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Letti da rifare

1. Ogni benedetto lunedì


Lunedì 22 gennaio 2018

Alessandro D’Avenia

«Rifatti il letto».
Così suona, ora esausto ora perentorio, il monito di madri o padri che al mattino combattono con i
risvegli dei loro irraggiungibili adolescenti. Quell’ordine è una soglia che per un cucciolo d’uomo
segna, almeno simbolicamente, il passaggio dalla comoda e indisturbata onnipotenza infantile alla
nuova e ruvida consapevolezza che al mondo non tutto è subito, che gli altri non sono utensili per la
nostra felicità, che la vita è la materia prima più dura, ma proprio per questo necessaria. Non è latte
materno sempre disponibile, bensì marmo da scalpellare michelangiolescamente giorno dopo
giorno, perché ne venga fuori il progetto che vi è inscritto e che vi abbiamo intravisto. La dolce vita
infantile si evolve in «mestiere di vivere» che, come scriveva Pavese, richiede «maturità» perché
«maturità è tutto».

Maturo è chi riesce a mettersi d’accordo con la vita smettendola di aspettarsi qualcosa da lei,
ma accetta coraggiosamente sia lei ad aspettarsi qualcosa da lui, in un sempre più armonico dialogo
tra la naturale sete di felicità e gli altrettanto naturali limiti umani con cui ci si scontra nella bellezza
incompiuta del cosmo. È bene ripeterselo: la felicità consiste nel difficile abbandono della posizione
fetale, in un’apertura esplorativa e generosa del mondo, con tutte le scoperte e ferite che questo
comporta.

Mia madre non me lo disse, si limitò a lasciare il letto disfatto. E quando quel giorno tornai da
scuola e aprii la porta della stanza, la trovai così come l’avevo lasciata. In quel momento vidi, e
quindi capii, che occupavo uno spazio nel mondo e che il mio passaggio, ora chiassoso ora
invisibile, muoveva «cose» che non tornavano magicamente al loro posto: insomma io contavo. Di
tempo ne è passato e oggi, che non abito con i miei da quando ho 18 anni, quel letto rimane intatto.
E forse proprio loro, in qualche modo, rimpiangono che non sia da rifare, perché l’assenza di un
figlio adulto può essere tanto ingombrante quanto la sua presenza adolescenziale.

Ci sono e ci saranno sempre letti da rifare, reali o simbolici, perché così vivono e crescono le
relazioni. Spero quindi che questa rubrica settimanale nel segno di «ogni maledetto lunedì» ne
possa addolcire la lunedità di polveroso giorno dedicato alla Luna dopo quello luminoso — in
molte lingue — del Sole. Cercherò di muovermi nello spazio incerto tra ciò che un genitore
attende e ciò che pretende per un ragazzo in formazione, tra la speranza di accompagnarlo e la
paura di perderlo, tra ciò che quel ragazzo — inafferrabile come ogni adolescente — ha bisogno di
imparare anche se non vuole accettarlo e ciò che, divenuto uomo, ricorderà con gratitudine, perché
chi è diventato lo deve anche a quei letti che, a fatica, ha imparato a fare e rifare. Proverò a
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raccontarvi, attraverso le loro lettere, quello che i ragazzi hanno il coraggio di chiedere a uno
sconosciuto e non ai genitori. Allora persino un letto ben fatto potrebbe diventare la piccola meta
che, in una realtà che gli sfugge continuamente, porta l’adolescente a godere della faticosa presa
sulla vita e su se stesso.

Ogni lunedì della nostra vita inaugura una settimana di «opere e giorni», titolo di uno dei primi
poemi dell’epica occidentale, dello stesso autore, Esiodo, che ne aveva prima composto un altro
dedicato all’origine degli dei e del cosmo. Non c’è poema epico antico che non cominci con un
concilio di dei perché, solo se i nostri giorni e le nostre opere quotidiane sono originati da uno
sguardo dall’alto, pre-vidente, allora anche il lunedì può diventare un archimedeo punto di appoggio
per sollevare il peso della settimana, l’attacco che ne determina la tonalità in maggiore o in minore.
Solo se un lunedì è di genere epico, la cui sostanza è la lotta per ciò che si ha di più caro, è
scongiurata la sua tendenza al tragico, la cui lotta è parimenti necessaria ma del tutto inutile.

Solo così la vita difficile di e con gli adolescenti può trasformarsi in un interessante laboratorio di
possibilità, e non in una malattia da cui guarire, loro, e da cui non essere contagiati, noi. Le cose
per poterle migliorare bisogna prima amarle, e amarle non vuole dire coprirle di un incantesimo
menzognero, ma vederne tutta la bellezza e tutta la bruttezza (che spesso è solo temporanea
incompiutezza), per magnificare, custodire, far fiorire la prima e curare, migliorare, trasformare la
seconda. Solo così l’inconsistente speranza che caratterizza l’adolescente può tradursi in resistente
esperienza cioè in identità, non frutto di una sfiancante volontà di godimento o di potenza che
trasforma l’io in una prestazione sempre insufficiente, ma compimento paziente e graduale di una
volontà di significato, oggi erosa da una concezione liquida della libertà, tanto seduttiva quanto
inconcludente, perché rimuove dalla vita i limiti che le sono connaturali e quindi di fatto fugge
impaurita o apatica dalla vita stessa, che poi il conto lo presenta sempre e comunque. In questo
senso l’amore, troppo spesso ridotto a melassa democratica e iperprotettiva (non ci sono mai letti da
rifare), è chiamato a diventare riconoscimento del valore presente nelle cose e nelle persone, valore
che invita al rischio, all’impegno, alla lotta. L’amore è infatti il più aristocratico, vigoroso e
ardente dei ritrovati umani per cambiare e abitare il mondo: lo sperimento quando vivo
l’appello come il momento chiave della giornata scolastica, perché ognuno di quei nomi-volti è
più importante di qualsiasi altra cosa io abbia da dire, perché l’educazione è questione di come
guardi e solo dopo di cosa dici. È nei nostri occhi, prima che dai libri, che imparano che la loro vita
è una premessa e una promessa. Solo così bambini e bambine si compiono in uomini e donne capaci
di stare al mondo con la schiena dritta e lo sguardo aperto all’orizzonte, senza paura di averne
paura, senza deliri di onnipotenza risarciti da dipendenze regressive, stordenti o addirittura
distruttive, ma con gli umanissimi sorrisi o lacrime di chi è, come diceva Hannah Arendt di ogni
nascita, qualcosa di nuovo da introdurre nell’anonimato della moltitudine e nel già visto della storia
— e sa di esserlo.

Questi pezzi del lunedì saranno essi stessi letti da disfare o da rifare, una volta «letti» sarete voi
a dimenticarli o a tradurli in vita per quello che di vero vi troverete, perché le parole preparano ai
fatti, srotolano gomitoli e trovano bandoli creativi nella quotidiana matassa delle relazioni con gli
altri e il mondo. Relazioni che richiedono una messa a punto costante, perché amare non è una
scenografica ruota panoramica sulla città, ma una chiassosa officina aperta 24 ore su 24 che richiede
ferri del mestiere adatti, qualunque sia il suo campo d’azione: la casa, la scuola e il palco che ospita
la parte che ognuno di noi si trova a interpretare ogni benedetto lunedì della sua vita come può,
sperando in un applauso, un sorriso, un abbraccio a fine giornata.

Si apre il sipario della settimana: la commedia ha inizio e noi non possiamo permetterci di
improvvisare, in un tempo frettoloso in cui per pensare urge fermarsi a pensare, per amare
fermarsi ad amare.
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2. Trentacinque minuti per crescere
Lunedì 29 gennaio 2018

di Alessandro D’Avenia

Sullo schermo del tablet scorrono le immagini di ciò che tua figlia sta guardando in questo istante.
Lo schermo è l’occhio della tua bambina. Non solo, il software è in grado di creare un filtro che le
offusca la vista quando il livello di stress emotivo diventa eccessivo (un cane che le abbaia, il nonno
che ha un malore). È ciò che ha immaginato l’autore di «Arkangel», la più significativa delle
puntate della quarta stagione della serie tv Black Mirror, narrazioni di un futuro che è già adesso.
Quello che spinge la protagonista, un’ansiosa madre single, a inserire un chip nell’inconsapevole
testolina bionda di sua figlia, è il desiderio di protezione totale. Le conseguenze sulla crescita
saranno coerenti: a eccessiva paura e smodato controllo corrispondono distruzione o apatia. Mai
come oggi l’educazione dispone di così tanti studi e mezzi, eppure mai come oggi educare sembra
esser diventato difficile. Un paradosso che ricorda un apologo di Borges.

Un re, nel suo delirio di potenza, vuole dominare in un colpo d’occhio la vastità del suo impero,
così incarica i suoi cartografi di disegnare una mappa dettagliata, ma non è mai soddisfatto, tanto da
arrivare, pena la morte, a chiedere loro una carta in scala uno a uno. I cartografi riescono
nell’impresa, ma la carta è inservibile e anche l’impero va in rovina. Esiste una preoccupante
somiglianza tra noi e il re: abbiamo strumenti e informazioni in scala uno a uno, ma non sappiamo
come muoverci e finiamo con l’improvvisare sotto la pressione delle nostre paure proiettandole sui
ragazzi. Manca una mappa in scala utile per poter leggere i fenomeni nella giusta proporzione,
manca l’essenziale: educare significa generare il nuovo, continuare a dare alla luce, aiutare a
crescere. E si aiuta a crescere nella misura in cui si rende la persona autonoma, cioè capace di dare
un giudizio sulla realtà. Quando i miei alunni, educatamente, cominciano a dissentire, so di aver
lavorato nella giusta e paradossale direzione: liberarsi di me.

L’educazione non si riduce a un mero adattamento o addestramento alla realtà, significa


piuttosto incoraggiare, aiutando a eliminare le illusioni della conoscenza di sé che portano un
adolescente a sottovalutarsi o sopravvalutarsi, a portare nella realtà qualcosa di nuovo, con tutti i
rischi di fallire che questo comporta. L’adattamento alla realtà fine a se stesso ingabbia i ragazzi in
una selva di regole che recintano la vita e da cui, così facendo, si libereranno acriticamente e
violentemente o di cui diverranno prigionieri apatici. Aiutare a crescere vuol dire indicare perché
vivere, per poter abbandonare la comoda posizione fetale e assumere quella eretta di chi esplora: chi
di noi non ha almeno una piccola cicatrice generata dagli «spigoli» incontrati in giovane età? Come
diceva Nietzsche: «Un uomo dotato di un perché può affrontare quasi qualsiasi come». Ma dove è il
perché? Perché vivo? Per chi vivo? In assenza di un progetto riempiamo la loro vita di regole senza
un gioco, o li illudiamo di potere giocare senza che ci siano regole.

Il letto che questo lunedì vorrei rifare con voi è quello della fiducia, il primo elemento capace di
mettere in moto la libertà come esplorazione del reale, di aprire lo spazio del desiderio e del
coraggio. Ma a cosa dare fiducia? Alle potenzialità interne al soggetto (figlio o studente), proprie
della natura umana e specifiche dell’individuo in quella fase della crescita, cioè al nuovo che il
ragazzo è e può fare. Soltanto così l’educazione si svincola dalla paura, dal controllo, e si apre alla
chiamata per nome. Perché mai dovrebbe uscire di casa chi non sa che cosa portare oltre l’uscio?
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Educare è mettere le persone a rischio, non proteggerle da ogni caduta, non sostituirsi a loro, ma
introdurle nel campo di battaglia da protagonisti (parola che indica colui che combatte in prima
linea, non un narciso in cerca di applausi). Ma quanto è difficile trovare il giusto equilibrio tra
controllare e lasciar andare, quanti dubbi, quanti errori, tutti patimenti comunque preferibili ad
adolescenze protratte sine die o orfani senza direzione. In fondo quello che la mamma protagonista
di «Arkangel» vorrebbe evitare alla figlia (e a se stessa) sono le delusioni, i dolori e i fallimenti,
vorrebbe cioè tenerla ancora in grembo. Invece la vita, là fuori, è fatta di limiti ed è proprio
scontrandosi con quei limiti (delusioni, dolori, fallimenti) che un infante abbandona il pensiero
magico e diventa un fante: cioè colui che va alla guerra della vita con la propria testa e il proprio
corpo, con la mappa che i genitori gli hanno fornito per orientarsi al buio, nelle intemperie dei
giorni. Il nostro compito è quello di dare un senso (significato e direzione) alle loro frustrazioni e
contenerle, non eliminarle. Riuscite a immaginare un quadro fatto di sola luce, senza ombre?

Forse possiamo provare a rifare il letto delle piccole e progressive responsabilità da affidare a
bambini, adolescenti, giovani perché conoscano i propri limiti e qualità. Quante cose affidiamo loro
nella vita familiare? Quali compiti specifici? A scuola vale lo stesso: dando a tutti la stessa
minestra, purtroppo non c’è tempo e spazio per sviluppare talenti specifici e interessi particolari,
non c’è traccia di opzione interna ai percorsi. Mi ricordo di una ragazza stufa delle approssimative
lezioni di italiano di una docente svogliata e che recuperava ponendo domande a un professore di
un’altra classe, durante l’intervallo. Decise di cambiare sezione, benché fosse al quarto anno di
superiori. Tutti gli adulti di riferimento (genitori, preside, altri docenti) privilegiavano la via della
sicurezza: sei alla fine, lascia perdere, tieni duro. Lei invece perseguiva la via della salvezza, perché
voleva coltivare la sua passione. La incoraggiai a fare il grande passo. Mi scrisse alla fine dell’anno
successivo, felice, per l’esito brillante della maturità e per il senso di efficacia, autonomia, sfida che
quell’avventura le aveva dato. La vita era nelle sue mani e non poteva rovinare i suoi talenti per
quieto e disperato vivere. Aveva affrontato la paura (altrui prima che sua): per questo era maturata
davvero, non certo per l’esame.

«Racconta di quella volta che hai ricevuto un dono che ti ha fatto felice»: così recitava il titolo
di un tema assegnato a un dodicenne qualche settimana fa. Che cosa vi aspettereste? Quale oggetto?
Quale videogioco? Queste le sue parole: «Mi ricordo un fatto avvenuto cinque anni fa. Era sera e
stava piovendo, mia madre e mio padre dovevano uscire, mio fratello era a un allenamento e non
sarebbe tornato prima delle 21.15. Dato che erano le 20.40 ho pensato che avrebbero chiamato
qualcuno per tenermi tranquillo e mettermi a letto, invece mio padre mi ha comunicato che, a parer
suo, io fossi abbastanza grande da poter passare un pezzo di serata da solo. La mamma non era
molto d’accordo ma poi acconsentì. Questo è stato uno dei regali più belli della mia vita e quei 35
minuti mi hanno fatto sentire importante e mi hanno fatto capire il senso della fiducia e il fatto che
le persone accanto a me si accorgessero che stavo diventando autonomo».

Forse bastano 35 minuti per sapere ciò che diceva un personaggio shakespeariano: «se l’anima è
pronta allora anche le cose sono pronte» e non il contrario. Se provassimo, a casa, a scuola, a
incoraggiare questa autonomia con piccoli o grandi responsabilità che diano ai ragazzi senso di
autonomia, efficacia e accettazione degli eventuali fallimenti? Se invece di riempire le loro tasche
di oggetti rassicuranti, riempissimo le loro vite di progetti rischiosi?

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3. Diffido dell’istruzione Lunedì 05 febbraio 2018

di Alessandro D’Avenia

«Caro professore, sono un sopravvissuto di un campo di concentramento. Ho visto ciò che nessuno
dovrebbe vedere: camere a gas costruite da ingegneri istruiti, bambini avvelenati da medici ben
formati, lattanti uccisi da infermiere provette, donne e bambini uccisi e bruciati da diplomati e
laureati. Diffido – quindi – dell’istruzione. Aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani. I vostri
sforzi non devono mai produrre dei mostri formati, degli psicopatici qualificati, degli Eichmann
istruiti. La lettura, la scrittura, l’aritmetica non sono importanti se non servono a rendere i nostri
figli più umani». Fu il compianto dirigente della mia scuola, qualche anno fa, a condividere questa
lettera apparsa su Le Monde in un pezzo della scrittrice Annick Cojean. L’occasione era il Giorno
della Memoria, ricorrenza sterile se non ricorda un fatto che il XX secolo ha inciso nella storia a
caratteri di sangue: non basta essere istruiti per essere umani.

Il divorzio tra istruzione ed educazione è uno dei mali peggiori della scuola, frutto del luogo
comune secondo cui esisterebbe un’istruzione neutra. Invece sempre si educa mentre si istruisce,
perché la prima comunicazione è quella dell’essere, e solo dopo arrivano le parole, altrimenti non
sarebbe necessaria la relazione viva con i ragazzi, ma basterebbe caricare le lezioni sulla rete. In
senso stretto non esiste insegnamento in differita, ma solo in diretta.

Insegnare è una branca della drammaturgia. È l’essere dell’insegnante che genera la


conoscenza, perché apre la via al desiderio dello studente, che scorge nel docente una vita più viva
e libera grazie alla cultura e al lavoro ben fatto, e la vuole anche per sé. Lo ricordava con precisione
il nobel Canetti nella sua autobiografia: «ogni cosa che ho imparato dalla viva voce dei miei
insegnanti ha conservato la fisionomia di colui che me l’ha spiegata e nel ricordo è rimasta legata
alla sua immagine. È questa la prima vera scuola di conoscenza dell’uomo». Le nozioni più
raffinate da sole non rendono umani, tutto dipende da come gli insegnanti si relazionano tra loro e
con i ragazzi, perché, prima delle nozioni, sono le relazioni a essere generative dell’io e del sapere.
È nella relazione che si impara a sentire il valore del sé come destinatario del dono del sapere. Quali
insegnanti siete tornati a ringraziare e per cosa? Per la lezione sulle leggi della termodinamica e su
Leopardi, o per come vivevano e offrivano la termodinamica e Leopardi proprio a voi?

Qualche tempo fa mi scriveva uno studente: «Le racconto due esperienze. La prima: la faccia
polverosa della scuola. Un professore, che aveva esordito in prima liceo con “siete troppi: vi
ridurremo”, pochi giorni fa ha condensato l’amore per il suo lavoro in questa frase: “Un insegnante
non deve avere cuore, deve avere un cuore di pietra... altrimenti farà preferenze”. Uno scherzo,
pensavamo. Un mio compagno ribatte: “Ma no, prof! Un insegnante deve avere un cuore talmente
grande da non fare nessuna preferenza!”. “No, no: un cuore di pietra”. Parlava seriamente. La
seconda: la faccia luminosa della scuola. Quest’anno ho scoperto la poesia grazie al gesto
straordinario di un ordinario professore di filosofia, che un giorno ci ha parlato della sua giovinezza
e di come la poesia ai tempi occupasse la sua vita e impegnasse la sua fantasia. Interessato anche io
dal momento che non avevo letto nessun grande poeta ho chiesto un consiglio. Il giorno seguente lo
vedo estrarre dalla sua ventiquattrore un libricino invecchiato. Viene verso di me. “Questo è per te”.
Mi ha regalato una delle sue copie di Elegie duinesi, di R.M. Rilke, il suo libro di poesia preferito. Il
libro della sua giovinezza!».

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La differenza tra le due impostazioni è proprio quella che corre tra chi si illude si possano
separare istruzione ed educazione e chi invece le tiene naturalmente unite. Nel primo caso si pensa
che il docente sia un distributore di nozioni, nel secondo la didattica è conseguenza della relazione.
Il primo professore educa all’insensibilità di cuore, a non sentire l’unicità del tu, il secondo rende
Rilke interessante prima di averne letta una riga. Il nesso che tiene unite istruzione ed educazione è
nella realtà, e nessuna presa di posizione teorica le può nei fatti separare. L’elemento che fa sì che
educazione e istruzione siano in efficace armonia è l’amore. Niente di sentimentale: l’amore è una
presa di posizione nei confronti della realtà e ne permette la conoscenza, perché ne coglie il valore
ancora potenziale da portare a compimento con l’impegno personale. Non si può aumentare la
conoscenza di qualcosa senza che prima aumenti l’interesse nei confronti del soggetto in questione
(vale per l’amicizia come per la chimica). L’amore genera conoscenza e la conoscenza ampliata
rinnova l’amore: se il docente non «erotizza» la materia, la materia per quanto ben conosciuta resta
inerte, come spiega Massimo Recalcati. Non esistono cose poco «interessanti», ma uomini e donne
poco «interessati», perché le emozioni (la neurobiologia qui ci conforta) sono le guide che aprono la
strada allo sviluppo cognitivo. Solo così gli studenti diventano soggetti di possibilità e non oggetti
al peggio da ridurre o al meglio da riempire. È questa la rivoluzione copernicana chiesta a ogni
docente: non sono gli alunni a ruotare attorno a lui ma il contrario. Un professore — il letto da rifare
oggi lo suggerisce lo studente della lettera — è chiamato ad avere un cuore tale da non far
preferenze perché preferisce tutti e ciascuno diversamente: sfida difficilissima (quanti errori, quante
gioie...) ma decisiva.

È la stessa sfida narrata da Ovidio, nelle sue Metamorfosi, a proposito del mito di Pigmalione.
Uno scultore che, deluso da tutte le donne, si innamora della donna ideale che ha scolpito nel
marmo. Il suo trasporto è tale che gli dei trasformano la statua in una donna in carne e ossa. Il mito
viene usato per descrivere lo sguardo educativo, il cosiddetto effetto-Pigmalione, per il quale se un
docente (ma vale per ogni educatore) guarda un alunno convinto che farà bene, genererà in lui una
fiducia in sé tale che, nella quasi totalità dei casi, anche a fronte di un’inadeguata disposizione
iniziale, otterrà risultati positivi. L’effetto vale anche in negativo: se sono convinto che non vali,
l’effetto sui risultati sarà coerente, anche a fronte di buone capacità. Lo sguardo educante non è mai
neutro ma sempre profetico, nel bene e nel male. Ne abbiamo conferma quotidiana nel bambino
che, appena caduto, si volge verso i genitori: se si mostrano allarmati ne provocano il pianto, se
sorridenti il sorriso, quasi che il dolore, pur oggettivo, venga trasformato nello e dallo sguardo. I
ragazzi non hanno bisogno di insegnanti amiconi né aguzzini, ma di uomini e donne capaci di
guardarli come amabili soggetti di inedite possibilità a cui non fare sconti. E non è questione di
missione o di poteri magici, ma di professionalità. Per questo l’appello è il momento chiave della
giornata scolastica: segna il tono della relazione e fa sì che ognuno senta su di sé lo sguardo
profetico che spinge a far bene come conseguenza dell’esser bene. Il contrario del «siete troppi, vi
ridurremo», sterile autoritarismo, è il fecondo «sei unico, ti aumenterò». La parola autorità viene da
augeo (aumentare): la esercita non chi ha il cuore molle o sprezzante, ma chi si impegna ad
aumentare la vita che ha di fronte, per quanto fragile, difficile, resistente possa sembrare. Questa è
l’istruzione di cui non diffido, perché ispirata da un umanesimo maturo, l’umanesimo dell’altro
uomo, come lo chiama il filosofo Lévinas, che fa del tu il cuore dell’etica e smaschera il falso
umanesimo dell’istruito incapace di sentire il tu, tanto da distruggerlo proprio attraverso
l’istruzione.

Ma non è facile essere educatore in un sistema scolastico che asfissia di burocrazia e svilisce la
dignità sociale ed economica, e in un contesto culturale che spesso attacca dall’alto (genitori) e dal
basso (studenti). Ma questi elementi possono anche diventare scuse per non fare ciò che è alla
portata di un uomo libero: prendersi cura di chi gli viene affidato. Soltanto così diventiamo
pigmalioni di ragazzi dal cuore caldo e la testa fredda, a fronte del dilagare, tra gli adulti prima che
tra i giovani, di teste calde e cuori freddi.
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4. Non è un paese per figli
Lunedì 12 febbraio 2018

di Alessandro D’Avenia

«Tu vai, io sono qui, se cadi sono qui»: ricordo nitidamente il campetto di cemento screpolato
sotto casa, la bicicletta gialla di mio fratello, gli alberi di mandarini di là dal muretto di protezione e
l’espressione calma sul viso di mio padre quando mi insegnò ad andare in bicicletta,
consegnandomi con fiducia alle strade del mondo e alle inevitabili sbucciature che dovevo imparare
ad affrontare per diventare grande. Nitidamente ricordo anche i racconti di mia nonna sul nonno che
non ho mai conosciuto: quando la guerra li aveva separati per troppo tempo, si era procurato una
malattia al fegato mangiando non so quante uova. Il tutto per poter essere rimandato a casa e stare
qualche giorno con lei, e io, bambino incantato dall’eroismo del nonno, decisi che da grande volevo
amare così, come lui aveva fatto con lei. Ricordo il giorno in cui il mio professore di liceo mi prestò
il suo libro di poesie preferito e mi disse di restituirglielo dopo due settimane. Mi immergevo nelle
pagine di versi che non capivo, ricevevo la grande eredità della bellezza da un altro uomo, le cui
note al margine dei versi diventavano più importanti dei versi stessi: mi introducevano nella sua
storia e in quella di un poeta di due secoli prima che giungeva fino a me, diciassettenne in cerca di
futuro.

Ricordo il sorriso costante di padre Pino Puglisi, che incrociavo nei corridoi del mio liceo dove
insegnava religione, mentre le sue battaglie silenziose lo stavano portando alla morte, comminata
dai mafiosi perché, come risulta dall’interrogatorio del sicario, «si portava i picciriddi cu iddu»
(portava i bambini con lui). Dove? Verso una vita a testa alta, semplicemente perché mostrava loro
il cielo stellato, li faceva giocare e studiare. Per questo era pericoloso quanto Falcone e Borsellino,
perché ri-generava quei bambini strappandoli al controllo del padrinato e restituendoli alla paternità.
Li rendeva liberi: figli responsabili del mondo. I liberi, nella lingua latina, erano infatti i figli che
potevano ricevere l’eredità: la libertà è appartenenza a una storia che si riceve gratuitamente e che ci
si impegna ad ampliare.

Non è un caso che alcuni istanti siano scolpiti nella nostra memoria di bambini e adolescenti. La
mia memoria e quindi la mia identità è maturata nei momenti in cui qualcuno mi ha consegnato, a
prezzo del suo sudore, dolore, amore, l’esperienza imperdibile del mondo perché io la custodissi e
l’ampliassi. L’uomo che sono e voglio essere lo devo al bambino-adolescente che ha ricevuto un
testimone da passare, da uomini e donne che, pur con le loro debolezze, non badavano solo a se
stessi, ma erano occupati a generarmi alla vita interiore, dove si annida il nome proprio che
ciascuno ha e dove si origina l’energica consapevolezza di un inedito da fare. Solo le relazioni vere
riescono in questa impresa di aiutarci a crescere, ma per essere generative devono prendersi tutto il
tempo che serve: che cos’è, alla fine, amare se non donare il proprio tempo a un altro? Me lo
confermano tante lettere come questa: «Vengo da una famiglia che non subisce le conseguenze
della crisi e ho due genitori, separati, con lavori che impegnano quasi la totalità del loro tempo. Ho
tantissimi oggetti: telefono ultimo modello, motorino, vestiti firmati, tutto quello che voglio me lo
comprano. So che starai pensando che sono un ingrato, ma non mi basta tutto quello che ho. Molte
volte capita che i miei compagni di classe, all’uscita di scuola, vadano in ufficio dal padre per
prendere un panino per pranzo al volo o che le ragazze passino la domenica con le madri per centri
commerciali a fare shopping. Mi chiedo a cosa serva lavorare tanto se poi alla fine non ti rimane
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tempo per queste cose. Preferirei usare la metro o avere un cellulare scassato ma poter andare ogni
tanto a prendere un gelato con mio padre e parlare di politica, calcio, scuola e lavoro. Oppure mi
piacerebbe che mia madre ogni tanto venisse la domenica alla partita di calcio proprio come fanno
tutte le altre mamme. Loro però sono talmente presi dagli affari che non si accorgono che io viva la
situazione come un disagio. Non c’è niente di peggio che affrontare l’adolescenza senza la presenza
dei genitori».

Persino Ulisse diventò eroe da bambino e adolescente. Infatti proprio alla fine dell’Odissea, in
una delle scene che amo di più, egli si presenta al padre Laerte ma non viene riconosciuto dopo
vent’anni d’assenza. Allora sceglie due segni per rivelarsi come suo figlio. Gli mostra la ferita
ricevuta durante la caccia al cinghiale alla quale Laerte aveva inviato il ragazzo e poi lo porta nel
frutteto in cui, da bambino, il padre gli aveva insegnato uno per uno i nomi degli alberi che gli
avrebbe consegnato in eredità quando sarebbe cresciuto. A quel punto Laerte riconosce (conosce di
nuovo) Ulisse come figlio, attraverso i sicuri segni di una storia comune: la ferita che ha reso
l’adolescente un uomo e la fedeltà alle cose e ai loro nomi di cui lo ha reso responsabile sin da
piccolo.

La crisi dell’educazione oggi ha un’unica matrice: la difficoltà o la incapacità di generare


simbolicamente le vite, cioè di narrare la storia di cui si è parte e di affidare una qualche eredità
spirituale e morale da custodire e sviluppare, dopo averla coerentemente difesa a costo della propria
vita. Nella lingua ebraica la parola per indicare la storia (Toledot) significa «generazioni» perché è
una storia di nomi e di compiti che Dio consegna agli uomini, e loro ai figli: non una storia di eventi
ma di figli. La crisi della trasmissione, sia di identità sia di eredità, mina alla base la crescita,
perché taglia la radice che rende necessaria l’educazione: l’essere figli. È questa la condizione
originaria e originale di ciascuno, una condizione non meramente biologica, ma spirituale, che si
genera e rigenera attraverso racconti, gesti, azioni, proprio come quando mio padre mi prendeva in
braccio e lanciava in aria, per spingermi nel futuro con la sua forza, mentre mia madre voleva
tenermi ancorato alla terra del suo grembo: a che serve uno spazio di radici senza un orizzonte di
attesa di rami e frutti? La difficoltà a consegnare un’esperienza credibile, una storia valida,
un’eredità solida, rende sterile qualsiasi relazione impegnata a far crescere l’altro: la politica
promette paternalisticamente il futuro ma nei fatti non lo apre; l’arte si chiude in discorsi
incomprensibili che di fatto disprezzano l’uomo e poi, per raggiungerlo, si riduce a effimera
provocazione o seduzione commerciale; la scuola diventa addestramento, scatola di prestazioni,
ripetizione di pensieri altrui, anziché acquisizione di un’esperienza custodita e raccontata per essere
vagliata e rinnovata da chi l’ha ricevuta.

Il letto da rifare di oggi, come mostra la lettera, è il silenzioso urlo di orfani e diseredati, ragazzi e
ragazze generati alla vita ma non al senso della vita, riempiti di oggetti ma privi di progetti,
dimenticati da una politica divenuta impotente (nel senso di sterile) di fronte alle cifre spaventose
della dispersione scolastica, della disoccupazione giovanile e della crisi demografica. C’è una
paternità che nutre i figli perché siano migliori dei padri e una invece che, come Saturno, li
divora per paura che i figli caccino i padri. Due visioni antitetiche contenute nei due sogni,
relativi al defunto padre, raccontati dal protagonista del libro di Cormac McCarthy Non è un paese
per vecchi: «Il primo non me lo ricordo tanto bene, lo incontravo in città e mi regalava dei soldi e
mi pare che li perdevo. Ma nel secondo sogno era come se fossimo tornati tutti e due indietro nel
tempo, io ero a cavallo e attraversavo le montagne di notte. Faceva freddo e a terra c’era la neve, lui
mi superava col suo cavallo e andava avanti. Senza dire una parola. Continuava a cavalcare, era
avvolto in una coperta e teneva la testa bassa, e quando mi passava davanti mi accorgevo che aveva
in mano una fiaccola ricavata da un corno, come usava ai vecchi tempi. E sapevo che stava andando
avanti per accendere un fuoco da qualche parte in mezzo a tutto quel buio e a quel freddo, e che
quando ci sarei arrivato l’avrei trovato ad aspettarmi». I veri padri aprono la strada, portano il
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fuoco e lo donano ai figli, nella notte fredda e buia della storia, perché poi toccherà a loro fare
altrettanto, di generazione in generazione.

Ma come possiamo crescere quando i padri rinunciano al loro ruolo di aprire la strada a chi viene
dopo di loro? Come possiamo sperare quando i maestri perdono il fuoco?

Possiamo ancora essere figli di qualcuno?

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5. «Corpi» espiatori
Lunedì 19 febbraio 2018

di Alessandro D’Avenia

Dove sono finiti gli occhi? Dove le mani? Non c’è traccia dell’ordine divino del corpo, del ritmo
armonico che regola la lunghezza delle membra e le lega in unità al luogo che accoglie e apre la
vita. In Pamela ormai non c’è traccia di quella inesauribile promessa che è il corpo femminile, la
grazia non ha più modo di dispiegarsi per ricordare all’uomo che è fatto per nascere e non per
morire, che il corpo è carne luminosa dell’anima e non sua prigione oscura. Occorre un’accurata
autopsia perché quel corpo ci dica tutta la verità, oltre lo sgomento, sulla violenza da cui gli uomini
non sanno come liberarsi se non, troppo spesso, al prezzo di «corpi» espiatori: Sarah, Yara, Jessica,
Pamela e tutte le giovani vittime dell’istinto sacrificale dell’uomo.

«Sorretta dalle mani degli uomini fu condotta agli altari,/non per essere accompagnata a luminose
nozze,/ma per cadere vittima proprio nel tempo delle nozze/perché la flotta avesse una partenza
felice./A un così atroce misfatto poté spingere la superstizione». Ifigenia, emblema mitico delle
ragazze in fiore, sacrificate agli dei con l’inganno per far vincere agli uomini la loro guerra, come
racconta senza sconti Lucrezio nel suo poema sulla Natura del Mondo, ci mostra quanto la cronaca
odierna affondi le sue raggelanti radici nel cuore di tenebra degli uomini di tutti i tempi: il corpo
delle donne è spesso destinatario dello sfogo della violenza, carne da sacrificio per idolatrie
antiche e nuove. Perché?

Da come una cultura tratta il corpo della donna si può comprendere la verità su quella cultura. Per
questo un nobel della letteratura poteva dire che l’anima «sparisce, ritorna, si avvicina, si
allontana,/a se stessa estranea, inafferrabile,/mentre il corpo c’e, e c’e, e c’e/e non trova riparo».
Sono i versi della poetessa Wisława Szymborska in Torture a ricordare che il corpo delle donne c’è
in modo assordante e non trova riparo, torturato e sacrificato sull’altare dell’abbandono e di abusi
fisici e psicologici troppo spesso taciuti, sull’altare della pornografia e della prostituzione, delle
guerre pubblicitarie, della droga che non è mai (chi sta a contatto con i ragazzi lo sa) leggera,
sull’altare della perfezione, del piacere violento, di irrazionali regole religiose, e su tutti gli altari di
chi costringe i corpi a essere solo superfici. Il corpo è invece il segno di una unicità fatta carne
da custodire con tutte le gradazioni che l’amore — il gioco delle anime e dei corpi — sa
inventare: una carezza, un abbraccio, un bacio, o soltanto un sorriso.

Soltanto così il corpo della donna diventa per noi, eterni principianti della vita, una mappa che
dobbiamo imparare a comprendere con mani disarmate e occhi attenti. A volte capita di intercettare
nelle movenze di una donna una strana leggerezza che rende gesti e sguardi di una stoffa rara, rivela
e nasconde l’inizio o la pienezza di un amore, uno stilnovo di parole e gesti. C’è molto di più da
sapere sulla vita nel corpo di una donna alle otto del mattino, senza trucco sugli occhi ancora
assonnati, che nelle pagine di cronaca, perché ogni elemento di quel corpo, sinfonia di dettagli, non
canta solo se stesso ma l’unità profumata della vita che vive quando ama ed è amata. Le ciglia
sfarfallano, la luce esce dagli occhi più pura, e inattesi animali si nascondono nelle membra, il cigno
nel collo, la tigre nelle gambe, i delfini nelle dita e i fenicotteri che cambiano colore, dal bianco al
rosa, nel viso. Il corpo di una donna può contenere tutto il cosmo, per questo il racconto della
Genesi coglie nel segno, narrando che, dopo che tutte le cose furono fatte, il corpo della donna
fu modellato per ultimo, finale inatteso nel gran film delle origini. Quel mistero di carne è la
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sintesi di tutte le cose precedenti, il compimento e superamento di tutta l’opera fatta. Chiunque
avesse sfregiato quel corpo avrebbe rovinato anche alberi, corsi d’acqua, orbite celesti, ordine delle
stagioni e tutte le relazioni che da quel corpo dipendono. Così se viene ferita la donna viene ferita
tutta la realtà, e non per un sentimentale luogo comune, ma perché se il corpo capace di albergare e
dare la vita viene avvelenato, la vita tutta è avvelenata, come un fiume alla fonte. Forse per questo
un giorno mia madre mi consigliò un libro di Julie Otsuka, Venivamo tutte per mare, dicendomi:
«Narra di donne sfruttate durante la guerra mondiale e la protagonista è un noi corale». Incuriosito
dall’artificio narrativo le chiesi come mai, e lei mi rispose: «Perché il dolore di una donna è il
dolore di tutte le donne, e di tutte le cose».

Nessun taglio è stato fatto a caso o risparmiato, raccontano i medici che hanno curato l’autopsia di
Pamela e di Jessica. Allora penso a tutti i tagli che sui loro giovani corpi tante ragazze si
infliggono pur di non sentire, almeno per qualche istante, il dolore di essere al mondo come in
una prigione. Conservo la lettera di una di loro che aveva scoperto, attraverso un libro, la gioia di
donare il sangue, e anche questo l’aveva aiutata a guarire dal suo autolesionismo. Mi scriveva
parole da cui ho compreso quanto il corpo di una donna sia il vero campo di battaglia tra l’essere e
il nulla per una intera civiltà: «Io con il sangue ho avuto un rapporto negativo. Il sangue l’ho
cercato, desiderato, versato, sprecato. Tante notti in bianco alla ricerca del rosso di quel sangue... e
quelle poche gocce che sgorgavano dai tagli non bastavano mai. Per quanto negativo
l’autolesionismo è stato un mezzo per capire il dolore, la dipendenza, la solitudine: ora riesco a non
giudicare chi si trova in situazioni simili, riesco a capire il mio ragazzo che viene da un’esperienza
di abbandono. Una delle prime volte gli ho parlato del mio problema: lui mi ha preso il braccio, ha
guardato le cicatrici e ha detto: “Beh, ti sei semplicemente graffiata passando vicino a delle rose”.
Tanti hanno tentato di darmi consigli, ma solo questa frase mi ha dato la forza per smettere... una
cosa così mostruosa come l’autolesionismo diventa un graffio di rose». Lo diventa grazie all’amore
di un ragazzo che sa sfiorare quelle ferite.

Penso anche ai corpi che si dissolvono nel controllo totale del peso, fino a collassare sull’altare
della vita come irraggiungibile perfezione. In questi anni di scuola ho visto tanti corpi disfarsi,
lanciando segnali impossibili da ignorare.

Cambiano i nomi e volti degli dei di questi sacrifici ma, fino a che i corpi verranno martoriati, la
vita non potrà scorrere pura, né il caos trovare ordine. Tutta la violenza sul corpo delle donne è
indirizzata alla loro capacità di essere e tessere la vita, proprio come Ifigenia condotta al rito
sacrificale mentre le era stato falsamente promesso quello nuziale: il mito ci ricorda ciò che non
dobbiamo e possiamo dimenticare, perché purtroppo assai spesso pretendiamo di allontanare a colpi
sterili di moralismo i mali di cui alimentiamo più o meno consapevolmente le cause.

Finché non smetteremo di usare il corpo delle donne come un campionario per altri scopi, come il
catalogo più completo del consumismo, non smetteremo di distruggere le donne e con loro la vita
stessa. In questo poeti e scienziati concordano, svelando molto più di migliaia di macabri dettagli
di cronaca. Al nobel della letteratura Miłosz che in una poesia dice: «Quando c’è la luna e le donne
in abiti a fiori passeggiano/provo stupore per i loro occhi, le loro ciglia e tutta l’organizzazione del
mondo./Mi sembra che da una propensione reciproca così grande/potrebbe finalmente risultare la
verità ultima», fa eco il nobel della fisica Heisenberg, quando scrive a sua moglie: «Credo che,
durante l’estate, metterò la fisica in un angolo buio, per riprenderla più tardi, per prima cosa ho da
imparare da te più che da tutti i trattati del mondo».

Sono infatti uomini le cui mani hanno creato bellezza duratura. Allora guardo le mie e le vostre
e credo che il letto da rifare, come suggerisce la lettera della ragazza, sia ritrovare la forza gentile
che, nel toccare il corpo di una donna, protegge, cura e guarisce la carne del mondo.
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6. Io voto Socrate
Lunedì 26 febbraio 2018

di Alessandro D'Avenia

«Molte volte, conoscere se stessi, Socrate, mi è sembrata una cosa alla portata di tutti. Molte volte,
invece, assai difficile». Così Alcibiade manifestava al maestro la sua preoccupazione di fronte alla
fatica che comporta crescere. Socrate gli rispose: «Alcibiade, che sia facile oppure no, conoscendo
noi stessi potremo sapere come dobbiamo prenderci cura di noi, mentre se lo ignoriamo, non lo
potremo proprio sapere».

Qualsiasi riforma della scuola dovrebbe partire dall'affermazione di Socrate, che pone come fine
della conoscenza la cura di se stessi e quindi del mondo. Nei fatti, però, il sapere al servizio della
cura dell'uomo è oggi quasi impossibile in una scuola immobilizzata dalla burocrazia, corrosa dal
precariato dei docenti giovani e dal cosiddetto burn-out, in italiano «bruciare completamente», dei
meno giovani, «bruciati, scoppiati», potremmo dire, non per l'ordinario stress da lavoro, ma a causa
di un vero e proprio esaurimento emotivo, figlio della mancanza di senso e riconoscimento per ciò
che si fa. La demotivazione degli insegnanti, in un sistema che ne trascura la dignità, genera la
corrispondente apatia nei ragazzi, privati così dell'essenza della scuola: l'orientamento, cioè l'aiuto
prestato a un giovane in formazione per intercettare la parte di realtà in cui riuscirà a mettere in
gioco il meglio di sé. Ed è proprio perché manca l’orientamento che troppi studenti lasciano la
scuola, ritirandosi o anche solo arrendendosi mentalmente, incapaci di cogliere il proprio futuro: la
formazione, senza orientamento, è sterile, non serve alla vita, alla presa sulla vita. Si sentono oggetti
da prestazione e non soggetti di possibilità, atomi isolati e non storie che portano il nuovo nel
mondo. E non possiamo stupirci se la naturale tensione al compimento di sé, quando non trova una
meta, si corrompe in apatia o in violenza.

«Frequento la quinta superiore e non ho la più pallida idea di cosa voglio fare della mia vita (che
cosa hanno fatto fino ad adesso gli insegnanti con me?). Come faccio a capire qual è la mia
vocazione? Non mi aspetto una soluzione al problema, però ti chiedo se puoi aiutarmi a capire quali
possono essere i criteri e i modi per scoprire ciò a cui sono chiamata». Ricevo da tantissimi studenti
lettere come questa, a conferma che l'essere umano si definisce come tale solo se riesce a dar senso,
significato e direzione, alla propria vita nel mondo che lo circonda: cioè impara ad abitarlo anziché
subirlo. In questo senso i docenti sono mentori, guide per temporanei «non vedenti»: i ragazzi, con
la vista ancora un po’ annebbiata, imparano passo passo ad orientarsi arrivando poi a «vedere»
davvero.

Alla fine di 13 anni di scuola sono tantissimi i ragazzi che non sanno molto di sé. Per questo sono
paralizzati dalla paura, come mostra il crescente fenomeno dei cosiddetti Neet (acronimo inglese di
«not in education, employment or training»), cioè giovani che non studiano né lavorano, in Italia
più di 2 milioni, di cui si è occupato Alessandro Rosina nel libro dedicato al nostro potenziale
perduto proprio per l'inefficienza nella transizione scuola-lavoro. E questo dipende in gran parte dal
fatto che la scuola non aiuta a scovare le proprie attitudini. Molti dopo le medie non sanno che
strada intraprendere: liceo (quale?), formazione professionale, tecnica? Ricevono consigli
approssimativi e, nei casi virtuosi, qualche test attitudinale. Spesso si finisce così per scegliere
«cosa fanno gli amici» o «cosa dicono i genitori». Lo stesso accade alla fine delle superiori: fare o
no l'università? Quale facoltà? Quale lavoro? Troppi sbagliano percorso, arrancano, cambiano,
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magari per scelte basate su copioni rassicuranti ma poco rispondenti alle reali attitudini. Il futuro si
apre solo quando sboccia da dentro, non quando è mero contagio esteriore. L'orientamento
all'ultimo anno si riduce a un catalogo di open-day; l’obiettivo delle università è attirare i ragazzi,
spesso anticipando i test per vincolarli all'iscrizione preventiva, ignorando il peso del percorso di
studi e dell'esame di maturità: in altre parole, ignorando la loro storia.

Nella scuola attuale l'orientamento è affidato al «volontariato» dei professori, quasi fosse una
missione umanitaria e non un atto professionale richiesto dall'articolo 3 della Costituzione: «È
compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di
fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e
l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del
Paese». L'assenza di orientamento a scuola è causa di ingiustizia sociale, come spiegano due libri
recentissimi che, partendo da impostazioni molto diverse, arrivano alla stessa conclusione: Federico
Fubini, «La maestra e la camorrista - Perché in Italia resti quello che nasci» e Christian Raimo,
«Tutti i banchi sono uguali - La scuola e l'uguaglianza che non c'è». I due autori mostrano che la
scuola italiana invece di essere un ascensore sociale è, al meglio, un adattatore sociale, al peggio,
causa e conferma delle disuguaglianze di partenza: non porta novità, ma tacito adeguamento.
L'alternanza scuola-lavoro si sta dimostrando, soprattutto nei licei, un'illusione di orientamento, che
spesso catapulta i ragazzi in realtà inadatte alle loro attitudini o avulse dal lavoro reale. Mandarli a
«lavorare» senza prima aver capito qual è la «bottega» in cui mettere a frutto i propri talenti, rende
il lavoro una finzione che di orientativo e formativo ha poco.

Per queste ragioni a metà maggio cerco di concludere lezioni e verifiche per dedicarmi
all'esplorazione dei talenti, coinvolgendo genitori e colleghi. È risultato efficace un percorso di
scrittura autobiografica. Attraverso le tecniche del genere i ragazzi provano a scrivere la loro
autobiografia, cosa che li costringe alla riflessività: oggi è il punto nevralgico della conoscenza di
sé, ostacolata dallo stile cognitivo frammentario tipico della rete. I ragazzi si sorprendono del potere
esplorativo della scrittura, della propria grafia su un foglio bianco che somiglia alla loro anima, su
cui hanno finalmente presa. Garantendo la continuità didattica (avere la classe per un ciclo intero
dovrebbe essere la normalità), si potrebbero dedicare di anno in anno, letture, incontri e test mirati a
scovare e coltivare gli interessi di ciascuno. Sogno una scuola così perché è stato fatto così con me e
questo mi ha portato a scelte tanto difficili quanto felici. Un professore-mentore, quando ero
combattuto tra seguire le orme paterne come dentista, con uno studio già pronto, e intraprendere
l'ardua strada dell'insegnamento («sarai un morto di fame, sii realista» mi dicevano in tanti), mi
chiese: hai 40 anni, cosa fai? Vai in studio a curare denti o in classe a raccontare storie? L'immagine
fu risolutiva, ridimensionai molte paure per abbracciare più avvincenti incertezze, lasciando la mia
città per studiare lettere classiche in un'altra che offriva corsi più adeguati. Ora che ho 40 anni
ripenso a quella frase con grata commozione.

Solo chi ha vocazione provoca vocazioni, cioè nuove coraggiose esplorazioni del mondo. Il passo
successivo è infatti scegliere «la bottega» dove imparare. Quando la madre di un dodicenne di
provincia chiese al figlio che cosa volesse fare da grande e lui rispose con sicurezza: il pittore, lei lo
prese sul serio e impegnò tutti i risparmi per mandarlo a Milano a bottega da un maestro. Il
dodicenne, scrive un biografo, «studiò in fanciullezza per quattro o cinque anni, con diligenza
ancorché di quando in quando facesse qualche stravaganza causata da quel calore e spirito così
grande». E divenne Caravaggio.

Non riuscirei a fare l'insegnante senza prendere sul serio la vita futura dei ragazzi e credo sia questo
il letto da rifare oggi, come richiesto dalla lettera riportata sopra. Socrate fu condannato a morte
perché insegnava «nuove divinità e corrompeva i giovani», quando semplicemente li portava a
riconoscere il proprio daimon, una forza interiore, a metà tra cielo e terra, che spinge al compimento
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di sé trasformando un destino in destinazione: «è qualcosa che è cominciato da bambino, come una
specie di voce», così la definisce nella sua vana autodifesa. Potremmo per questo chiamarla:
vocazione. Finché la scuola non rimetterà al centro la storia intera di un ragazzo, la sua voce, egli
penserà che formarsi non serva a una vita migliore. I numeri della nostra dispersione scolastica
(quintultimi in Europa, il 14% abbandona gli studi) confermano un sistema che fatica a mostrare
che conoscere è prendersi cura di sé, e poi del mondo attraverso un lavoro.

Basterebbe dedicare le 200 (licei) o 400 (tecnici e professionali) ore dell'alternanza scuola-lavoro a
un orientamento ben fatto per salvare tante voci, tante vocazioni. Cominciamo?

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