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Mattia Lualdi

Non voglio un lavoro, ridatemi il mestiere


(Per una filosofia dell’individuo libero)

www.agentidelcambiamento.it
“L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.”

Così recita l’Art. 1 della Costituzione italiana. E riesco già a sentire i commenti
sarcastici, quelli che oggigiorno sono sulla bocca di tutti: ma non mi importa l’ormai
scontata mancanza di lavoro! Quello che a me interessa è il peso psicologico della
parola “lavoro” e le conseguenze che ha avuto sulla cultura, l’educazione e la società
italiane questo celeberrimo articolo (praticamente un mantra per il popolo).

Ogni cosa a suo tempo.


Vediamo intanto che gli articoli 35 e 36 sostengono adeguatamente il concetto di
lavoro:
“La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.”

“Cura la formazione e l'elevazione professionale dei lavoratori.”

“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità


del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia
un'esistenza libera e dignitosa.”

So che rileggere (sono ottimista) questi articoli può fare ancora più rabbia visto il
panorama in cui ci stiamo muovendo negli ultimi tempi, ma è importante sapere
esattamente a cosa possiamo aspirare (anche se molti, troppi, hanno perso
l’entusiasmo necessario).

L’Art. 4 è il mio preferito:


“Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la
propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o
spirituale della società.”

Quello che intendo svelare è fondamentale e per quanto possa sembrare capzioso o
superfluo è in realtà la chiave per la libertà individuale di ciascuno.
Il punto centrale del mio ragionamento (e della mia proposta) è che c’è un
profondo sbaglio linguistico nella decisione di usare la parola “lavoro”.
Posso già immaginare i soliti impauriti, poco avvezzi alla riflessione e all’analisi o
fin troppo abituati a saltare frettolosamente alle conclusioni, che reagiscono
prontamente: “ah tu ne fai una questione filosofica…”

Nient’affatto! Sono più concreto che mai, perché il linguaggio plasma e


accompagna la nostra realtà e ce ne rendiamo perfettamente conto quotidianamente
quando interagiamo con i bambini o i cuccioli, quando siamo innamorati o viviamo
un momento di passione, quando siamo all’estero e non padroneggiamo la lingua
oppure quando ci relazioniamo con stranieri nel nostro Paese.

Il nostro linguaggio rappresenta la base dei nostri


ragionamenti e i cambiamenti che attuiamo (o le
situazioni che scegliamo di mantenere) si fondano proprio
sui nostri processi di pensiero (e fino a dove abbiamo il
coraggio di condurli).

Se a tutto questo aggiungiamo oltre mezzo secolo di abitudine, speranze e


aspettative legate a questi articoli, si capisce che siamo stati fortemente influenzati dal
fatto che l’Italia si preoccupa così tanto del lavoro.

E cosa c’è di potente nella parola “lavoro”?


IDENTIKIT DI UNA PAROLA

Deriva dal latino labor cioè fatica.


Labor a sua volta deriva dalla radice labh che proviene dal sanscrito rabh di cui ha
mutato la “r” in “l” (come ruc - splendere - ha dato luc, da cui luce).
In antico slavo rabu è lo schiavo.
In francese lavoro si dice travail, in spagnolo trabajo e anche in siciliano abbiamo il
travagghiu, sempre fatica insomma.
Il lavoro assume quindi connotati un po’ più precisi: è la fatica che noi facciamo in
cambio di un compenso.

Il lavoro consiste nel barattare il proprio tempo e la propria energia


con il denaro.

Sinceramente, è qualcosa di allettante?


Elevante?
Entusiasmante?
Emozionante?
Onestamente, quale mente illuminata metterebbe al primo posto l’idea di fare
fatica in cambio di denaro?
Quale bambino lo farebbe?
E soprattutto, quante persone ricche o di successo l’hanno mai fatto?
Nessuna.
E questo è il punto più importante.
STORIA DI UN INGANNO

“Trovati un lavoro, così potrai farti una famiglia, comprare una casa e vivere
serenamente”.
“Fai carriera, così potrai avere una macchina migliore, una casa più bella e offrire
di più alla tua famiglia”.
“Evita i rischi e potrai concederti qualche lusso ogni tanto”.
E ricorda, come recitano l’articolo 52 e 54 della Costituzione italiana, che
“La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino.”

“Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica”

e l’individuo?
Un brutta faccenda.
L’individuo ha sogni, ambizioni, intuizioni, genialità e pochissimi bisogni.
Insomma, praticamente inutile (per non dire “troppo scomodo”) per la società in
cui viviamo, la tarda società industriale (TSI), meglio nota come società dei consumi
(anche se in realtà sono due cose leggermente diverse).

Infatti, il marketing delle multinazionali (il principale strumento operativo della


TSI) si basa proprio su un principio molto semplice: gli attuali mezzi produttivi
producono (è il loro scopo!) molto più di quello che gli individui possano aver bisogno
di utilizzare (ecco il problema da risolvere).
Mi rendo conto che il ragionamento è un po’ contorto, quindi lo espongo
nuovamente: l’apparato industriale del nostro mondo produce molto più di quello che
serve agli individui, quindi, è sorto il marketing con il preciso scopo di farti credere
che hai oggettivamente bisogno di “quel qualcosa in più”.
Per “giustificare” l’operazione e non farla sembrare così brutale, il marketing si
impegna a mostrarti persone di successo che si concedono beni materiali (più o meno
lussuosi) spingendoti a pensare che “se se lo sono concessi loro, è bello e positivo che
possa averlo anch’io” facendoti dimenticare che molto probabilmente a loro il
prodotto è stato regalato o che dopo aver fatto la pubblicità se ne sono dimenticati e
sono tornati ai loro prodotti artigianali, artistici o fatti su misura (alle persone di
successo non interessa affatto avere un prodotto industriale fatto in serie… Magari lo
pubblicizzano, ma poi nella vita di tutti i giorni usano qualcosa che evidenzi la loro
unicità).

L’oggettività è una grandissima menzogna e uno degli strumenti più


potenti del marketing.

Semplicemente, l’oggettività non è dimostrabile e non è ripetibile prescindendo dal


contesto e dalle condizioni date.
Mi rendo conto che anche questo pensiero possa apparire un po’ contorto, quindi
faccio un esempio concreto tratto dalla mia esperienza personale.
Ho praticamente suonato ogni tipo di chitarra esistente… E nessuna è
oggettivamente migliore delle altre, anche se l’ufficio marketing dell’Ibanez soddisferà
qualsiasi capriccio dei suoi testimonial per assicurarti che le sue chitarre sono
OGGETTIVAMENTE migliori dei vecchi modelli Fender, il cui ufficio marketing è
costantemente impegnato a dimostrare che i suoi ritrovati tecnologici abilmente
miscelati alla tradizione sono in grado di soddisfare praticamente chiunque; allo stesso
modo, un musicista fedele alla Gibson non vuole nemmeno sentir parlare di altri
strumenti, così come c’è il devoto che tocca solo la chitarra amata dal suo idolo
adolescenziale…
Fortunatamente, non credo mai a niente e a nessuno e quindi ho fatto in modo di
mettere le mani su qualsiasi modello reperibile in Italia e sono giunto a due
conclusioni:
1. se suonata con amore e desiderio, qualsiasi chitarra è quella perfetta nel
momento in cui la suoni (se suoni quello che vuoi veramente)
2. ho fatto costruire chitarre di liuteria progettate in base alle mie esigenze e
idiosincrasie.
Naturalmente, tutto questo richiede una certa consapevolezza, quindi soggettività,
quindi proprio quello che le multinazionali non vogliono che tu abbia.

Fondamentalmente, tutto è nato dal fatto che i progettisti e i produttori della tarda
società industriale sono stati proprio bravi e hanno reso più efficaci e più efficienti i
mezzi di produzione, facendo in modo di avere molti più prodotti a costi molto più
bassi.
Sfortunatamente, i proprietari dei suddetti mezzi di produzione (che solo
occasionalmente coincidono con progettisti e/o produttori) non hanno optato per la
possibilità di estendere queste risorse al mondo intero, ai giovani o agli artisti, ma
hanno deciso di spremere fino in fondo l’occidente, dimora fisica della TSI.
A quel punto è stato necessario convincere le persone che avevano oggettivamente
bisogno di più cose e anche con una certa regolarità: così è nata la società dei
consumi.

Una società che ha molti più prodotti di prima ma rimane con lo


stesso numero di fruitori, dovrà necessariamente convincerli a
consumare i prodotti per poi acquistarne di nuovi se non vuole
buttare via la sovrapproduzione.

E così la TSI è diventata la società dei consumi, cioè la società che consuma
velocemente un oggetto e lo sostituisce con uno nuovo.
Più recentemente, ciò che viene consumato non è l’oggetto in sé ma il bisogno che
si ha dell’oggetto: il marketing è passato dalla volontà di convincerti che hai bisogno
di un oggetto tecnologicamente più avanzato, all’intento di dimostrarti che hai un
nuovo bisogno (emozionale, mentale, psicofisico, ecc.) che prima non avevi e che
quindi hai bisogno di un nuovo acquisto per soddisfare tale bisogno.

E cosa c’entra il lavoro con tutto questo?


Semplice: per fare in modo che il numero di consumatori aumentasse (a un certo
punto divenne inevitabile) è stato necessario garantirsi un numero crescente di
persone in grado di permettersi di consumare.

Uno scrittore vuole carta e penna e poi una macchina per scrivere (oggi un
computer).
Un pittore vuole un supporto e pigmenti.
Un musicista vuole uno strumento adatto alle proprie esigenze espressive.
Un inventore vuole una necessità e poi un progetto.
Un imprenditore vuole un’idea e un mercato.
Un insegnante vuole un concetto e un pubblico da far crescere.
Un attore vuole un copione.
E così via.
Tutti, ma proprio tutti, vogliono inoltre emozioni da trasformare in parole, forme,
suoni, utensili, oggetti, spettacoli, eccetera.
Chi fa davvero tutto questo è un individuo e non un pezzo di un meccanismo più
grande progettato per consumare.

Gli individui sono quelle persone straordinarie che mettono al primo


posto le proprie abilità, i propri talenti e i propri sogni invece di agire
perseguitate dalla paura.
Gli individui hanno pochi bisogni perché passano il proprio tempo a fare ciò che
amano.
E si sa: questo fa paura (oggi e in occidente) perché richiede consapevolezza,
soggettività e autonomia, cioè i principali nemici della società dei consumi e infatti
costituiscono il principale bersaglio del marketing, della politica, dell’informazione e
dell’istruzione.

Altro esempio.
C’è una pubblicità agghiacciante che cito spesso per spiegare un concetto che mi
sta molto a cuore.
Tutta la prima parte della pubblicità in questione è emozionante: si vede un
pianista a un concerto nel momento in cui termina l’esecuzione, con il pubblico in
visibilio; subito dopo la telecamera si avvicina al volto soddisfatto del musicista e con
un effetto hollywoodiano passa dagli occhi alla mente del pianista, iniziando un
viaggio all’indietro nel tempo in cui si vedono tutti i sacrifici che il ragazzo ha dovuto
affrontare (notti insonni a studiare, litigi con la fidanzata gelosa della musica, ore
seduto al pianoforte per affinare la tecnica, …) sempre andando indietro nel tempo,
fino ad arrivare al musicista bambino che per la prima volta schiaccia un tasto del
pianoforte e sorridendo decide a cosa dedicare la propria vita.
Insomma, un climax di emozioni e di entusiasmo e proprio nel momento
emozionalmente più significativo, arriva lo slogan: “nuova xyz, tua a partire da tot, il
prezzo dell’unicità è cambiato!”
Guardiamo la pubblicità al contrario, quindi avanti nel tempo: un bambino è
talmente innamorato della musica che decide di dedicare la sua vita a questo sogno e
affronta con entusiasmo e coraggio il viaggio che conduce al successo.
Naturalmente, tutto questo è impegnativo, rischioso e a volte incomprensibile…
Certo in cambio ti dà l’unicità… Ma siamo proprio sicuri che ne valga la pena? Dai,
lascia stare, rinuncia ai tuoi sogni: oggi puoi sentirti unico condividendo il sogno di
qualcun altro e utilizzando i tuoi soldi (che naturalmente hai guadagnato lavorando)
per sentirti un po’ meglio.
Non importa se domani i sogni torneranno a bussare alla tua porta, ci sarà già
un’altra pubblicità pronta a demolirli.

“Chi è pronto a dar via le proprie libertà fondamentali per


comprarsi briciole di temporanea sicurezza non merita né la libertà
né la sicurezza.”
Benjamin Franklin

N.B. I modelli top di gamma di questa casa automobilistica non hanno


pubblicità… Perché? Perché costano molto più del modello in questione e chi può
permetterseli sicuramente non lavora (cioè non baratta il proprio tempo e la propria
energia con il denaro) ma fa qualcosa di diverso e più avanti vedremo cosa e come.

Pensaci bene: il lavoro, così come lo conosci, serve davvero a te per permetterti di
acquistare ciò che vuoi veramente e che ti serve per esprimerti?

Oppure le multinazionali e lo Stato hanno bisogno che tu lavori affinché tu riesca a


pagare ciò che loro producono (e che attraverso mezzi manipolativi di massa fanno in
modo che tu desideri)?
INTERMEZZO

Se va tutto bene, adesso dovresti provare un po’ di rabbia.


Nei confronti del mondo che ti circonda oppure nei miei.
Puoi provare sconforto per la condizione attuale dell’occidente… Oppure puoi
pensare al potere che hai nelle tue mani (o meglio, nella tua testa) perché stai per
scoprire come liberarti.
Se invece ce l’hai con me e con le idee che espongo, benissimo, significa che hai
trovato il punto in cui scavare, la x sulla mappa del tesoro!

Negli ultimi anni mi è capitato sovente di confrontarmi con genitori e figli


adolescenti e il motivo principale dei loro dissidi è sempre lo stesso: i genitori vogliono
che i figli studino, trovino un lavoro sicuro e non diano preoccupazioni (insomma, che
si tolgano i grilli dalla testa).

I figli, al contrario, esprimono in maniera dirompente e spesso inconsapevole un
concetto tanto semplice quanto potente: “caro genitore, non mi freghi, io lo vedo che
non sei felice e che hai rinunciato ai tuoi sogni in cambio delle presunte sicurezze che
ti dà il lavoro che tanto difendi… Ma preferisco rischiare di essere felice piuttosto che
avere la certezza che soffrirò, mi ammalerò, ingrasserò, mi arrabbierò e vivrò in
funzione del denaro.”

È merito di questi ragazzi se stai leggendo queste pagine ed è per loro che le ho
scritte.
E, in fondo, anche un po’ per gli adulti: per dimostrare che i rischi sono limitati.
I MILIONARI

Immagina una mattina di qualche anno fa… Frequentavi ancora le scuole


elementari, magari erano i primi tempi… Ti svegli e c’è una bellissima giornata… Il
giorno precedente hai iniziato un’attività importante con i tuoi amici e alla prima ora
c’è la tua materia preferita… Naturalmente hai voglia di fare colazione, prendere
energie e correre a scuola.
Qualche giorno dopo, invece, ti svegli e piove… C’è pure il vento… Non hai
nessun gioco in corso con i tuoi compagni e alla prima ora dovresti ascoltare la
lezione più noiosa al mondo… L’unico tuo desiderio è ritornare a dormire.
Naturalmente, i tuoi genitori ti costringono ad andare a scuola (e in parte hanno
pienamente ragione).
Scenari del genere si ripetono costantemente nella vita di un bambino: anche
quando si tratta di mangiare, oppure di andare da qualche parte… Le persone, le
reazioni e i comportamenti cambiano, ma c’è un elemento che accomuna tutti i
bambini: sanno perfettamente cosa piace a loro e cosa invece vorrebbero evitare.

Il loro senso della felicità funziona benissimo: sanno perfettamente cosa fare per
essere felici e riconoscono all’istante ciò che li rende infelici (non hanno ancora
imparato che a volte occorre tapparsi metaforicamente il naso e recarsi sul posto di
lavoro perché c’è un mutuo da pagare).
Quindi la situazione è piuttosto semplice: da bambini sappiamo perfettamente cosa
ci piace e cosa non ci piace e sappiamo perfettamente cosa vogliamo fare e cosa
vogliamo evitare; l’organizzazione all’interno della quale ci troviamo, però, pretende
che noi facciamo determinate cose, sia che ci piaccia farle sia che non ne abbiamo
voglia.
A quel punto nella testa del bambino sorge un dubbio: “o sbagliano gli adulti o
sbaglio io…” Eh sì, perché se un individuo si ritrova costantemente a volere alcune
cose e a essere costretto a farne altre, si accorgerà presto che c’è qualcosa che non va,
giusto?
Se vogliamo andare al cinema e abbiamo troppo mal di testa, il fatto di essere
costretti a stare a casa non ci piace, ce lo dice anche la pubblicità! E se questo evento
capita troppo spesso chiunque inizia a farsi qualche domanda.
La maggior parte dei bambini, purtroppo, propende per la seconda possibilità e si
convince di sbagliare: il fatto di volere così spesso cose che gli adulti non vogliono o
che ritengono sbagliate o impossibili inizia a essere insostenibile e così il senso della
felicità si incancrenisce e diventa senso di colpa.

Ci sono poi bambini che invece nutrono e mantengono forte e in salute il proprio
senso della felicità e se ne fregano di piacere agli adulti, di soddisfare i bisogni altrui o
di accettare le paure che la TSI ci propina: fanno solo quello che amano veramente e
se ne fregano dei brutti voti o degli insuccessi temporanei, perché sanno cosa vogliono
e credono in se stessi.
Questi bambini, crescendo, hanno il brutto vizio di diventare ricchissimi e molto
spesso famosi.
A questo proposito, l’autobiografia di Keith Richards (per gli sfortunati che non lo
conoscono, è il chitarrista dei Rolling Stones) è il manuale d’istruzioni perfetto.

In qualsiasi ambito, non importa cosa fai o quanta tecnica hai: ciò
che conta è l’intensità con cui vivi l’esperienza e la generosità con cui
la condividi. Le persone non comprano né il meglio né il giusto: le
persone cercano ciò che emoziona e ciò che funziona.
ANCHE TU MILIONARIO/A

Anche io ho letto quel libro e ho addirittura frequentato il corso.


Ma sì, dai, quel libro che ti spiega come pensa la gente ricca, cosa fa la gente ricca
e alla fine, coerentemente, ti vende un corso in cui ti trasformerà in una persona
pronta a diventare ricca.
Che esperienza.
Ho visto gente senza soldi impegnarsi legalmente a pagare svariate migliaia di euro
per frequentare seminari in cui avrebbe imparato a diventare milionaria.
Ho visto gente benestante tornare da quei corsi e sputtanarsi per 100 (cento) euro
di debito.
E quindi ho capito: la motivazione a diventare ricchi è tra le più diffuse e tra le più
potenti.
Sembra che a questa gente non importi diventare abile in qualcosa o meritarsi quei
soldi… No, le importa solo diventare ricca, molto ricca… E le importa a tal punto da
essere pronta a spendere soldi per farlo e a costo di imbruttirsi o di compiere la
volontà altrui per riuscirci.
Perché?
Pensaci bene, perché tutto questo?

Ma per scappare dal lavoro, naturalmente.
Siccome per molti, troppi, forse addirittura per la maggior parte delle persone, il
lavoro (ricorda: barattare il proprio tempo e la propria energia con il denaro) è l’unica
prospettiva rimasta, in tante vogliono diventare ricche per essere libere e per
riappropriarsi del proprio tempo e delle proprie energie (e magari aiutare il partner o
gli amici a fare lo stesso).
"Quando qualcuno non vive al massimo, non sembra stare tanto
bene, non si comporta bene, non cammina neanche bene. La
maggior parte della gente è morta ancora prima di essere seppellita,
ecco perché i funerali sono così tristi. La maggior parte della gente si
arrende troppo facilmente, accetta la paglietta corta, compete per
premi insignificanti e diventa insignificante. Non mi aspetto che
siano tutti geni ma non avrei mai immaginato che così tanti
corressero incontro all'idiozia con tale aplomb."
Charles Bukowski

Il tentativo di evasione funziona? Per qualcuno sì, per chi ama la vendita, per
esempio.
Ma i ricchi, di solito, seguono una formula ben diversa da quella proposta dai guru
della ricchezza (a proposito, hai mai notato che nessuna persona di successo è mai
stata da un guru della ricchezza prima di diventare famosa?) e naturalmente io ho più
domande che risposte, ma mi sembra che l’atteggiamento di uno come Keith
Richards possa avvicinarsi a qualcosa del genere:
I. fai solo quello che ti piace e fallo con convinzione, se non hai così tanto
coraggio, fallo il più spesso possibile
II. impegnati per dare il meglio di te, non importa se non sempre ci riesci
III. vivi con intensità l’esperienza e condividi il tutto con generosità
IV. relazionati affettuosamente con gli altri
V. fai pace con il tuo passato (ma anche no)
insomma, piacere + intensità + generosità = una vita che ha senso.

Evidentemente, un approccio del genere non è propriamente replicabile su larga


scala e ognuno dovrà adeguarlo alle proprie esigenze… E come fare? Da dove
iniziare?
TI PRESENTO TE

Pensa a 5 attività che ti piace fare e che ti vengono bene.


Non devono necessariamente essere attività che svolgi perfettamente o che sono già
al livello massimo dei tuoi standard qualitativi (per qualcuno suonare bene la chitarra
significa accompagnarsi mentre canta Battisti, per qualcun altro significa essere
istantaneamente in grado di eseguire qualsiasi idea musicale possa venirgli in mente).
Non è nemmeno necessario che siano attività che svolgi tuttora: magari hanno fatto
significativamente parte del tuo passato (vicino o lontano che sia).
L’importante è che siano attività che ti vengono bene E che ti piace fare; per
intenderci: se sei un asso a tagliare il prato e nessuno lo fa bene quanto te, ma odi
ogni singolo istante che passi con la falciatrice tra le mani, ecco, quest’attività non va
bene! Se adori cantare ma è meglio che tu lo faccia esclusivamente sotto la doccia per
evitare di farti sentire, nemmeno quest’attività va bene :)
Se invece prepari ottimi dolci che tutti i tuoi amici divorano appena li servi e ami
ogni momento della preparazione, perfetto, hai centrato il bersaglio.
Nel corso degli anni mi è capitato di trovare tra queste attività: suonare, giocare a
basket, studiare, imparare lingue straniere, fare fotografie, organizzare feste, cucinare,
guidare, fare l’amore, ballare e chi più ne ha più ne metta.
Elenca qui sotto le tue:
1. _______________
2. _______________
3. _______________
4. _______________
5. _______________
Adesso arriva la parte davvero emozionante di questo esercizio: per ognuna di
queste attività dovrai scrivere le 5 caratteristiche in cui ti ritrovi maggiormente.
Quindi non le caratteristiche più importanti, ma quelle che ti fanno davvero
apprezzare queste attività.
Quando feci questo esercizio su di me, una delle attività scelte era “giocare a
basket” e le caratteristiche fondamentali erano: sport di squadra, tutti giocano sia in
attacco sia in difesa, ci si muove molto, si può improvvisare, non è detta l’ultima
parola fino all’ultimo momento.
Buon divertimento!

I attività
1____________ 2____________ 3____________ 4____________ 5____________
II attività
1____________ 2____________ 3____________ 4____________ 5____________
III attività
1____________ 2____________ 3____________ 4____________ 5____________
IV attività
1____________ 2____________ 3____________ 4____________ 5____________
V attività
1____________ 2____________ 3____________ 4____________ 5____________

5 x 5 = 25 giusto? Ma sono certo che non hai trovato 25 caratteristiche tutte


diverse tra loro, non è vero? Sicuramente ce ne sono alcune che tornano più volte,
una magari è presente in tutte le attività scelte, un’altra in quattro e magari più di una
tornano due o tre volte… Ecco, quelle che interessano a me sono le tre caratteristiche
che ritornano più spesso nella griglia appena compilata, quelle con la maggior
frequenza.
Perché sono così importanti queste tre caratteristiche?

Perché costituiscono la tua identità: sono ciò che ti permette di dare il meglio di te e
allo stesso tempo di provare piacere in quello che fai.
“Chiunque ha talento. Ciò che è raro è il coraggio di seguire quel
talento nel luogo oscuro a cui conduce.”
Erica Jong

Sapere cosa ti fa dare il meglio di te e sapere cosa ti permette di apprezzare


pienamente una situazione è il primo fondamentale passo verso l’autentica
consapevolezza.
Il secondo passo?

Niente formule standard, nessuna risposta definitiva: solo tu potrai scoprirlo.
Quello che posso fare è aiutarti a rendere la partenza più semplice!
Infatti, dopo aver trovato queste tre caratteristiche, sarà semplice porti queste due
domande:
• ciò che sto facendo mi permette davvero di esprimere la mia identità?
• c’è (o ci sarà presto) modo di attuare almeno due delle caratteristiche
fondamentali?
Ti posso garantire che queste domande non tollerano a lungo ripetuti “no” come
risposte.
ALADINO

Ovvero, l’affamato.
Ho notato che pochissime persone prestano sufficiente attenzione a questo aspetto
fondamentale della fiaba.
Innanzitutto, una precisazione: mi sto riferendo alla fiaba scritta, non alla versione
animata della Disney; nell’originale non ci sono limiti ai desideri e fino a quando uno
è in possesso della lampada può usarla quante volte vuole.
Dunque, parlavamo della fame: Aladino ha fame e quindi la prima cosa che chiede
al Genio è cibo, semplice.
Riceve cibo in abbondanza, così lui e la madre possono saziarsi per alcuni giorni…
Poi il cibo finisce e cosa pensi che faccia Aladino?
Vende i piatti e i vassoi d’argento su cui il Genio gli aveva servito il cibo! Con i soldi
guadagnati compra altro cibo e di nuovo può saziare se stesso e sua madre per alcuni
giorni… Poi il cibo finisce di nuovo e cosa fa a questo punto Aladino? Naturalmente,
rimane affamato per qualche giorno! Perché la sua identità è quella del povero
affamato e non si sente ancora a suo agio con le possibilità del Genio.
Quando la fame torna a essere insopportabile, Aladino si fa coraggio e prova a
sfregare di nuovo la lampada… La sequenza di eventi che ti ho appena descritto si
ripete altre due volte! Aladino è talmente abituato a vedersi come un povero affamato
che non riesce proprio a chiedere altro al genio: è come se una parte della sua
capacità immaginativa fosse bloccata.
Finalmente un’anima generosa svela ad Aladino che il compratore d’argento è
disonesto e che gli spettano molti più soldi.
Non poteva andargli peggio: si crogiola nella gioia di avere tanto denaro e si
dimentica nuovamente della lampada.
Poi un giorno accade qualcosa di meraviglioso: Aladino incontra la principessa.
Per fugare ogni dubbio, la fiaba ci dice subito che la vede mentre si fa il bagno.
L’amore fa il suo ingresso e Aladino scopre di poter chiedere qualsiasi cosa: smette
di vedersi come un povero affamato, si stacca mentalmente dal suo passato e inizia a
credere in qualcosa di più grande.
Proprio questo cambio di prospettiva gli permette di ottenere ciò che prima non
riusciva nemmeno a pensare di poter chiedere: smette di credere a se stesso e inizia a
credere in se stesso.
Smette di identificare la propria identità col passato e inizia a scorgere infinite
possibilità in tutto ciò che lo circonda.

Le persone infelici credono ai propri ruoli, al proprio passato e alle


proprie scuse.
Le persone felici credono in se stesse e continuano a sognare e a
chiedere.

Generalmente, quello che mi diverto a chiamare “il metodo Aladino” consiste in


tre passaggi:

1. volere
2. decidere
3. chiedere

Ognuno di questi tre punti avrebbe bisogno di un saggio a se stante, ma so che


dentro di te hai già capito che devi tornare a volere con pienezza, decidere cosa vuoi
veramente e chiedere a te stesso/a di fare tutto il necessario per ottenerlo.
METTITI ALLA PROVA

Pensa a tutto quello che ti piacerebbe avere, raggiungere, ottenere, fare o realizzare.
Non preoccuparti se si tratta di cose fattibili oppure no.
Non preoccuparti nemmeno se sono cose che vuoi veramente.
Adesso devi allenare la tua capacità immaginativa: riempi lo spazio bianco
sottostante di tutti i desideri che ti vengono in mente.
Lascia che sia la tua mano a scrivere, non pensarci troppo, impegnati solo a volere.
Hai riempito tutto lo spazio a disposizione?
Hai scritto follie come “avere 13 Ferrari” oppure “fare un viaggio attorno alla terra
su un razzo”?
L’importante è che tu abbia espresso quella parte della psiche che possiamo definire
volontà e che è molto diversa dalla programmazione (nonostante quello che la scuola,
la pubblicità e i consulenti vogliono farti credere).

Adesso devi cancellare tutte le cose che hai scritto e che non ti interessano davvero;
possibili o impossibili che siano, ora divertiti a far fuori quelli che non sono desideri
autentici.
Il secondo passaggio è distinguere ciò che è possibile da ciò che è irrealizzabile; non
voglio però cancellare l’impossibile, sarà sufficiente evidenziare ciò è realizzabile.
A questo punto hai un elenco di cose che vuoi veramente e che sono anche
possibili: scegline tre, quelle che ti emozionano maggiormente.

Permettimi una domanda: se sono cose che vuoi veramente e che sono anche
realizzabili, perché stanno su un foglio e non nella tua vita?
IDENTIKIT DI UN’ALTRA PAROLA

Se rileggi gli articoli della Costituzione italiana citati all’inizio di questo saggio,
soprattuto alla luce di tutto quello che hai letto finora, probabilmente proverai una
certa confusione.

Se leggi l’art. 3 della Costituzione, sicuramente ti chiederai cosa è successo al


mondo che ti circonda:
“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e
sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono
il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i
lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

Dopo quello che abbiamo detto sull’autentico significato della parola “lavoro”
questi articoli risultano quantomeno contraddittori; inoltre, non si capisce come sia
possibile che ideali tanto belli abbiano portato le persone a essere sempre più bloccate
invece di seguire l’esempio di Aladino…

Come dicevo all’inizio, ritengo che il problema sia eminentemente linguistico e di


conseguenza mentale e filosofico più che sociale ed economico.

Mettendo al primo posto il lavoro, è stato ucciso il mestiere.


E quindi sorge spontanea la domanda: cos’è veramente il mestiere?
Praticamente durante tutte le conferenze e i seminari che ho tenuto negli ultimi
anni ho posto questa domanda: da dove arriva la parola mestiere? Invariabilmente,
un buon numero di persone risponde con convinzione: “dalla maestria”.
Invece, le cose stanno in maniera leggermente diversa.

Deriva dall’antico provenzale menestier cioè servigio, carica e anche officio, nel senso
di opera.
Da menestier, a sua volta, deriva menestrello.

E cosa facevano i menestrelli? Andavano da un castello all’altro per intrattenere le


persone.
E come lo facevano? Chi recitando, chi cantando e suonando, chi danzando, e così
via.
Perché si spostavano di corte in corte? Perché erano molto bravi in quello che
facevano e quindi i sovrani li richiedevano in continuazione.

In un mondo diffusamente stanziale, i menestrelli erano liberi di muoversi perché


venivano chiamati (e pagati) per fare quello che sapevano fare bene.

Il mestiere consiste nel saper fare talmente bene qualcosa che le altre
persone sono interessate a pagarti per farti fare questa cosa.

Questo modo di intendere il mestiere è prevalso per secoli e ancora adesso vediamo
che lo stesso principio si applica all’arte, alla scienza e al cinema: i musicisti, gli
scienziati e i pensatori vanno dove le persone li vogliono ascoltare; gli artisti, gli attori
e i registi vanno dove le persone li vogliono vedere; gli atleti e gli acrobati continuano
a far emozionare come millenni fa.

Ci sono anche moltissimi elettricisti, medici, idraulici, massaggiatori, falegnami e


avvocati che vengono chiamati perché sono bravi.
Tutto questo ci deve far ben sperare perché il mestiere può risorgere e può
diventare la nostra migliore risorsa.
IN CONCLUSIONE

Immagina di poter vivere mettendo in pratica le tue caratteristiche fondamentali,


quelle che delineano la tua identità.
Immagina di ricevere moltissime richieste per continuare a fare ciò che ti viene
meglio.
Immagina di guadagnare grazie a tutto questo.

Ora la domanda è semplice: lo vuoi veramente?

Se la risposta è sì, allora decidi di farlo sapere al mondo, perché non immagini
nemmeno quanto abbia bisogno di persone come te.

Un ultimo appello personale: invece di cercare un lavoro per quello che ti può dare,
proponi quello che tu hai da offrire!

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