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IL CINEMA STA MALE?

FATEGLI UNA STEREOSCOPIA

Il nome stereoscopia ricorda molto una di quelle tecniche diagnostiche che in


medicina servono per curiosare dentro alle persone e trovare le cause di alcune
malattie. Nel caso specifico molti esperti sono convinti che la stereoscopia,
volgarmente detta 3D, sia la cura ai mali di un’industria dell’entertainment già
sofferente ed ulteriormente fiaccata da una crisi economica senza precedenti che
l’ha inevitabilmente colpita.

Riuscirà una tecnologia vecchia di 171 anni a rimettere in piedi un degente illustre come lo show
business nel suo insieme? La sola cosa che sappiamo ad oggi è che la cura si sta trasformando a
sua volta in una sorta di pandemia che ha colpito indistintamente tutti quelli che hanno a che fare
con cinema e dintorni, i quali, una volta rinsaviti, presenteranno, come sempre, il conto del medico
al pubblico.

Rolando Alberti

Correva l’anno 1838


Le cronache Vittoriane collocano l’invenzione della stereoscopia nel lontano 1838 ad opera di Sir Charles
Wheatstone, un brillante ed eclettico inventore e fisico che si distinse in quell’epoca per essere una fucina di
idee tra cui appunto lo stereoscopio, strumento che permetteva di visualizzare immagini tridimensionali. Fu
tuttavia solo nel 1922 che il primo film stereoscopico, intitolato “The power of love” fu presentato al
pubblico dell’Ambassador Theatre di Los Angeles, seguito da altre pellicole non particolarmente fortunate
che unitamente alla depressione scatenata dalla crisi economica del 1929, non contribuirono a fare del 3D ciò
che oggi chiameremmo una Killer Application. Passati i periodi di vacche magre dovuti alla crisi del ’29, nel
1933 i fratelli Lumiere presentarono al pubblico quello che da molti è ritenuto il primo vero film
commerciale in 3D, ovvero il remake in 3D del loro storico “L’arrivèe du train” del 1895. I sistemi 3D
dell’epoca erano piuttosto complessi e si basavano su quelli che in Italiano potremmo definire come
“anaglifi”, ovvero due immagini sovrapposte che rappresentano ognuna il punto di vista di ciascun occhio e
che grazie all’aiuto di filtri colorati montati su degli appositi occhiali, danno l’illusione della profondità delle
immagini. Da notare che i primi esperimenti si basavano su due pellicole proiettate parallelamente da due
proiettori, “virate” in verde e rosso e sincronizzate tra loro le quali, viste con gli appositi occhialini,
rendevano l’effetto tridimensionale.

La vera svolta tecnologica arrivò nel 1932 con le lenti polarizzate lanciate originariamente dalla Polaroid per
ridurre l’effetto abbagliante dei fari delle automobili incrociate durante la guida e che solo successivamente
vennero utilizzate quasi per caso nel cinema, fino ad arrivare al primo film commerciale nel 1939 girato per
presentare la Chrysler Plymouth all’esposizione universale di New York. Questa tecnologia, che richiedeva
l’utilizzo di uno schermo argentato in grado di riflettere la luce in modo maggiore rispetto ai normali schermi
bianchi, compensando in tal modo la luce “persa” dall’operazione di filtraggio, è fondamentalmente rimasta
immutata da allora e sta alla base degli odierni sistemi digitali. Nel 1940 la Seconda Guerra Mondiale rimise
occhiali e anaglifi nel cassetto fino ai primi anni ’50. Nel 1952 la corsa al 3D riprese in tutto il suo splendore
grazie alla discesa in campo degli Studios che abbracciarono questa tecnologia, seppur con la complicazione
delle due pellicole da mantenere sincronizzate, producendo svariati film in tre dimensioni; dalla Disney alla
Fox, dalla Paramount alla Warner Bros, il mercato fu letteralmente invaso da film in 3D fino all’anno
successivo in cui, passato l’entusiasmo per questa moda, le problematiche tecniche legate a questo tipo di
proiezioni, il fatto non trascurabile che una visione prolungata di immagini stereoscopiche provocava spesso
nel pubblico problemi di ordine psicofisico, unite alla comparsa del formato widescreen, ne segnarono un
rapido e progressivo declino fino alla quasi totale scomparsa in capo a pochi anni.
Negli anni ’60 il fatto di poter sovrapporre le due immagini in una unica pellicola diede nuovo impulso alla
produzione 3D che vide circa una quarantina di release significative nei dieci anni successivi per poi subire
un ulteriore rallentamento a favore del sistema IMAX 3D che meglio era in grado di rendere questo tipo di
produzioni su uno schermo che “avvolge” lo spettatore. In questo andirivieni di successi che collocano
storicamente il 3D come “fenomeno di moda”, per non dire come un “reiterato tentativo di supplire alla
scarsità di contenuti con effetti speciali” giungiamo ai giorni nostri in cui la proiezione digitale permette,
almeno sulla carta, di gestire in maniera ottimale questo tipo di prodotto. In effetti anche la TV può ora
beneficiare della tecnologia 3D e questi fatti, sebbene già negli anni ’90 dello scorso secolo esistesse la TV
3D, sta alla base del ritrovato entusiasmo per i film in 3D i quali, seppur non avendo invaso in maniera
significativa il mercato, popolano i cataloghi dei distributori in maniera sempre maggiore a testimonianza
che l’essere umano ha la memoria corta e tende a reiterare i propri insuccessi proponendoli come innovativi
ad un mercato di massa che, sempre più accorto, reagisce con quasi sempre con indifferenza.

Il 3D oggi
Tecnicamente, per dirla in modo molto semplice, la stereoscopia di oggi si basa interamente sull’uso di luce
polarizzata in modo che le immagini destinate all’occhio sinistro abbiano una polarizzazione diversa rispetto
a quelle per l’occhio destro, il tutto con un frame rate più elevato rispetto ai tradizionali 24 fotogrammi al
secondo in modo da “imbrogliare” il cervello dello spettatore non facendogli percepire l’alternanza delle
immagini.

Attualmente disponiamo di tre diversi tipi di sistemi 3D che manco a dirlo non sono compatibili tra loro e
richiedono quindi che la sala scelga il sistema che ritiene più idoneo. La buona notizia è invece che i
contenuti, a prescindere dal sistema di riproduzione utilizzato, sono sempre gli stessi e non devono essere
pubblicati con metodi diversi grazie alla lungimiranza del consorzio DCI il quale ha stabilito che qualsiasi
sistema 3D debba partire comunque dallo stesso tipo di immagini. La differenza fondamentale tra i tre
sistemi sta nel punto in cui la luce viene polarizzata e nel metodo in cui ciò avviene. Nel sistema Real-D la
luce viene polarizzata circolarmente e gli occhiali utilizzati sono detti “passivi” in quanto non hanno alcun
tipo di sincronizzazione con le immagini poiché le due lenti sono polarizzate una in senso orario ed una in
senso antiorario, fungendo così da filtro per l’immagine ad esse destinata. Nel sistema X-Pand gli occhiali
sono “attivi” ovvero fungono da otturatore cambiando polarizzazione alle lenti in funzione della
polarizzazione dell’immagine proiettata in quel dato momento. Il sistema Dolby è una specie di ibrido fra i
due e, a parere di chi scrive, anche il meno efficiente in termini di resa luminosa anche se essendo un fan di
X-Pand, la mia opinione in questo caso va presa con le pinze.

A prescindere dalla tecnologia che a quanto pare è ora matura per sostenere in maniera relativamente
semplice il 3D, vi sono una serie di considerazioni da fare che potrebbero ridimensionare un fenomeno
tornato di moda. Partiamo dagli occhiali che, diciamocelo, sono veramente scomodi da portare per un ora e
mezza. Non ci si aspetta certo una montatura in leggerissimo titanio, ma oltre all’aspetto da protesi questi
occhiali, e specialmente quelli attivi che hanno al loro interno pure una batteria, non sono esattamente ne
leggeri, ne ergonomici; pesano parecchio ed occludono la visione laterale con le loro enormi bacchette che in
compenso tendono a riflettere sui lati del campo visivo le immagini che provengono dallo schermo. Fin qui
nulla di grave se non fosse che nel caso in cui lo spettatore indossi già degli occhiali di suo, diciamo ad
esempio a causa di astigmatismo senile, la convivenza di due montature sullo stesso naso, diventa piuttosto
complessa e fastidiosa a meno di non indossare delle lenti a contatto o rassegnarsi a vedere quasi tutto il film
bello sfocato. Per non parlare del fatto che alcuni occhiali hanno un sensore posto tra le lenti a cui è deputato
il compito di ricevere il segnale di sync e che, nel caso ci si aggiustino gli occhiali sul naso, viene oscurato
dal dito, provocando per qualche secondo la visione “sdoppiata” dell’immagine stereoscopica.

In realtà i problemi per lo spettatore iniziano già fin dalla cassa del cinema quando, oltre ad un biglietto
generalmente maggiorato, ci si sente richiedere un documento come “cauzione” per gli occhiali come nei
convegni multilingua in cui la patente funge da ostaggio per la cuffietta della traduzione simultanea. Non
meno complicata è la situazione per l’esercente della sala il quale deve organizzare gli occhialini in modo da
poterli distribuire velocemente, dopo averli puliti e, si spera, disinfettati ogni volta ed aver anche creato uno
spazio in cui tenere i documenti degli spettatori che a fine spettacolo dovranno essere restituiti al legittimo
proprietario. Dato poi che un paio di occhialini può arrivare a costare anche 30 o 40 Euro, resta da capire
quale sia, per un esercente, il reale vantaggio derivante da un simile investimento che va ovviamente
moltiplicato per il numero di posti in sala e per una non ben definita quantità di batterie CR2025 nel caso di
occhiali attivi.

Sul fronte della produzione, a parte il fatto che già fin dalle riprese tutta la filiera si complica, e quindi
implica maggiori costi, resta poi da capire quali film traggano effettivamente vantaggio dal 3D da un punto
di vista artistico. I film francesi d’autore girati con camera fissa? Le commedie? I film d’azione? I thriller?
Francamente ricordo ancora con disagio quella specie di otto volante che è stato “viaggio al centro della
terra” e non ho capito il valore aggiunto degli schizzi di sangue “lanciati” sullo spettatore in “S.valentino di
sangue”. Sicuramente a trarre il maggior beneficio sono i film d’animazione di cui, ad esempio, Mostri Vs,
Alieni è stato un fulgido esempio poiché pensato, scritto e diretto con il 3D in mente. Purtroppo, come
successe per l’audio surround, ci vorrà del tempo prima che si trovi la giusta misura tra espressione artistica e
la tentazione di tramortire il pubblico e nel frattempo la Xamamina potrebbe sostituire i popcorn.

E’ indubbio che il cinema digitale sia il vero fattore abilitante delle tecnologie 3D permettendo oggi alla
maggior parte del pubblico di poter assistere ad un film di 100 minuti senza uscire dal cinema con un forte
mal di testa o gli occhi incrociati, godendo di una nuova esperienza di visione. La frase precedente è il sunto
delle motivazioni addotte dagli addetti ai lavori al ritorno del 3D. Dato che quegli stessi addetti ai lavori, con
in testa il sottoscritto, sono i primi, in privato ovviamente, ad essere poco convinti di tutto ciò, forse la frase
dovrebbe essere rivista con qualcosa del tipo “è indubbio che il 3D sia un argomento di ottima presa su
esercenti che ancora sono piuttosto restii a passare al digitale ma il cui sguardo si illumina quando pensano a
quell’Euro in più incassato sul biglietto”. Insomma più che una innovazione questo ritorno del 3D suona
come uno slogan ben confezionato dall’industria dell’elettronica per spingere il cinema verso una rivoluzione
che di fatto stenta ad essere percepita come tale e che forse rivoluzione non sarà mai se non tra una ventina di
anni quando, dopo l’euforia di questo periodo, il 3D tornerà sotto qualche altra forma…magari come
ologramma della Principessa Leila: aiutaci Obi Uan Kenobi!!!

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