
consapevolezza della sua identità.

La Rivoluzione francese e l’educazione: pedagogia, scuola, vita civile.


Durante la Rivoluzione Francese (1789-1795) si assiste al susseguirsi di tre fasi importanti
relative agli interventi sulla scuola:
1. 1789-1791/92: è il momento in cui si realizza una riorganizzazione organica del mondo
dell’istruzione, sulla spinta delle idee illuministe e si fissano i principi della pedagogia
rivoluzionaria, cioè istruzione pubblica e gratuita, laica e libera. Infatti, nel 1791, Talleyrand
presenta alla Costituente un rapporto sull’istruzione pubblica e propone un progetto di riforma che
la ponga al servizio della società, attraverso una scuola utile, gratuita, e popolare, anche se non
obbligatoria. Il progetto non viene realizzato ma nello stesso anno, l’Assemblea legislativa crea un
Comitato di istruzione pubblica con il compito di applicare il programma di rinnovamento redatto
da de Condorcet. Questi concepisce la scuola come elemento chiave nello sviluppo delle capacità
dei discenti, ma anche come fautrice della democrazia e dell’eguaglianza dei cittadini. Il
programma di de Condorcet prevede una scuola divisa in 5 gradi progressivi (primaria, secondaria,

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istituto, liceo, società nazionale per le scienze e per le arti) in cui l’istruzione sia, appunto, garanzia
di uguaglianza. Anche questo progetto subisce la stessa sorte di quello precedente, finché, sempre
nel 1791, la Costituzione stabilisce che si procederà a creare una scuola pubblica, comune a tutti i
cittadini e gratuita nelle parti di insegnamento indispensabili a tutti gli uomini, con istituti distribuiti
gradualmente in tutta la Francia.
2. 1793: il giacobino Le Peletier teorizza un’educazione, sia per maschi che per femmine, che
si svolga in collegi di stato, le case nazionali, in cui i bambini sono separati dalle famiglie e vivono
in una comunità che li tiene lontani dalla società corrotta e li forma secondo i modelli della virtù
civile, allo scopo di creare un “nuovo popolo”. Il progetto viene criticato violentemente, sia perché
considerato artificioso e innaturale, sia perché impone allo stato dei costi altissimi ma esso si
inquadra perfettamente nel radicalismo giacobino del momento.
3. 1794: si realizzano concretamente dei progetti i riforma; nascono le scuole speciali per
tecnici e tre anni più tardi si dà alla scuola francese un nuovo ordine: si fissa un minimo di
programma di studi, si affida la scuola primaria ai comuni, ma se ne nega la gratuità e
l’obbligatorietà. Segue la fondazione della Scuola centrale per l’insegnamento delle lettere, arti e
scienze, e la creazione della Scuola Normale per la preparazione dei maestri di cui lo Stato ha
bisogno.
Parallelamente, la Rivoluzione Francese innesca tutto un complesso meccanismo di educazione di
massa teso a sviluppare negli individui la coscienza di appartenere allo Stato, di essere cittadini di
una nazione, capaci di partecipare ai valori e agli ideali in maniera attiva. In questo senso, un ruolo
forte è assunto dai cosiddetti Catechismi laici, miranti a diffondere una visione laica del mondo,
un’etica civile ispirata a principi di tolleranza e impegno sociale. Accanto ad essi, svolgono una
funzione importante le feste rivoluzionarie e repubblicane, che si sostituiscono a quelle popolari e
religiose; lo scopo è appassionare l’uomo alla verità, mutarne i costumi e vincolarlo ai valori civili.
La stessa funzione è svolta dal teatro, dalla pittura e dalla poesia e si viene, così, a creare un
complesso circuito educativo civile, finalizzato a supportare il lavoro pratico e ideologico delle
scuole stesse. Proprio questa complessità e questo intreccio di ambiti diversi, pensati però come
integrati e interconnessi, avvia il modello di istruzione ed educazione collettiva e ideologica che si
diffonderà fino ai nostri tempi. Questi orientamenti laici, civili e statali, con l’età napoleonica si
diffondono in tutti i paesi che entrano in contatto con il potere e la cultura francese. Accade così con
il Piano generale di pubblica istruzione realizzato dopo il 1797 nella Repubblica Cisalpina, ma mai
applicato fino in fondo. Allo stesso modo, nel 1802, la Repubblica italiana si dota di scuole sotto il
controllo dello Stato e organizza in modo sistematico le scuole elementari, medie e superiori. Le
Università, le Accademie e le Scuole speciali sono definite Nazionali, i licei sono Dipartimentali, i
ginnasi e le scuole elementari sono Comunali. Un adeguato trattamento è previsto per gli insegnanti
cui si richiede fedeltà, disciplina e impegno, ma gli si riconoscono pensioni e compensi di buon
livello. Con Giuseppe Bonaparte, e poi con Gioacchino Murat, anche nel Regno di Napoli si
istituiscono Collegi reali laici, convitti per fanciulle, si stabilisce l’obbligo per la scuola elementare,
si fondano scuole professionali con programmi uniformi. La ventata di rinnovamento, dalla Francia
rivoluzionaria, si estende quindi in tutta l’Europa.

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PARTE QUARTA

L’ETÀ CONTEMPORANEA

Caratteri dell’educazione contemporanea.

L’età contemporanea e l’identità sociale della pedagogia.


L’età contemporanea prende avvio dalla Rivoluzione francese, con il crollo delle vecchie
strutture sociali (divisione in ordini, sovranità per diritto divino) dell’ancien règime, e l’apertura al
pluralismo, al dinamismo, allo scambio culturale, ideologico e politico. Al centro dei programmi di
riforma, anche pedagogica, c’è il ceto borghese, ma anche l’esigenza di modernizzazione e il
protagonismo dello Stato burocratico, il tutto ispirato da una profonda razionalità tecnica. E si tratta
di un passo in avanti che nemmeno la Restaurazione subentrata all’età napoleonica potrà cancellare.
E la contemporaneità è l’età delle rivolte, delle sollevazioni popolari, delle tensioni e delle rotture
con il passato, diffuse ovunque, in spazi geografici ampi, presso popoli che si mettono in
discussione e vanno elaborando la propria identità. Ancora: la contemporaneità è l’epoca
dell’industrializzazione con tutte le conseguenze immense che essa comporta: la nascita del
proletariato, l’esplosione demografica, l’urbanizzazione, la creazione di un mercato mondiale
fondato sulla produzione in larga scala. Si tratta di un evento epocale che ha condizionato la
politica, ha provocato migrazioni, lotte ideologiche e lotte di classe durissime, con un costo
altissimo in termini di vite umane. Infine, la contemporaneità è l’età della democrazia e dei diritti:
ereditando la lezione illuminista, si affermano i diritti non solo dell’uomo in generale, ma anche
delle donne, dei bambini, dei lavoratori, e poi delle minoranze e dei marginali. Le masse si
scontrano con le élite del potere, reclamano una maggiore partecipazione alla vita politica, si
ribellano, e spingono quelle élite a prendere le opportune contromisure, nel senso che le portano a
trovare anche quelle strategie per il controllo delle masse stesse, attraverso le associazioni, la
propaganda e, più prepotentemente, i mass media. Protagonista della democrazia è invece la
borghesia, una classe universale, legata all’economia e al capitalismo, autonoma, con le sue
opinioni e le sue istanze. La diffusione del modello democratico moderno reclama diritto di voto,
rappresentanza, partiti politici; a darle il maggior contributo sono gli USA, animati da un fortissimo
senso di appartenenza comunitario, e dall’esaltazione delle libertà individuali e di gruppo.
Tutte queste trasformazioni, richiamandosi all’eguaglianza e alle pari opportunità tra i cittadini, al
decentramento, al pluralismo, richiedono un rilancio dell’educazione come strumento per
promuovere la dimensione democratica e collettiva; in tal modo, la pedagogia viene ad occupare un
ruolo sempre più centrale e specifico e si struttura come sapere complesso, organizzato in diversi
sotto-sistemi plurali e organici, ma sempre legati al sociale, per cui possiamo dire che la
contemporaneità, sotto il profilo pedagogico, è anche l’età dell’educazione sociale.

Educazione e ideologia.
La pedagogia dell’età contemporanea si caratterizza per uno stretto legame con l’ideologia,
sia come dipendenza da essa sia come produzione di ideologia. Questo dato è stato messo in rilievo
dalla filosofia marxista; già Marx, infatti, aveva sottolineato come le idee dominanti in un
determinato momento storico, sono quelle delle classi dominanti, e sono dettate dai loro obiettivi
politici e sociali ma soprattutto economici. Analoghe riflessioni vengono fatte da Luhmann e da
Dewey. Sostanzialmente, quindi, la pedagogia si rivela funzionale all’assetto del potere politico e
della società; ha una funzione riproduttiva e critico-riproduttiva di saperi e comportamenti e lo
stesso, di conseguenza, vale per i processi educativi, sia quelli familiari che quelli scolastici che,
infine, relativi al tempo libero. Il fortissimo nesso pedagogia-società-ideologia è al centro del
dibattito sulla pedagogia contemporanea e si tratta di un tema ancora aperto e irrisolto. Quel che

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appare evidente è che la pedagogia è andata sempre più politicizzandosi, come dimostrano i
programmi educativi presentati dalla politica con lo scopo di creare consenso, specialmente dal
punto di vista intellettuale, per consolidare la propria egemonia. Questa politicizzazione è stata
enfatizzata dai totalitarismi del XX secolo: nazismo, fascismo, stalinismo si sono serviti della
pedagogia come strumento per intervenire nella società e operare un processo di conformazione e di
creazione di consenso, persuasivo o coatto, negli individui privandoli di ogni autonomia. In tal
modo, si è svelato il rischio enorme insito nel nesso politica-società- pedagogia, contro il quale è
necessario vigilare e predisporre le opportune contromisure.

Nuovi soggetti educativi.


La contemporaneità vede l’affermarsi di nuovi soggetti educativi, fino ad ora tenuti ai
margini dell’educazione e anche della società:
1. bambini: come abbiamo già detto, Arlés ha messo in rilievo la riscoperta dell’infanzia,
sviluppatasi attraverso la famiglia e il suo investimento affettivo sul bambino, ma anche attraverso
la scuola. Le scienze umane e sociali dell’800 guardano al bambino con un’attenzione nuova, ne
colgono le peculiarità rispetto all’età adulta (il bambino come padre dell’uomo, secondo la
definizione della Montessori), i suoi specifici valori, lo scelgono come soggetto educativo per
eccellenza anche nella fase pre-scolare, al punto da reclamare l’istituzione di asili di infanzia.
Indubbiamente, dopo Rousseau, la pedagogia si fa puerocentrica. Questa nuova attenzione investe
la teorizzazione pedagogica ma non solo, si riflette nella psicoanalisi, nella pubblicità, nel cinema. Il
‘900, in particolare, diventa il secolo del fanciullo, della sua conoscenza e del suo riscatto, anche se
ancora non in forma completa e oggettiva.
2. donne: l’educazione si pone come via verso l’emancipazione femminile che mira a
valorizzare la funzione sociale delle donne e a ottenere la parità rispetto agli uomini. Si richiede che
le scuole siano aperte anche al sesso femminile e che lo stesso accada per le associazioni del tempo
libero, dello sport o dell’impegno civile. Tuttavia, come accadrà anche per le minoranze etniche,
culturali e religiose, dopo la spinta alla parificazione, emergerà, nella seconda metà del ‘900, la
necessità di una differenziazione, cioè di una valorizzazione della differenza di genere: si giunge
perciò a invocare una formazione tutta al femminile, che tenga conto della specificità delle donne e
le separi dal mondo maschile, considerandone i propri valori e le proprie pratiche comunicative.
3. handicappati: vengono posti, già a partire dal ‘700, al centro di una pedagogia del recupero
che mira ad una loro normalizzazione (rientra in questo tentativo il caso eccezionale di Victor, un
dodicenne ritrovati in un bosco e allevato da lupi, noto come il ragazzo selvaggio). Nell’800, poi,
con la Montessori e con Séguin, le tecniche del recupero si affinano, mirano sempre più a svelare la
contiguità fra sensi e mente, e andranno poi complicandosi, nel secolo XX, con gli apporti della
psichiatria infantile, e procedimenti di interazione tra handicappato e maestro, basati su un rapporto
fortemente emotivo, oltre che tecnico, legato principalmente al gioco. Questa pedagogia speciale e
del recupero, ha attuato una pratica di non esclusione che ha portato all’inserimento del portatore di
handicap nelle istituzioni educative e scolastiche, ma anche sociali.
A questi soggetti educativi nuovi, negli ultimi decenni si sono aggiunti anche quelli relativi ai
problemi del rapporto fra etnie, culture e mentalità diverse. La pedagogia si trova a dover affrontare
problemi nuovi, a ripensare ai propri obiettivi e valori, alla luce di un nuovo e complesso
paradigma: quello della multi-culturalità. Il risveglio della marginalità impone nuovi modelli
educativi, altre pedagogie, altri soggetti, che spiazzano la pedagogia e la costringono, ancora una
volta, a rinnovarsi.

Miti dell’educazione.
Nell’età contemporanea, è sorto un vero e proprio mito dell’educazione, vista come fattore-
chiave dello sviluppo sociale, luogo del ricambio e della coesione sociale. Essa ha finito per
sostituirsi alla politica nella creazione dell’uomo moderno animato da libertà, solidarietà, spirito
collaborativi. L’800 ha visto la nascita di diverse opzioni relative a questo mito: quella democratica

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(Dewey) che concepisce l’educazione come molla dello sviluppo; quella totalitaria (Hegel) che la
considera una socializzazione integrale conformistica e basata sull’adattamento alla società; quella
socialista (Marx) che ne sottolinea la politicità e il suo legame con le classi in ascesa. Queste
opzioni si sono concretizzate nel ‘900, e questo ha portato ad affievolire il mito dell’educazione, a
metterne in evidenza i contenuti mistificanti (infatti, l’azione educativa non può essere libera, ha dei
limiti, e dunque non può realizzare tutto) e autoritari (la centralità eccessiva dell’educazione porta
alla massificazione). Il mito è stato quindi ridimensionato ma non è crollato e, dopo la devastazione
bellica della Seconda guerra mondiale, si è affermato al suo punto massimo. E si è altresì arricchito
dal mito della società educante, che realizzi un modello di convivenza in grado di soddisfare i
bisogni di tutti, che sia gratificante e consenta all’uomo di realizzarsi in ogni suo aspetto. Al centro
di questo modello sociale, si pone la scuola, e accanto ad essa molteplici altre agenzie formative,
dirette ai giovani e agli adulti. L’uomo nuovo che ne deriva prende come paradigma da seguire
proprio il fanciullo (ecco quindi il mito dell’infanzia, anch’esso ereditato dalla lezione di
Rousseau), visto come essere libero, naturale, sottratto alle manipolazioni della società,
potenzialmente ancora capace di realizzare qualunque cosa. Tutte le pedagogie della
contemporaneità si ispirano al puerocentrismo e si mettono al servizio del bambino, e ulteriore
spinta in questo senso si ha da parte della psicoanalisi.
Ad ogni modo, la presenza dei miti sottolinea la funzione critico-progettuale assunta dalla
pedagogia, e riconfermano quanto essa sia scissa tra conformazione ed emancipazione.

Istruzione e lavoro.
La pedagogia contemporanea ha posto l’istruzione come diritto universale e compito sociale;
anche il lavoro si è imposto come dovere sociale e attività specifica di ogni uomo, per cui è naturale
che i due ambiti si siano incontrati e interconnessi in modo dialettico, dando vita a problemi nuovi,
tipici della contemporaneità.
Il problema lavoro è stato affrontato considerando il lavoro stesso come acquisizione di
professionalità diverse, che rendono possibile la riproduzione sociale, economica e culturale.
Inoltre, esso si è posto come attività peculiare dell’uomo, e anche come integrazione all’interno dei
curricula dei giovani, il che significa che il lavoro viene qualificato anche come vera e propria
materia di studio. L’istruzione si lega al lavoro non solo come effetto delle teorie di personalità di
spicco come Weber, Marx, Comte, ma anche come risultato della trasformazione sociale ed
economica cui è sottoposta la società. E si tratta di un legame inscindibile che, col passare dei
decenni, si è andato facendo sempre più urgente e pregnante. Il pensiero pedagogico ha messo in
rilievo l’importanza della prassi, della tecnica, che deve accompagnarsi alla teoria, secondo una
linea tracciata da Hegel, poi da Marx, Dewey, via via fino al cognitivismo. Il lavoro ha trovato il
suo spazio nella scuola (come lavoro fatto in classe, per valorizzare la manualità dello scolaro, in
gruppo, per favorire l’integrazione e l’interazione fra i discenti) e in luoghi appositamente deputati,
come le fabbriche, ma pur sempre legati alla scuola e alla formazione. Marxismo e attivismo lo
hanno usato come strumento di radicale revisione dei programmi di formazione, propugnando un
ritorno alla prassi e alla tecnica.
Questo percorso ha invertito direzione con il cognitivismo che ha invece posto al suo centro la
ricerca educativa e scolastica, e l’istruzione in generale; il cognitivismo ha infatti dato maggior
rilievo alla trasmissione di competenze e modelli di comportamento, per stimolare i giovani a
conformarsi alle regole sociali. Pertanto, il lavoro è stato estromesso dal centro della scuola
contemporanea: esso non è più il nucleo strutturale quanto piuttosto il fine, l’uscita ultima del
processo di formazione. Siamo di fronte ad una situazione problematica, poiché attualmente si sente
più forte l’esigenza di un recupero della professionalità e della tecnica all’interno del percorso
educativo e purtroppo finora non si è riusciti ancora a trovare la soluzione giusta e più opportuna.
Pertanto, siamo dinanzi ad un problema ancora aperto.

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La scuola e le riforme.
La vocazione riformatrice dell’organizzazione scolastica si realizza mediante una serie di
riforme che partono già dal ‘700 con l’intento di aggiornare l’organizzazione della scuola e la
gestione dei programmi per fornire modelli culturali nuovi funzionali ad una società ormai diversa.
Quattro sono le principali caratteristica della nuova istituzione scolastica:
1. obbligatorietà: l’obbligo scolastico si diffonde in tutti gli Stati moderni proprio per fare in
modo che tutti i cittadini si sentano membri di un’unica compagine, imparino a convivere e a
rispettare le leggi. Questo principio viene attuato, nei vari Paesi, secondo modalità diverse: in Italia
si afferma con la legge Casati nel Regno di Sardegna e poi si diffonde in tutte le altre zone del
Paese. Tuttavia, possiamo dire che si tratta di un principio non ancora perfettamente realizzato in
molte parti del mondo, anche quelle più vicine a noi.
2. gratuità: rendere la scuola gratuita significa garantirne la messa al servizio di tutti,
contribuire concretamente ad agevolare le famiglie che intendono aiutare i figli nell’apprendimento.
3. statalità: la scuola diventa statale il che significa che viene gestita direttamente dallo Stato,
al fine di sottrarla alle influenze delle ideologie di parte e attrezzarla come scuola per tutti; lo scopo
è anche renderla uniforme sia dal punto di vista geografico che da quello culturale, laicizzando
l’insegnamento e valorizzandone l’aspetto critico e razionale.
4. differenziazione interna: la scuola si articola in ambiti e settori culturalmente diversi e
disposti cronologicamente; in tal modo, ogni classe sociale ha a disposizione il tipo di scuola più
adatto alle proprie esigenze ma, ciononostante, è possibile che ci siano passaggi da un percorso ad
un altro e quindi si favorisce una certa mobilità sociale. Questa differenziazione e questo
dinamismo interno vengono favoriti fino all’età giolittiana ma con l’avvento del fascismo, la scuola
verrà bloccata in una struttura rigida, per poi riaprirsi nel corso degli anni ’60.
Ma nell’età contemporanea, la scuola si trova a vivere anche una costante ansia di cambiamento e
un perenne senso di insoddisfazione, anch’esso determinato dal suo trovarsi in bilico tra due
modelli teorici differenti: quello di istituzione tecnica e professionalizzante, finalizzata alla
riproduzione della forza lavoro, e quello di istituzione formativa e culturale che promuove la
crescita intellettuale e morale dell’individuo. Tutto il movimento della scuola contemporanea è un
cammino verso il tentativo di intrecciare e unificare questi due modelli, senza tuttavia riuscire ad
armonizzarli il che rappresenta un elemento di problematicità forte.

Il sapere pedagogico: scienza, politica e filosofia.


Il sapere pedagogico si è emancipato nettamente dalla metafisica, ed ha proceduto verso
un’articolazione sempre più ampia in diversi saperi scientifici, senza contare che ha riconosciuto
l’esistenza irrinunciabile di una propria riflessione filosofica che, però, diversamente che in passato,
ormai riguarda solo alcune aree della pedagogia in generale. Inoltre, come abbiamo già detto, il
sapere si è legato sempre più alla politica e all’ideologia e, infine, ha assunto una dimensione
pluralistica, conflittuale e asimmetrica al proprio interno.
Questo complesso di trasformazioni è ancora in corso, in divenire il che implica che l’intera
pedagogia sia ancora un processo in costruzione. Un punto, in particolare, merita di essere preso in
considerazione: il ridimensionamento della riflessione filosofica interna al discorso pedagogico.
Tale ridimensionamento è il risultato della comparsa sulla scena di nuove discipline scientifiche che
hanno occupato uno spazio sempre più ampio (si pensi alla psicologia, alla sociologia,
all’antropologia e alla psicoanalisi, fino a scienze ancora più recenti come la cibernetica per
esempio). Esso implica un maggiore ancoraggio del sistema pedagogico alle scienze e alle
procedure sperimentali ed analitiche. Ciò, però, non significa che la filosofia sia del tutto
scomparsa: essa resta come elemento concentrato, specializzato, relativo al rigore epistemico della
pedagogia, cioè elemento che ne controlla le procedure ma anche i fini e le scelte. Inoltre, compito
della filosofia è anche il controllo sul legame fra pedagogia e politica, mediante una sorta di dis-
ideologizzazione che smascheri le posizioni di parte e i pregiudizi, e che stacchi la pedagogia dalla
metafisica. Tutto questo, però, fa sì che la pedagogia si faccia sempre più complessa, instabile, e

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quindi incerta; ciò significa che il sapere pedagogico va conquistato, nella sua interezza, volta per
volta, passo dopo passo, in una situazione di precarietà difficile ma che ne accresce la ricchezza.

L’Ottocento: il secolo della pedagogia.


Conflitti ideologici, modelli formativi, saperi dell’educazione.

Borghesia e popolo: tra ideologie pedagogiche e conflitti educativi.


L’800 è il secolo della borghesia e, per riflesso, è anche il secolo della grande paura nei
confronti del socialismo e del comunismo, quindi un secolo di lotte di classe e di forti
ideologizzazioni che hanno investito ogni sfera dell’attività umana. In linea di massima, le
trasformazioni economiche sempre più accelerate fanno sì che tutti le classi, borghesia e popolo
soprattutto, vadano perdendo la loro univoca identità e si articolino in gruppi disomogenei (alta
borghesia, ceto imprenditoriale, professionale, commerciale, burocratico, e, per quanto riguarda il
popolo, popolazioni rurali, proletariato urbano, sottoproletariato..) per censo e tradizioni, ma
accomunati da aspirazioni e stili di vita. Il popolo, soprattutto, è maggiormente articolato in quanto
diviso tra la parte cosciente del proprio sfruttamento e quella che non se ne rende conto, o tra coloro
che credono nella possibilità di un riscatto e quelli che vi rinunciano. Anche geograficamente la
società si presenta molto articolata: in particolare, a nord, a ovest e nelle aree urbane d’Europa, la
situazione sociale è più dinamica e quindi più aperta ad istanze rivoluzionarie, con maggiore
coscienza di classe e quindi maggiore conflittualità; al contrario, l’est e il sud, oltre che le aree
agricole, presentano una situazione più statica e ferma. In questo contesto, l’intervento educativo
diventa cruciale: le borghesie se ne servono per perpetuare il proprio dominio politico, tecnico,
sociale, educando allo spirito produttivo, mentre il popolo lo utilizza per diffondere un’educazione
che lo guidi verso l’emancipazione e la liberazione sociale e politica.
I progetti educativi borghesi rivolti al popolo mirano principalmente a mantenere l’ordine sociale, e
assumono quasi sempre (tranne il caso di pochi pedagogisti illuminati) un atteggiamento
paternalistico; al contrario, le pedagogie popolari si dividono in pedagogie riformiste (che
concepiscono l’emancipazione come integrazione delle classi popolari) e pedagogie rivoluzionarie
(che invece auspicano il rovesciamento dell’ordine borghese e una presa del potere da parte del
proletariato). Siamo quindi di fronte a diversi modelli di pedagogia a forte tasso sociale e politico.
Ne è un esempio la teorizzazione di Pestalozzi: in lui è forte il nesso tra pedagogia e società
attraverso la disciplina e il lavoro; la formazione dell’uomo è vista come esercizio della libertà e
della partecipazione alla vita collettiva, economica e sociale. E quindi la funzione ideologica della
pedagogia è proprio rinvenibile nella libertà che emancipa il soggetto integrandolo e rendendolo
parte attiva della società. A farsi interprete di questa ideologia della libertà è il movimento tedesco
dello Sturm und Drang ma anche Hegel, Herbert, Marx; si tratta di pedagogie diverse in cui l’idea
della libertà rappresenta il collante, il fondo comune. Negli altri Paesi europei, invece, le idee
libertarie vengono vissute in maniera diversa che in Germania, in quanto prevalgono idee di ritorno
al passato, di Restaurazione, di ordine sociale, in opposizione alla pedagogia democratica o liberale.
L’ideologizzazione della pedagogia si fa ancora più forte ed esplicita nel Positivismo e nel
Socialismo. Il Positivismo la vede come un momento della sociologia e le attribuisce grande
importanza nella formazione dell’uomo della società positiva, in quanto lo plasma e lo conforma ai
valori fondamentali della nuova società cioè alla partecipazione e alla produttività. Il Socialismo,
invece, smaschera la pedagogia come ideologia ma parte proprio da quest’ultima e la pone come
guida della società liberata dal lavoro; infatti, gli uomini, mediante il lavoro liberato, si emancipano
e ricostruiscono la propria convivenza sociale secondo il modello comunitario. Ecco quindi che, a
seconda del movimento di pensiero considerato, la formazione e l’educazione vengono caricate di
compiti diversi: la pacificazione sociale tra classi, l’omologazione, la conformazione alla società

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borghese o, all’opposto, la coscienza di classe, la rivoluzione, l’emancipazione. A questo
meccanismo non sfuggono le pedagogie elaborate dai gruppi conservatori che mirano ad agire in
modo paternalistico nei confronti del popolo, per integrarlo nell’ideologia borghese, come
testimonia la Rerum Novarum di Leone XIII.
A parte questi contributi, dobbiamo citare almeno 4 aspetti dell’educazione sviluppati in profondità
dalla pedagogia ottocentesca:
1. la riflessione intorno alla Bildung (sviluppo spirituale) per riformulare in modo critico il
modello di formazione tenendo conto dell’armonia tra le esperienze spirituali dei soggetti,
una formazione che non si concentra sul cittadino o sull’Homo faber ma sull’idea
dell’”anima bella”;
2. l’attenzione prestata alla funzione educativa dell’arte, di matrice prettamente romantica
(Schelling, Schopenhauer, Fröbel), che sviluppa le capacità cognitive mediante la fantasia
che proprio l’arte sa potenziare; la cultura romantica richiede che l’educazione, sin dalla
scuola primaria e dagli asili d’infanzia, metta al centro della sua prassi l’arte e il gioco;
3. l’importanza dell’epistemologia, cioè di una fondazione rigorosa della pedagogia come
sapere scientifico, con un metodo specifico, più controllato e più consapevole; è il percorso
avviato da Herbert e dal Positivismo;
4. la riorganizzazione tecnica della scuola che ne riqualifica il volto e correla finalità politiche
e strutture curriculari, con in più il compito di mantenere il legame tra eredità culturale del
passato e società contemporanea.

La pedagogia romantica da Pestalozzi a Schiller, a Fröbel.


La rivoluzione culturale dell’800 nasce sull’eredità delle voci più eretiche dell’Illuminismo,
e degli ideali della Rivoluzione francese; la nuova forma culturale che ne deriva si qualifica come
romantica ed esalta le passioni e gli stati d’animo più indefiniti e conflittuali, come generatori di
una nuova cultura che recupera il senso del trascendente e i valori del sentimento e
dell’appartenenza alla nazione. L’epicentro di questa rivoluzione è la Germania ma essa si estende
in tutta l’Europa e produce una cultura tradizionalista e liberale, tragica, conflittuale, spiritualistica,
nazionalista, eroica. Sul fronte pedagogico, assistiamo all’intrecciarsi di una nuova idea di
formazione, basata su un’altrettanto nuova concezione dello spirito umano, con la riaffermazione
del valore del rapporto educativo, della scuola e della famiglia. È stato soprattutto il pedagogismo
tedesco a dare impulso al rinnovamento della formazione elaborando una nuova coscienza
educativa, una nuova coscienza epistemologica, e infine una nuova immagine delle due massime
agenzie educative, cioè la famiglia e la scuola.
A metà strada tra le posizioni settecentesche e gli atteggiamenti romantici, si colloca la figura di
Johann Heinrich Pestalozzi (1746-1827), pastore protestante di origini italiane. Influenzato dalle
idee di Rousseau, svolge la sua attività di imprenditore-educatore interessandosi dei problemi dalla
popolazione agricola, e quindi avviando iniziative di educazione professionale. Ad esse
accompagna l’educazione di ragazzi orfani che cerca di rendere autonomi mediante l’istruzione di
base e il lavoro. Le sue idee, oltre che testimoniate dalla pratica, vengono trasmesse anche mediante
il “Giornale del popolo svizzero”, di cui è direttore dal 1798, e mediante opere pedagogiche come
Leonardo e Gertrude. I suoi riferimenti filosofici, oltre a Rousseau, sono Ficht e soprattutto Kant,
che peraltro è al centro della sua opera Mie indagini sopra il corso della natura nello svolgimento
del genere umano del 1797. Pestalozzi sviluppa i principi della sua teoria metodologica
sull’insegnamento, cioè il metodo intuitivo e il mutuo insegnamento, riprendendo la lezione di
Rousseau sull’insegnamento naturale, nella direzione di un collegio per orfani a Stans, organizzato
secondo il modello familiare e più ancora nel suo istituto di Yverdon (aperto nel 1805) che diviene
di fama internazionale. L’istituto viene chiuso dallo stesso Pestalozza due anni prima di morire per
una serie di problemi e difficoltà sia interne che esterne.
Tre sono le teorie al centro della riflessione di Pestalozzi:

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1. l’educazione come processo che segue la natura: è un concetto di derivazione schiettamente
rousseiana, che prevede un’educazione che accompagni lo sviluppo armonico dell’individuo
facendo perno sul fatto che ogni bambino “ha in sé tutte le facoltà della natura umana”;
l’educazione però, diversamente da Rousseau, non deve essere solo negativa ma anche positiva;
2. la formazione spirituale dell’uomo come unità di mente, cuore e mano: l’educazione deve
essere di tipo morale, intellettuale e professionale; essa deve partire dall’Anschauung, cioè
dall’osservazione intuitiva della natura, per promuovere lo sviluppo intellettuale che a sua volta
promuove quello morale. In questo modo, nel soggetto si crea un senso di armonia sia con il mondo
esterno che con quello interiore. Pestalozzi delinea la formazione morale in termini prettamente
kantiani definendola come una sottomissione ad un imperativo interiore che si risveglia e si realizza
grazie anche alla disciplina;
3. l’istruzione a partire dal contatto diretto con le diverse esperienze dell’allievo: se non ci
fosse un fondamento intuitivo, ogni verità sarebbe noiosa per i fanciulli. Siamo dinanzi ad una
didattica dell’intuizione che segue le stesse leggi della psicologia infantile.
Oltre a queste teorie didattiche, Pestalozzi sviluppa anche una riflessione sociale e politica che
critica l’ordinamento della società del suo tempo e concepisce il modello di una società ideale,
modellata sui caratteri comunitari della famiglia in cui vigono forti principi etici e il cui scopo è
nobilitare l’umanità. L’educazione assicura dunque il perfezionamento dell’uomo che lo porta ad
agire come cittadino perché unisce la sua formazione individuale con la coscienza nazionale e con il
patriottismo. La specificità del messaggio di Pestalozzi sta proprio in questa somma di idee
romantiche e rousseiane, ma soprattutto nell’aver coniugato pratica e teoria pedagogica guardando
ad entrambe come educatore, e non perdendo mai di vista una precisa finalità antropologica e
politica. È questa la ragione che lo rende un grande maestro della pedagogia contemporanea.
La pedagogia più propriamente romantica si esprime nel neoumanesimo ma anche nella
lezione di Hegel ed Herbart. La pedagogia del neoumanesimo si richiama esplicitamente
all’Umanesimo dei secoli XV e XVI, pertanto essa è una riflessione critica intorno all’uomo e alla
società di cui egli è protagonista. Il tema centrale degli autori di questa corrente (Schiller, Goethe,
von Humboldt) è la formazione umana (Bildung) la tensione spirituale dell’io verso forme di
personalità sempre più complesse ed armoniche. Questo ideale di formazione si può realizzare solo
mediante un riavvicinamento alla cultura dei classici greci, gli unici capaci di unire insieme istinto e
ragione, individualità e cultura, spirito e corpo. È per questo che il ruolo dell’arte diventa
fondamentale, in quanto elabora, attraverso la fantasia, un equilibrio fra necessità e libertà, intelletto
e sentimento. A partire da queste premesse, i neoumanisti affrontano i problemi educativi dando vita
ad una vera e propria utopia pedagogica. Schiller (1759-1805) compone le Lettere sull’educazione
estetica nel 1795, in cui, sotto forma di ricerche sul bello e sull’arte, propone un modello di
formazione che unisca nobiltà morale e felicità. In tal modo, viene a crearsi un modello di uomo
nuovo, che si richiama al modello greco, come maximum dell’umanità, in netta contrapposizione
con l’utile, il grande idolo della sua epoca. Lo strumento migliore per realizzare questo tipo di uomo
è l’educazione del sentimento, realizzata, con l’ausilio dell’arte, nella congiunzione di intelletto e
sentimento, due facoltà che non devono mai separarsi nell’uomo, ma armonizzarsi nella creazione
dell’anima bella attraverso l’attività ludica.
Le idee fondamentali di Schiller sono riprese da Goethe nella parte chiamata Provincia pedagogica,
dell’opera Wilhelm Meister del 1801, sviluppandole in un contesto più pratico. Goethe immagina un
luogo dedicato esclusivamente alla formazione dei giovani, in cui, sotto la guida di saggi maestri, le
giovani generazioni apprendano una cultura ricca e libera insieme ad una profonda concezione del
mondo. Le attività intellettuali devono procedere di pari passo con quelle manuali, si deve favorire
il contatto del giovane con la vita dei campi e imporgli la scelta di un lavoro. Inoltre, Goethe invita
a dare ampio spazio all’educazione artistica, al canto, alla scultura, alla poesia. Riguardo la
concezione dell’uomo, la Provincia pedagogica esalta innanzitutto il rispetto di sé, degli altri, della
natura, ma anche dell’universo e di Dio, un Dio concepito in termini molto vicini al deismo. Tutto

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questo progetto viene raggiunto tramite una capillare organizzazione della vita della comunità
seguita in ogni scelta e in ogni momento.
L’importanza di recuperare il valore dell’educazione umanistica, soprattutto delle lingue classiche,
viene propugnata da von Humboldt (1767-1835), che si occupa di pedagogia a partire dal 1809, nel
momento in cui diviene Ministro dell’Istruzione in Prussia. Egli deplora l’interessamento che i
pedagogisti del suo tempo mostrano esclusivamente dei confronti della scuola elementare e
dell’esaltazione delle scienze matematiche. Il suo piano scolastico di riforma si rivolge a tutto il
percorso formativo con l’obiettivo di mettere la scuola in condizione di impartire solo una
formazione umana generale ma assolutamente non specializzata, perché altrimenti non si ha la
possibilità di formare degli uomini, o dei cittadini, completi. L’istruzione è divisa in elementare (sul
modello di Pestalozzi), scolastica e universitaria. Di quest’ultima von Humboldt ha un’idea
precisa: essa è il luogo in cui lo studente compie ricerche per conto suo, sotto la guida del
professore; il lavoro universitario si ispira all’unità delle scienze e il suo momento qualificante è
l’attività individuale mentre la lezione collettiva è solo un momento secondario. Soprattutto, è
importante che chi si dedica allo studio universitario viva in una comunità di pari, consapevole di
essere circondato da altre persone che si dedicano al medesimo studio con la medesima passione.
Humboldt, peraltro, cerca di concretizzare questa idea di università fondandone una a Berlino,
divisa in 4 facoltà, teologia, medicina, diritto e filosofia, attribuendo a quest’ultima il ruolo di
promuovere la scienza pura.
Si occupa di pedagogia anche il primo grande filosofo dell’idealismo, Fichte (1762-1814) e la fa
soprattutto nei Discorsi alla nazione tedesca in cui afferma che esiste una radicale convergenza tra
etica e nazione; a suo giudizio, l’educazione deve farsi educazione nazionale per poter interpretare
le energie del popolo, esaltarle e realizzare una vera comunità guidata dallo Stato. Questi ha infatti
un compito principalmente etico che è quello di sviluppare l’energia spirituale dell’individuo e
collegarla ad un compito collettivo che la elevi ad una dimensione più universale.
L’etica è posta al centro del discorso pedagogico anche da Schleiermacher (1768-1834) ma si tratta
di un’etica che si afferma come libertà individuale; questo processo è guidato dall’educazione la
quale nutre il fanciullo di cultura e di storia e ne sviluppa l’autonomia in unione con la sua vita
spirituale. A questo mirano l’educazione religiosa e quella scolastica, rispettivamente nella sfera
morale e in quella civile, ma esse sono coronate dall’educazione religiosa. Nelle Lezioni di
pedagogia, inoltre, Schleiermacher sviluppa un’epistemologia pedagogica che coniuga teoria e
prassi, anzi, afferma che la teoria nasce proprio dalla prassi e si sviluppa per forza propria per poi
tornare direttamente alla prassi.
Richter (1763-1825) riprende il concetto dell’armonicità della formazione e vi pone al centro
l’educazione estetica; il suo interesse si rivolge principalmente alla prima infanzia e all’educazione
familiare in cui si deve tener conto sempre dell’a spontaneità del bambino e si deve manifestare
rispetto nei suoi confronti. Anche in questo caso, quindi, siamo di fronte ad una pedagogia
liberatrice incentrata sull’amore per l’infanzia; infatti, l’educatore non deve essere autoritario e deve
preservare la spontaneità del fanciullo e la sua innocenza ispirandosi al modello materno poiché il
vero motore dell’educazione spirituale è il sentimento.
La pedagogia romantica tocca infine il suo apice con Fröbel (1782-1852), seguace di Rousseau e
Pestalozzi, fondatore dell’Istituto di educazione tedesca universale, e propagandista della
formazione pedagogica di insegnanti e genitori. La concretizzazione più alta della sua opera
educatrice è il “giardino d’infanzia” istituito nel 1839. Fröbel concepisce l’infanzia partendo da un
presupposto religioso: Dio è presente e coincidente con la natura, è immanente ad essa, e quindi la
natura è sempre buona, in quanto partecipa della bontà divina, soprattutto nel bambino, che non è
ancora condizionato dalla società. Pertanto, l’educazione deve lasciar emergere la voce di Dio
dall’interno del bambino, potenziandone la capacità creativa e la volontà di immergersi nel mondo-
natura e di conoscerlo. L’attività specifica del bambino è il gioco che, per lui, è un’attività seria e
rimane tale finché, allontanandosene, il bambino non la sostituisce con il lavoro. I bambini devono
essere educati nei giardini di infanzia, che non sono solo asili, ma sono spazi attrezzati per il gioco

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e il lavoro infantile, per le attività di gruppo, guidati da una maestra giardiniera che indirizza i
piccoli alle attività senza però far assumere ad esse una forma organica e programmatica; infatti, nei
giardini predomina il gioco e l’intuizione delle cose. Per quanto riguarda il metodo, Fröbel, oltre a
privilegiare il gioco e l’attività estetica, sviluppa anche una “teoria dei doni”: essi sono materiale
didattico costituito da oggetti geometrici solidi (cubi, palle, cilindri) che servono ad avviare il
bambino alla comprensione della natura. Dotati di valore simbolico, i doni possono essere utilizzati
in molti modi ma il loro scopo principale è quello di iniziare i bambini ad una comprensione
simbolica, e quindi filosofica, del mondo, attraverso la loro composizione e la scomposizione.

Le pedagogie di Hegel e di Herbart.


Hegel (1770-1831) è indubbiamente il più grande filosofo dell’idealismo tedesco. Nelle sue
opere (Fenomenologia dello spirito, Lineamenti di filosofia del diritto…) non tratta in maniera
diretta il tema pedagogico, anche se il suo impianto filosofico rivela una costante attenzione per la
formazione umana, e anche se, negli anni in cui vive a Norimberga come rettore del ginnasio e
consigliere scolastico cittadino, si occupa dei problemi relativi ai vari ordini di scuole. La pedagogia
di Hegel è una sorta di umanesimo integrale in cui l’uomo è visto in uno svolgimento dialettico:
attraverso un sempre maggiore contatto con la realtà storico-sociale, lo sviluppo della coscienza da
naturale si fa oggettivo, fino a raggiungere il punto più alto che consiste in una sintesi armonica fra
io e mondo; in questo processo, sono fondamentali sia la vita della cultura che il lavoro. Hegel, in
sostanza, si riferisce ad un uomo che è immerso nella realtà storica e sociale e che percorre tutti i
gradi della formazione dello spirito universale considerandoli come “figure dello spirito” di cui
appropriarsi. Questo tipo di uomo deve immergersi nell’oggettività storica estraniandosi da se
stesso, superando il proprio essere naturale per confondersi con l’umanità in generale. Egli
conquista questa “autocoscienza” attraverso l’arte, la religione e la filosofia, ma alla base di questo
percorso è essenziale la volontà. Pertanto, per Hegel, l’apprendimento è dura disciplina, e
l’educazione mira a spingerlo a pensare e a produrre autonomamente. In tale contesto, viene
valorizzata anche l’abitudine, intesa come meccanismo che permette alle nozioni e alle conoscenze
apprese di non dileguarsi e permanere nella coscienza. L’apprendimento deve rivolgersi ai più vari
contenuti della cultura, disposti in ordine sistematico ma è la filosofia l’ultima tappa della
formazione culturale. Nelle classi superiori, essa si articola in studio del diritto, studio della morale,
studio della religione, mentre al livello più alto si presenta come studio dell’enciclopedia filosofica.
Oltre a ciò, l’uomo si forma anche attraverso la partecipazione alla vita sociale, mediante le
istituzioni educative che sono la famiglia, la scuola, la società civile e lo Stato. La famiglia ha il
compito di liberare il soggetto dalla sua naturalità per inserirlo in una nuova trama di relazioni
sociali; la scuola deve invece svolgere una funzione sociale, guidando il soggetto ad aprirsi verso il
mondo al di fuori della famiglia, e intellettuale, insegnandogli ad appropriarsi della cultura e a
rendere più universale la sua stessa esperienza. In definitiva, la paideia di Hegel si concentra
principalmente sull’aspetto storico e sociale della formazione umana, e in questo è debitrice della
lezione romantica e dello Sturm und Drang.
Ispirata alla filosofia di Kant, Leibniz e Fichte, è invece la filosofia di Herbart (1776-1841) intesa
come elaborazione di concetti che sono di natura anche psicologica, estetica e etica. La sua
pedagogia mira a formare l’uomo come totalità armonica e come persona responsabile, soprattutto
dando valore al carattere sul quale deve modellarsi l’educazione morale e quella estetica. Herbart si
richiama a Pestalozzi, a Rousseau e a Locke e ne mette in discussione alcuni concetti. Del primo
riprende la concezione più realistica dell’infanzia e l’idea di una pedagogia che sia anche tecnica
ma ritiene che egli non sia riuscito a dare al proprio pensiero una veste rigorosa; di Rousseau critica
i due paradossi a cui è giunto con il postulato della natura buona del fanciullo: da un lato, l’idea di
un rapporto che equipara educatore ed educando, dall’altro il fatto di non aver considerato che
prima o poi il fanciullo deve vivere in società, e in una società estremamente diversa da lui; infine,
di Locke critica l’aver limitato la sua teoria pedagogica al convenzionale, di aver agganciato i
processi educativi agli scopi immediati della società, perpetrando così i mali del presente. Herbart

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concepisce la pedagogia come scienza, ma come scienza filosofica che congiunge pratica e teoria,
arte e scienza. Essa si struttura di etica e psicologia. Riguardo quest’ultima, Herbart la vede come
una ricerca sperimentale, mentre l’etica è un’etica kantiana del dovere in cui, però, si esige
impegno, sforzo, e soprattutto si dà peso e valore all’esperienza. Lo scopo fondamentale è realizzare
il governo del fanciullo, scopo che richiede parimenti autorità ed amore, sia da parte della famiglia
che degli educatori. Parliamo infatti di plurilateralità dell’interesse che si attribuisce alle modalità
di formazione dei fanciulli: esse si muovono dall’acquisizione di conoscenze sempre nuove, di
paradigmi di conformità alle norme, e arrivano alla partecipazione all’umanità e alla società nel
complesso. Perché ciò avvenga, è necessaria l’attenzione, vista come il momento essenziale della
pedagogia. Si stimola l’attenzione servendosi di un contatto con le cose, da cui procedere verso i
concetti astratti, andando quindi sempre dal particolare verso l’universale. Il lavoro scolastico deve
svolgersi secondo “episodi” che coordinino gli argomenti e lo sviluppo più personalizzato dello
studio, affinché le nozioni apprese vengano assimilate nel profondo. Molto innovativa è poi la presa
di posizione di Herbart nei confronti dell’autonomia della scuola rispetto alla Chiesa e allo Stato;
egli rivendica un’educazione laica e affidata a scuola e famiglia.
Nonostante, un impianto forse eccessivamente intellettualistico, la pedagogia di Herbart si diffonde
in Germania ma anche negli USA e in Italia (con Labriola e Credaro) alimentando in diversi Paesi
la nascita di istituti che si ispirano alle lezioni herbartiane sia per la formazione dei discenti che per
quella dei docenti.

Le pedagogie borghesi in Francia, Inghilterra, Svizzera, Russia.


Come abbiamo più volte sottolineato, l’egemonia della classe borghese ha i suoi riflessi
pedagogici in tutta l’Europa, anche se si manifesta secondo modalità diverse: in Francia, si
sviluppano modelli assai differenziati ideologicamente e filosoficamente, in Inghilterra, invece, c’è
maggiore coesione, e l’omogeneità è garantita dal richiamo al modello dell’utilitarismo e
dell’evoluzionismo, in Russia, invece, la realtà pedagogica è più statica e meno evoluta, anche a
causa dell’arretratezza della struttura economica ancora legata al feudalesimo.
Ad ogni modo, l’800 vede l’egemonia borghese anche nella pedagogia ed è da questa pedagogia
borghese che si sviluppano anche altri modelli pedagogici più innovatori e radicali.
In Francia, con la Restaurazione si costruiscono pedagogie tradizionalistiche e spiritualistiche: de
Maistre auspica un modello di educazione legata alla tradizione di cui la Chiesa e il Papa sono
principali depositari; la pedagogia di Constant, invece, si basa sul liberalismo posto come
ideologia-guida della società moderna e pone al centro l’individui e la sua libertà civile, religiosa,
sociale. In una posizione intermedia si colloca invece Lamennais che cerca di coniugare religione e
libertà razionale, attuando una riforma di stampo prettamente pedagogico-religioso. Di
impostazione spiritualista è il progetto di de Biran che dà vita ad una psicologia non empirista e fa
perno sulla nozione di io-coscienza da cui deriva i principi che intende trasmettere agli individui.
Nello stesso periodo, sempre in Francia, Comte elabora una pedagogia laica, positivista,
razionalistica, scientifica, perfettamente funzionale allo sviluppo della società industriale, mentre su
un versante opposto Fourier e Proudhon elaborano il socialismo utopistico.
In Inghilterra assistiamo ad una maggiore linearità dal punto di vista teorico e ad una situazione più
complessa per quanto concerne la pratica. Le teorie, infatti, ruotano più o meno indistintamente
intorno all’empirismo sia in chiave utilitaristica che positivistica ed evoluzionistica. L’utilitarismo
concepisce un’educazione che sia non coercitiva ma che stimoli aspettative e bisogni nei soggetti; la
formazione umana si sgancia dalla moralità e si lega all’utilità e a ciò che è funzionale alla vita
degli uomini e della società intera. D’altra parte, poi, positivismo e empirismo recuperano il legame
della pedagogia con la razionalità e con l’esperienza. Su un piano completamente diverso si pone
invece il pensiero di Godwin, teorico dell’anarchismo, il quale è persuaso che in ogni tipo di
autorità e in ogni tipo di possesso, soprattutto nella proprietà privata, ci siano elementi di
corruzione; egli intende proporre un modello di società fondata sull’uguaglianza e compito di creare
questo modello spetta proprio all’educazione. Godwin sostiene l’importanza di un metodo libertario

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e non costrittivo, e una forma di educazione che non sia impartita in istituzioni statali ma in luoghi
liberi, affidata all’iniziativa di gruppi e di maestri che lavorino per insegnare la libertà.
Intanto, dal punto di vista pratico, alcuni filantropi si impegnano per migliorare la situazione
educativa inglese delle classi inferiori. A Raikes si deve l’apertura della scuola domenicale per i
poveri, a Bell la realizzazione del mutuo insegnamento, un modello per cui i poveri adulti e più
preparati insegnavano ai più piccoli; a Lancaster, infine, si deve l’aver portato questo progetto ad
un livello più alto: egli, infatti apre una scuola a Londra, molto frequentata, in cui l’insegnamento è
affidato ad un monitore, cioè ad un ragazzo già istruito che coordina il lavoro di apprendimento, in
un unicco ambiente, dividendolo in settori. Questo modello si diffonde non solo in Inghilterra, ma
giunge fino agli USA.
Sotto l’influenza di Pestalozzi, in Svizzera, si sviluppa un movimento pedagogico molto attento, di
cui due protagonisti di spicco sono Albertine Necker e Padre Girard. Negli anni 1835-1838, la
Necker pubblica L’educazione progressiva, un saggio nato dall’osservazione sui propri figli e da
un’accurata preparazione, in cui l’educazione è concepita come costante processo in divenire, verso
il perfezionamento di sé, un progetto progressivo che dura per tutta la vita anche se è scandito da tre
tappe fondamentali, infanzia, adolescenza, giovinezza, in un percorso che va dalla semplice
trasmissione di conoscenze, alla collaborazione fra educando ed educatore, fino ad una sorta di
auto-educazione. La Necker è totalmente contraria alla pedagogia rousseiana; inoltre, dedica alla
donna grande importanza, e ne sottolinea il fondamentale ruolo educativo. Per quanto concerne
Padre Girard, egli è un francescano che si interessa al mutuo insegnamento per le classi povere e
che, per le sue idee troppo avanzate, viene emarginato a partire dal 1815. Il tema centrale della
pedagogia di Padre Girard è l’insegnamento delle lingue che i bambini devono apprendere secondo
un metodo materno, che faccia leva su nozioni ed esperienze a loro note, e su lezioni non passive.
La Russia si trova in una situazione di grande arretratezza rispetto ai Paesi appena esaminati: qui,
solo all’inizio dell’800 vengono istituite scuole statali, ma quelle superiori vengono precluse ai
borghesi, e le scuole per l’infanzia nascono solo per iniziativa di privati. Il clima reazionario
instaurato dallo zar Nicola I sollecita richieste di maggiore libertà pedagogica e di interventi radicali
e mirati, da parte di diversi intellettuali, ma l’esperienza più interessante, dal punto di vista sella
formazione, resta quella del grandissimo scrittore Lev Tolstoj (1828-1910) che, nella sua tenuta di
campagna, nel 1861, si fa promotore dell’apertura di una scuola per i contadini, chiusa dalla polizia
dieci ani dopo. La sua pedagogia, di derivazione rousseiana concepisce l’educazione come il
formarsi della libertà attraverso la libertà; pertanto, Tolstoj ritiene che la scuola debba essere una
palestra di libere attività, che lo studio debba essere stimolato dall’interesse, e che il maestro debba
abbandonare i comportamenti autoritari e repressivi, per affidare agli allievi il compito di auto-
disciplinarsi. Una scuola allegra e serena è necessaria soprattutto per il popolo che deve apprendere
nozioni utili, che possano servirgli nell’attività pratica, ma che deve anche avere un contatto con i
valori estetici ed etici e deve sviluppare la propria formazione attraverso la prassi della solidarietà e
della fratellanza. La pedagogia di Tolstoj è stata valorizzata, dopo anni di severe censure,
dall’attivismo ed è stata considerata una delle voci più grandi, e ancora attuali, della pedagogia
ottocentesca.

La pedagogia italiana del Risorgimento.


All’intensa attività pedagogico-educativa dell’800 non si sottrae la penisola italiana, proprio
mentre essa attraversa il suo difficile percorso verso l’unificazione. Le diverse posizioni che si
prendono in Italia si catalizzano intorno allo spiritualismo cattolico e cattolico-liberale, e intorno
alla tradizione laica del pensiero liberale e democratico. La situazione italiana è caratterizzata da un
forte impegno ideologico e politico ma anche da un alto grado di conflittualità. 4 sono gli aspetti
principali che dobbiamo mettere in rilievo:
1. L’educazione pubblica da Cuoco a Cattaneo.
Dopo il 1815, la pedagogia si ispira ai principi democratici, nella convinzione del ruolo sociale e
politico che l’educazione assume nella società ormai trasformata. In questa nuova situazione

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Vincenzo Cuoco (1770-1823), avvocato napoletano, partecipa alla vita della Repubblica
partenopea, e nell’esilio che ne segue, a Milano, scrive il Saggio storico sulla rivoluzione
napoletana del 1799 in cui critica l’astratto rivoluzionarismo illuminista e giacobino, in nome di
una più attenta analisi della situazione concreta al fine di stabilire le concrete possibilità di
promuovere una rivoluzione di qualunque tipo. I suoi saggi pedagogici risalgono al periodo in cui
ritorna a Napoli e, sotto Giuseppe Bonaparte, ricopre importanti incarichi pubblici. Cuoco propone
una riforma della pubblica istruzione che, nonostante non venga attuata, influenza ampiamente le
varie realizzazioni scolastiche napoletane e italiane, soprattutto per i caratteri di laicità e di impegno
civile. La sua idea è che l’istruzione, per essere utile, debba essere anche universale (comprendente
tutte le scienze e tutte le arti), pubblica (deve essere un’istruzione per tutti, una per molti e una per
pochi) e uniforme (ben regolata e uguale in tutto lo Stato). La scuola si divide in tre gradi: il grado
primario riguarda le nozioni necessarie a tutti gli uomini e deve essere gratuito e presente in ogni
comune; quello medio, privilegia le scienze necessarie alla vita, ed è destinato a pochi; infine, il
grado sublime o universitario, si basa sulla specializzazione e avvia alla formazione nelle
professioni liberali. Vi è, in questo progetto, il tentativo di separare l’istruzione popolare da quella
borghese e delle classi dirigenti, in piena consonanza con il clima dell’epoca, ma vi è anche un
atteggiamento storicistico che richiede di trattare i problemi legati all’istruzione guardando alle
tradizioni dei vari popoli.
A Milano si svolge l’attività pedagogica di Giandomenico Romagnosi (1761-1835) incentrata sulla
valorizzazione dell’educazione sociale che è la partecipazione delle giovani generazioni alla cultura
della comunità in cui vivono. Romagnoli invita alla formazione di una mente sana, attraverso la
congiunzione di sensazioni e senso logico; sulla base di queste considerazioni psicologiche e
didattiche, egli elabora un progetto di educazione nazionale per cui immagina una scuola primaria
gratuita e comune a tutti fino a 7 anni, ove si trasmettano le nozioni di base del leggere e scrivere e
un catechismo nazionale per i maschi, e la filatura e la tessitura per le femmine. Dai 7 ai 12 anni, si
ha la scuola preparatoria, riservata ai ceti medi e a pagamento. Fino ai 18 anni, poi, l’istruzione si
basa sull’insegnamento delle scienze e sulla formazione pratica del giovane, a partire dai sensi,
attraverso la fantasia, fino alla ragione, che rappresenta l’elemento capace di assicurare alla mente
la sua funzione più attiva.
Posto costante e significativo occupa la pedagogia nella vasta produzione di Carlo Cattaneo (1801-
1869), giornalista, studioso, fautore del Politecnico, la rivista che ha lasciato l’impronta più
significativa sulla cultura italiana in senso scientifico e laico. La sua riflessione sull’educazione
valorizza innanzitutto il valore dell’istruzione nella formazione di ogni uomo e cittadino, ma anche
il fine pratico dell’istruzione, di tutta l’istruzione, incluse le lingue morte; inoltre, attribuisce priorità
all’insegnamento delle scienze e alla formazione di una mentalità scientifica; infine, si richiama ad
una centralità dell’educazione nei processi di elevazione civile delle classi sociali e dell’intera
nazione. Ne deriva la proposta di aprire delle scuole di agraria, economia, chimica, meccanica, in
cui l’apprendimento avviene anche attraverso l’attività di laboratorio. Cattaneo crede
nell’importanza dei processi sociali nell’apprendimento e perciò esso deve essere sempre legato alla
storia e alla civiltà; la stessa filosofia viene ricollegata al terreno storico.
2. La pedagogia di Rosmini, Gioberti e Mazzini.
Antonio Rosmini (1797-1855) è il grande rappresentante dello spiritualismo personalistico
ottocentesco. Ha dedicato tre importanti scritti alla pedagogia:
 Sull’unità dell’educazione, 1826: si tratta di un saggio giovanile in cui Rosmini sostiene
che l’educazione debba essere unica e coerente; questa unità può esserle garantita solo
dall’elemento religioso che deve dominare i processi formativi; infatti, essa si è avuta con la
comparsa del Cristianesimo e ha raggiunto l’unità nei suoi fini, nelle sue dottrine e nelle potenze,
cioè nelle potenzialità da realizzare. L’insegnamento deve adeguarsi anche all’ordine delle cose al
di fuori degli uomini e anche questo obiettivo si può realizzare solo tramite la conoscenza e l’amore
di Dio nello spirito umano. Questo saggio di Rosmini esalta dunque lo spiritualismo ma afferma
altresì il valore dell’individuo in tutto ciò che ha di proprio e caratteristico.

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 Del supremo principio della metodica, 1839: quest’opera fondamentale presenta
un’analisi più diretta sull’educazione; in particolare, Rosmini osserva la mente infantile e la
qualifica come caratterizzata da benevolenza, pienezza di vita e sensibilità, anche se, con la crescita,
essa viene dominata dall’intelletto, dagli ideali e dal senso della realtà. Tutto ciò implica che
l’educazione si adatti alla specificità della vita psichica infantile e alla sua libertà; Rosmini fa
diversi riferimenti a Rousseau e anche fini osservazioni di psicologia infantile. Dal punto di vista
metodologico, egli esalta il metodo deduttivo che parte dal generale per arrivare al particolare,
perché è il metodo più fecondo in qualsiasi disciplina, purché il fanciullo venga accostato alle
conoscenze in modo graduale, logicamente e analiticamente, anche se, in altre opere, Rosmini si
corregge e auspica anche l’utilizzo del metodo opposto, quello deduttivo.
 Della libertà dell’insegnamento, 1854: si tratta di articoli che rivendicano alla Chiesa il
diritto di insegnare contro ogni monopolio statale nell’ambito scolastico. Diritto esclusivo della
Chiesa è amministrare la formazione religiosa, mentre le altre parti dell’istruzione e dell’educazione
possono rientrare anche in un altro tipo di insegnamento. Questi articoli sono certamente più vicini
alla situazione politica e storica dell’epoca e quindi sono connessi strettamente alle battaglie
ideologiche del tempo.
Vincenzo Gioberti (1801-1852) ha trattato direttamente l’educazione nelle sue opere, inclusa
l’Introduzione allo studio della filosofia del 1840. Anch’egli si esprime in difesa dell’educazione
cristiana e cattolica, realizzata dalla Chiesa mediante il catechismo e la disciplina. Tuttavia, Gioberti
si oppone ai tradizionali metodi formativi ecclesiastici, principalmente ai Gesuiti, e pur respingendo
le tesi libertarie di Rousseau, e quelle liberali in materia di istruzione, aderisce alle esigenze
moderne di un’educazione pubblica gestita dallo Stato poiché, come affermavano gli illuministi,
l’educazione moderna non può più essere domestica o privata dal momento che si tratta di formare
dei cittadini. Inoltre, l’educazione deve rivolgersi, ad un primo livello, a tutto il popolo, per poi
specializzarsi ed essere indirizzata solo agli ingegni più eletti. Il cattolicesimo di Gioberti è un
cattolicesimo liberale, che si apre alle nuove istanze di libertà (di stampa, di educazione, di
associazione) senza però rinnegare i fondamenti metafisici e teologici del proprio sistema filosofico.
Ad uno spiritualismo di tipo laico ed etico si ispira invece Giuseppe Mazzini (1805-1872) che, dal
punto di vista meramente pedagogico, si pone come educatore del popolo e postula una “religione
dell’umanità” che si fondi sull’unione di Dio, azione e dovere, per vivere politicamente nel nome
dell’ideale della Patria.
3. I cattolici liberali: Lambruschini, Capponi, Tommaseo.
I cattolici liberali sono un gruppo che in Italia è presente soprattutto nelle regioni con economia più
avanzata, ed è caratterizzato da una radicale opposizione ai principi anticristiani e razionalistici
dell’illuminismo, da un’apertura culturale internazionale, e da una vivace sensibilità per le esigenze
di libertà del popolo, di stampo tipicamente romantico. Il loro cattolicesimo è ortodosso ma non
chiuso, e si ispirano ad uno spiritualismo di stampo nuovo; dal punto di vista politico, inoltre,
sostengono l’opposizione all’alleanza trono-altare della Restaurazione e cercano di valorizzare al
massimo il ruolo delle masse nella società. Al centro della loro pedagogia, disciplina considerata
eccezionale per la formazione di una lasse popolare evoluta, collaborativa verso lo Stato e guidata
dai genuini principi del cristianesimo. Il problema principale per i cattolici liberali è chiarire il
rapporto tra autorità e libertà per il quale cercano di trovare una soluzione di mediazione e di
compromesso senza però riuscirvi pienamente.
Raffaello Lmbruschini (1788-1873), genovese, iniziato alla carriera ecclesiastica, dopo il 1816, si
ritira in una sua tenuta dove crea una scuola convitto; intanto ha contatti con gli intellettuali
contemporanei e si dedica ad una intensa attività politica nell’ala federalista e moderata. Scrive
molti testi dedicati all’educazione tra cui quelli più audaci e innovativi, sono restati inediti e sono
stati riscoperti solo recentemente. Il suo capolavoro resa la rivista Guida dell’educatore
specializzata in pedagogia, prima rivista di questo genere in Italia, in cui affronta tematiche relative
all’arte, alla scienza, alla teoria e alla didattica educativa. La visione religiosa di Lambruschini parte
da una critica ala forma storica del cristianesimo in cui la politica si immedesima in una religione

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dogmatica e autoritaria; ad essa, contrappone la religione del Vangelo, mirante ad edificare
l’armonia tra gli uomini. Quello che Lambruschini rifiuta è la Chiesa che viene fuori dalla
Restaurazione, rigida e autoritaria, immobile, dal momento che per lui la religione è un legame
dell’uomo con Dio e degli uomini tra loro, una forza dinamica e liberatrice che agisce sia entro il
singolo che entro la società. La Chiesa deve riformarsi e spogliarsi dei suoi dogmi per ottenere
questo risultato: il clero dovrebbe essere ridotto di numero, i parroci dovrebbero avere più
responsabilità, il celibato ecclesiastico dovrebbe essere abolito ecc… Lambruschini presta anche
una particolare attenzione al tema della libertà, intesa come rimozione degli impedimenti per poter
seguire i dettami della coscienza. Egli in Dell’autorità e della libertà afferma che “la moralità è
inseparabile dalla libertà” ma si tratta di una libertà che si esplica sempre in un contesto sociale
fatto anche di leggi e di vincoli, per cui essa va temperata con la sottomissione, soprattutto laddove
ci sono debolezza e ignoranza. L’autorità è un principio creato appositamente per gli uomini, e
questo principio alimenta la religione cristiana: se la libertà è la coscienza che rispetta la legge,
l’autorità è la legge che rispetta la coscienza. Da questa teoria deriva la separazione netta che
Lambruschini fa tra Chiesa e Stato, due autorità che devono aiutarsi a vicenda, stare tra loro in
rapporti amichevoli, ma restare comunque distinte e separate. Peraltro, egli cerca di realizzare i suoi
principi in maniera concreta nelle istituzioni, asili, scuole di mutuo insegnamento, bande musicali,
che crea nel corso della sua carriera di pedagogo. Senza contare che il rapporto tra autorità e libertà
viene applicato anche al legame fra alunno e docente: quest’ultimo deve spingere il primo a fare
quello che è giusto anche se a lui ciò possa dispiacere, ma nello stesso tempo, come affermava
Pestalozzi, l’educatore deve mostrare dedizione amorevole verso il suo allievo.
Gino Capponi (1792-1876) unisce al suo cattolicesimo liberale una punta di scetticismo filosofico,
e un certo pessimismo antropologico; nato in una ricca famiglia toscana, Capponi entra presto in
contatto con tutti i più famosi intellettuali del suo tempo, e nel 1848 è nominato Presidente del
Consiglio. I suoi scritti principali sono rivolti all’indagine storica mentre quelli di pedagogia sono
relativamente scarsi ma significativi. Capponi mostra una esplicita diffidenza nei confronti della
filosofia metafisica e sistematica, tanto che il suo pensiero si avvicina alle riflessioni dei moralisti o
degli empiristi. Al centro della sua teoria vi è la valorizzazione del buon senso e l’attribuzione di un
peso al “fare” che è ben maggiore rispetto al “conoscere”; il momento supremo della conoscenza è
la riflessione religiosa, aspetto supremo della verità. L’opera a più alto valore pedagogico di
Capponi sono i Pensieri sull’educazione, in cui si intrecciano 4 temi fondamentali: critica al
naturalismo di Rousseau, rapporto educazione-proprietà, critica all’educazione ecclesiastica e studio
del carattere dell’infanzia. secondo Capponi, Rousseau avrebbe basato la sua pedagogia su
un’immagine di fanciullo impossibile, da cui sarebbe derivata una forma di educazione altrettanto
impossibile (leggi la critica a Emilio pag. 231) per cui a questo modello va sostituito un modello di
educazione sociale che colleghi la formazione dell’individuo e la partecipazione alla vita delle
comunità, mediante norme, regole e ideali. La forza dell’educazione degli antichi stava proprio in
questo legame con le leggi della città, mentre il cristianesimo ha rotto questo rapporto, privilegiando
la coscienza individuale e dando vita all’educazione moderna, problematica e inquieta che separa
individuo e società. Se col cristianesimo l’educazione passa nelle mani degli ecclesiastici e tende a
formalizzarsi e irrigidirsi, e ad acquisire un metodo specifico, specialmente con i Gesuiti, colpa
della modernità, per Capponi, è aver espropriato il clero del compito di educare. Al centro del
processo educativo, inoltre, si valorizza la natura dell’infanzia e il suo pensiero tipico che Capponi
definisce sintetico, caratterizzato dal sentimento e dalla ragione insieme. Ad ogni modo, il suo
progetto educativo prevede la centralità della religione poiché egli ritiene inutile ogni discorso
morale che non sia avvalorato dai precetti del Vangelo.
Niccolò Tommaseo (1802-1874), ardente patriota, studioso di lingua e letterato, si occupa di
educazione anche se non in forma sistematica. Per lui vitale è l’educazione del popolo, che va
attuata in ogni atto della vita pubblica, allo scopo di risvegliare negli individui il senso morale e
politico. L’educazione nazionale va affidata alla milizia delle arti e delle scienze, in istituzioni
scolastiche sia pubbliche che private. A queste tesi, Tommaseo affianca riflessioni sulla didattica e

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sul rapporto fra maestro e scolaro, ma anche osservazioni sulla psicologia dell’infanzia e
sull’educazione della donna.
4. Ferrante Aporti, Enrico Mayer e gli asili infantili.
Nel corso dell’800, da più parti, in Italia, si sente l’esigenza di un’educazione popolare, e su questo
punto sono unanimi le voci dei liberali e dei democratici, benché l’espansione dell’istruzione a
livello popolare, per molto tempo, sia affidata all’iniziativa dei privati. Vi si oppongono i reazionari,
i Gesuiti prima di tutti, convinti che l’istruzione distrugga la morale, che allontani il popolo dalla
felicità. La borghesia al contrario si interessa vivamente del problema e cerca di avviare esperimenti
locali di alfabetizzazione e di formazione etica e civile dei ceti inferiori. Larga diffusione hanno le
scuole di mutuo insegnamento, soprattutto a Nord e al Centro Italia, miranti a mettere i giovani
delle classi subalterne in condizione di saper leggere, scrivere, far di conto, ma anche a favorire
atteggiamenti di reciproca solidarietà.
Ferrante Aporti (1791-1858), sacerdote e professore mantovano, apre a Cremona il primo Asilo
Infantile, modello per la diffusione di altri istituti simili nelle più diverse città italiane. Gli asili
aportiani (da lui stesso definiti “scuole infantili per i poveri”) fioriscono soprattutto in Piemonte,
Lombardia e Toscana, mentre vengono avversati a Napoli e a Roma; ad ogni modo, il loro successo
si lega anche al fatto che essi vengono incontro alle esigenze delle famiglie più povere che, in un
momento di radicale trasformazione economica e sociale, non sono in grado di occuparsi
dell’adeguata educazione dei fanciulli. Gli asili sono aperti per i fanciulli dai due anni e mezzo ai
sei; l’educazione avviene attraverso varie attività organizzate, gioco, preghiera, canto, disegno.
L’interesse dei ragazzi è stimolato da storie e racconti, soprattutto di tipo sacro, sempre tenendo
conto che l’obiettivo finale dell’insegnamento è la formazione morale che indirizzi i fanciulli verso
le virtù tipicamente cristiane.
Enrico Mayer (1802-1877), di posizioni politiche democratiche, scrive opere e saggi pedagogici,
confluiti nella raccolta Frammenti di un viaggio pedagogico del 1867. Egli ha una precisa visione
dei rapporti tra le classi sociali che si basano sullo sfruttamento e la miseria del popolo, un popolo
che è certo in una condizione di dipendenza ma da essa può essere riscattato mediante un intervento
educativo e politico insieme. Proprio per cominciare ad educare i fanciulli sin dalla più tenera età,
Mayer ritiene che un ruolo cruciale sia svolto dagli asili, gli iniziatori di un nuovo sistema di
educazione popolare, riformatori della pubblica morale, talmente importanti che le istituzioni
dovrebbero esigere disposizioni coercitive per le famiglie che per ragioni economiche non mandano
i figli all’asilo. Il merito di Mayer non sta tanto nell’elaborazione teorica, che non è originale ma si
ispira a lezioni precedenti, quanto per l’impegno concreto svolto nel mettere in relazione politica,
società ed educazione e per le lotte a favore dell’emancipazione delle classi subalterne.

Società industriale e educazione: tra Positivismo e Socialismo.


Abbiamo già precisato che l’avvento della rivoluzione industriale, oltre a trasformare
radicalmente la società, comporta un cambiamento anche nella pedagogia che infatti si riorganizza,
ridefinisce i propri obiettivi, assume finalità più laiche, si specializza in relazione alle tecniche e si
collega sempre più all’ideologia. Vengono infatti a delinearsi due modelli pedagogici opposti:
quello borghese, ispirato al Positivismo, e quello proletario, ispirato al Socialismo. Il primo
valorizza la scienza, la tecnica, l’ordine borghese, e rappresenta l’ideologia di una classe capitalista
e produttiva; il secondo, al contrario, si richiama ai valori che l’ideologia borghese nega, come la
solidarietà, l’uguaglianza, la partecipazione popolare al potere, nella prospettiva di una lotta che
porti ad una società senza classi. Vediamo ora i riflessi che Positivismo e Socialismo hanno sulla
pedagogia, ricordando che le due aree di pensiero, benché in contrapposizione, si contaminano, si
incontrano e talvolta si sovrappongono.

Positivismo e pedagogia in Francia e Inghilterra.


La pedagogia positivista rinuncia al principio romantico che attribuisce un valore quasi
esclusivo all’individuo e alla sua spontaneità e creatività; essa si fonda, invece, sulla scienza, tende

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a trasformarsi in una disciplina organica e rigorosa, ridefinendo i propri strumenti concettuali, così
come i curricula formativi, e adeguando i metodi di ricerca a quelli delle scienze fisiche e
matematiche. Questo significa che l’educazione diventa il dovere essenziale della società moderna e
il diritto fondamentale di ogni cittadino, nella direzione di un’evoluzione in senso laico e razionale
della vita collettiva. I limiti di questa impostazione stanno nel fatto che tale pedagogia scientifica
resta a livello di abbozzo, di enunciato che non si concretizza mai fino in fondo, e sfocia anche in
una specie di eccessivo nozionismo ed enciclopedismo sterile. La prima diffusione del positivismo
pedagogico si ha a metà ‘800 in Francia e in Inghilterra. In Francia, troviamo il vero e proprio
fondatore del Positivismo, Comte (1798-1857) che, pur riproponendosi di elaborare un sistema
organico di pedagogia, non porta a termine questo compito, ma ad ogni modo espone il proposito di
una educazione che si faccia scienza, per essere realmente efficace, sganciandosi da ogni vincolo
con l’educazione tradizionale metafisica ed astratta. Un lavoro specifico per l’educazione dei
ragazzi handicappati viene invece portato avanti da Séguin (1812-1880) secondo un progetto
educativo che dal piano sensoriale e motorio giunga fino alla maturazione dell’intera personalità, in
un ambiente che non sia segregante e chiuso, ma stimolante, libero e meno istituzionalizzato.
Séguin pone quali elementi fondanti dell’educazione la sensazione, l’intelletto e la volontà e auspica
un potenziamento dello sviluppo di tutti gli organi. Con Durkheim (1855-1917), esponente di
spicco della sociologia positivista, la società torna ad occupare un ruolo chiave nei processi
educativi; egli definisce l’educazione come un mezzo per conformare gli individui a norme e valori
collettivi, e per tramandare alle giovani generazioni le tradizioni e le conquiste raggiunte dalla
società; essa si rivela un’azione che gli adulti esercitano sui giovani che non sono ancori per la vita
sociale. In generale, l’educazione si caratterizza prevalentemente come arte ma nelle complesse
società moderne, essa tende a specializzarsi come scienza e teoria pratica. Nelle sue opere
(L’educazione morale, Pedagogia e sociologia) Durkheim sviluppa un progetto educativo che si
adatti alla società attuale e che quindi abbia caratteri laici e razionali, senza trascurare lo spirito di
disciplina che pure è fondamentale per promuovere la formazione sin dall’età infantile.
In Inghilterra, invece, l’orientamento positivista si intreccia con la tradizione dell’empirismo.
Herbert Spencer (1820-1903) nella sua Educazione intellettuale, morale e fisica si propone due
principali obiettivi: la critica del costume educativo contemporaneo, meramente decorativo e quindi
lontano dall’utilitarismo, che privilegia l’educazione classica rispetto a quella scientifica, e la
proposta di un modello educativo nuovo che miri a formare un uomo capace di vivere una vita
compiuta. La pedagogia, pertanto, dovrebbe recuperare il suo fondamento naturale sia
nell’educazione fisica (in linea con la tradizione pedagogica di Locke) che in quella intellettuale e
morale. Al centro dell’interesse formativo deve esserci il principio dell’utile e per questo la
pedagogia si fa dinamica, industriale, scientifica e commerciale. Questo significa che anche il
metodo deve essere mutato: si deve partire non dalle nozioni e dal loro ordine logico ma dalle
esigenze dell’evoluzione psicologica del fanciullo e dalle esperienze concrete e utili che egli fa;
l’ordine con cui impartire le nozioni deve ricalcare le scoperte compiute dall’umanità, per garantire
un apprendimento più scandito, che vada dal semplice al complesso, e che sia sempre legato
all’esperienza. Più nello specifico, Bain (1818-1903) delinea un modello di pedagogia fisiologica e
psicologica che si organizzi in due settori fondamentali: la scienza e il linguaggio. La prima prepara
alla pratica e stimola una mentalità non dogmatica, mentre il linguaggio va appreso non mediante
l’insegnamento grammaticale ma attraverso l’uso pratico. Per Bain fondamentalmente il momento
culminante dell’educazione si situa sul piano morale, con l’abitudine all’obbedienza, forgiata con
l’esempio e con la giusta attribuzione di castighi e ricompense, e la presentazione di lezioni di
morale.

La pedagogia del Positivismo italiano.


Il fatto che il Positivismo proponga l’idea di una pedagogia scientifica non significa che essa
perda il suo legame con la società e la politica e il suo impegno in questo senso, tant’è che i
positivisti continuano ad interessarsi ai problemi dell’educazione popolare, della didattica e del

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riordinamento della scuola, nella convinzione che l’educazione sia lo strumento di una rivoluzione
pacifica. Anche la scuola italiana, a seguito del loro influsso, si pone come più moderna e inserita
nella cultura dell’era industriale. Quattro sono i fondamenti della pedagogia positivista: laicismo,
rapporto con scienza e società, educazione come strumento politico, problema del metodo
dell’insegnamento.
In Italia, la pedagogia positivista si dispone su due filoni di ricerca: da un lato, ci sono i positivisti
scientifici, fautori di una pedagogia sistematica, deterministica, ma astratta e lontana dai problemi
del reale, e dall’altro lato ci sono i positivisti pratici che si impegnano nella battaglia per il
rinnovamento pedagogico servendosi di canali non necessariamente scolastici. Nella cerchia degli
scientifici troviamo il padre della pedagogia positivista italiana, Andrea Angiulli (1837-1890),
autore de La filosofia positiva e la pedagogia. Per lui, la pedagogia è insieme una scienza sociale e
una scienza naturale per cui si raccorda in maniera complessa anche con altri saperi e altre scienze;
essa ha il compito di collaborare con l’attività dello Stato per instaurare una politica positiva.
Roberto Ardigò (1828-1920) è lo studioso che contribuisce alla definizione della pedagogia come
scienza dell’educazione. L’educazione va pensata come formazione naturale e si realizza sempre in
un determinato contesto ambientale che la condiziona; di esso fanno parte diversi agenti educativi
come la famiglia, gli educatori di professione, le scuole professionali, le istituzioni speciali. La
pedagogia di Ardigò è una pedagogia dell’abitudine, strettamente connessa sia alla filosofia positiva
che ai principi deterministici dell’evoluzionismo, ma con in più un carattere socializzante che ne
caratterizza la specificità. In questo ambito, troviamo altri autori come De Dominicis, Siciliani,
Fornelli, tutti accomunati dall’enfatizzazione della componente scientifica.
Tra i positivisti pratici, invece, merita di essere menzionato innanzitutto Pasquale Villari (1827-
1917) storico attento principalmente al problema economico rispetto a quello educativo. Villari
effettua una serie di inchieste sulla scuola e la formazione in molti Paesi stranieri mostrando un
approccio al problema educativo di tipo comparativo, molto utile per approfondire lo studio delle
istituzioni scolastiche. Infatti, la sua analisi rivela una concretezza singolare. Ma il maggior
pedagogista pratico è Aristide Gabelli (1830-1891) provveditore scolastico e senatore, autore di
molti saggi e articoli sulla scuola e sull’educazione. Gabelli è un uomo di destra, con idee liberali e
illuminate ma terrorizzato dall’ipotesi di una qualunque rivoluzione. Ritiene che le masse debbano
essere guidate da una classe autorevole e cosciente, ma al contempo autoritaria, auspicando una
democrazia che non è affatto universale; soprattutto si esprime in difesa della proprietà privata
considerata il cardine della vita sociale. Il suo modello politico è l’Inghilterra, ed egli ritiene che la
democrazia vada realizzata con l’azione pedagogica allo scopo di elevare il popolo. Dal punto di
vista più specificamente pedagogico, la scuola assume per Gabelli un ruolo centrale, intesa come
scuola statale, laica ed obbligatoria. L’educazione, infatti, grazie ad una formazione coordinata del
fisico, dell’intelletto e del sentimento morale, mira a formare lo strumento testa, cioè la capacità di
giudizio autonomo e razionale degli individui tutti.

I socialisti utopistici e l’educazione.


I socialisti utopisti manifestano l’esigenza di riorganizzare la società sulla base
dell’uguaglianza tra gli uomini e di giustizia sociale, per un rinnovamento della società in cui muti
anche il fondamento antropologico dell’uomo-cittadino. Sostanzialmente, si tratta di rivendicare una
emancipazione culturale ed umana da realizzare in una società terrena che non si richiami in nessun
modo al trascendente. Tutto ciò è possibile proprio grazie al sapere, concepito come strumento di
conoscenza e strumento di trasformazione della realtà.
In Francia, si svolge l’azione incisiva e rivoluzionaria di Babeuf (1760-1797) fiero avversario della
proprietà privata e sostenitore della lotte di classe; dal punto di vista pedagogico, Babeuf crede nel
valore formativo del lavoro e quindi in una congiunzione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale.
L’educazione deve essere nazionale, fornita a tutti dallo Stato che può pagare i maestri con il
ricavato della vendita dei beni confiscati alla Chiesa. Questa nuova educazione deve contrastare
qualunque tipo di preconcetto e promuovere i principi della solidarietà, nella consapevolezza che la

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società è una grande famiglia in cui tutti hanno i medesimi diritti. Vanno soprattutto abbattuti i
pregiudizi dell’educazione corrente, come il mito della superiorità del talento di alcuni individui, o
il principio per cui il lavoro intellettuale meriti un salario maggiore rispetto a quello manuale. Molto
più moderato e decisamente conformista è invece il modello pedagogico di Saint-Simon (1760-
1825) dal momento che egli concepisce una società in cui i vertici, cioè industriali, scienziati e
artisti, e poi avvocati e banchieri, agiscano a vantaggio delle classi più basse, una società il cui
cemento è costituito dal nuovo Cristianesimo basato sulla fratellanza universale. Pertanto, Saint-
Simon sottopone a critica le strutture educative esistenti, e si interessa all’attività volta a
promuovere l’educazione del popolo. Anche per Proudhon (1809-1865) l’educazione è il principio
motore del rinnovamento sociale, dal momento che l’organizzazione dell’insegnamento è la
condizione dell’uguaglianza e la sanzione del progresso; tuttavia, in tal senso, la sola educazione
non basta, ma occorre una vera e propria rigenerazione per la quale non servono le iniziative
filantropiche delle classi superiori ma devono essere fissati i principi dell’educazione professionale
e i diritti dell’operaio. All’educazione borghese, che Proudhon critica fortemente, contrappone
l’educazione dell’operaio evoluto ed eticamente formato.
Indubbiamente, però, sono due gli autori più originali ed organici nell’ambito della pedagogia
utopistica. Il primo è Fourier (1772-1837); egli immagina una società organizzata secondo criteri
anti-autoritari, e secondo stili di vita artigiana e contadina, nel nome dell’armonia e della
solidarietà. La sua società ideale è strutturata in comunità in cui gli individui sono in totale libertà.
Oltre a questo, Fourier è sostenitore di dottrine che hanno fatto scandalo per molto tempo come
l’eliminazione del matrimonio, la liberalizzazione della sessualità, la totale uguaglianza fra uomo e
donna; critica, inoltre, la famiglia, accusata di un eccessivo autoritarismo che non fa altro che
provocare frustrazioni e ribellioni nel fanciullo, e la scuola, legata ai privilegi delle classi dominanti
e ad una visione del lavoro esclusivamente intellettuale. La formazione di tutti i giovani deve invece
essere integrale, rivolta allo spirito e al corpo insieme, e soprattutto deve essere socializzante.
Fourier immagina questo tipo di formazione nel paese di Armonia, da 0 a 19 anni, distinti in 9 gradi
differenziati. Il secondo autore del socialismo utopistico è Robert Owen (1771-1858); egli è
guidato dall’idea di fondare una perfetta colonia modello. A tale scopo, nel 1822, elabora un piano
di riforma generale della società ispirato a criteri comunistici che addirittura cerca di realizzare nel
territorio statunitense col nome di New Harmony, ma senza successo. Per Owen il lavoro e lo studio
devono procedere di pari passo e devono essere accompagnati da attività ludiche e fisiche, come il
canto o la danza, secondo un modello educativo uguale per tutti, e in edifici ampi, funzionali, dotati
da refettorio e infermeria. Inoltre, Owen presta grande interesse alle condizioni disumane in cui si
trova la classe operaia e dimostra di avere una profonda coscienza del rinnovamento cui deve essere
sottoposta l’organizzazione del lavoro per emancipare realmente il proletariato.

Marx (1818-1883), Engels (1820-1895) e la pedagogia.


Naturalmente, anche la pedagogia marxista è strutturata su base rigorosamente storico
materialista: si mette in rilievo, pertanto, il contesto economico e sociale all’interno del quale
l’uomo va formandosi come individuo. Per Marx, l’uomo si è alienato dall’organizzazione
capitalistica del lavoro e dalle ideologie che esso esprime, ma è altresì un ente attivo che, attraverso
il lavoro e la prassi rivoluzionaria, prepara il proprio riscatto. Infatti, il lavoro è il centro della vita
individuale, e della formazione, solo attraverso di esso l’uomo può emanciparsi; sono dunque,
questi, i due principi che guidano l’antropologia e la pedagogia di Marx: il ruolo centrale e
dialettico del lavoro e l’idea dell’uomo onnilaterale. Quest’ultimo concetto si contrappone alla
visione dell’uomo unilaterale, caratterizzato dallo sviluppo di capacità soltanto settoriali: Marx
ritiene che l’evoluzione economica e politica della società moderna conduca alla formazione di un
uomo nuovo che vada oltre la divisione storica del lavoro. Marx e Engels derivano proprio dallo
studio dei meccanismi della società capitalistica, la loro sociologia dell’educazione. Engels rileva
l’insufficienza della classe popolare in Inghilterra denunciando le condizioni di precarietà della
scuola per il popolo. Marx, in diversi passi delle sue opere principali, ribadisce quanto l’educazione

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sia dipendente dalla classe dominante, e come la scuola altro non sia che uno strumento ideologico
che esprime la concezione del mondo e gli interessi della classe al potere. L’industrializzazione ha
comportato una profonda divisione tra le classi sociali, principalmente borghesia e proletariato, così
come ha contribuito alla dissoluzione della famiglia, poiché hanno mutato le condizioni di vita dei
suoi membri e anche i rapporti tra i sessi e tra i genitori e i figli. Marx ha anche prestato particolare
attenzione alle condizioni di vita dell’infanzia nelle società industriali e allo sfruttamento cui
vengono sottoposti i fanciulli, condannati a condizioni di estrema miseria spirituale e materiale. In
sintesi, per Marx ed Engels non è possibile parlare di educazione se non facendo riferimento alla
realtà socio-economica e alla lotta di classe, di modo che la pedagogia viene a perdere ogni aspetto
idealistico e neutrale. Ma i due filosofi del materialismo storico, elaborano una proposta educativa,
sviluppata intorno al ruolo fondamentale assegnato al lavoro nell’ambito scolastico, il lavoro inteso
in senso produttivo, cioè legato alla fabbrica. Marx, nelle Istruzioni ai delegati, ipotizza la divisione
dei fanciulli in tre classi di età in cui essi si dedichino per un numero di ore prestabilite proprio
all’attività lavorativa. L’istruzione è suddivisa da Marx in:
 Prima: Formazione spirituale
 Seconda: Educazione fisica
 Terza: Istruzione politecnica.
Questa terza parte è sicuramente la più significativa, caratterizzata dall’uso pratico e dalla capacità
di maneggiare gli strumenti elementari di tutti i mestieri.
Il pensiero di Marx ed Engels esercita una forte influenza soprattutto all’interno delle realizzazioni
educative intraprese dalla Comune di Parigi del 1871: qui, infatti, con un decreto, l’istruzione
popolare viene sganciata da ogni finalità religiosa, cercando di realizzare la fusione dello studio con
il lavoro produttivo, per avviare un nuovo tipo di educazione che comprenda un’ampia preparazione
professionale e, al contempo, una rigorosa istruzione scientifica, sempre allo scopo di formare
uomini completi. Infine, la Comune rivolge un’attenzione nuova agli asili, in cui si introduce
un’educazione completa dei bambini

Labriola e la pedagogia marxista in Italia.


Antonio Labriola (1843-1904), seguace della filosofia di Herbart, comincia ad interessarsi di
pedagogia nel periodo in cui diviene direttore del Museo di Istruzione ed Educazione di Roma (dal
1877 al 1881). In questi anni, sviluppa una ridefinizione dell’educazione popolare democratica e
progressista; in tal senso, egli valorizza l’insegnamento della storia intesa come storia collettiva,
con una funzione civile e morale molto forte. Nel cosiddetto periodo marxista, Labriola,
rivendicando la funzione emancipatrice della cultura, sviluppa anche alcune importanti categorie
pedagogiche, prima fra tutte quelle della praxis, organizzata in dorma educativa al punto di divenire
essa stessa un processo educativo.

La pedagogizzazione della società e la crescita delle istituzioni educative.


Nell’800 si porta a compimento la pedagogizzazione della società avviata nell’età moderna;
l’istruzione è organizzata in modo capillare per creare un consenso sociale intorno ai valori e ai
modelli culturali espressi dall’egemonia borghese. Luogo centrale per elaborare questi
comportamenti collettivi dominanti è sicuramente la scuola che vede trasformare la propria struttura
e la propria didattica; accanto ad essa c’è la famiglia, la nuova famiglia borghese caratterizzata da
autoritarismo, atteggiamenti censori e repressivi, produttori di traumi nei fanciulli (come rileva
Freud), ma, nello stesso tempo, più attenta che in passato alla formazione dei figli, cui dedica molto
più tempo e che segue più profondamente al fine di conformarli alla società opponendosi ad ogni
forma di devianza. Diverso è il caso della famiglia proletaria: le indagini dimostrano che essa è in
genere disgregata, scarsamente educatrice, indifferente o autoritaria. Infine, dopo scuola e famiglia,
sono le associazioni del tempo libero che si fanno carico della formazione del cittadino omologato
ai valori dominanti. Tra queste, grande seguito hanno gli oratori salesiani di san Giovanni Bosco,
istituti religiosi in cui si accolgono ragazzi sbandati, abbandonati, devianti, e li si educa mediante la

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lettura di testi edificanti, ma anche con il gioco, il canto, il teatro, e un atteggiamento di
comprensione e affetto da parte degli educatori. Molto importanti sono anche le associazioni
sportive e corali, o quelle degli scouts, quelle studentesche ecc… Tutte hanno il medesimo
obiettivo: riunire i giovani intorno ad un interesse e organizzare capillarmente il loro tempo libero,
scandendolo in tappe con la previsione di determinati traguardi da raggiungere; nello stesso tempo,
soprattutto nelle associazioni sportive, si favorisce la creazione di uno spirito di corpo, si trasmette
l’etica del sacrificio e della lotta, dell’autocontrollo. In questo modo, l’associazionismo elimina
ogni elemento individualistico interpretandolo immediatamente come segno di vizio, e questo
atteggiamento ha un suo peso anche nella sfera sessuale. Il suo contributo è significativo anche
perché porta a riconoscere la specificità dell’adolescenza e dei suoi problemi e a dar corpo ai suoi
bisogni peculiari.
Per quanto riguarda la formazione dell’immaginario ottocentesco, la grande novità è costituita dal
ruolo svolto da stampa ed editoria. Infatti, l’800 è il secolo in cui la stampa produce saggi, poesie,
romanzi, articoli, diretti alle diverse figure professionali ma anche differenziati per sesso e per età:
nasce la pubblicistica per le donne e quella per i bambini (per esempio il Giornale dei bambini, su
cui esce a puntate Pinocchio), ma anche quella per il popolo di impronta laica, religiosa,
socialista… L’editoria ormai orienta i gusti del pubblico, lancia mode, crea miti; la poesia agisce
potentemente come strumento di formazione dell’immaginario ma, in questo senso, l’azione più
incisiva spetta sicuramente al romanzo, il grande educatore letterario. Il romanzo, infatti, suddiviso
per generi (romantico, nero, giallo, d’avventura, fantastico…) consente al lettore di vivere un
paradigma esistenziale in cui si riconosce oppure che è lontano da lui ma gli permette di apprendere
aspetti della vita diversi dalla propria quotidianità; non è un caso, infatti, che si diffondano stili di
vita e atteggiamenti derivanti proprio da romanzi, come il wertherismo o il bovarismo,
rispettivamente da I dolori del giovane Werther di Goethe, e da Madame Bovary di Flaubert. In
Italia casi esemplari sono I promessi sposi e i romanzi di D’Annunzio. Accanto al romanzo, poi,
troviamo la saggistica, fondamentale nell’imporre paradigmi comportamentali mediante slogan,
parole d’ordine, o martellamenti di temi-chiave: accade così per l’igienismo (esaltazione della cura
del corpo attraverso pratiche di vita sana, ginnastica, cibo salutare, astinenza sessuale…), il
lavorismo (etica del lavoro che lo presenta come l’attività più gratificante dell’uomo), il
selphelpismo (esaltazione dell’impegno, del sacrificio, al fine di “farsi da sé”, di migliorare la
propria posizione sociale) e per il nazionalismo, l’idea politica che condiziona tutta la visione del
mondo. Infine, Mosse ha messo in rilievo anche la funzione educatrice del teatro, come pure
bisogna sottolineare quella del mondo del lavoro (ove si realizzano pratiche di socializzazione, di
elaborazione culturale, tecnica e linguistica) due settori fondamentali della vita sociale su cui ancora
la storia della pedagogia deve approfondire le proprie indagini.

La scuola nell’Ottocento europeo.


In questo secolo così movimentato, la scuola si fa più rigida e uniforme, più conformatrice
ma anche più programmata e più laica, razionale e democratica. Innanzitutto, essa si allarga e si
apre alle classi inferiori, specie in relazione all’istruzione elementare che viene gestita e organizzata
dallo Stato. Questa scolarizzazione delle masse, tuttavia, è un processo differenziato da Paese a
Paese ma in generale molto lento e difficile da realizzarsi; peraltro, in una prima fase sono
soprattutto i privati e le scuole di mutuo insegnamento a farsene carico.
Per quanto riguarda l’organizzazione scolastica, essa viene scandita in diversi gradi tra cui il
secondario è quello che riceve la maggior articolazione, assumendo la struttura a doppio binario per
cui ci sono due indirizzi che si riferiscono a due modelli culturali diversi: l’indirizzo classico,
umanistico e filosofico, e quello tecnico, scientifico. Quest’ultimo è quello che viene articolato in
un maggior numero di settori differenziati, tra cui gli istituti tecnici, le scuole professionali, le
scuole del lavoro ecc… Entrambi mirano alla formazione di diverse figure sociali, governanti da un
lato e tecnici dall’altro. Infine, a livello universitario, si ha una sostanziale laicizzazione e
specializzazione delle facoltà che si orientano ormai verso la valorizzazione dei saperi scientifici.

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Le trasformazioni sociali, con l’impiego delle donne nelle fabbriche per moltissime ore al giorno,
richiedono istituzioni apposite per i bambini in età prescolare. Nascono così le sale di custodia, poi
gli asili e i giardini di infanzia; all’inizio sono gestiti da privati o dalla Chiesa e non sono altro che
luoghi in cui i bambini vengono tenuti in custodia. Con le proposte di Fröbel, della Montessori,
delle sorelle Agazzi, invece, gli asili e i giardini di infanzia diventano luoghi in cui i piccoli sono
avviati ad una libera crescita morale e intellettuale.
Già dall’800, comunque, si delineano, per quanto riguarda l’Italia, i due problemi chiave
della scuola, problemi ancora rimasti irrisolti. Innanzitutto c’è il contrasto tra scuola pubblica e
scuola privata che si interseca con il contrasto tra Chiesa e Stato e con il tentativo di opporsi al
rischio che la scuola diventi funzionale ad un’istituzione, ad un partito, e non alla formazione dei
cittadini; il secondo punto, invece, riguarda l’organizzazione della vita scolastica secondo un
modello disciplinare fatto di regole giuridiche e autorità che, nel nostro Paese, è particolarmente
travagliata e complessa. In effetti, a partire dall’800 la scuola si modella sempre più sul principio
del “sorvegliare e punire”, e si fa autoritaria, nozionistica, conformistica e repressiva. Fino al 1861,
la sua organizzazione in Italia è profondamente differenziata, sviluppata a Nord, disastrosa al
Centro e a Sud, con legislazioni diverse, tradizioni diverse, programmi diversi ecc… Con la legge
Casati del 1861, la situazione si regolamenta e il sistema scolastico è organizzato secondo principi
liberali; sostanzialmente, però, molti aspetti della legge non vengono applicati ed essa, specialmente
a Sud, produce scarsissimi risultati. Nuovi programmi e un processo di maggiore laicizzazione della
scuola italiana si hanno con la Sinistra al potere nel 1877 e la legge Coppino; si susseguono poi
provvedimenti diversi con passi in avanti e ritorni al passato, fino al 1923 e alla Riforma Gentile
che chiude ogni spazio di mobilità sociale entro i percorsi formativi, ma contribuisce a dare un volto
unitario alla scuola italiana sia dal punto di vista culturale che strutturale.

La nascita della pedagogia scientifica e sperimentale.


Nel momento in cui la pedagogia si pone come sapere scientifico, recupera il suo legame
con la sociologia, si separa dalla filosofia, e si va connotando come scienza positiva, benché
fortemente ideologizzata e, in taluni casi, dogmatica, è questa la fase in cui emerge il pluralismo
della pedagogia con cui tutto il ‘900 e anche la nostra epoca devono fare i conti. Un esempio della
riformulazione scientifica della pedagogia è costituito da Durkheim: egli concepisce l’educazione
come apprendistato di tecniche, linguaggi e norme sociali, come elemento di socializzazione che va
organizzato in specifici luoghi ed è gestito da professionisti specializzati. In questo contesto, la
pedagogia si fa teoria pratica col compito di produrre un sapere congeniale al legame fra educazione
e società. Diciamo infatti che con Durkheim nasce la sociologia dell’educazione che studia tutti i
rapporti tra le diverse componenti del sistema educativo. Questi stesi problemi vengono sfrontati da
Max Weber (1864-1920) cui va il merito di aver analizzato i diversi modelli di educazione
dipendenti dalla struttura economico-sociale (capitalistico, carismatico, tradizionale) e di aver
messo inr rilievo l’importanza dell’elemento religioso e dell’immaginario.
Siamo dunque di fronte alla nascita della pedagogia sperimentale, che si struttura mediante uno
studio ancorato all’esperienza che da questa parte per poi fissare principi generali; si tratta di una
pedagogia a-valutativa, che, cioè, non si lascia condizionare da giudizi di valore ma si limita
all’osservazione degli aspetti oggettivi e misurabili dell’esperienza educativa. Ne possiamo
individuare i precursori in Pestalozzi, Bain, Herbart, ma essa si diffonde in tutta l’Europa e negli
USA con esiti e prospettive diverse. Tutte queste premesse, però, restano appunto come tali nel
senso che verranno sviluppate compiutamente solo nel corso del nuovo secolo, quando la pedagogia
dovrà compiere un ulteriore salto di qualità cercando di non essere scientifica solo nelle intenzioni
ma di dotarsi di un metodo scientifico e di porsi come sapere autonomo,

Tensioni pedagogiche di fine secolo: Nietzsche e Dilthey, Bergson e Sorel.


La fine dell’800 si apre con profonde crisi, tensioni sociali, fermenti ideologici e culturali.
La contrapposizione tra borghesia e proletariato non può non condizionare cultura e società;

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parliamo infatti di cultura della crisi per sottolineare come entrino in gioco nuove istanze di
cambiamento (l’io, la volontà, l’azione e, soprattutto il dissenso e la critica) che portano ad opporsi
al positivismo e alla volgare e pacifica cultura borghese incapace di accendere gli animi, e di
mostrare vitalità e creatività. In questa fase, la pedagogia rimuove tutte quelle certezze di tipo
positivista e borghese-progressista; specialmente negli anni che portano all’inizio della Prima
guerra mondiale, il dibattito si fa intenso e si sentono voci critiche che, però, restano isolate perché
non hanno ancora un substrato di riviste, gruppi, iniziative culturali, tali da dare ad esse un
contenuto e un peso sostanziale, cosa che poi avverrà nel ‘900. Tra le voci significative di
rinnovamento, tre sono i modelli di rottura più radicali:
1. nichilismo di Nietzsche: Nietzsche (1844-1900) si fa portavoce di una proposta di paideia che
superi i valori della concezione metafisica greco-cristiana per dare corpo ai nuovi valori del
tragico e dell’Oltreuomo. Egli critica la tradizione educativa fino ad allora perpetuata in quanto
“essa non educa mirando alla cultura, ma solo mirando all’erudizione”; infatti, ha comportato la
riduzione della cultura a ciò che è utile o professionalizzante, e si è ancorata ad un modello
antropologico greco-cristiano-borghese (nato con Socrate e perfezionato col Cristianesimo) che
concepisce l’uomo come estraneo ai valori tragici e vitali e come immerso in un contesto di
repressione dei propri impulsi più veri. È necessario quindi, per Nietzsche, recuperare e
riattivare il modello della cultura classica e il suo legame con l’arte, poiché solo così
l’educazione può farsi realmente formativa, contribuendo a formare lo spirito libero e lo spirito
dionisiaco (che si alimenta del gioco, della leggerezza, senza credere a nulla e senza dare niente
per scontato, nel nichilismo appunto); in sostanza, il modello è qui un uomo che affermi i propri
slanci vitali sia nella propria esistenza che nella propria formazione e nella società. Nietzsche
intende porsi come educatore e applicare una pedagogia che scavi come una talpa per far
crollare i castelli delle false certezze, ispirandosi proprio a tutti quei valori che la tradizione ha
rimosso e censurato (il gioco, la danza, il sesso, ma anche la guerra, la violenza…).
2. storicismo di Dilthey: Dilthey (1833-1911) elabora un modello di pedagogia che non si fonda su
principi assoluti ma segue paradigmi culturali diversi, tenendo conto dell’evoluzione storica, e
collegandosi alla psicologia. Per lui, l’insegnamento non deve basarsi su elementi eruditi o
formalistici ma deve richiamarsi all’intuizione, alla capacità che ha l’educando di rivivere la
cultura e l’attività spirituale; inoltre, lo sviluppo formativo deve tener conto della sintesi, sempre
operante e immanente nella vita del soggetto, tra individuo e cultura. Questi due elementi
avranno grande peso nella pedagogia dei primi 50 anni del ‘900.
3. volontarismo di Bergson e di Sorel: Bergson (1859-1941) è considerato il teorico dello slancio
vitale, per la sua particolare idea di formazione che rivaluta una concezione dinamica della vita
spirituale. Egli critica ogni specializzazione professionale, sottolineando che l’istruzione deve
avere un valore di impegno etico, oltre a mettere in primo piano la creatività: il volontarismo
deve essere privilegiato rispetto all’intellettualismo. In Il buon senso degli studi classici
Bergson sostiene che la formazione debba recuperare il legame con gli studi classici e
indirizzarsi al soggetto. Sulla stessa linea si pone Sorel (1847-1922) che, nel suo pensiero
sociale, esalta la violenza e l’azione, nonché il senso di rivolta. Nell’opera La scienza
dell’educazione delinea una pedagogia che si fondi sulla scienza sociale ma che, al contempo, si
richiami ai modelli elaborati dal socialismo e dal darwinismo; nelle Considerazioni sulla
violenza, del 1908, Sorel sottolinea, oltre al volontarismo, un’originale valorizzazione della lotta
e delle più spontanee attività del proletariato considerato come la classe guida nel presente.

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3

Il Novecento fino agli anni Cinquanta.


Scuole nuove e ideologie dell’educazione.

Il secolo del fanciullo e delle donne, delle masse e della tecnica: trasformazioni educative.
Il ‘900 è il secolo in cui si afferma il capitalismo monopolistico che si trascina dietro
l’imperialismo, con tutte le tensioni che ne seguono, è il secolo dell’affermazione dello stato sociale
(Welfare State), mentre la società comincia a massificarsi e a fondarsi sui consumi e sulla crescita
delle classi medie; anche il modello industriale si trasforma, privilegiando l’espansione del terziario.
Il contraltare del capitalismo è rappresentano dal socialismo che l’altro grande tratto della società
novecentesca; quest’ultima è attraversata dallo scontro di due elementi opposti: la democrazia,
intesa come ideale da raggiungere e realizzare, e come principio da salvaguardare e difendere, e il
totalitarismo, visto come il perenne rischio nascosto dietro ogni angolo, come la scorciatoia cui si
ricorre nei momenti di grave crisi sociale ed economica (come dimostrano i totalitarismi in
Germania, Italia, ma anche Spagna, Argentina, Grecia, URSS).
Conseguentemente a questi fenomeni, cambia il comportamento della società, che si emancipa dalle
vecchie concezioni del mondo. Innanzitutto, il dato più significativo è il ritorno all’individualismo,
in forma esasperata ma moderna; infatti, esso si accompagna all’edonismo, alla cultura del
consumo, che privilegia il piacere personale, il gioco, il divertimento, il lusso, rispetto al lavoro,
all’etica del sacrificio, alla produzione. Tuttavia, l’uomo del ‘900 è un individualista che si trova a
vivere in mezzo a tanti altri uomini come lui, cioè fa parte della massa, compie riti collettivi di
gioco e divertimento (e non solo) e assume uno stile di vita sempre più individualizzato. Tutto il
‘900 è percorso da questo contrasto fra un individualismo edonistico e narcisista, e una
massificazione standardizzata e omogeneizzante. Ovviamente, anche la cultura subisce questa
trasformazione: si ideologizza e si iper-specializza, ma a costo di perdere in libertà ed autonomia.
Siamo di fronte ad un conflitto e ad un pluralismo che non può non condizionare anche la
pedagogia sia nelle pratiche che nelle teorie: la massificazione comporta la nascita di un nuovo stile
di vita e l’emergere di nuovi ceti sociali, fino ad allora restati al margine, oltre che l’affacciarsi di un
maggiore bisogno di partecipazione alla vita sociale determinato dall’affermarsi della democrazia.
In pedagogia compaiono quindi nuovi protagonisti come le donne, gli handicappati, i bambini, e
assumono un ruolo sempre più importante le scienze umane. Il percorso di trasformazione subito
dalle scienze pedagogiche nel ‘900 può essere scandito in 6 tappe:
1. l’avventura dell’attivismo e delle scuole nuove
2. la presenza delle grandi filosofie e ideologie come marxismo, idealismo, pragmatismo…
3. l’educazione totalitaria
4. il personalismo
5. il nuovo rapporto fra pedagogia e filosofia
6. le pedagogie dei paesi extraeuropei, soprattutto del Terzo Mondo.

Rinnovamento della scuola e pedagogia attivistica.


Come abbiamo detto, nel ‘900 la scuola si lega alle ideologie, si pone come istituzione
centrale, si apre alle masse. La sua centralità viene favorita dall’emergere di nuovi indirizzi e resterà
tale fino a quando essa non sarà offuscata dal prestigio dei mass media.
In questo senso, fondamentale è il contributo apportato dall’attivismo, un movimento che, sebbene
di natura soprattutto europea e nordamericana, ha un respiro internazionale e si fonda sul primato
del fare rispetto al conoscere, su approcci scientifici radicalmente nuovi e sul primato assegnato al
bambino, intorno al quale si svolge l’apprendimento incentrato sull’ambiente e non sul sapere
codificato. L’attivismo si delinea in un senso scolastico e in uno pedagogico.

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Le “scuole nuove” e l’educazione attiva.
Le scuole nuove nascono sotto l’influsso della psicologia e del fatto che essa, finalmente, ha intuito
la radicale diversità della psiche infantile rispetto a quella degli adulti, ma le scuole nuove sono
anche il frutto del movimento di emancipazione delle masse popolari, almeno nelle società
occidentali, contro una scuola e un profilo educativo esclusivamente elitari. Al centro di questa
educazione attiva, è il fanciullo; l’infanzia è vista come un’età pre-intellettuale e pre-morale in cui i
processi cognitivi si intrecciano con il dinamismo motorio, oltre che psichico, del fanciullo. Questo,
infatti, è spontaneamente attivo, e quindi ha bisogno di essere liberato da un’educazione scolastica e
familiare eccessivamente vincolante, ma deve poter vivere liberamente le sue inclinazioni. Pertanto,
la scuola deve essere allontanata dall’ambiente artificiale e costrittivo urbano, deve essere collocata
in campagna, preferibilmente, in modo che l’apprendimento avvenga a contatto con l’ambiente
esterno perché ogni bambino è naturalmente e spontaneamente interessato a conoscere ciò che lo
circonda. L’educazione attiva si oppone alla società industriale e all’ideologia tecnologica che la
anima: essa è invece ispirata da principi di democrazia e libertà, di partecipazione attiva alla vita
sociale e pubblica, sebbene sia comunque improntata a una concezione fortemente individualistica
dell’uomo, dal momento che ritiene che i rapporti con gli altri siano importanti ma non possano
intaccare mai l’autonomia della coscienza e la libertà personale. In Inghilterra, esperimenti di scuole
nuove sono portati avanti da Reddie che, nel 1889, fonda una scuola per ragazzi dagli 11 ai 18 anni
ad Abbotsholme, basata sullo sviluppo armonico di tutte le facoltà umane in contrapposizione ai
programmi antiquati dell’epoca, nella convinzione che la scuola debba essere un “piccolo mondo
reale e pratico”. A questo esperimento si collega l’Ecole des Roches di Demolins, sorta nel 1899 in
Normandia. La scuola, posta in campagna, si trova al centro di un parco ancora selvaggio in modo
da stimolare l’attività di esplorazione ma anche lavorativa, dei discenti. I ragazzi vivono in piena
libertà e in ambienti che cercano di riprodurre il calore e il confort delle case familiari. Anche qui,
lo scopo è la formazione morale, fisica, intellettuale e sociale del fanciullo; questi viene messo a
contatto con un percorso di studi che procede individuando dei ventri di interesse che hanno come
base il legame degli uomini con la terra. Il limite di queste scuole sperimentali, è però quello di
essere delle isole privilegiate aperte per pochi ragazzi di buona estrazione sociale e con una certa
disponibilità economica, quindi sono molto lontane dalla realtà della scuola di massa che va
affermandosi agli albori del nuovo secolo.
In Germania, gli esperimenti sulle scuole nuove si devono (oltre che a Lietz, con le sue Case di
educazione in campagna, ispirate all’ideale del neoumanesimo goethiano, e ancor più aristocratiche
di quelle di Reddie e Demolins) principalmente a Wyneken e Kerschensteiner. In particolare,
Wyneken (1865-1964) elabora un modello di educazione che ha grande influenza sulla gioventù
tedesca fino alla Prima guerra mondiale, e che addirittura alimenta e guida la protesta giovanile
tedesca, di impostazione borghese, indirizzata, in senso romantico, ad un ritorno al naturale e al
semplice. Nelle sue opere come Scuola e cultura giovanile del 1912 o Rivoluzione e scuola del
1924, teorizza un ideale pedagogico anarchico,, che si oppone alla tirannia della famiglia, degli
adulti dei metodi scolastici conformistici, e invita i giovani a organizzarsi in maniera autonoma
stimolandone l’autonomia di iniziativa. Kerschensteiner (1854-1932) progetta la scuola del lavoro,
nell’opera Il concetto della scuola del lavoro, in cui propone un rinnovamento del curriculum
tradizionale che introduca il lavoro anche nelle scuole elementari; deve però trattarsi di un lavoro
preciso e serio, svolto collettivamente, e dotato di un valore reale, cioè di un valore che non sia
necessariamente economico ma produttivo. Infatti, il lavoro ha una finalità educativa solo se è
consapevole delle proprie finalità complessive e per questo le scuole devono dotarsi di laboratori ed
officine. Il loro obiettivo deve essere, infatti, la formazione professionale, morale e sociale del
giovane. Soprattutto l’educazione sociale deve essere lo scopo della formazione popolare perché si
deve dare ai ragazzi un ideale di vita che sia quello di porsi al servizio degli altri, svolgendo con
precisione e responsabilità il proprio lavoro.

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Le scuole nuove in Italia.
Giuseppe Lombardo Radice ha definito il contesto in cui si sviluppano le scuole nuove in Italia,
come scuola serena, un modello ideale in cui c’è continuità tra scuola e famiglia, con
valorizzazione delle attività artistiche e una visione del fanciullo come artista spontaneo. Maria
Boschetti Alberti (1884-1951) descrive nei suoi testi come Il diario di Muzzano, la sua esperienza
come insegnante elementare e il fatto di aver gradatamente compreso come l’insegnamento
tradizionale sia ormai insufficiente e quanto sia necessaria una scuola rinnovata. La sua proposta
pedagogica attribuisce ruolo centrale al maestro, al suo impegno e alla sua coscienza. Il alvoro
scolastico viene diviso in tre gruppi di attività: l’accademia, in cui si stimola nei fanciulli il senso
del bello, il controllo, attuato dall’insegnante ogni giorno in una materia diversa, il lavoro libero
svolto in gruppi liberi, riguardante le attività verso cui i ragazzi si sentono più portati. Si tratta, però,
di un modello eccessivamente legato all’iniziativa personale dell’insegnante che si richiama
all’attivismo ma lo elabora in modo non scientifico bensì intuitivo, e pertanto non ha una portata più
generale. Rosa Agazzi (1866-1951) sviluppa un metodo innovatore fondato, principalmente sulla
continuità tra asilo e atmosfera familiare, in cui l’educatrice deve porsi come figura materna;
l’insegnamento deve svolgersi in un ambiente ordinato cui lo stesso bambino contribuisce gestendo
i materiali di arredo personali, che sono per l’appunto contrassegnati, in modo da collaborare a
mantenere l’ordine. Ciò stimola anche un forte senso di collaborazione tra i ragazzi. L’innovazione
didattica più significativa della Agazzi è il materiale didattico non preordinato, costituito non da
strumenti preordinati scientificamente ma da tutto ciò che gli stessi fanciulli raccolgono e portano a
scuola perché li interessa. Siamo di fronte ad un modello pedagogico sicuramente anti-Montessori,
in cui si crea quella spontaneità e intuitività che ha portato a qualificarlo come un esempio vivente
di scuola serena. Giuseppina Pizzigoni (1870-1947) è invece fondatrice della Rinnovata, aperta a
Milano nel 1911. Si tratta di un modello scolastico in netta contrapposizione con la scuola
tradizionale, che collega vita scolastica e vita sociale dando la precedenza assoluta all’esperienza
dell’alunno rispetto alla parola del maestro. In questo contesto, tuttavia, l’esperimento più
significativo è quello della Scuola-città Pestalozzi di Ernesto e Anna Maria Codignola: la scuola
ha lo scopo di formare i ragazzi mediante un’organizzazione interna che riproduce quella della
comunità adulta (con sindaci, assessori, tribunali ecc…), gestita direttamente dai ragazzi; qui si
parte dall’esperienza personale del fanciullo, dai suoi problemi, e si svolgono insieme attività
intellettuali e manuali, in un ambiente strutturato e corredato da laboratori e biblioteche.
Un ulteriore esperimento educativo, assai diffuso a livello europeo, è quello dei boys-scouts fondato
dall’ex colonnello inglese Robert Baden Powell (1857-1941) nel 1908. Il movimento si ispira al
colonialismo ed è organizzato in forma quasi militare; i ragazzi sono divisi in fasce di età (lupetti,
esploratori, pionieri) e vengono inseriti nei gruppi, guidati da un capo e da un istruttore, dopo una
cerimonia nel corso della quale leggono una promessa che contiene i principi fondamentali del
movimento quali l’amore per il prossimo, la pietà verso gli animali, la lealtà, l’amicizia, basandosi
su un’etica che valorizza il lavoro e l’autocontrollo, e la naturale disposizione alla gioia. I caratteri
attivistici dello scoutismo sono evidenti nello spirito di gruppo, di iniziativa, nelle capacità manuali,
nel legame con l’ambiente naturale, impegnandosi anche a risolvere il problema del tempo libero
giovanile.

I modelli più maturi in USA e in Europa.


Negli USA, accanto all’esempio illustre di Dewey, ricordiamo tre figure di ispiratori di iniziative
particolarmente interessanti:
1. William Kilpatrick (1871-1954) si occupa di didattica delineando nell’opera Il metodo dei
progetti, che pone l’accento sul momento intellettuale, così come sull’interesse individuale e sulle
esperienze problematiche. Il progetto è un’attività intenzionale che mira a conseguire un fine e si
sviluppa in forme diverse, come quella del produttore, cioè l’attività pratica, quella del
consumatore, cioà l’estetica, quella del problema, l’esecuzione di un compito, o infine quella
dell’addestramento, ovvero un apprendimento specifico. Tutte queste forme hanno in comune la

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motivazione pratica che poi è ciò che rappresenta lo stimolo a sollecitare le scelte concrete e
creative. Le varie discipline vengono trasmesse adattandole alla maturazione dei ragazzi,
rappresentata dall’accrescimento del loro raggio di interesse.
2. Helen Parkhurst (1887-1973) si ispira alla Montessori per il suo Dalton Plan basato
sull’individualizzazione dell’insegnamento e della libera scelta del lavoro scolastico. Il programma
è articolato in minime unità di studio, e il fanciullo se ne appropria nei ritmi e nei tempi personali;
ad un programma così particolare non si accordano le aule tradizionali, nel senso che le aule devono
essere assegnate non ad una classe ma ad un insegnamento, diretto da un docente specializzato. Il
dalton plan, pur rischiando di offrire un modello di vita scolastica eccessivamente atomizzato, ha il
merito di dimostrare una sensibilità particolare per i problemi dell’apprendimento individuale.
3. Carleton Washburne (1889-1968) sviluppa un modello di insegnamento in cui gli alunni
sono liberamente raggruppati secondo un programma ugualmente libero. Questo programma
prevede una parte comune, con gli insegnamenti di base, e una parte libera e creativa, fruendo di un
materiale concepito per l’autocorrezione e per stimolare il ragazzo a sviluppare le proprie attitudini,
scoprire le proprie vocazioni e differenziarsi dai compagni. Washburne ha organizzato le famose
scuole di Winnetka, veri e propri laboratori di ricerca didattica i cui risultati vengono attentamente
valutati e studiati per migliorare i metodi di lavoro.
In tempi più recenti, in Europa, assistiamo allo sviluppo di una fase meno entusiastica delle scuole
nuove, ma allo stesso tempo più matura e conclusiva in relazione alle loro teorie. In tal senso, sono
due gli autori più importanti. Roger Cousinet (1882-1973) vede l’istruzione come un processo da
realizzarsi in un ambiente che stimoli la curiosità infantile e favorisca i processi di socializzazione,
attraverso le attività di gruppo. Nel curriculum di studi, un ruolo chiave è quello del lavoro storico
che ha lo scopo di legare il fanciullo alla storia della civiltà, partendo dalla storia delle cose per poi
arrivare ai concetti più astratti. Célestin Freinet (1896-1966) inaugura, invece, un metodo basato
sulla cooperazione di cui strumento principale è la stamperia della scuola. La pedagogia di Freinet
parte dalla concezione dell’infanzia come andare a tentoni, cioè come un procedere in avanti senza
una direzione precisa ma partendo dai bisogni stessi del fanciullo. La scuola deve orientare questa
esperienza e porsi come un vero e proprio cantiere in cui il lavoro si svolge in un pieno clima di
collaborazione. Il principale materiale didattico è il testo libero, scritto dal bambino quando ne ha
voglia, e la stamperia che consente la creazione di un giornalino di classe con cui comunicare con
l’esterno. La finezza di queste proposte didattiche, e il carattere progressista dell’ideologia di
Freinet hanno fatto sì che il suo influsso si sia manifestato in tutta Europa, particolarmente in Italia.

I teorici dell’attivismo: Decroly, Claparède, Ferrière, Montessori.


I temi centrali dell’attivismo sono: puerocentrismo, valorizzazione del fare, antiautoritarismo,
motivazione all’apprendimento, antintellettualismo, centralità dello studio di ambiente,
socializzazione. Vediamo ora i maestri teorici dell’attivismo.
Ovide Decroly (1871-1932), medico belga, parte dalla pedagogia differenziale (o dei deficienti) per
poi estendere il suo metodo educativo anche ai ragazzi “normali”, aprendo, nel 1907, una scuola
nuova a Bruxelles (l’Ecole dell’Ermitage), che diventa un centro di educazione e sperimentazione
famosissimo. Decroly studia la psiche infantile interessandosi agli anormali proprio per il contributo
che essi possono dare alla conoscenza del fanciullo in generale. Comprendere la psiche del fanciullo
è l’unica strada per avviare un adeguato processo di educazione individuale. Ora, la caratteristica
della mente infantile è la sua globalizzazione, il fatto, cioè, che ogni attività di apprendimento parte
da un approccio globale rispetto all’ambiente e lo stesso deve accadere nell’insegnamento.
Quest’ultimo, infatti, deve partire dal concreto per arrivare all’astratto, dal semplice per arrivare al
complesso, dal noto per arrivare all’ignoto. Bisogna però capire che l’interesse del fanciullo verso
una determinata conoscenza è sempre caratterizzato da un legame che essa stabilisce con i
fondamentali bisogni dell’uomo (bisogno di nutrirsi, lottare contro le intemperie, difendersi dai
pericoli, agire e lavorare). Ogni processo di apprendimento si sviluppa a partire da tre momenti
fondamentali: l’osservazione, punto di partenza di ogni conoscenza, l’associazione, in cui si

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struttura il tempo e lo spazio, e l’espressione, che può essere concreta (i lavori manuali, il disegno)
o astratta (linguaggio). Una particolare novità del metodo globale di Decroly riguarda
l’insegnamento della lettura, che deve avvenire mediante l’associazione di immagini scritte alle
cose medesime, e poi deve procedere in maniera contraria rispetto al metodo tradizionale: cioè non
dalle lettere, alle sillabe, alle parole, alla frase, ma seguendo proprio il percorso inverso.
Intorno alla figura di Edouard Claparède (1873-1940) nasce la scuola di Ginevra, un gruppo di
studiosi di pedagogia tra cui troviamo anche Jean Piaget. Claparède elabora le nozioni di
educazione funzionale e scuola su misura, in due opere omonime del 1920 e del 1931. Egli parte
dall’idea che l’educazione deve poggiarsi sempre su un bisogno e che quindi i programmi di studio
vadano rivisti, così come i metodi della scuola tradizionale. Al contrario, i nuovi programmi e
metodi devono essere strutturati su misura del fanciullo ed appositamente individualizzati, per
consentirgli di scegliere liberamente all’interno di un’ampia proposta formativa. All’interno della
Scuola di Ginevra, la figura più impegnata è certamente quella di Adolphe Ferrière (1879-1961),
autore di molte opere pedagogiche; egli, in linea di massima si ispira a Bergson, ma si impegna
anche attivamente nella difesa dei diritti e dei bisogni fondamentali del fanciullo, il che costituisce,
a suo avviso, la premessa perché la scuola attiva realizzi il suo scopo di educare alla libertà
attraverso la libertà. Il suo contributo più importante riguarda proprio il lavoro di sintesi e
interpretazione delle varie esperienze di educazione nuova.
Altro momento essenziale per la storia dell’attivismo pedagogico è Maria Montessori (1870-1952)
la cui pedagogia ha una maggiore diffusione all’estero rispetto che in Italia, in patria. Al centro delle
sue opere, sia teoriche che concrete, si pone l’infanzia, con i suoi diritti e con l’intrinseca religiosità
di cui questa età è portatrice. La Montessori mette in risalto l’importanza delle attività senso-
motorie del fanciullo che vanno sviluppate mediante esercizi di vita pratica e con il supporto di
materiale didattico scientificamente organizzato. La sua riflessione generale sull’educazione si
sviluppa intorno a tre principi cardine:
1. la liberazione del fanciullo: ogni bambino deve poter svolgere le proprie attività
liberamente, perchè solo così può maturare tutte le sue capacità e raggiungere un comportamento
responsabile; tuttavia, tale libertà non va confusa con lo spontaneismo, dal momento che essa è
crescita armonica e ricca della persona, ma va guidata in modo attento e discreto dall’adulto;
2. il ruolo formativo dell’ambiente: l’ambiente ha un ruolo formativo secondario
nell’apprendimento e nella crescita, poiché esso può modificare, aiutare, distruggere, ma mai creare.
Esso è comunque importante e deve essere adattato al fanciullo e organizzato secondo le sue
esigenze fisiche e psichiche, e l’educatore deve usare l’ambiente per stimolarlo indirettamente.
3. la concezione della mente infantile come mente assorbente: la mente infantile ha uno
straordinario potere di assimilazione inconscio e quindi bisogna aiutarla ad assimilare le conoscenze
anche con oggetti sperimentali organizzati scientificamente in figure solide geometriche e simili.
Va detto che, sempre in Italia, l’attivismo trova, nel secondo dopoguerra, molti sostenitori e
promotori di innovazioni didattiche, soprattutto tra il gruppo facente capo alla rivista Scuola e città,
fondata nel 1950 da Codignola. Ma proprio a partire dalla fine degli anni ’50, in tutto il mondo,
l’attivismo viene messo in discussione e sottoposto a radicale revisione, accusato di aver condotto la
scuola a dimenticare la sua finalità essenzialmente culturale e formativa. Al tramonto dell’attivismo
si accompagna una pedagogia nuova orientata da indirizzi di tipo cognitivo, ispirati allo
strutturalismo e alla cibernetica.

Nuove teorie pedagogiche: l’idealismo.


Il grande rinnovamento della pedagogia si articola intorno a tre modelli principali:
l’idealismo di Gentile, che sottolinea l’identità solo filosofica della pedagogia, il marxismo, che
orienta la pedagogia in senso politico e sociale, e il modello di Dewey, autorità indiscussa per la
pedagogia novecentesca.

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Il pensiero pedagogico di Gentile.
Giovanni Gentile (1875-1944) è il teorico dell’attualismo, un indirizzo filosofico che considera
come principio unico e fondante di tutta la realtà, l’atto di pensiero. Gentile, nazionalista e fascista,
Ministro della Pubblica Istruzione tra il 1922 e il 1924, in questi anni vara una riforma della scuola
partendo dall’assunto che la pedagogia è veramente scienza solo se si fa filosofia; in particolare, la
vera pedagogia scientifica è quella che pensa l’educazione e l’uomo in termini di spirito, sviluppo
dialettico e unità. Per questa ragione, Gentile si oppone a tutte le concezioni a base naturalistica che
non riconoscono la natura spirituale propria dell’uomo e vedono nel processo formativo opposizioni
e dualismi, facendo della pedagogia stessa una tecnica, e degradandola. Queste pedagogie
tradizionali, per Gentile, sono bloccate su un terreno non scientifico a causa dell’assenza della
nozione dello svolgimento spirituale; ne è un esempio la psicologia pedologica, cioè quella
infantile, tutta incentrata su un modello di bambino mitico che non corrisponde a nessun bambino
vero e proprio, ma solo ad una figura astratta. Ne Il sommario di pedagogia come scienza filosofica,
il filosofo delinea una precisa concezione della vita della scuola: essa è il luogo specifico in cui si
compiono i processi di formazione spirituale per cui è essenziale rimuovere dal percorso formativo
tutte le opposizioni che non hanno fatto altro che rendere irrisolvibili i suoi problemi. Nell’idea di
Gentile, la vita della scuola viene ridotta al rapporto fra alunno e maestro, anzi: si recupera la
centralità dell’insegnante della sua cultura e della sua autorità; si tratta quindi di una scuola del
maestro e della cultura e non di una scuola del fanciullo e dei suoi bisogni. Negli anni ’20, Gentile
presenta nei Preliminari allo studio del fanciullo, una originale concezione dell’infanzia; distingue
tre diversi tipi di fanciullo: il fanciullo eterno, che incontriamo in qualunque età della vita. Anche
dentro di noi, il fanciullo fantoccio, quello mitico costruito dalla psicologia dell’infanzia, che non
esiste affatto, e il fanciullo reale, cioè quello vero e proprio, vero argomento di studio di una
filosofia dello spirito, sintesi di soggetto e oggetto, vera individualità completa. Il filosofo siciliano
attua, in sostanza, un recupero della scuola tradizionale e arriva addirittura a scardinare il principio
della sua laicità: infatti, persuaso che ogni educazione esiga un orientamento ideale, un insieme di
valori cui indirizzarsi, egli ritiene che il fanciullo vada iniziato ad una concezione religiosa e che la
religione debba diventare l’orientamento ideale della scuola. L’insegnamento si deve porre come
forma di comunicazione-creazione che si attua nei tre momenti fondamentali dell’arte, della
religione e della filosofia. L’arte è essenziale nell’insegnamento elementare, ed è vista come un
elemento costitutivo della personalità umana, elemento soggettivo imprescindibile in ogni processo
educativo, mentre la religione è il momento oggettivo e ha il compito di porre di fronte allo spirito
una verità e una legge cui esso deve conformarsi e che deve rispettare.
Possiamo dire, quindi, che con Gentile, la pedagogia si riduce nuovamente a filosofia, così come da
lui deriva la difesa della superiorità dell’educazione umanistica rispetto a quella scientifica, che
peserà a lungo nelle successive riforme del mondo della scuola e nelle teorie pedagogiche.

La pedagogia del neoidealismo italiano.


Tra il 1910 e il 1930, l’attualismo è il baricentro della pedagogia italiana e si oppone vigorosamente
alle altre correnti pedagogiche. Lo schieramento attualistico, tuttavia, non si presenta come
compatto e monolitico ma si apre a nuove esigenze e assume anche posizioni distanti da quelle
gentiliane. Lombardo Radice e Codignola rappresentano proprio quell’ala dell’attualismo
pedagogico che è più disponibile alla concreta esperienza educativa. Al di là di queste due
personalità, vi sono autori che, come accade per Calogero, mettono in luce la problematicità dell’
“atto”. Ne La scuola dell’uomo del 1939, Calogero ripropone il dualismo tra maestro e scolaro ma li
vede come soggetti che, all’interno del dialogo, si unificano e procedono l’uno verso l’altro; infatti,
l’unità si fa compito etico che presuppone la dualità. La sua visione della pedagogia ne respinge la
riduzione a filosofia e, nel contempo, riconduce l’educazione religiosa su un piano esclusivamente
etico valorizzandone il senso di dedizione verso gli altri. Invece, su un terreno di aperto dissenso si
situano Ferretti e Capitini. Il primo recupera le istanze del positivismo dell’autonomia e della
necessità di indagare psicologicamente l’infanzia. Il secondo rivendica la superiorità dell’esperienza

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religiosa, anche rispetto alla filosofia, dal momento che la religione rappresenta una prospettiva
dialogica io-tu-tutti.
Tornando alle personalità più eminenti di quello che definiamo il neoidealismo pedagogico italiano,
Giuseppe Lombardo Radice (1879-1938) si fa promotore di cultura attraverso varie riviste
pedagogiche la più nota delle quali è L’educazione nazionale. Sebbene le sue idee si spostino col
tempo su posizioni antifasciste, quindi lontane dallo spirito di Gentile, egli matura un rigoroso
idealismo pensato come un processo auto-educativo e quindi legato alla concezione gentiliana.
Tuttavia vi sono delle differenze: Lombardo Radice risolve il rapporto fra io individuale e io
universale, assegnando maggiore attenzione ai diritti del “me” e quindi reintroducendo
nell’attualismo le istanze psicologiche che Gentile aveva respinto. Inoltre, insiste meno sullo stato
etico e più su uno Stato come educatore, in quanto espressione di tutto il pensiero e di tutti gli
uomini, e non di una sola classe sociale. Anche il nazionalismo di Lombardo Radice è peculiare
perché si lega ad uno sfondo socialista e si fa interprete delle istanze di una società più egualitaria.
Notevole è il suo contributo alla didattica, specialmente primaria ed elementare, ma si tratta di una
didattica viva che va contro l’eccessiva specializzazione, e si risolve in una “critica” didattica, in
una ricerca continua e problematica. La didattica di Lombardo Radice vuole che il maestro si apra a
collaborare con il fanciullo collocandosi sul suo stesso piano, quello del “comune spirito umano”; il
maestro è una sorta di spirito creatore, e la sua lezione è concepita in modo nuovo, come una ricca
e complessa unità organica, connessa a tutti gli altri atti educativi. La lezione è vista come un ciclo
di atti, in cui è prevista anche la ripetizione ma solo a condizione che sia come una lezione nuova,
altrimenti non ha effetti. L’infanzia è un’età creativa e attiva, mirante ad una conoscenza magica del
mondo, e il fanciullo è un poeta con una fantasia fortissima, che lo spinge a manifestarsi nel modo
più completo e genuino nell’espressione artistica (specie nel disegno e nel canto), e nel modo più
originale e sincero nell’educazione linguistica. Questa scuola che pone al centro l’espressione
artistica del fanciullo, unico protagonista del lavoro scolastico, è il modello della scuola serena, di
cui abbiamo già parlato. Una scuola di questo tipo non può essere laica ma deve vivere
intensamente i valori religiosi del popolo in cui si attua, quindi, in Italia, deve riferirsi alla religione
cristiano-cattolica. Lombardo Radice, inoltre, attribuisce importanza alla preparazione professionale
dei maestri prevedendo per essi delle apposite scuole di specializzazione.
Collaboratore di Gentile, pedagogo, direttore della casa editrice La Nuova Italia, autore di opere di
teoria e storia pedagogica e storia del pensiero religioso, è Ernesto Codignola (1885-1965) che
porta avanti una critica serrata agli orientamenti autoritari dell’attualismo e della pedagogia italiana
contemporanea, attuando uno spostamento culturale che rappresenta il passaggio da un’egemonia
dell’idealismo all’avvento del pragmatismo americano, a vocazione decisamente laica.

Tra pragmatismo e strumentalismo: la pedagogia di John Dewey.


Dewey (1859) è indubbiamente il più grande pedagogista del ‘900 che ha portato il
pragmatismo nordamericano verso esiti inattesi. Sotto l’influenza dell’evoluzionismo e
dell’hegelismo, è autore di molte opere politiche e teoretiche in cui elabora una filosofia incentrata
sull’esperienza e sviluppata in senso aperto e dinamico. L’esperienza è concepita come il terreno su
cui si svolge lo scambio tra soggetto e natura, uno scambio attivo che trasforma entrambi gli
elementi, caratterizzato da uno squilibrio che spetta al pensiero ricostruire in un equilibrio nuovo;
tuttavia, si tratta di uno scambio sempre aperto perché il nuovo equilibrio raggiunto tramite l’azione
del pensiero, è sottoposto a sua volta a nuove crisi e si squilibra nuovamente. Dewey affida il
controllo dell’esperienza all’uomo e alla sua intelligenza creativa, anche mediante l’uso della
logica; quest’ultima si fa metodo scientifico e diviene il criterio di comportamento intellettuale in
ogni ambito dell’esperienza. Accanto alla logica, però, un ruolo significativo è assegnato anche
all’arte, soprattutto all’attività estetica. Nel pragmatismo di Dewey, non si trascura la riflessione
politica che ruota tutta intorno al principio della democrazia, vista come processo che deve
costantemente essere costruito e ricostruito proprio attraverso l’educazione scolastica; connessa alla

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democrazia è poi la formazione dell’opinione pubblica, il mezzo con cui si crea la grande comunità
capace di autoregolarsi e di convivere liberamente e pacificamente.
Il pensiero e la filosofia di Dewey mostrano un costante sviluppo verso prospettive più organiche e
vaste, e per questa ragione il filosofo si mostra disposto, in più di un’occasione, a rivedere e
rettificare le posizioni raggiunte. La riflessione pedagogica si intreccia, in lui, con i problemi della
società moderna industriale e si contrassegna per il fatto di essere ispirata al pragmatismo, cioè ad
uno stretto contatto tra momento teorico e momento pratico, e per il fatto di intrecciarsi con le
ricerche e le scienze sperimentali, oltre che per l’impegno nel costruire una filosofia
dell’educazione che abbia anche un ruolo sociale. I caratteri fondamentali del pensiero deweiano
sono esposti nella sua prima opera pedagogica, Scuola e società, del 1899, edita in una fase di
particolare crescita degli USA legata all’espansione economica e alle richieste di partecipazione
politica da parte delle classi subalterne. La scuola, per Dewey, non può restare fuori da questo
processo di cambiamento, ma deve legarsi al progresso sociale e deve realizzare un più stretto
contatto con l’ambiente e con la realtà sociale del lavoro; a questo scopo, le scuole devono
attrezzarsi con laboratori di vario tipo che recuperino la funzione formativa del lavoro manuale. La
scuola deve anche valorizzare la vita del fanciullo con i suoi reali interessi, e principalmente 4 di
essi: l’interesse per la conversazione, per la scoperta delle cose, la costruzione delle cose e
l’espressione artistica. Successivamente, con l’opera Democrazia ed educazione (1916) Dewey
mette in rilievo il volto progressivo che l’educazione deve assumere poiché essa deve innanzitutto
avere una funzione democratica che non consiste solo nell’adeguarsi alla società, ma anche nel
promuoverne il cambiamento, nel renderla sempre meno repressiva e autoritaria e sempre più
collaborativi e partecipativa. È per questa ragione che il metodo della scienza deve avere un peso
centrale poiché esso è in se stesso un metodo democratico, in grado di avviare il soggetto umano
verso credenze elaborate in comune. In quest’opera, in sostanza, Dewey rivaluta il momento
intellettuale rispetto alla valorizzazione del “fare” presente in Scuola e società. Tuttavia, tra i
seguaci dell’attivismo, prevalgono interpretazioni di tipo individualistico che travisano la lezione
deweiana; contro di esse, si esprime lo stesso Dewey, per correggerle, con Esperienza ed
educazione del 1937 riaffermando il ritorno ad una coerente teoria dell’esperienza cioè ad una sua
organizzazione razionale attuata con metodo scientifico. Egli sviluppa le sue teorie pedagogiche
anche concretamente, in qualità di direttore della scuola annessa all’Università di Chicago: al centro
delle attività scolastiche si trova il fanciullo con tutti i suoi interessi che rappresentano la
motivazione profonda dell’apprendimento. Ma, siccome il fanciullo vive in una dimensione sociale,
i suoi interessi sono sempre legati alla vita sociale e all’ambiente umano e produttivo che lo
circonda, per cui la scuola deve aprirsi sempre alla società e ai suoi valori. In questa trasformazione,
il maestro deve diventare una guida che regola i processi di ricerca della classe, animando le varie
attività scolastiche, non imponendo idee e conoscenze agli allievi (Il mio credo pedagogico, 1897)
ma comportandosi come membro della comunità che assiste i suoi discepoli. Anche gli esami, e i
conseguenti voti, servono a far emergere le attitudini specifiche del bambino e a renderlo cosciente
del suo ruolo. Se il centro della didattica è rappresentato dalle attività espressive o costruttive, ad
esse devono affiancarsi materie più formali come le lingue e le scienze, che vanno introdotte
gradatamente ma sempre in modo che il lato attivo dell’apprendimento preceda quello passivo;
inoltre, un ruolo fondante va assegnato alla facoltà immaginativa del fanciullo stimolata
dall’educazione artistica.
La scuola di Dewey, in definitiva, si presenta come scuola democratica che addestra i giovani verso
una società e una politica anch’esse democratiche. Dewey si interessa anche di pedagogia cognitiva,
cioè della formazione dell’intelligenza attraverso un curriculum di studi in cui la scienza abbia un
ruolo centrale; infatti, la scienza abitua il pensiero ad affrontare le situazioni problematiche e a
trovare per esse le soluzioni più adatte. I valori della scienza (comunicazione, intersoggettività,
democrazia) devono applicarsi ad ogni campo dell’esperienza, avviando gli uomini verso una nuova
forma di religiosità umanistica e laica che ponga la centro i valori della verità, della giustizia e
dell’amore.

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Modelli di pedagogia marxista (1900-1945).
Il marxismo pedagogico ha rivisto i principi dottrinari fondamentali in relazione alle varie
tradizioni nazionali, alle diverse strategie politiche e alla crescita dei vari movimenti rivoluzionari,
il tutto, però, sempre all’interno di un patrimonio comune costante. Gli aspetti principali della
pedagogia marxista sono:
1. collegamento dialettico tra educazione e società, per cui ogni tipo di ideale formativo e di
pratica educativa si collega a interessi e valori ideologici
2. legame stretto tra educazione e politica, legato alla prassi rivoluzionaria
3. centralità del lavoro nella formazione dell’uomo
4. valorizzazione di una formazione integralmente umana di ogni uomo
5. opposizione ad ogni forma di spontaneismo, e accentuazione della disciplina e dello sforzo.
La pedagogia marxista si dispiega in una serie di momenti storici diversi che individuiamo nella
posizione della II Internazionale, nelle posizioni di Lenin, e in quelle dei pedagogisti sovietici che
ispirano i vari marxismo attraverso la III Internazionale.
La pedagogia della II Internazionale si allontana dalle posizioni classiche del marxismo e si
caratterizza per un atteggiamento prevalentemente riformista che crede sia possibile una
collaborazione tra socialdemocrazia e forze borghesi; si rivendica una educazione laica ma non ci si
oppone alla militarizzazione delle scuole. Oltre a voci di aperta critica all’educazione borghese,
come quelle di Clara Zetkin, le due figure più rappresentative sono Adler in Austria e Mondolfo in
Italia. Adler (1873-1937), massimo teorico dell’austro-marxismo, all’interno di una prospettiva
politica rivoluzionaria, cerca di saldare socialismo ed etica kantiana. Egli ritiene che l’educazione
socialista rappresenti solo la fase in cui la razionalizzazione si prepara in profondità, in quanto
l’educazione si immerge, con il socialismo, nella vita sociale ma poi va collegata alla politica,
mediante la lotta di classe, opponendosi ad ogni neutralità dell’educazione. Per Adler, l’educazione
socialista consiste nello staccare spiritualmente il fanciullo del vecchio mondo del capitalismo. Dal
canto suo Mondolfo (1877-1976) propugna una riforma della scuola in senso popolare e piccolo
borghese, improntandola ad un coerente laicismo e a corsi di studio adatti alle esigenze del popolo;
egli si schiera in difesa di una scuola media unica, ma non obbligatoria, e del controllo della scuola
privata da parte dello Stato, manifestando una costante attenzione alla scuola professionale.
Su posizioni più radicali, negli anni della Rivoluzione del 1917, si pone la pedagogia di Lenin. A
suo avviso, il comunismo deve servirsi di tutto l’apparato della società borghese e capitalista,
attraverso organizzazione e disciplina, soprattutto in relazione alla scienza e alla tecnica. I caratteri
nuovi dell’educazione comunista sono il rapporto tra scuola e politica (poiché la scuola non può mai
essere apolitica e la scuola migliore è quella che si lega alla lotta rivoluzionaria), e nell’istruzione
politecnica, che riprenda il motivo marxista dell’uomo onnilaterale. Tuttavia Lenin non trascura i
problemi organizzativi della scuola che si legano ad una serie di limiti materiali oltre che teorici.
Proprio le idee di Lenin si pongono alla base delle realizzazioni scolastiche del primo periodo
subito dopo la rivoluzione in Russia (cioè dal 1917 al 1930); in questi anni, viene realizzata la
“scuola unica del lavoro” che ricongiunge lavoro intellettuale e manuale. Decisa è l’opposizione
alla vecchia scuola di cui si aboliscono i contenuti religiosi e nazionalistici, e si modificano i
programmi e i libri di testo. Il lavoro culturale ritorna in auge con l’avvio del primo piano
quinquennale, mentre una riorganizzazione secondo principi più tradizionali si ha con l’avvento al
potere di Stalin che vede anche il rifiuto radicale di qualsiasi forma di attivismo. Nel 1936, per
esempio, viene condannata la pedologia, e si afferma una pedagogia senza fanciullo,
intellettualistica e conformistica.
Ma prima del periodo staliniano troviamo la figura del maggiore pedagogista russo del secolo XX,
Makarenko (1888-1939) autore di opere che avranno un successo e una diffusione mondiale. Egli
cerca di saldare insieme l’esperienza bolscevica e alcune istanze delle scuole nuove; il suo pensiero
ha una base sperimentale nel senso che si salda a concrete esperienze educative, fatte a contatto con
ragazzi abbandonati che necessitano di essere ri-educati. Questa ri-educazione avviene all’interno di
apposite colonie e si concretizza come processo dialettico, sempre in divenire e mai dogmatico. I

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suoi principi sono il collettivo del lavoro e il lavoro produttivo. Il collettivo è un organismo sociale
che rappresenta mezzo e fine dell’educazione, è un complesso di individui, guidati da un direttore,
con un fine preciso, legati tra loro mediante la comune responsabilità sul lavoro e la partecipazione
al lavoro collettivo. Il lavoro produttivo, invece, nasce dalla consapevolezza che il collettivo è
inserito nello sviluppo della società e deve partecipare attivamente ad essa facendo proprie anche le
conquiste attuate sul piano economico, e per questo Makarenko propone di organizzare la giornata
di lavoro in modo da dotarla di obiettivi e prospettive che si colleghino all’ideale di un uomo nuovo.
Il pedagogo russo si interessa anche al problema della famiglia, sede più idonea per la prima
educazione, in cui si riconferma l’autorità dei genitori ma si propugna anche un clima di affetto e
solidarietà reciproca, poiché la famiglia è il modello della più vasta società socialista.
L’esperienza pedagogica più ricca del marxismo è rappresentata dalle teorie di Antonio Gramsci
(1891-1937). A lui va il merito di aver ripensato i principi del marxismo (rapporto fra struttura e
sovrastruttura, dialettica, crisi dell’ideologia) e la sua visione della storia (come lotta di classe,
come successione di modelli economici e politici sempre più complessi) all’interno di una precisa
condizione storica: quella della non diffusione della rivoluzione proletaria in Europa dopo il 1917.
nei Quaderni dal carcere, Gramsci afferma che le nuove condizioni storiche ed economiche
richiedono un ripensamento delle strategie politiche del comunismo e della teoria marxista. Egli
ridefinisce il marxismo come teoria della prassi che muove da una visione critica della realtà e
riattiva il primato dell’economico-politico come fondamento dell’attività umana. La realtà è un
processo storico e dialettico che non può essere vissuto dall’uomo sulla base di un sapere
positivistico ed empiristico dato una volta per tutte. La realtà, per Gramsci, si trasforma, nel mondo
moderno, a partire non dalla struttura (l’economia) ma dalla sovrastruttura (l’ideologia e la cultura).
Questa rivoluzione della mentalità può vedere coinvolti tutti i ceti sociali interessati al
cambiamento, che vengono a costituire il cosiddetto blocco storico; tuttavia, lo scopo è quello di
costruire un’egemonia prima culturale e poi politica di cui si fa garante il Partito nuovo, cioè il
partito rivoluzionario e proletario, di massa. Inoltre, l’egemonia culturale si costruisce con l’apporto
di molte istituzioni educative e il contributo di “intellettuali organici” funzionali alla costruzione e
all’organizzazione di una cultura che deve investire ogni cittadino, liberandolo dal folklore,
integrando le classi, in collaborazione con la politica e il suo ruolo di guida della società.

La pedagogia cristiana e il personalismo.


Nella battaglia per l’evoluzione della società occidentale, il Cristianesimo si arrocco alle
concezioni pedagogiche tradizionali; questo atteggiamento, assieme ad una maggiore apertura verso
il mondo moderno e verso i suoi problemi, porta la Chiesa a definire i caratteri essenziali del suo
modello di educazione, che, ovviamente, non prescinde dalla dimensione religiosa, nonostante si
trovino, in questo contesto, posizioni molto differenziate, alcune apertamente in dissenso.
Il primo a rivolgere l’attenzione al ruolo della Chiesa in materia educativa è il Papa Leone XIII che
riconferma la dottrina tradizionale e il ruolo primario della famiglia, nonché il principio della libertà
della Chiesa dal punto di vista dell’educazione. Con Pio X, la posizione si fa ancora più rigida e
viene varato il testo del catechismo per i fanciulli. Ma la svolta si ha nel 1929 con l’enciclica Divini
illius magistri emanata da Pio XI che resta il punto di riferimento in campo educativo fino al
Concilio Vaticano II. L’enciclica afferma che non può esserci perfetta educazione se non è
un’educazione cristiana la quale ha importanza suprema sia per le famiglie che per l’intera umanità;
essa è, infatti, l’unica educazione in grado di realizzare la formazione integrale dell’uomo al fine di
realizzare il compito per cui egli è stato creato, cioè la salvezza attraverso la fede. Allo Stato spetta
una funzione subordinata in questo campo; suo è solo il compito di proteggere e promuovere
l’individuo. Il testo pontificio auspica un pluralismo di scuole che lo Stato deve garantire in ogni
modo, e condanna molti aspetti dell’educazione moderna, primo fra tutti la co-educazione dei sessi
e l’educazione sessuale.
Con il Concilio Vaticano II e con la Gravissimum educationis, si ha un ulteriore mutamento di
prospettive, perché l’educazione non viene più vista come diritto della Chiesa ma si lega al suo

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dovere di apostolato, e si fa opera di collaborazione con l’obiettivo fondamentale visto nella
formazione della persona umana; un segnale dell’apertura verso la modernità è il fatto che viene
approvata una positiva e prudente educazione sessuale. In seguito, si sviluppano una serie di forme
educative che vedono in prima linea l’associazionismo (nascono gruppi come l’Opus Dei, i
Focolarini, Comunione e Liberazione) e tutto il mondo cattolico si anima di azioni educative che
sono a stretto contatto con la società civile; anche la parrocchia stessa si assume nuovi compiti e
funzioni esplicitamente educative. Senza contare che questa esigenza di aggregazione e
associazione a fini pedagogici si fa sentire presso le altre Chiese cristiane e anche nelle religioni non
cristiane.
L’orientamento di dialogo con la cultura laica da parte della pedagogia cristiana, è rappresentato
dall’attivismo cristiano; in questa prospettiva, si pongono le “Scuole dell’Ave Maria” dello
spagnolo Manjon (1846-1923). Egli cerca di aprire l’educazione cristiana alle idee delle scuole
nuove, affermando l’importanza di un’educazione all’aria aperta, a contatto con la natura, della
valorizzazione del gioco come strumento didattico, e del richiamo alla centralità del lavoro. Il suo
esperimento educativo si rivolge ai figli del popolo e rappresenta un impegno concreto oltre che
teorico. Di stampo soprattutto teorico è invece l’attivismo cristiano di Devaud (1876-1942) in
Svizzera. Devaud si oppone sia al naturalismo pedagogico (incapace di cogliere i veri bisogni del
soggetto umano) che al tecnicismo attivistico (incapace di trasformare l’educazione in un effettivo
progetto di vita). La sua proposta didattica resta ancorata alla tradizione cattolica, in quanto
riconferma il ruolo privilegiato del maestro e quello positivo dell’autorità, e proprio per questo si
allontana dal puerocentrismo e dall’anti-autoritarsmo tipico del messaggio attivistico. L’indirizzo
più organico della pedagogia cristiana è però quello del personalismo, un sistema che tende
sviluppare una concezione totale dell’esperienza educativa in cui sono centrali i valori trascendenti;
il suo compito è, infatti, consentire lo sviluppo del valore della persona, affermarlo e realizzarlo in
ogni aspetto della vita. Orientamento neo-kantiano ha il personalismo del tedesco Förster (1869-
1966) in aperta polemica contro la pedagogia tedesca e in difesa di una formazione integrale
dell’uomo che trovi nell’etica il proprio momento fondamentale; proprio l’etica è concepita in senso
kantiano, come impegno verso valori trascendenti che si fondano nel divino. La filosofia è definita
mediante un legame indissolubile con la filosofia e con la teologia e unisce i problemi della tecnica
scolastica ai problemi fondamentali della vita. Förster afferma anche il valore dell’obbedienza e
quello del Cristianesimo considerato come l’evento più grande della pedagogia in quanto ha
collegato ogni lavoro e ogni disciplina umana con la vita più intima della personalità. Stesso
indirizzo presenta la pedagogia di Hessen (1887-1950) che si forma a contatto con la filosofia
dell’unità dei valori; si tratta di una pedagogia intesa come teoria della cultura che mira a rendere
l’individuo partecipe dei valori del gruppo sociale, soprattutto di quelli spirituali. La pedagogia è
una filosofia che si alimenta di altre scienze educative, ma trova la propria organizzazione
complessiva nella filosofia. Il processo formativo immaginato da Hessen richiede un impegno
creativo da parte del soggetto, una forma di auto-educazione della personalità; esso si orienta verso
la nostalgia dei valori intesi, platonicamente, come amore e desiderio di metterli in pratica. Hessen
sottolinea altresì l’aspetto democratico della scuola di cui propone di innalzare il limite
obbligatorio; in essa, poi, l’insegnamento deve strutturarsi intorno a tre caratteri fondamentali che
sono il tutto, la gerarchia e l’autonomia. Il pensiero di Hessen è significativo soprattutto per il suo
tentativo di sintetizzare, alla luce della tradizione platonico-cristiana, i presupposti di due civiltà
diverse, quella capitalistica e quella comunista, fra cui egli si trova a vivere. Maritain (1882-1973)
nelle sue opere L’educazione al bivio e L’educazione della persona, si pone in diretta polemica
contro il mondo moderno e la sua cultura, accusati di soggettivismo e naturalismo. Compito
primario dell’educazione è far conoscere la verità in relazione ai diversi gradi del sapere, e
sviluppare la capacità di pensare e di giudizio personale; oltre a questo, fine secondario è quello
assicurare la trasmissione dell’eredità di una data cultura. In tale prospettiva, l’educazione deve
essere liberale e per tutti, cioè orientata verso la sapienza; deve durare fino ai 18 anni e trovare il
proprio baricentro nella filosofia e nelle grandi opere della letteratura. Inoltre, l’educazione deve

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ispirarsi all’idea cristiana dell’uomo valorizzando la severa disciplina e anche un certo timore. Il
personalismo di Mounier (1905-1950) invece, mira a realizzare un uomo totalmente impegnato e
manifesta una esplicita valenza pedagogica. Il suo progetto è realizzare un’educazione in senso
comunitario la cui funzione primaria è suscitare la persona: questo significa incrementare nel
soggetto umano il senso di responsabilità e partecipazione sociale armonizzando le sue tre tensioni
interne fondamentali: quella verso il basso, il corpo, verso l’alto, lo spirito, e verso il largo, la
comunione. La pedagogia di Mounier si pone come dialogo costruttivo e comune così come
l’educazione si fa riconoscimento di una vocazione.
Diversi sono i pedagogisti italiani che si sono ispirati al personalismo. In primo piano, Luigi
Stefanini (1891-1956) tocca il problema educativo nei saggi Personalismo educativo del 1954; egli
sottopone la scuola attiva ad un “vaglio personalistico” e propone un modello di educazione come
maieutica della persona, al cui centro sta la figura del maestro, quale guida intellettuale e morale del
fanciullo. Mario Casotti (1896-1975) parte da una concezione radicalmente pessimistica del
fanciullo, considerato un povero assoluto che si attende tutto dall’adulto, segnato, come ogni uomo,
dal peccato originale e quindi bisognoso della grazia. L’educazione deve compiersi attraverso una
limitazione della libertà e un rigorismo severo che spingano il fanciullo a trovare i valori superiori
della vita che coincidono con quelli religiosi. Ad un personalismo più aperto, vicino a Mounier, si
richiama Giuseppe Catalfamo (1921-1990) anche se, accanto all’esigenza di socialità
dell’educazione, egli pone una concezione più tradizionale del processo educativo in cui il maestro
appare come figura dominante. Giuseppe Flores d’Arcais, in numerosi saggi, come La scuola epr
la persona del 1960, rivendica alla pedagogia un impegno teorico: essa deve porsi come teoria della
persona. Questa realizzazione si è avuta solo nel Cristianesimo, che spiega la persona umana
richiamandosi alla Persona Divina. Pertanto, Flores d’Arcais propone un progetto educativo teso a
valorizzare il soggetto umano in se stesso.
Oltre a queste voci, assistiamo anche all’emergere di voci in dissenso con le posizioni ufficiali della
Chiesa, provenienti soprattutto da aree culturali e pastorali marginali, addirittura, in alcuni casi,
accusate di eresia e disobbedienza. Il tratto peculiare di queste istanze riguarda l’attenzione che esse
pongono a problemi di scottante attualità che portano anche a proposte molto audaci. All’interno di
quella che viene definita la crisi modernista, in campo pedagogico, troviamo la Teoria
dell’educazione di Laberthonnière, un orientamento pedagogico cattolico ispirato ai principi di
solidarietà e collaborazione; in esso, il momento dell’autorità è caratterizzato dalla carità e mette in
rilievo l’importanza della libertà dell’allievo. La “dottrina rivelata” deve essere insegnata in
maniera personale e viva, di modo che l’adesione ai principi di fede avvenga non più per inerzia ma
in maniera voluta. Nel 1945 si colloca poi l’esperienza di Nomadelfia, una comunità educativa
fondata da don Zeno Saltini (1900-1981) in cui la pedagogia si colora di spirito profetico e di
suggestioni utopiche. Nomadelfia si oppone alle direttive ufficiali della politica educativa cattolica,
ispirandosi al modello della famiglia; suo scopo dichiarato è ridare famiglia ai minorenni. In questo
modo, Nomadelfia si pone come una comunità educante che coinvolge nell’istruzione tutti i suoi
membri, minori e non, in uno sforzo di educazione permanente. Al suo interno, si cerca di realizzare
il ritorno dei cristiani allo Spirito del Santo Vangelo ma le modalità anticonformiste con cui si porta
avanti questo scopo, costano a don Saltini addirittura dei richiami dall’alto.
Dopo il Concilio Vaticano II, si hanno esperienze di comunità ecclesiali di grande respiro e
risonanza, soprattutto per influsso dell’opera di don Lorenzo Milani (1923-1967) che nella sua
celeberrima Lettera ad una professoressa, del 1967, fa un vero e proprio atto di accusa contro la
scuola pubblica discriminatoria e classista. Egli propone una scuola aperta a tutti, che realizza con i
suoi ragazzi di Barbiana, una scuola che non sia dei ricchi ma di tutti, anche dei poveri; contro la
scuola pubblica dispensatrice di una cultura elitaria ed inutile, don Milani propone una scuola che
non bocci, che sia capace di dare uno scopo ai ragazzi svogliati, che sia gestita dallo stato e dai
sindacati e abbia come fine quello di dedicarsi al prossimo. Inoltre, per quanto riguarda i contenuti,
questa nuova scuola deve prendere le distanze dalla tradizione letteraria aulica ma deve offrire ai

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ragazzi gli strumenti per possederla, se lo desiderano. Grande peso viene dato poi all’educazione
linguistica, importante per conferire efficacia comunicativa all’esposizione verbale e scritta.
Sull’esempio dell’opera di don Milani, troviamo altre esperienze significative come l’Isolotto a
Firenze, guidato da don Mazzi, o S. Paolo a Roma, diretta da don Franzoni; tutte manifestano un
preciso impegno pedagogico ma anche ecumenico e sociale.

Totalitarismo ed educazione in Italia, Germania, URSS.


Negli stati totalitari, la pressione ideologica sull’educazione raggiunge il massimo e si
caratterizza per l’opposizione ad ogni forma di democrazia, per il fatto di non tener conto
assolutamente dei bisogni e dei diritti dell’individuo, in quanto la pedagogia dei totalitarismi non
parte mai dall’individuo ma accorpa gli individui in stili di vita e concezioni del mondo comuni. In
un certo senso, l’istruzione proposta dai regimi totalitari risponde ad una diffusa esigenza, quella di
una istruzione di massa, ma lo fa in modo brutale, conformistico e illiberale. Questo processo,
inoltre, avviene enfatizzando al massimo il ruolo di guida che lo Stato è andato assumendo nel
corso dell’età moderna.
Il programma di istruzione del fascismo all’inizio, si presenta come un programma conservatore,
come viene attuato dalla Riforma Gentile del 1923, con cui si fissa un sistema scolastico
differenziato, con separazione netta fra scuole umanistiche, per i dirigenti, e scuole tecniche per le
classi subalterne. Si tratta di una scuola chiusa che produce un blocco anche per la mobilità sociale
dei ceti inferiori. Un irrigidimento dell’istruzione italiana si ha a partire dal 1925, quando il
fascismo si fa regime, e tutta la società subisce un processo di fascistizzazione. L’esito più compiuto
di questo processo coincide, nel 1939, con la Carta della Scuola del Ministro Bottai: concepita negli
anni della politica dell’autarchia, la Carta riconosce una scuola media unica, introduce il biennio di
scuola del lavoro, e ideologizza ulteriormente i programmi di studio. Ma il fascismo agisce in
maniera ancora più capillare e consistente sul versante extrascolastico, portando alla nascita di
associazioni, per bambini e per ragazzi; (Balilla, Gioventù del Littorio) in modo da gestirne
totalmente il tempo libero e da conformarli agli ideali del regime, mediante feste, gare, riunioni di
propaganda o parate militari.
Se il fascismo è stato il primo a delineare un sistema educativo ideologico di massa, è il nazismo a
portarlo agli esiti più esasperati, in coerenza con un’educazione che sia ispirata da principi razzistici
e militaristici. Già Hitler, nel suo Mein Kampf, sottolinea come l’istruzione non debba “riempire la
testa di sapienza ma formare un corpo sano fino al midollo”. Infatti, la scuola nazista ideologizza la
cultura e al contempo la indebolisce, mentre dà grande peso all’educazione fisica. Inoltre, gli stessi
insegnanti vengono sono indottrinati intorno ai principi del nazismo, e del razzismo soprattutto, e
devono prestare giuramento a Hitler oltre ad iscriversi al Partito. Altre associazioni educative, di
tipo militare, raccolgono i giovani nel tempo libero (per esempio, la Gioventù Hitleriana) e lo
organizzano capillarmente secondo i principi dell’ideologia nazista, giungendo ad una vera e
propria manipolazione ideologica dei soggetti, ad un condizionamento coatto estremo e brutale.
Il sistema educativo sovietico si fa totalitario solo dopo Stalin, ma continua, tuttavia, a mantenere
viva una scuola non di ideologia ma di cultura, e un sistema educativo extrascolastico meno
soffocante degli altri regimi totalitari. Fino a Stalin, la scuola sovietica organizzata dalla moglie di
Lenin, la Krupskaja, si caratterizza per un costante sperimentalismo e una vivace apertura alle
scuole nuove e alla pedologia; la novità più importante è l’introduzione delle scuole politecniche del
lavoro, che saldano insieme istruzione e lavoro di fabbrica ma mirano anche ad ampliare l’orizzonte
culturale degli allievi. Con l’avvento al potere di Stalin, invece, si ritorna ad una scuola di cultura
che esalti lo studio sistematico, subordinando il lavoro allo studio, riportando i programmi e i
metodi ad un livello sempre più ufficiale e vicino all’ideologia stalinista, e allontanandosi
dall’attivismo. Tuttavia, la scuola sovietica vede comunque un’espansione fortissima della scolarità
ed un miglioramento generale dell’efficienza delle strutture scolastiche. Anche in URSS, il potere
cerca di organizzare capillarmente la vita dei giovani, organizzandone il tempo libero: nasce, per

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esempio, la Gioventù Comunista con gare, lavori di gruppo, giochi, conferenze, sempre impregnati
di ideologia e posti al servizio della creazione del cittadino comunista, laico e socializzato.

La crescita scientifica della pedagogia.


Abbiamo già chiarito come, nel corso del ‘900, la ricerca pedagogica si avvii a recuperare
una propria identità sia filosofica e scientifica; la pedagogia si fa sperimentale, si arricchisce degli
apporti di psicopedagogia o sociologia dell’educazione, di una profonda ricerca scientifica sul
bambino o sull’apprendimento.
La pedagogia sperimentale si espande in Europa e USA (anche se in Italia è quasi inesistente). Oltre
alle teorie tedesche e francesi, le ricerche sperimentali più importanti, sull’insegnamento, si hanno
in USA, sotto la spinta del comportamentismo, con esiti innovativi soprattutto nel settore della
valutazione scolastica (nascita dei test per misurare le capacità intellettuali dei bambini), anche se
incidono molto poco sulla realtà scolastica dei vari Paesi. La sperimentazione pedagogica diverrà
poi uno strumento che, a partire dagli anni ’60, sarà promosso anche a livello istituzionale
sopranazionale, con l’UNESCO e l’OCSE e il Consiglio d’Europa. Un settore particolare della
pedagogia scientifica è quella dedicato alla psicopedagogia, che studia le componenti psicologiche
dell’azione educativa per arrivare a definire delle “leggi psicologiche” in grado di guidare il lavoro
educativo e scolastico. Anche la sociologia si mette al servizio della pedagogia e affronta i temi
dell’integrazione sociale promossa dalla scuola, così come la trasmissione dei pregiudizi che essa
favorisce e la riproduzione ideologica che viene ad esercitare, ma anche il rapporto tra scuola e
stratificazione sociale, immissione sul mercato del lavoro, mobilità sociale.
Un essenziale contributo viene dalla psicoanalisi di Freud e dalla psicologia dell’età evolutiva, con
Piaget. A Freud (1856-1939) la pedagogia deve soprattutto: la ridefinizione dell’infanzia; una
descrizione nuova dei rapporti familiari; il ruolo centrale assegnato all’affettività. l’infanzia è
pulsione della libido, affermazione incontrollata dell’eros, che però, sin dai primi giorni di vita,
viene sottoposta ad un preciso controllo sociale, che tende a limitarne o disconoscerne la sessualità.
Questa, invece, è una peculiarità dell’infanzia, diversa dalla sessualità degli adulti ma centrale per
lo sviluppo della personalità, e può subire repressioni o sublimazioni attraverso l’azione educativa.
Questa azione è affidata ai genitori con i quali il bambino ha un rapporto complesso e conflittuale;
Freud parla di rapporto edipico, connotato da amore per la madre e conflitto con il padre. Nella
formazione del soggetto, un ruolo centrale viene assegnato all’emotività, intorno a cui si elabora la
personalità del soggetto a partire dai primi mesi di vita. Queste tesi freudiane sull’apprendimento
vengono riprese anche da Anna Freud e Melanine Klein. In realtà, il processo dell’apprendimento
riceve lo sviluppo più deciso grazie all’impegno dei comportamentisti che lo collegano all’attività
motoria, al gioco, all’esplorazione dell’ambiente, alla socializzazione; per i comportamentisti,
apprendere significa sottoporsi a un condizionamento che si verifica tramite un feed-back, cioè un
processo di retroazione o di rinforzo.

Educazione e pedagogia nei Paesi extra-europei.


La pedagogia nei Paesi non europei si caratterizza per il fatto di doversi confrontare con
problemi del tutto nuovi, una nuova condizione economica, politica e sociale, e tradizioni e culture
completamente diverse da quella occidentale, emergono problemi nuovi come l’alfabetizzazione di
massa, la produzione in tempi brevi dei tecnici necessari allo sviluppo del Paese; tutto ciò ha portato
a mettere in dubbio una serie di certezze pedagogiche. Si tratta di un processo che avviene in
condizioni di estrema drammaticità, determinate dal colonialismo, dal postcolonialismo, dai
conflitti tra Nord e Sud del mondo, ma anche da lotte fra etnie, gruppi religiosi e gruppi sociali. Tale
processo si manifesta principalmente in tre ambiti:
1. studi antropologico-culturali sulle pratiche educative delle culture non occidentali: in
questo ambito, si distinguono gli studi di Levy-Strauss sulle pratiche familiari degli indiani delle
zone del Mato Grosso; egli le ritiene assai significative soprattutto per ciò che concerne il rapporto
tra genitori e figli che è improntato ad una profonda tenerezza, e si fa vero e proprio rapporto

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corporeo, fatto di coccole, abbracci, carezze. Tutto ciò rende i giovani più giocosi e felici. Sulla
stesa linea si pone Margaret Mead che compie studi sull’adolescenza a Samoa: qui, l’antropologa
rileva l’assenza di una crisi adolescenziale, di quei conflitti che investono invece tutti i giovani
occidentali. A Samoa, inoltre, la sessualità è più libera e il passaggio alla condizione adulta è meno
problematico, i soggetti sono meno squilibrati, meglio socializzati, più armonici. In Italia, notevoli
sono gli studi di De Martino in Il mondo magico o Sud e magia, in cui si evidenzia il legame tra
culture popolari e mentalità arcaica, e se ne valuta l’impatto ancora attuale sugli uomini e come esso
investa il rapporto con la natura, la società e il potere.
2. innovazioni pedagogiche attuate nei paesi in via di sviluppo: in questo settore, gli studi
hanno interessato principalmente il contesto del colonialismo e quello della decolonizzazione. Sotto
il primo aspetto, i Paesi europei hanno alimentato la formazione di modelli economici e sociali
borghesi nei Paesi del Terzo Mondo, hanno imposto loro la propria cultura, hanno promosso
campagne di alfabetizzazione. Al contempo, risvegliando le culture locali, hanno stimolato la
nascita di orizzonti educativi altri, immersi nella cultura autoctona coloniale, come testimonia, per
esempio, la cultura indiana della non-violenza di Gandhi, che si alimenta anche dei valori del
buddismo e dell’induismo. La decolonizzazione, per converso, ha portato ad un processo di più
radicale alfabetizzazione delle masse e ad istanze di democratizzazione che, però, hanno visto
l’impiego di grandi energie ma hanno ottenuto risultati abbastanza modesti. Questo pluralismo dei
modelli educativi e pedagogici favorisce lo sviluppo di un nuovo ambito di ricerca pedagogica:
l’educazione comparata che consiste nel mettere a confronto sistemi educativi e scolastici diversi.
Si tratta di una disciplina nata già in Francia nell’800, ma che cresce nel XX secolo, al punto tale da
investire organizzazioni di ricerca e studi a livello internazionale, come l’UNESCO e l’OCSE.
3. campagne di educazione degli adulti: l’educazione degli adulti ha lo scopo di coinvolgere
gli adulti in un processo di presa di coscienza culturale che li porta a confrontarsi con i problemi
locali ma senza arenarsi all’individualismo e al localismo. Un analogo ruolo di promozione
culturale è svolto anche dall’associazionismo di partito e dalla sindacalizzazione. Il vantaggio
dell’educazione degli adulti è costituito dal suo carattere più informale che ne potenzia l’efficacia e
ne valorizza il processo di scambio e di dialogo; in esso, ciascuno interviene in funzione di ciò che
è, delle sue conoscenze, delle sue specifiche capacità, così come delle sue esperienze, senza dover
rispondere di modelli imposti dall’esterno.

Il secondo Novecento: scienze dell’educazione e impegno planetario della pedagogia.


Dalla pedagogia alle scienze dell’educazione: un problema aperto.
I saperi specializzati (psicologia, sociologia, metodologia, didattica e simili, a loro volta
suddivisi in “sotto-saperi” altrettanto specializzati), assunti dalla pedagogia come “scienze
ausiliarie”, in realtà ne frantumano l’unità e la frazionano, al punto tale che il sapere che funzionava
come collante dei diversi contributi scientifici e filosofici, si trasforma in riflessione che si fa
epistemologia, cioè rigorizzazione logica e filosofica del discorso, ma anche axiologia, cioè scelta
di valori guida per l’azione educativa. Questa riflessione epistemologica si integra con la riflessione
storica e va a comporre la filosofia dell’educazione. Si tratta però di un semplice settore considerato
con i suoi metodi specifici, i suoi scopi, i suoi ambiti di ricerca. In definitiva, il sapere pedagogico
resta pluralista e aperto ma soprattutto si presenta sempre in divenire, e sfugge, quindi, ad una
definizione a priori; esso è un sapere iper-complesso che ha subito una trasformazione senza
possibilità di ritorno. Infatti, si tratta ormai di un passaggio epocale che, tuttavia, ha conosciuto
delle resistenze, soprattutto da parte dei sostenitori della metafisica, che ne hanno condannato il
dogmatismo e il riduzionismo di tale sapere a semplice “fascio di scienze”.

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“Guerra fredda” e pedagogia.
Nel secondo ‘900, la pedagogia subisce un rilancio ideologico determinato dalla guerra
fredda, con la sua necessità di imporre una scelta, uno schieramento fra due opposte concezioni del
mondo e dell’uomo. La pedagogia si fa interprete di questo dualismo: ad Occidente è coinvolta
nella difesa della libertà, dell’iniziativa privata, della concorrenza, dell’individualismo; a Oriente,
invece, si fa pedagogia di Stato, di stampo marxista. La prima è la pedagogia americana
dell’attivismo di Dewey, Kilpatrick o Maritain, la seconda è ovviamente la pedagogia marxista.
L’Italia, in tal senso, è un Paese di frontiera in quanto p schierata a fianco degli USA ed è retta da
governi filo-occidentali, con un economia neocapitalistica, ma al contempo, nel suo governo e nella
sua vita sociale e culturale, c’è una forte presenza del PCI; senza contare che l’Italia è guidata dalla
DC che ha come referente privilegiato la Chiesa cattolica. Per queste ragioni, la pedagogia italiana
si delinea secondo tre fronti:
1. pedagogia cattolica: è la pedagogia ufficiale, ispirata allo spiritualismo e all’individualismo;
al suo interno, soprattutto dopo il Concilio Vaticano II, si sono alzate voci di dissenso, come quella
di don Milani;
2. pedagogia laico-progressista: è la pedagogia dell’attivismo, che risente dell’influenza di
Dewey, aperta ai contributi delle scienze, la pedagogia di Codignola, Visalberghi, Laporta;
3. pedagogia marxista: concepisce l’educazione come connessa al lavoro, all’emancipazione,
alla dialettica tra scuola e società; è la pedagogia di Lombardo Radice, Manacorda, Jovine.
Tutte queste pedagogie di schieramento si contrastano e si contrassegnano politicamente; quella di
stampo marxista è la più feconda di cambiamenti, per il legame che va a creare fra lavoro
intellettuale e lavoro manuale, e si articola in modelli diversi a seconda del Paese in cui si viene
formandosi, come testimoniano i casi della Cina (in cui Mao unisce in una sintesi armonica cultura,
lavoro e politica, nella formazione della gioventù cinese, contro la pedagogia tradizionale e in nome
della rivoluzione culturale), di Cuba (dove si ha un processo di alfabetizzazione della popolazione
rurale e di educazione degli adulti, valorizzando il lavoro produttivo, secondo la lezione di Marx, e
diffondendo la cultura superiore a livello universale), dell’URSS. Non a caso, tra il 1945 e il 1949,
proprio i Paesi dell’Est avviano un processo di riorganizzazione dell’istruzione in senso
democratico, ma anche richiamandosi all’unità fra scuola e vita, fra cultura e lavoro. Particolare è il
caso della Polonia, che si trova a dover mediare fra marxismo e religione cattolica, una dimensione,
quest’ultima, profondamente vissuta a livello nazionale.
In Italia, il PCI fa una riflessione accurata sull’educazione facendo proprie le teorie elaborate da
Gramsci; pertanto, propone una scuola media unica, obbligatoria fino ai 14 anni, non basata sullo
spontaneismo ma sull’impegno e sullo sforzo. Per Gramsci, infatti, l’educazione è conformazione
alle regole sociali, socializzazione che solo in uno stato socialista perde l’alienazione e
l’autoritarismo che troppo spesso la connotano. L’obiettivo è formare un intellettuale organico alla
classe operaia, affinché ogni individuo possa essere, al contempo, governante e governato. In linea
con la lezione gramsciana, il PCI, negli anni ’50-’70, propone una riforma della scuola media per
diffondere maggiormente la cultura e gestire la scuola in maniera più democratica. È da qui che
deriva proprio l’egemonia del PCI sul terreno pedagogico italiano.
Infine, in ambito europeo, merita di essere menzionato Althusser che, in un suo saggio, rileva il
ruolo ideologico della scuola vista come cinghia di trasmissione della cultura della classe
politicamente egemone.

La pedagogia cognitivistica: primato dell’istruzione e tecnologie educative.


La pedagogia cognitivistica nasce a metà degli anni ’50 con il contributo della psicologia,
della linguistica e dell’informatica. Essa ha messo in rilievo le strutture del pensiero come sede
propria del carattere della mente umana. Ne deriva una pedagogia poco attenta ai problemi sociali
dell’educazione e maggiormente concentrata su quelli dell’apprendimento e della costruzione di
concetti e linguaggio. Un enorme contributo a questa pedagogia è dato da Piaget (1896-1980) che,
pur non essendosi occupato direttamente di problemi di pedagogia, ha avuto un ruolo importante, in

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quanto la sua teoria psicologico-evolutiva ha costituito il fondamento della pedagogia cognitiva.
Piaget ritiene che la mente infantile, di per sé animistica e soggettivistica, vada progressivamente
adeguandosi all’oggettività e ad un uso formale e astratto dei concetti logici, attraverso
l’assimilazione e l’accomodamento all’ambiente; testimone privilegiato di tale processo è il
linguaggio. Piaget individua 4 fasi del pensiero infantile:
1. fase senso-motoriag: va da 0 a 3 anni, ed è caratterizzata da un pensiero egocentrico,
assenza di causalità, ignoranza del futuro; in questa fase, il bambino ancora non distingue se stesso
dalle cose.
2. fase intuitiva: va dai 3 ai 7 anni; il bambino impara a distinguere se stesso dal mondo ma
continua a pensare in modo egocentrico e a spiegarsi i fatti con motivazioni animistiche.
3. fase operatorio-concreta: va dai 7 agli 11 anni; il bambino supera l’egocentrismo e il suo
linguaggio comincia a cogliere regole e rapporti fra le cose.
4. fase ipotetico-deduttiva: arriva fino ai 14 anni; è la fase in cui il pensiero matura, coglie le
categorie logiche ed è in grado di fare ipotesi e deduzioni.
Compito della pedagogia è dunque quello di ottimizzare questi passaggi, di produrre effetti pratici
nei soggetti. Per questa ragione, Piaget propugna una scuola attiva che fornisca ai bambini un
metodo utile per tutta la vita, seguendo il loro sviluppo e alimentandolo. La pedagogia di Piaget, in
sostanza, pone al centro della riflessione lo sviluppo della mente del bambino e dà un enorme
contributo alla pedagogia generale. Il suo limite, però, sta nel fatto che la mente cui egli fa
riferimento sia eccessivamente epistemologizzata, legata ad una visione dell’infanzia tipica delle
classi medio-alte occidentali, etnocentrica e scarsamente socializzata (Piaget non tiene conto
dell’ambiente sociale in cui cresce il bambino). Tuttavia, questi limiti non riducono il valore del
lavoro dello studioso francese.
Sulla scia di Piaget, si collocano Vygotskij e Bruner. Il primo, studiando il meccanismo di
apprendimento e i problemi dei portatori di handicap, mette in rilevo il ruolo della creatività; questa
deve essere stimolata mediante il gioco che è il motore dell’immaginazione e che educa al rispetto
delle regole. Perciò, il lavoro scolastico non deve fermarsi alle attuali capacità del bambino ma deve
considerarne lo sviluppo potenziale. Su questo punto, Vygotskij si allontana da Piaget, soprattutto
perché invita al superamento delle 4 fasi dello sviluppo e, in Pensiero e linguaggio, del 1934, il
distacco si fa ancora maggiore, nel momento in cui Vygotskij afferma che lo sviluppo del
linguaggio verso l’acquisizione del pensiero formale, non è spontaneo e innato, ma è il prodotto di
un processo storico e culturale. Ciò significa che l’educazione deve farsi guida di questo processo, e
che l’insegnamento ha un ruolo cruciale nello sviluppo della mente del bambino. D’altro canto,
Bruner, esponente di spicco della pedagogia cognitiva statunitense, elabora una pedagogia di tipo
strutturalista. I suoi studi si concentrano sui meccanismi che portano a classificare gli eventi
mediante precise categorie concettuali; lo sviluppo intellettuale infantile implica un complesso
apparato simbolico, un ruolo primario assegnato al linguaggio, e una interazione attiva fra educatore
e bambino. Nei diversi stadi dello sviluppo, perciò, si devono combinare azione, immaginazione e
linguaggio simbolico, in una scuola che si doti di una teoria dell’istruzione. Inoltre, la scuola deve
anche saper stimolare la volontà di apprendere e tener conto della progressione dell’apprendimento.
Brumer polemizza anche contro l’attivismo accusandolo di dare eccessivo peso al “fare” a scapito
del “conoscere” e propone un rinnovamento del curriculum di studi in senso maggiormente
scientifico. Le sue riflessioni toccano anche il valore sociale e politico dell’educazione che, per
Bruner, deve sapersi mettere sempre in discussione e andare a fondo nei problemi economici e
sociali, da cui resta pur sempre condizionata.
La pedagogia cognitiva, poi, si arricchisce dei contributi provenienti da altri due ambiti di ricerca:
1. le teorie del curricolo: nascono in area anglosassone, quindi in un contesto in cui alla scuola
si lascia ampia libertà e autonomia di programmazione. Questa libertà implica il bisogno di
avere consigli su come muoversi, di lasciarsi guidare, e per questo molti pedagogisti
propongono criteri per costruire i curricula, relativi agli obiettivi, ai metodi, ai contenuto.

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2. le tecnologie educative: sono il prodotto della centralità che ormai le macchine hanno
assunto nella nostra vita, in qualità non più di soli supporti ma di vere e proprie protagoniste
dell’insegnamento. Quest’ultimo ha dunque potuto farsi più controllabile, più impersonale e
più capace di auto-correzione. Rientra in questo ambito la metodologia del mastery
learning, cioè la costruzione di una didattica individualizzata, fatta ad hoc per l’allievo, a
sua misura, in modo da creare un percorso di apprendimento personalizzato di cui docente e
discente conoscano perfettamente tutte le tappe.

Il ’68: critica dell’ideologia, descolarizzazione e pedagogie radicali.


La rivoluzione culturale dei movimenti giovanili del ’68, diffusasi dagli USA all’Europa,
sotto la spinta del pensiero rivoluzionario socialista e anche anarchico, trova il suo esempio più alto
nel Maggio francese, cioè nelle lotte studentesche parigine, e non solo, alimentate da un pensiero
creativo e audace. Negli USA, si smaschera soprattutto il sapere accademico e l’ideologismo che
esso nasconde, e si sviluppa una controcultura giovanile che invade il campo della poesia, della
musica, della letteratura, della filosofia, arricchendosi di suggestioni orientali e di appelli ad una più
autentica comunicazione tra i soggetti (come accade per esempio con gli hippies, legati ad una
cultura non violenta ed erotica). In Germania, si attua una ripresa più creativa del marxismo, sotto
l’influenza della Scuola di Francoforte, aperta ad esperienze libertarie, come nel caso di Reich, che
cerca di realizzare una sintesi tra psicoanalisi e marxismo. In Italia, il movimento degli studenti si
lega ad una rivolta sindacale e operaia, che si abbatte principalmente sul PCI e porta alla nascita di
una serie di piccoli gruppi estremisti, orientati politicamente. In effetti, tutto il movimento si
politicizza (pensiamo a Lotta continua, o Potere operaio) mentre le elaborazioni culturali teoriche
vengono lasciate a gruppi di intellettuali e a riviste, come Quaderni piacentini, aut aut, L’erba
voglio… In definitiva, in tutta Europa, gli interventi educativi e le teorie pedagogiche si
riconducono ad una matrice ideologica, intesa in senso marxiano, come non neutrale, neanche
quando si definisce scientifica, perché nasconde sempre la realtà, anzi: la pedagogia e la scuola
sono i luoghi in cui l’ideologia si riproduce e si legittima. Proprio la critica all’ideologia scolastica e
a quella pedagogica sono i grandi temi del dibattito del ’68; infatti, la pedagogia viene smascherata
nel suo legame di scienza che vuole porsi al servizio della società ma che è sempre schierata, e
quindi non deve cercare di porsi come neutrale, ma semplicemente deve scegliere di schierarsi per
l’emancipazione, per la liberazione dell’uomo, come individuo e come genere. È in questo nuovo
clima che si affermano dei modelli alternativi che intendono fare pedagogia in modo critico,
liberandosi dalla visione borghese e ispirandosi al principio di valorizzazione della differenza e del
pluralismo delle scelte pedagogiche, quali:
1. le pedagogie dell’autogestione: si sviluppano principalmente in Francia, con Lapassade che
demolisce il Mito dell’adulto (1963) e gli contrappone l’infanzia vista come età dell’incompiutezza
e dello sforzo di entrare nella vita in modo autentico e creativo. L’infanzia deve essere valorizzata e
se ne deve promuovere la natura genuina, liberando gli allievi, gli insegnanti e i pedagogisti.
2. le pedagogie della descolarizzazione: descolarizzare la società significa sottrarre
l’apprendimento e la formazione all’ideologia del potere per favorire l’indipendenza dei giovani e
allenarli meglio al senso della scoperta. L’apprendimento deve essere organizzato in diversi
momenti e ambiti della vita sociale, evitando di istituzionalizzandolo ma lasciandolo che si liberi in
maniera informale: il suo scopo, infatti, deve essere la formazione umana e sociale di ogni uomo, in
modo che possa vivere insieme agli altri uomini. La descolarizzazione intende porre la scuola dalla
parte dei poveri attivando processi di “coscientizzazione” che possano portare i ceti diseredati a
partecipare alla vita civile e a riappropriarsi di essa. Alla base di questo programma, vi è una forte
spinta utopica, oltre che un deciso impegno rivoluzionario.
3. le esperienze di controscuola: in questo ambito, sono presenti caratteri della
descolarizzazione, come è evidente nell’esperienza di don Milani di cui abbiamo già parlato.
4. le pedagogie della differenza: sostenuta principalmente in area francese, interpreta il
bambino secondo un modello umano più libero, perverso e polimorfo, comunicativo e

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anticonformistico. Tra le voci francesi della pedagogia della differenza, spicca quella di Schérer
con il suo Emilio pervertito del 1974, che critica radicalmente l’educazione così come viene
praticata in Occidente. Invece, la corporeità infantile deve essere liberata anche nelle sue
perversioni, per emanciparla dal controllo da parte degli adulti. Si tratta qui di una pedagogia
eversiva e anticonformista che, tuttavia, comporta il rischio di portare ad una mitizzazione e ad una
visione dell’infanzia al di fuori della storia. In Italia, la pedagogia della differenza segue due
percorsi: da un lato abbiamo Bertin con la sua proposizione di una formazione che abbia come
obiettivo la differenza e la creatività esistenziale, richiamandosi ai valori dell’oltreuomo di
Nietzsche, e reclamando un’educazione tesa a valorizzare la formazione di una personalità
originale, aperta al cambiamento e al dissenso, anche se inquieta e irrazionale. Dall’altro lato,
invece, abbiamo la figura di Pasolini, in un ambito fuori da quello strettamente pedagogico, ma pur
sempre di fronte ad una coscienza educativa sensibile e nuova. Pasolini ha la grande capacità di
saper far vivere le esigenze formative dei giovani attraverso un dialogo intimo e partecipato fra essi
e il maestro. Ciò è soprattutto evidente nelle sue rubriche sui settimanali in cui dialoga con i lettori
ma anche nel suo trattato pedagogico Gennariello del 1975. Pasolini si fa anche educatore civile,
propugnando un netto rifiuto dell’etica capitalistica e il ritorno ad una convivenza umana
radicalmente comunitaria, semplice e genuina nei suoi bisogni.
In definitiva, il ’68 agisce sull’identità della pedagogia in tre direzioni: riportandola alla sua
fondamentale dimensione politica, evidenziandone i limiti e i condizionamenti ideologici e
ridisegnandola come sapere critico, e infine mettendo a fuoco nuovi modelli formativi in senso
libertario, anti-autoritario, erotico e creativo. In tutto questo ampio movimento, c’è un ulteriore
aspetto che va evidenziato: l’estremismo; esso è inteso sia come illusione di poter ricostruire
l’ambito pedagogico da zero, sia come volontà di agire in vista di una rivoluzione considerata
sempre e comunque possibile.

La scuola dal dopoguerra ad oggi.


Dal 1945 ad oggi, nei paesi industrializzati, la scuola si è caratterizzata per:
1. sua crescita in senso sociale: si è attuata una alfabetizzazione di massa con l’innalzamento
dell’obbligo scolastico un po’ ovunque; al contempo, la scuola si è posta come veicolo per favorire
la mobilità sociale, in una società che si fa più dinamica e in un mercato del lavoro sempre più
articolato; sono proprio le competenze professionali che attivano la trasformazione profonda della
società, consentendo passaggi da una classe sociale ad un’altra.
2. suo ruolo nello sviluppo economico: le richieste per l’allargamento dell’obbligo scolastico
non provengono solo dai politici ma anche da industriali ed economisti; questo significa che anche
la manodopera operaia deve essere preparata culturalmente. La scuola deve professionalizzare (e a
questo compito si presta la scuola secondaria) oltre che diffondere conoscenze di base e una cultura
più ricca e solida (che è il compito della scuola media). La doppia istanza cui è sottoposta la scuola,
tra la trasmissione di una cultura disinteressata e la creazione di profili professionali, alimenta un
lungo dibattito sulla scuola stessa che si diffonde in tutti i paesi europei e porta a soluzioni diverse.
3. sua funzione nell’assetto democratico: la scuola intende formare cittadini a pieno titolo, e
oltre a ciò diffonde pratiche di discussione, di confronto e dialogo collettivo, attraverso le assemblee
del movimento collettivo.
4. forti tensioni riformatrici che la attraversano: proprio la coscienza democratica ha portato
alla condanna del ruolo ideologico della scuola ma anche l’affermazione che tale ideologizzazione è
inevitabile sia nei contenuto che nell’organizzazione stessa della vita scolastica. Si tratta di
problemi che restano tuttora aperti perché la scuola contemporanea è ancora una scuola in
trasformazione.
Di questa trasformazione sempre in divenire, la scuola italiana è un esempio paradigmatico, nelle
trasformazioni che ha subito dal 1945 ad oggi. Sono anni in cui l’Italia è cresciuta
democraticamente, in cui il tasso di scolarizzazione si è elevato, ma allo stesso tempo la scuola si
sottopone a un’oscillazione continua, fra tendenze e riforme di segno opposto, soprattutto per ciò

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che riguarda la professionalizzazione. La scuola italiana si è invischiata in una serie infinita di
riforme, esito di altrettante discussioni infinite, che ha portato, per esempio, alla liberalizzazione
degli accessi alle Università e poi alla legge per l’autonomia, con la revisione dell’offerta formativa
e del curriculum scolastico; a partire dal 1997 si è avuta una riforma organica del sistema scolastico
italiano ma tutto questo itinerario si è svolto procedendo in modo disorganico, con passi indietro e
passi in avanti, il che, indubbiamente, non ha favorito l’efficienza di tutti questi cambiamenti.

“Mass media” ed educazione.


Negli ultimi anni, i mass media hanno occupato uno spazio maggiore nella formazione
dell’immaginario collettivo, tanto da essere i nuovi strumenti per la costruzione dell’identità
individuale e delle masse. I mass media, non a caso definiti persuasori occulti, modellano e
producono visioni del mondo e miti, e vincolano le idee e i comportamenti delle masse. Essi,
insomma, assumono il volto di veri e propri educatori informali la cui azione agisce nell’uomo a
partire dai primi anni di vita. Questo significa che la costruzione dell’immaginario è solo
scarsamente influenzata, oggi, dal mondo familiare o dalla cultura locale, e sempre più, invece,
dalla televisione; gli effetti sono di vario genere, dalla omologazione planetaria, alla conformazione
a mode, consumi, modelli di comportamento fondati sul loisir, sul piacere momentaneo, sul
godimento immediato e fuggevole. Non va trascurato il fatto che il controllo e l’organizzazione dei
media, sempre più, si qualifica come una vera e propria industria, regolata e soggetta a leggi di
mercato e a logiche economiche, oltre che specchio delle ideologie delle classi dominanti. Il suo
principale scopo è ottenere la standardizzazione dei comportamenti. In passato, tuttavia, i mass
media, soprattutto stampa e televisione, hanno svolto una funzione molto importante come
strumento di educazione delle masse, come è accaduto in Italia, dove, in una fase difficile seguita
all’unificazione, hanno avvicinato gli uomini a linguaggi condivisi, hanno alfabetizzato la
popolazione, agendo laddove scuola e istruzione sembrava non riuscissero a penetrare.
L’esplosione dei media, perciò, ha aperto la strada a tesi interpretative differenti che, come ha notato
Eco, hanno visto gli studiosi dividersi in due indirizzi principali:
1. apocalittici: (come Adorno, Horkheimer) mettono in luce la povertà culturale, la
stereotipizzazione e la subalternità alle ragioni economiche e al mercato, che l’industrializzazione
ha introdotto nella cultura. Sostanzialmente, gli apocalittici criticano gli effetti diseducativi della
cultura massificata.
2. integrati: (come McLuuhan) valorizzano la democratizzazione della cultura, attuata dai
mass media, riconoscendole una funzione di informazione e avvicinamento ai prodotti artistici, ma
anche di sensibilizzazione nei confronti del mondo; in pratica, riconoscono ai media una funzione
positiva.
In realtà, questa dicotomia è mal posta, nel senso che ormai l’industria culturale è un fatto da cui
non si può tornare indietro, e quindi l’unica strada possibile è quella di arricchire i media di cultura
facendo in modo che veicolino valori culturali positivi, mediante un’educazione più consapevole,
programmata e non sottoposta al mercato e alla logica del guadagno; soprattutto, bisogna lasciare
che la cultura sia gestita da uomini di cultura per i quali il fine primario è la produzione di valori e
non il fine economico. Tutte le agenzie educative devono ormai fare i conti con la cultura dei mass
media, include le famiglie e la scuola, per realizzare un programma culturale di maggiore qualità.
Certo, bisogna prendere atto che le tradizionali agenzie educative sono state del tutto spiazzate dalla
loro centralità all’interno della società anche perché la cultura mediatica ha posto al centro della
formazione dell’immaginario l’immagine e il suono, in posizione privilegiata rispetto al linguaggio
verbale. Siamo dinanzi ad una fase nuova dell’educazione contemporanea che si apre a prospettive
e a problemi nuovi.

Epistemologia del discorso pedagogico e immagine del sapere educativo.


Tutto lo sviluppo, e le conseguenti trasformazioni, subite dalla pedagogia nel corso del
tempo, hanno messo in rilievo un dato ormai certo: la pedagogia è sempre scienza, politica e

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filosofia insieme, nel senso che si appropria di un metodo scientifico ma si svolge sempre in un
determinato momento storico e politico, e risente di una prospettiva ideologica. Proprio la crisi di
identità che l’ha investita negli anni ’60 ha portato allo sviluppo di una ricca produzione di ricerche
epistemologiche che si sono articolate principalmente in 4 modelli:
1. modello analitico: questo modello, a sua volta, si è diviso in due indirizzi. L’indirizzo del
neo-empirismo logico interpreta la pedagogia come portatrice di un discorso legato alla logica
scientifica (che procede per spiegazione e verifica), per cui alla pedagogia si applica il principio
dell’analisi formale; il secondo indirizzo, quello filosofico analitico, studia il linguaggio della
pedagogia in tutti i suoi aspetti informali (legame col discorso comune, procedure metaforiche,
ricorso agli slogan…). In Italia, in questo ambito, hanno operato la Di Lallo e Raffaele Laporta, ma
tale modello analitico si è sviluppato anche nel pensiero pedagogico statunitense.
2. modello strutturalistico e critico: su questo versante, troviamo le indagini di Brezinka che,
nella sua Metateoria dell’educazione del 1978, pone in luce gli aspetti scientifici delle pedagogie e
dei loro discorsi e anche le scelte storico-ideologiche.
3. modello dialettico: qui, oltre ai modelli classici di Lenin, Gramsci, Marx, ricordiamo le
posizioni di Broccoli, in Italia, con l’opera Ideologia ed educazione. Broccoli riconduce la
pedagogia all’ideologia come un sapere operativo condizionato da valori che sono espressione di
visioni del mondo e quindi di gruppi sociali.
4. modello ermeneutico: questo ambito si è sviluppato di recente in Italia e in Germania
(soprattutto con Rohrs); qui, il sapere pedagogico viene visto come radicato nel tempo storico, nelle
sue tradizioni e nelle sue abitudini e quindi esso va da un lato de-costruito, e dall’altro va
interpretato.
A questi 4 modelli, possiamo aggiungere anche il modello metafisico che ricollega la formazione
umana ad un modello unico di uomo. Tutte queste ricerche hanno portato ad una nuova immagine
della pedagogia vista come sapere complesso che può essere interpretato attraverso diversi
paradigmi. Si tratta di un sapere che va reso più rigoroso ma va anche “salvato” in quanto di
articolato contiene, e questo significa che il lavoro epistemologico non è mai compiuto una volta
per tutte ma che va costantemente ripreso e rivisitato.

Nuove emergenze educative: femminismo, ecologia, intercultura.


L’infinita serie di nuove emergenze che hanno caratterizzato la pedagogia negli ultimi anni,
hanno visto l’emersione di 4 principali nuovi orientamenti culturali:
 femminismo: i movimenti femminili sono nati già nell’800 e hanno posto al centro della
coscienza educativa e della riflessione pedagogica, il problema del genere. In un primo momento, le
istanze femministe hanno posto al loro centro la rivendicazione di un trattamento alla pari rispetto
agli uomini, per cui, in campo educativo, questo ha comportato la richiesta della piena
scolarizzazione per le donne, un’apertura alle professioni considerate monopolio maschile, un
sostegno alla maternità ecc… Successivamente, invece, a partire dagli anni ’80, si è rivendicata
soprattutto la specificità del femminile, della sua cultura, e della sua educazione, ed è venuta quindi
affermandosi una pedagogia della differenza.
 ecologismo: l’ecologia ha trasformato il modo di concepire il rapporto fra uomo e ambiente
e ha proposto una visione di quest’ultimo come di una nicchia ecologica da salvaguardare e
rispettare; in sostanza, l’ambiente non è più un contesto da percorrere e utilizzare
indiscriminatamente, ma un elemento insostituibile che, una volta distrutto, non può essere più
riprodotto. L’ecologia è quindi il nuovo grande valore della cui trasmissione pedagogia ed
educazione devono farsi carico.
 multiculturalismo: questo orientamento è emerso come naturale conseguenza degli enormi
spostamenti di popoli, delle difficoltà nella loro convivenza e integrazione. Si tratta di una
problematica molto complessa che, in molti casi, si pone con grande drammaticità agli occhi della
moderna società. La pedagogia deve attrezzarsi, perciò, a comprendere anche le culture altre, e deve
perciò perdere il suo carattere etnocentrico, smascherando la propria intolleranza e il proprio

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razzismo, aprendosi ad un compito difficile ma urgente, rispetto al quale essa non può agire da sola,
ma deve affrontarlo con un ruolo prioritario.
 problema della terza età: l’aumento del numero degli anziani in tutte le società occidentali,
comporta la necessità di riqualificare la vecchiaia e darle un significato totalmente nuovo rispetto al
passato. Essa non può più essere considerata come marginalità, come momento di riposo, di
deposito di saggezza, ma deve essere concepita come età vitale e attiva da collocare a pieno titolo
nella vita sociale. Pertanto, si devono predisporre percorsi educativi di apprendimento per la terza
età, così come di ricreazione, di scambio sociale, di lavoro anche. Ciò implica non solo un impegno
pedagogico per la terza età ma anche uno studio di tipo psicologico e sociologico.

Un universo in fermento sulla frontiera del Duemila.


Abbiamo più volte detto (fino allo sfinimento) che la pedagogia è oggi un sapere in crisi e
nello stesso tempo in crescita, e che l’educazione è alla ricerca di una nuova identità e di un nuovo
equilibrio. È però necessario tener conto che la pedagogia ormai si pone al centro della società e si
lega inevitabilmente alla scienza, alla politica e alla filosofia, senza però farsi assorbire interamente
da esse, ma ponendosi in modo dialettico, plurale, critico. Inoltre, bisogna considerare che, in
questo processo di cambiamento della pedagogia, ci sono molti aspetti positivi, come i fattori di
dialogo, emancipazione, e tolleranza, ma anche molti aspetti negativi come lo spaesamento,
l’incertezza e l’iper-criticismo cui il sapere pedagogico è sottoposto. Come afferma Bowen nella
sua Storia dell’educazione occidentale “il pensiero e la pratica pedagogica devono tenere il passo
con gli sviluppi odierni della scienza e sviluppare una teoria che sia coerente per il futuro”, tenendo
sempre presente che l’educazione deve mantenere il suo fine originario, cioè il fatto di dover essere
una scienza per l’uomo e quindi di mirare ad una umanizzazione di ogni generazione successiva; il
suo proposito è, infatti, quello di sviluppare personalità che siano autenticamente umane.

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