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concorsuale A59 dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, contenendo immagini e
informazioni potenzialmente protette dal copyright, è strettamente limitato ad uso personale
pertanto non potrà in alcun modo essere diffuso a mezzo internet, né riprodotto a mezzo stampa
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Il tema dell’origine della specie umana e della sua evoluzione così come quello della diversità
biologica delle popolazioni umane viventi (la ‘biodiversità umana’) riveste un grande
interesse nella società attuale, in quanto sono argomenti dai quali ci sentiamo coinvolti in
maniera diretta.
L’evoluzione produce diversità e si alimenta di diversità. Noi siamo molto uniti dal punto di
vista genetico (due individui presentano una diversità pari solo al 2 per mille del loro
patrimonio genetico) ma straordinariamente capaci di produrre una diversità culturale, in
termini di interessi, abitudini, storie e tradizioni.
La “varietà degli organismi viventi” esprime l’insieme delle differenze osservabili negli
organismi ed è un concetto valido a tutti i livelli, da quello cellulare a quello organismico e
sovraorganismico, e può essere applicato ai virus, ai batteri, ai funghi, alle piante, agli
animali, uomo compreso. L’uomo è, infatti, un semplice mammifero bipede di grossa taglia,
ubiquitario, che sa parlare, scrivere, costruire macchine complesse, ma è anche capace di
genocidio, torture, sterminio e di assumere droghe.
La diversità umana dipende solo in minima parte dalla diversità genetica e molto da fattori
ambientali e culturali. L’errore che si commette spesso è quello di vedere le differenze
utilizzando i caratteri cosiddetti “antropometrici”, cioè quelle caratteristiche “superficiali”
(colore della pelle, colore dei capelli, taglio degli occhi, statura, corporatura), che si sono
evolute molto recentemente e la cui manifestazione (il fenotipo) rivela un adattamento
specifico, locale, geografico come risposta a fattori ambientali ben precisi, come il clima e la
quantità di insolazione sulla pelle, e comunque anche con notevoli eccezioni. Si tratta di
caratteri ingannevoli perché ci fanno sembrare diversi da noi individui che invece
geneticamente sono molto simili.
Molto spesso, tuttavia, la percezione che l’opinione pubblica ha dell’evoluzione umana (ma
anche della diversità) è condizionata da pregiudizi e influenzata da luoghi comuni che
rischiano di falsarne la corretta interpretazione deformandone il reale significato.
Questo è tanto più vero per quello che riguarda il tema della diversità biologica delle
popolazioni umane viventi, che, aldilà degli aspetti di interesse scientifico che può suscitare,
influenza anche aspetti del vivere quotidiano nella nostra società sempre più multiculturale.
L’uomo è una specie “prepotente”, capace di adattamento tale che gli permette di “regnare”
incontrastato sul pianeta: una predominanza sulle altre specie, sulla natura, e infine
dell’uomo sull’uomo. Una prepotenza fatta talora di forma fisica, ma anche di intelligenza, e
di una capacità evolutiva prettamente culturale che, pur essendo presente negli altri animali,
in questi ultimi è molto più limitata. Il monolinguismo è insostenibile perché anche le lingue
devono “adattarsi” all’ambiente nel quale sono parlate e devono consentire la trasmissione
delle esperienze che sono effettivamente significative in quel contesto. Per raccontare la
storia del linguaggio e del ruolo che esso può aver giocato nel cammino dell’uomo moderno
conviene prendere le mosse da un’indispensabile distinzione terminologica: linguaggio e
lingua sono concetti assai differenti, ancorchè spesso confusi. Il linguaggio è la nostra
capacità cognitiva di creare sistemi di comunicazione aperti all’infinito, in grado, cioè, di
produrre un numero potenzialmente illimitato di frasi a partire da un insieme chiuso e
ristretto di mattoncini di base. Le lingue, invece, sono una delle possibili manifestazioni del
linguaggio, cioè uno dei sistemi di comunicazione, dei codici simbolici (fondati cioè
sull’associazione tra significati e significanti) di cui l’uomo dispone per comunicare. Negli
esseri umani il linguaggio è la base della cultura, perché fornisce agli uomini uno strumento
incredibilmente efficace per trasmettere quell’accumulo globale di conoscenze e innovazioni
che costituisce, appunto, la cultura: le lingue. La cultura, come afferma Cavalli Sforza, è un
meccanismo di adattamento straordinario, in quanto consente di imparare dall’esperienza
degli altri (e ciò ci permette di conoscere in anticipo situazioni di potenziale pericolo e di
approntare preventivamente le necessarie contromisure). L’esperienza di un gruppo di
uomini e la cultura che da essa discendono dipendono in stretta misura dalla porzione di
mondo nella quale il caso li ha condotti e a contatto con la quale spendono la loro esistenza.
Le lingue descrivono e trasmettono questa esperienza. Gli Inuit (meglio noti come Eschimesi)
e i Sami (o Lapponi) sono in grado di costruire parole diverse: ne usano circa una ventina per
esprimere un’entità che in italiano indichiamo con una sola parola, neve. Hanno parole
specifiche per la neve fresca che si è appena posata sul terreno, per la neve che scende in
una valanga, per la neve portata dal vento ecc. Perché tutte queste parole? Perché la neve
ha un significato diverso nella vita quotidiana e nell’esperienza di gruppi umani che hanno
sviluppato la loro cultura in habitat particolari e estremi. Le lingue descrivono il mondo
attraverso il filtro dei nostri occhi, dando risalto a ciò che è rilevante per la nostra esperienza
e trascurando di norma ciò che non incide su essa. In questo senso anche le lingue
costituiscono un meccanismo di adattamento all’habitat da parte di un gruppo umano.
Spostarsi sul territorio è una prerogativa dell’essere umano, è parte del “suo capitale”, è una
capacità in più per migliorare le proprie condizioni di vita. È una qualità connaturata, che ha
permesso la sopravvivenza di cacciatori e raccoglitori, la dispersione della specie nei
continenti, la diffusione dell’agricoltura (originatasi come “domesticazione di piante e
animali” non solo in Medio Oriente, nella Mezzaluna Fertile, ma in più luoghi della Terra
indipendentemente, forse persino sei o sette volte, in periodo compreso tra 12.000 e 7.000
anni fa, subito dopo la fine dell’ultima glaciazione), l’insediamento in spazi vuoti e
l’integrazione nel mondo. La variabilità, sia essa biologica o culturale, è la chiave del
processo adattativo. La variabilità individuale è la migliore garanzia di sopravvivenza della
specie perché ci sarà sempre qualche individuo meglio attrezzato per sopravvivere a
condizioni ambientali avverse. La carta vincente di Homo sapiens è stata quella di sapersi
adattare e riadattare alle circostanze ambientali: temperatura, umidità, insolazione. C’è
sempre stata una stretta sincronia fra i cambiamenti ambientali e quelli culturali: l’instabilità
degli ecosistemi ha innescato innovazioni tecnologiche e sociali per la sopravvivenza. Le
strategie adattative di Homo sapiens, divenuto planetario, hanno profondamente
influenzato la diversità umana. L’adattamento consiste nella risposta degli organismi al loro
ambiente e questo è possibile grazie a cambiamenti cumulativi e successivi, che altro non è
che il processo dell’evoluzione.
Il termine “evoluzione” deriva dal latino evolutionem da evolutus p.p. di evolvere, svolgere.
Nel caso di tutti gli organismi viventi possiamo parlare di modificazioni (trasformazioni) di
tipo morfologico, strutturale e funzionale. Nel caso della specie umana, non si tratta, come
aveva suggerito Charles Darwin, di un accumulo continuo di piccoli cambiamenti
(gradualismo filetico), ma di una evoluzione per equilibri intermittenti o punteggiati, come
proposto dal biologo Steven J. Gould (1941-2002) e dal paleontologo Niles Eldredge (1943).
Secondo i due studiosi, l’evoluzione delle specie va avanti sotto forma di un processo
irregolare, per cui le specie rimangono immutate nella morfologia nel corso dell’intera loro
vita per poi scomparire improvvisamente. Prima dell’estinzione, però, e in qualunque
momento della loro vita, esse possono essere colpite da eventi di repentine alterazioni, che
corrispondono alla nascita di nuove specie. Si tenga presente, comunque, che nel corso della
loro vita, le specie accumulano mutazioni nel proprio genoma secondo lo schema
darwiniano. Infatti, prima che un carattere morfologico possa manifestarsi, è necessario che
l’informazione genetica sia fissata nel DNA della specie; da qui il ben noto concetto che
“l’evoluzione molecolare precede l’evoluzione morfologica”. Può accadere che la specie
“madre” si estingua, ma deve comunque restare in vita almeno per un poco, dopo aver dato
i natali alla specie figlia: la teoria degli equilibri punteggiati esige che l’antenato rimaga in
vita dopo l’evento speciativo.
Quando nel 1859 Darwin lasciò intendere che l’uomo si fosse evoluto dalle scimmie
antropomorfe, i più considerarono assurda questa teoria, continuando a sostenere che
l’uomo fosse stato creato separatamente da Dio. Per molti fu così sconvolgente questa
nostra parentela biologica tanto che è giunta fino a noi l’esclamazione della moglie
dell’arcivescovo di Worcester: «L’uomo discende dalla scimmia? Mio Dio! Speriamo che non
sia vero … O per lo meno, che non si sappia in giro».
Sono ancora molti, oggi, a credere ancora alla creazione (creazionismo vecchio stampo o
disegno intelligente, modernizzazione del creazionismo, sostenuto dai più sofisticati
creazionisti): tra costoro rientra circa un quarto di tutti i diplomati dei college americani e
alcuni gruppi di fondamentalisti protestanti, di ambiente anglosassone.
Ma torniamo alla parola razza che recentemente è tornata di moda, dopo un periodo di
appannamento. Ma siamo sicuri di sapere cosa significhi esattamente, e abbiamo motivo
di credere che la specie umana sia costituita di razze biologiche diverse, come i cani o i
cavalli? E poi: quanto dipendono dai nostri geni i difficili rapporti fra persone di cultura od
origine diversa, e le disuguaglianze economiche e sociali? Su questo si basa il dibattito sulle
basi biologiche della diversità umana, dai primi tentativi di classificazione razziale fino ai
moderni studi sul DNA (il primo tentativo di “leggere” la sequenza del DNA umano risale
agli anni ’90). Attualmente la genetica è riuscita a ricostruire le fasi più remote del
cammino dell'umanità, dalle nostre origini africane alla colonizzazione dei cinque
continenti, e queste conoscenze smentiscono l'idea ottocentesca che l'umanità sia
frammentata in gruppi biologicamente distinti, quei gruppi che in altre specie si chiamano
razze.
La razza è una suddivisione che i biologi utilizzano per distinguere popolazioni all’interno
delle specie. Per poter parlare di razza (o varietà o addirittura sottospecie), però, bisogna
che questa popolazione abbia delle differenze genetiche riconoscibili. Questo è il caso di
molte popolazioni delle specie animali ma non della specie umana, che è un’unica specie
molto giovane, molto recente senza suddivisioni neanche in varietà e tanto meno in razze.
Ci sono delle caratteristiche che permettono di definire l’origine di una persona, anche con
una certa precisione, ma nella maggior parte dei casi si tratta di caratteristiche patologiche,
riferite a determinate malattie. P.e. nell’ambito della popolazione italiana, è possibile
stabilire se gli individui provengono dalla zona del Delta del Po o dalla Sardegna o dalla Sicilia
perché presentano i geni della microcitemia o della talassemia, che non sono comuni nella
popolazione italiana ma si trovano solo in quelle determinate zone dove per un lungo
periodo di tempo è stata presente la malaria. La nostra specie ha una grande unità di tipo
genealogico e storico e dipende dal fatto che l’origine è unica (Africa) e recente (circa
200.000 anni fa), e quindi c’è una forte “fratellanza” tra tutti gli esseri umani.
Paradossalmente, di recente è stato riscontrato che può esserci un maggior livello di
diversità genetica tra due individui africani, rispetto a quanto non si possa riscontrare tra un
africano o un europeo o un aborigeno australiano o un coreano; questo perché i due
individui africani hanno avuto più tempo per sviluppare diversità, mentre quelli che abitano
fuori dall’Africa hanno avuto meno tempo per sviluppare diversità genetica. Noi tendiamo a
ridurre la nostra diversità biologica e culturale senza renderci conto del danno che facciamo
alla nostra specie, in termini di cambiamento ed evoluzione.
La parola “razza” non identifica nessuna realtà biologica riconoscibile nel DNA della nostra
specie. E perciò non c’è nulla di genetico nelle identità culturali come le conosciamo oggi.
Noi siamo tutti così diversi che è risultato difficile ogni tentativo di etichettarci in un numero
definito (poche) e ben distinte categorie di natura biologica. È invece possibile raggrupparci
in categorie a livello della società tramite convenzioni e convinzioni sociali anche molto
profonde. Il concetto di razza è molto diffuso perché è un’etichetta perfetta per spiegare la
diversità umana. La mente umana è molto predisposta a distinguere il “noi” (cioè chi
appartiene al nostro gruppo) e “gli altri da noi” e questo ci è servito nel passato, nel corso
della nostra storia evolutiva, ma adesso diventa pericoloso perché ci porta a sovrastimare e
dare un eccesso di importanza a delle differenze che sono solo esteriori e molto spesso solo
superficiali.
Cacciato dalla porta della scienza, il concetto razziale è però rientrato dalla finestra della
cultura. Le retoriche dominanti sono spesso intrise di slogan come “scontro di culture” o
“incontro di culture”, con forte prevalenza del primo.
La maggior parte delle razze che sono riconoscibili negli animali sono razze particolari, cioè
“artificiali”, cioè prodotte dalla selezione artificiale. Per esempio, tutti i cani che oggi abitano
la terra, dall’alano enorme al chihuahua piccolissimo, si sono originati in 10.000-12.000 anni
da una popolazione di lupi grigi del medio oriente e dell’Anatolia (Canis lupus pallipes). Le
razze di tutti gli animali sono state fatte artificialmente dall’uomo, perché la natura funziona
diversamente e produce le razze naturalmente solo quando una piccola popolazione rimane
separata per molto tempo dalla popolazione di origine. Homo sapiens, invece, cioè noi, è da
sempre una specie migratrice e dobbiamo la nostra fortuna al fatto di esserci sempre
spostati. Quello che succederà in futuro è che i continui spostamenti, sempre in aumento, il
flusso genico costante tra tutte le popolazioni umane, i trasporti, i matrimoni misti, gli
incontri renderanno la popolazione umana sempre più uniforme, cioè una sorta di
mescolamento di tutte le diversità attuali. Questo non significa che diventeremo tutti uguali,
ma, al contrario, saremo tutti diversi, solo che la diversità si misurerà a livello individuale, e
non più a livello di gruppi o di popolazioni. Se si rimane ancorati all’idea di razza, si tenderà
ad attribuire a persone diverse dei diritti diversi nella società in cui si trovano e, inoltre, se si
continua a pensare all’umanità come divisa in gruppi distinti si farà molta fatica a capire le
differenze tra umani e quindi a sviluppare le medicine e le terapie che vadano bene a
ciascuno di noi, inteso come individuo con delle sue caratteristiche particolari e non come
appartenente a un gruppo astratto in cui tutti quanti dovrebbero essere uguali.
La variabilità individuale è la migliore garanzia di sopravvivenza della specie perché ci sarà
sempre qualche individuo “meglio attrezzato” a sopravvivere a condizioni ambientali
avverse.
“Noi siamo tutti parenti e naturalmente tutti differenti” (Langaney, genetista e antropologo
francese).
Questa frase può costituire il punto di partenza per i moderni studi di FARMACOGENETICA e
FARMACOGENOMICA, resi possibili dallo sviluppo della medicina genetica e dei test genetici,
e che rappresentano la forza trainante nella diagnosi di alcune patologie rare e insolite.
FARMACOGENETICA. Il termine è stato coniato da Vogel nel 1959, e indica lo studio delle
varianti genetiche messe in evidenza dalla diversa risposta individuale ai farmaci, o, meglio,
la variabilità individuale nella risposta ai farmaci su base ereditaria. Successivamente, grazie
alle informazioni rese disponibili dal Progetto Genoma Umano, questo termine sta a indicare
la possibilità di realizzare nuovi farmaci (farmacologia razionale) e di studiare la risposta da
essi prodotta in funzione della variabilità genetica degli individui. L’utilità della
farmacogenetica consiste nella possibilità di poter valutare la risposta di un paziente a un
certo farmaco sulla base di un test genetico di routine, per arrivare a una personalizzazione
della terapia: “il farmaco giusto al paziente giusto”.
In conclusione noi siamo tutti diversi. Ci sono molte differenze anche all’interno della stessa
popolazione: ci sono persone grasse e magre, alte e basse, con la testa lunga e la testa
corta, c’è quindi una enorme variabilità interna alle popolazioni. Nei primi anni settanta del
secolo scorso, il genetista Richard Lewontin ha dimostrato empiricamente come l’ Homo
sapiens non possa essere suddiviso in categorie sottospecifiche rigide, cioè in “razze”, dato
che l’85-95% della variazione genetica totale della specie si riscontra all’interno di ogni
singola popolazione (“variabilità intra-specifica” o “intra-popolazione”) e solo il rimanente 5-
15% permette di differenziare un gruppo dall’altro (“variabilità inter-specifica” o “inter-
popolazioni”). Vale a dire che due individui scelti a caso in comunità diverse sono solo di
poco più variabili geneticamente rispetto ad altri due provenienti dalla medesima comunità.
Per quanto riguarda il tentativo della suddivisione in razze, in molti hanno provato a
compilare un catalogo delle razze umane. Ognuno ha compilato il proprio catalogo nel modo
più plausibile possibile ma non ce ne è uno che sia coerente con gli altri, tutti i cataloghi sono
diversi tra loro. Fra i tanti grandi nomi delle scienze naturali in Europa che si sono cimentati
in questo tentativo, si può ricordare Linneo (1707-1778), lo svedese padre del sistema
classificatorio, che per primo ci ha definiti Homo sapiens e che ha dato il nome a tanti
animali e piante nella IX edizione del suo Sistema naturae (1735). Linneo propone 6 razze
umane (due improponibili e molto strane, uomo orso e uomo lupo, cioè degli ibridi fra uomo
e altre creature). Questo non deve stupirci perché lui leggeva molto; inoltre, in quel periodo
si viaggiava molto, si scoprivano nuove terre e si conoscevano nuove creature che venivano
descritte nei diari di questi viaggiatori, che appunto descrivevano strane creature, e lui, da
buon sistematico, li prendeva sul serio. Le vere 4 razze furono identificate da Linneo sulla
base dei 4 elementi della filosofia greca classica, aria, acqua, fuoco e terra, e cioè Europeus,
Asiaticus (luridus), Afer (nero), Americanus.
Con il passare degli anni le razze aumentano perché aumentano i viaggi e il numero di nuove
popolazioni che si incontrano e si conoscono, ma è difficile far rientrare queste popolazioni
all’interno delle classificazioni esistenti e così si coniano nuove razze, addirittura appaiono
dei cataloghi che comprendono anche 200 razze diverse (il Museo di Storia Naturale di
Chicago nel 1939 arriva a contare 107 razze). Nel 1928 Biasutti (1878-1965), un geografo
italiano che aveva viaggiato molto, elaborò uno dei più articolati tentativi di tipologia razziale
sistematica: riconobbe 4 cicli di forme razziali, a loro volta divisi in rami, e quindi in ceppi,
razze e sottorazze. Riportò questa sua classificazione in un’opera in quattro volumi Razze e
popoli della terra stampato in più edizioni, la prima nel 1941 e l’ultima, postuma, nel 1967,
che viene considerata un’opera di riferimento a livello internazionale per quanto riguarda la
sistematica razziale e la rappresentazione cartografica della distribuzione nello spazio di
determinati fenomeni ed elementi della cultura, nonché dei caratteri fisici dell'uomo.
Negli anni ’90 la parola “razza” torna di moda. Noti genetisti statunitensi hanno proposto
nuove classificazioni razziali, sottolineando che bisogna tenere conto di questa suddivisione
per non buttare via soldi in farmaci inutili o in progetti scolastici volti a fornire inutili
vantaggi a chi è destinato dai propri geni a non farcela (la fallacità del Quoziente di
Intelligenza, QI).
In ognuna delle nostre cellule, il testo è lo stesso, sia che si tratti di cellule del sangue che di
una cellula nervosa, il nostro genoma è identico, può dare prodotti diversi in base alle cellule
in cui viene tradotto, ma il testo è lo stesso. Se confrontiamo due gemelli omozigoti, le loro
differenze (genetiche!, non necessariamente anche quelle fenotipiche!) saranno 0. Quindi
tutte le cellule dell’uno contengono tutte le stesse informazioni contenute nelle cellule
dell’altro. Se prendiamo 2 individui a caso sulla terra, mediamente le differenze sono
dell’1/1000, cioè sono diversi solo per lo 0,1 %. Se prendiamo uno di noi e uno scimpanzé, le
differenze saranno 10-30/1000, a seconda delle tecniche che utilizziamo, quindi le
somiglianze saranno pari al 97%: abbiamo lo stesso fegato, un apparato digerente molto
simile, polmoni quasi uguali, struttura scheletrica molto simile. Ma anche tra noi e una
banana c’è un 35% di somiglianza, perché ci sono delle regioni geniche identiche in noi e
nella banana e di conseguenza delle funzioni in comune. Esiste, quindi, una sorta di
continuità in tutto il mondo animale e vegetale.
Da circa 10 anni a questa parte si riesce a leggere tutto il DNA di un individuo, un testo di 6
miliardi e mezzo di lettere: 150 m di una pila di fogli A4 stampati fronte retro con 60 battute
a foglio, quindi metà della Torre Eiffel. Si riesce quindi a studiare tutto un genoma, il primo
fu quello di James Watson (1928) lo scopritore della doppia elica del DNA nel 1953 (insieme
a Francis Crick e Maurice Wilkins) che ha donato il suo DNA per consentire di studiare le basi
molecolari del “genio” (questo lo ha detto lui!). Poi il DNA di Craig Venter (1946), titolare del
Progetto privato di sequenziamento del Genoma Umano (noto come Celera Genomics,
fondato nel 1998, che è andato avanti in parallelo con il Progetto Genoma Umano), che ha
definito il suo DNA “il DNA di riferimento del genoma umano”.
Barbujani G. (2006) L’invenzione delle razze. Capire la biodiversità umana: Bompiani, Torino.
Barbujani G. e Cheli P. (2008) Sono razzista, ma sto cercando di smettere: Saggi Tascabili
Laterza, Roma.
Biondi G. e Rickards O. (2012) Umani da sei milioni di anni. L’evoluzione della nostra specie:
Carocci editore, Roma.
Cavalli Sforza L.L. e Pievani T. (2012) Homo sapiens. La grande storia della diversità umana:
Ed. Codice, Roma.
Lewontin R.C. (1974) The genetic basis of evolutionary change: Columbia University Press,
New York.
Morris D. (1967) La scimmia nuda. Studio zoologico sull’animale uomo: tascabili Bompiani
(2008).