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ANTONIO NEGRI

FABBRICHE DEL SOGGETTO

Profili, protesi, transiti, macchine, paradossi, passaggi, sovversione, sistemi, potenze:


appunti per un dispositivo ontologico

XXI SECOLO Bimestrale di politica e cultura n. 1 – Settembre-ottobre 1987

© Tutti diritti sono riservati all’autore

à Papageno, aux Comrades du Cinel

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Indice
PARTE I. FRA SUSSUNZIONE FORMALE E SUSSUNZIONE REALE.
PREFAZIONE p. 5
PARTE II. PROLEGOMENI DI UN’ONTOLOGIA DELLA SOVVERSIONE p. 19
Introduzione – La rivoluzione come preambolo p. 19
Capitolo Primo.
No future, ossia sull’essenza etica dell’epistemologia p. 27
1. L’indifferenza dell’universo della comunicazione p. 27
2. Rompicapi dello spirito p. 31
3. Terrore e contingenza p. 36
4. L’antagonismo come << principium individuationis >> p. 40
5. Per un’estetica trascendentale del corpo p. 44
6. Il concetto di costituzione pratica p. 48
Capitolo Secondo.
Metus-Seperstitio: ossia sulla produzione di soggettività nel capitalismo maturo. p. 54
1. Il concetto di sussunzione reale ed il problema dell’analitica p. 54
2. Analitica: il diritto come legittimazione p. 58
3. Il modello formalistico: Hans Kelsen p. 63
4. Il modello contrattualistico: Rawls p. 67
5. Luhmann: il modello sistemico e la sua critica p. 70
6. L’antagonismo nella teoria della legittimazione p. 74
7. Per una nuova determinazione del problema p. 79
Capitolo Terzo.
Compact – per una dialettica trascendentale del potere p. 84
1. Critica del concetto di potere p. 84
2. A proposito di movimento, oggi p. 89
3. Il lavoro del soggetto p. 94
4. Lavoro, territorio e libertà p. 98
5. Compact: fra diritto e rivoluzione p. 104
6. Il concetto di pratica sociale p. 111

PARTE III. FRA CATASTROFE E RICOSTRUZIONE.


APPENDICE p. 118
1. Erkenntnistheorie. Elogio dell’assenza di memoria p. 118
2. La potenza sociale del lavoro. Nota introduttivo alla ristampa di << Classe operaia >> p. 125
3. Per un nuovo schematismo della ragione. Risposta a Jean Petitot p. 135
4. Sull’orlo dell’essere. A proposito di un libro di Giorgio Agamben p. 141
5. L’istituzione logica del collettivo e le fatiche dell’estetica. A proposito del libro su Frege di Roberta De Monticelli p.
147
6. Dell’aforisma << Pessimismo della ragione, ottimismo della volontà >> e della ragionevole opportunità di
rovesciarlo p. 157
7. Lenin a New York. Progetto di lavoro p. 179

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PARTE I
Fra sussunzione formale e sussunzione reale.
Prefazione
Karl Marx, Il Capitale: Libro I, Capitolo VI Inedito, trad. it. Firenze,
1969, pp. 53-54: << A questi cambiamenti, tuttavia, non si è finora
accompagnata una trasformazione sostanziale del modo d’essere vero e proprio
del processo lavorativo, del processo di produzione reale. Al contrario, è nella
natura delle cose che la sottomissione (sussunzione) del processo lavorativo al
capitale si verifichi per ora sulla base di un processo lavorativo ad esso
preesistente, configuratosi sulla base di antichi e diversi processi produttivi e di
altre e diverse condizioni della produzione: il capitale si sottomette un processo
lavorativo dato, esistente - per esempio, il lavoro artigianale o il lavoro
agricolo corrispondente alla piccola economia contadina autonoma, - e le
modificazioni che possono tuttavia verificarsi all’interno del processo
lavorativo, non appena esso soggiaccia al comando del capitale, possono essere
soltanto conseguenze graduali della già avvenuta sottomissione dei processi
lavorativi dati, tradizionali, al capitale. Il fatto che l’intensità del lavoro
aumenti, che la durata del processo lavorativo si prolunghi, che il lavoro si
svolga più ordinato e continuo sotto l’occhio interessato del capitalista ecc.,
questo fatto non cambia in sé e per sé il carattere del processo lavorativo reale,
del modo vero e proprio del lavoro.
Tutto ciò contrasta decisamente con il modo di produzione specificamente
capitalistico (lavoro su grande scala ecc.) che, come abbiamo visto, si sviluppa
man mano che la produzione capitalistica progredisce; modo di produzione che,
insieme al rapporti fra i diversi agenti della produzione, rivoluziona anche il
modo d’essere del lavoro e la forma a reale dell’intero processo lavorativo.
Appunto in contrapposto al modo di produzione specificamente capitalistico
noi chiamiamo sussunzione formale del lavoro al capitale la sottomissione da
parte di quest’ultimo del processo lavorativo come l’abbiamo esaminato finora,
cioè come sottomissione di un modo di lavoro già sviluppato prima che il
rapporto capitalistico sorga.
Le due forme hanno in comune il rapporto capitalistico come rapporto di
coercizione inteso a spremere il plusvalore dal lavoro salariato, dapprima solo
prolungando la durata del tempo di lavoro-rapporto che non poggia su alcun
legame di signoria e dipendenza personale, ma nasce unicamente dalla
diversificazione delle funzioni economiche. Mentre però il modo di produzione
specificamente capitalistico conosce anche altri modi di estorsione di
pluslavoro e plusvalore, invece, sulla base di un modo di produzione esistente,

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quindi di uno sviluppo dato della forza produttiva del lavoro e di un modo di
lavoro corrispondente a questa forza produttiva, il plusvalore può essere
prodotto solo prolungando la durata del tempo di lavoro: sotto la forma del
plusvalore assoluto. E’ a questa forma di produzione del plusvalore che
corrisponde la sottomissione formale del lavoro al capitale >>.
Pp. 57-58: << L’incremento delle forze produttive sociali del lavoro, o delle
forze produttive del lavoro direttamente sociale, socializzato (reso collettivo)
mediante la cooperazione, la divisione del lavoro all’interno della fabbrica,
l’impiego delle macchine, e in genere, la trasformazione del processo di
produzione in cosciente impiego delle scienze naturali, della meccanica, della
chimica ecc. e della tecnologia per dati scopi, come ogni lavoro su grande
scala a tutto ciò corrispondente (solo questo lavoro socializzato è infatti in
grado di applicare i prodotti generali dell’evoluzione umana, per esempio le
matematiche, al processo di produzione immediato, allo stesso modo d’altra
parte che l’intero sviluppo di queste scienze presuppone un dato livello del
processo di produzione materiale), questo incremento, dicevamo, della forza
produttiva del lavoro socializzato in confronto al lavoro più o meno isolato e
disperso dell’individuo singolo, e con esso l’applicazione della scienza -
questo prodotto generale dello sviluppo sociale - processo di produzione
immediato, si rappresentano ora come forza produttiva del capitale anziché
come forza produttiva del lavoro, o solo come forza produttiva del lavoro in
quanto identico al capitale; in ogni caso, non come forza produttiva del
lavoratore isolato e neppure del lavoratori cooperanti nel processo di
produzione.
Questa mistificazione, propria del rapporto capitalistico in quanto tale, si
sviluppa ora molto più di quanto potesse avvenire nel caso della pura e
semplice sottomissione formale del lavoro al capitale. E’ d’altra parte soltanto
quit, che il significato storico della produzione capitalistica appare nella sua
evidenza specifica, proprio attraverso la trasformazione dello stesso processo di
produzione immediato e lo sviluppo delle forze produttive sociali del lavoro.
Si è già dimostrato (capitolo III) che non solo nella << rappresentazione >>
ma nella << realtà >>, l’aspetto sociale, << la socialità >> ecc., del lavoro si
erge di fronte all’operaio come elemento non soltanto estraneo ma ostile e
antagonistico, apparendo oggettivato e personificato nel capitale. Allo stesso
modo che la produzione del plusvalore assoluto può essere considerata come
l’espressione materiale della sottomissione formale del lavoro al capitale, la
produzione del plusvalore relativo può considerarsi come l’espressione della
sottomissione reale del lavoro al capitale. >>
Pp.68-69: << Sottomissione reale del lavoro al capitale. Permane qui la

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caratteristica generale della sottomissione formale, cioè la diretta
subordinazione del processo lavorativo, comunque sia esercitato dal punto di
vista tecnologico, al capitale. Ma su questa base si erge un modo di
produzione tecnologicamente (e non solo tecnologicamente) specifico, che
modifica la natura reale del processo lavorativo e le sue reali condizioni - il
modo di produzione capitalistico. Solo quando esso appare ha luogo la
sottomissione reale al capitale. >> << La sottomissione reale del lavoro al
capitale si sviluppa in tutte le forme che generano, a differenza del plusvalore
assoluto, plusvalore relativo. Alla sottomissione reale del lavoro al capitale si
accompagna una rivoluzione completa (che prosegue e si ripete costantemente)
nel modo stesso di produzione, nella produttività del lavoro, e nel rapporto fra
capitalisti e operai.
La sottomissione reale del lavoro al capitale va di pari passo con le
trasformazioni nel processo produttivo che abbiamo già illustrate: sviluppo
delle forze produttive sociali del lavoro e, grazie al lavoro su grande scala,
applicazione della scienza e del macchinismo alla produzione immediata. Da
una parte, il modo di produzione capitalistico, che ora appare veramente come
un modo di produzione sui generis, dà alla produzione materiale una forma
diversa; dall’altra, questa variazione della forma materiale costituisce la base
per lo sviluppo del rapporto capitalistico, la cui forma adeguata corrisponde
perciò a un determinato grado di sviluppo delle forze produttive sociali del
lavoro >>.
P. 74: << Primo: Poiché, con lo sviluppo della sottomissione reale del
lavoro al capitale e quindi del modo di produzione specificamente
capitalistico, il vero funzionario del processo lavorativo totale non è il singolo
lavoratore, ma una forza-lavoro sempre più socialmente combinata, e le
diverse forze-lavoro cooperanti che formano la macchina produttiva totale
partecipano in modo diverso al processo immediato di produzione delle merci o
meglio, qui, dei prodotti - chi lavorando piuttosto con la mano e chi piuttosto
con il cervello, chi come direttore, ingegnere, tecnico ecc., chi come
sorvegliante, chi come manovale o come semplice aiuto -, un numero crescente
di funzioni della forza-lavoro si raggruppa nel concetto immediato di lavoro
produttivo, e un numero crescente di persone che lo eseguiscono nel concetto
di lavoratori produttivi, direttamente sfruttati dal capitale e sottomessi al suo
processo di produzione e valorizzazione. Se si considera quel lavoratore
collettivo che è a fabbrica, la sua attività combinata si realizza materialmente
e in modo diretto in un prodotto totale, che è nello stesso tempo una massa
totale di merci dove è del tutto indifferente che la funzione del singolo operaio,
puro e semplice membro del lavoratore collettivo, sia più lontana o più vicina al

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lavoro manuale in senso proprio. Ma, d’altra parte, l’attività di questa forza-
lavoro collettiva è il suo consumo produttivo immediato da parte del
capitale, è autovalorizzazione del capitale, produzione immediata del
plusvalore; quindi, come vedremo meglio in seguito, trasformazione
immediata dello stesso in capitale. >>
Karl Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica,
trad. il. Torino, 1976, vol. I, p. 722: << Come, con lo sviluppo della grande
industria, la base su cui essa si fonda, ossia l’appropriazione di tempo di lavoro
altrui - cessa di costituire o di creare la ricchezza, così, con esso il lavoro
immediato cessa di essere, come tale, la base della produzione, poiché per un
verso viene trasformato in un’attività prevalentemente di sorveglianza e
regolatrice; ma poi anche perché il prodotto cessa di essere il prodotto del
lavoro isolato immediato, ed è piuttosto la combinazione dell’attività sociale a
presentarsi come produttore. Nello scambio immediato il lavoro isolato
immediato si presenta realizzato in un prodotto particolare o parte di questo
prodotto, e il suo carattere sociale comunitaria - ossia il suo carattere di
materializzazione del lavoro generale e di soddisfacimento del bisogno generale
- è posto soltanto attraverso lo scambio. Per contro, nel processo di produzione
della grande industria, come da un lato l’assoggettamento della forze della
natura all’intelligenza sociale è il presupposto della forza produttiva del mezzo
di lavoro sviluppato a processo automatico, così dall’altro il lavoro del
singolo, nella sua esistenza immediata, è posto come lavoro singolo
soppresso, ossia come lavoro sociale. Così viene a cadere l’altra base di
questo modo di produzione. >>
P. 716: << Ma nella misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione
della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla
quantità di lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti messi in moto
durante il tempo di lavoro, la quale a sua volta - questa loro poderosa efficacia -
non sta in alcun rapporto con il tempo di lavoro immediato che costa la loro
produzione, ma dipende piuttosto dallo stato generale della scienza e dal
progresso della tecnologia, o dall’applicazione di questa scienza alla produzione
>>.

Pp. 717-718: << La ricchezza reale si manifesta piuttosto - e ciò viene messo in
luce dalla grande industria - nella straordinaria sproporzione tra il tempo di
lavoro impiegato e il suo prodotto, come pure nella sproporzione qualitativa tra
il lavoro ridotto a pura astrazione e la potenza del processo produttivo che esso
sorveglia. Il lavoro non si presenta più tanto come incluso nel processo
produttivo, in quanto è piuttosto l’uomo a porsi come sorvegliante e regolatore

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nei confronti del processo produttivo stesso. (Ciò che si è detto per il
macchinario, vale ugualmente per la combinazione delle attività umane e per lo
sviluppo del traffico umano). Non è più l’operaio a inserire l’oggetto naturale
modificato come termine medio tra sé e l’oggetto; egli inserisce invece il
processo naturale, che egli trasforma in un processo industriale, come mezzo tra
sé e la natura inorganica di cui si impadronisce. Egli si sposta accanto al
processo produttivo invece di esserne l’agente principale. In questa situazione
modificata non è né il lavoro immediato, eseguito dall’uomo stesso, né il tempo
che egli lavora, bensì l’appropriazione della sua forza produttiva generale, la
sua comprensione della natura e il dominio su di essa attraverso la sua esistenza
di corpo sociale - in breve lo sviluppo dell’individuo sociale, che si presenta
come il grande pilastro della produzione e della ricchezza. Il furto di tempo di
lavoro altrui, sul quale si basa la ricchezza odierna, si presenta come una
base miserabile in confronto a questa nuova base creata dalla grande industria
stessa. Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande
fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di esserne la
misura, e quindi il valore di scambio cessa e deve cessare di essere la misura del
valore d’uso. Il lavoro eccedente della massa ha cessato di essere la
condizione dello sviluppo della ricchezza generale, così come il non-lavoro dei
pochi ha cessato di essere condizione dello sviluppo delle potenze generali
della mente umana. Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla, e
il processo produttivo materiale immediato viene a perdere esso stesso la forma
della miseria e dell’antagonismo. Il libero sviluppo delle individualità, e dunque
non la riduzione del tempo di lavoro necessario per creare lavoro eccedente, ma
in generale la riduzione a un minimo del lavoro necessario della società, a cui
poi corrisponde la formazione artistica, scientifica ecc. degli individui grazie al
tempo divenuto libero e al mezzi creati per essi tutti. Il capitale è esso stesso la
contraddizione in processo (per il fatto) che esso interviene come elemento
perturbatore nel processo di riduzione del tempo di lavoro a un minimo, mentre
d’altro canto pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza.
Esso diminuisce, quindi, il tempo di lavoro necessario, solo per aumentarlo
nella forma del tempo di lavoro superfluo; pone quindi in misura crescente il
lavoro superfluo come condizione - questione di vita e di morte - di quello
necessario. Per un verso chiama in vita tutte le potenze della scienza e della
natura, come della combinazione sociale e del traffico sociale, allo scopo di
rendere indipendente (relativamente) la creazione della ricchezza del tempo di
lavoro in essa impiegata. Per l’altro verso vuole misurare con il tempo di lavoro
le gigantesche forze sociali così create, e relegarle nei limiti che sono richiesti
per conservare come valore il valore già creato. Le forze produttive e le
relazioni sociali - entrambi aspetti diversi dello sviluppo dell’individuo sociale -

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al capitale si presentano soltanto come mezzi, e per esso sono soltanto mezzi
per produrre a partire dalla sua base limitata. Ma in realtà essi sono le
condizioni materiali per far saltare in aria questa base.>>
***
Ho qui riportato questi testi marxiani ad un solo scopo: introdurre il lettore in
medias res. L’argomentazione che segue, presuppone infatti una constatazione:
viviamo nella sussunzione reale - meglio, stiamo sistemandoci in essa in
maniera definitiva, dopo aver vissuto il compiersi del processo di
assoggettamento formale della società da parte del capitale lungo gli ultimi
secoli. E’ quindi utile aver presente la definizione marxiana di << sussunzione
formale >> e di << sussunzione reale >>. Al lettore la possibilità di confrontare
le categorie e la realtà: se l’utilizzo di quelle gli permette di meglio riconoscere
questa, egli allora può forse seguitare la lettura. Va solo tenuto presente che
l’accettazione di queste categorie marxiane non implica l’accettazione di <<
tutto Marx >> né, in alcun modo, l’adesione alle interpretazioni più o meno
ortodosse del suo pensiero. Le definizioni di << sussunzione formale >> e di <<
sussunzione reale >> sono in effetti solo parzialmente dipendenti dallo sviluppo
complessivo della teoria marxiana: sono illuminazioni su un futuro prossimo,
piuttosto che l’analisi di un presente; sono tendenze che l’uomo politico e il
profeta identifica per il nostro presente, piuttosto che determinazioni
scientifiche di questo lo accetto e rilancio questa provocazione marxiana perché
in essa trovo, ora, una formidabile adesione all’attualità, la verità dello stato
presente delle cose. D’altronde, termini come << postmoderno >>, come <<
Civilisation >>, come << Nihilismus >>, come << Krisis >>, quando siano
utilizzati per indicare la crisi del razionalismo occidentale nella maturità
capitalistica - sono, ognuno nella sua specificità, sinonimi di << sussunzione
reale >>. Ciò detto, va tuttavia sottolineato che, nelle categorie marxiane, è
contenuta, assieme alla descrizione della tendenza, la chiave pratica del suo
rovesciamento: in ciò le categorie marxiane si distinguono da quelle
nietzscheane o freudiane, wittgensteiniane o adorniane, per non parlare, si parva
licet, di quelle splengeriane o baudrillardiane. Non il contenuto della
descrizione distingue Marx dalla filosofia contemporanea nella definizione del
presente, ma il punto di vista: quello della liberazione, quello della soggettività
antagonista. Lo voglio procedere su questa direzione del discorso marxiano: qui
dunque non chiedo più al lettore di seguirmi sulla base di una constatazione
comune - perché in questo caso non di constatazioni si tratta, bensì di scelte. Se
vorrà farlo, lo farà a suo rischio. Della fondazione ontologica di una scelta di
liberazione tratta comunque, in buona parte, questo libro.
Precisiamo un concetto. Si è detto: << fra >> sussunzione formale e

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sussunzione reale, ma evidentemente si intende come ormai l’accento cada
essenzialmente sulla realtà della sottomissione della società al capitale. Di
conseguenza, se la modificazione dei modi di produzione è un processo
complesso e la tendenza che presiede alla modificazione, è estremamente
articolata: pure l’egemonia del modo di produzione capitalistico è ormai totale e
le differenze e le resistenze sono caratterizzate da una straordinaria precarietà -
insomma, la sussunzione reale è effettuale. Il paradigma del modo di
produzione è definitivamente mutato. Il capitalismo ha proceduto fino
all’estrema istituzione formale del collettivo. Il lavoro e la produzione sono
determinazioni ormai solo sociali: Se ci sono ritardi nello sviluppo
complessivo, questi non toccano la sostanza del processo e non ritardano
l’attualità del suo compimento. E’ dunque a partire da questa situazione,
centralmente definita, che il ragionamento deve muovere. E tenersi strettamente
a queste condizioni.
Salvo rovesciarle. Poiché la sussunzione reale, della quale lo sviluppo
capitalistico virtualmente rivela le definitive condizioni, è - nell’effettualità - un
sistema di contraddizioni. Ma queste contraddizioni sono state percorse dal
sistema delle macchine ed estremizzate dalla sua logica fino al punto di essere
condotte ad un’ultima alternativa: quella del comando e dello sfruttamento,
appunto, ma spinta al limite del terrore, al ricatto della guerra, fino alla
drammatica proposizione dell’alternativa dell’essere e della sua negazione. E’
su questo orlo dell’essere che il ragionamento filosofico e la decisione etica
divengono oggi decisivi. E la tragedia che viviamo, dentro questa precarietà
dell’essere, attraverso la violenza della nostra reazione morale, potrebbe aprirsi
al godimento.
***
I << Prolegomeni ad un’ontologia della sovversione >> costituiscono un
primo tentativo di raccogliere in una prospettiva di rottura e di trasformazione
radicale la determinatezza delle modificazioni strutturali della produzione e del
soggetto produttivo che abbiamo verificato in questo secolo. Lo sono e resto
convinto che il più enorme evento di questo secolo sia stata la rivoluzione
d’Ottobre. Essa ha cambiato il mondo. Essa ha imposto un’accelerazione
straordinaria allo sviluppo capitalistico, - sia nei paesi laddove essa si è
affermata, sia nei paesi a più antica vocazione e riuscita industriale. Le oblique
e talora perverse risultanze del regime socialista non possono indurci in errore e
a rinnegare Lenin perché dopo di lui è venuto Stalin, quanto la rivoluzione
francese perché ha prodotto Napoleone. Ma v’è di più: la rivoluzione d’ottobre,
contribuendo in maniera straordinaria alla modernizzazione industriale ed alla
liberazione politica di tutti popoli, costruendo perciò - direttamente o

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indirettamente - le condizioni di un mercato mondiale, ed in ogni caso
accelerandone la realizzazione, ha attratto nell’area della sussunzione reale ogni
formazione storico-produttiva - e tutte le ha integrate e articolate lungo un
medesimo e solo processo di sviluppo. Sul livello mondiale una nuova
ontologia dell’essere sociale è venuta così formandosi. Lo l’assumo come
dato - non mi interessa qui descriverla da un punto di vista sociologico
(l’abbiamo già fatto altrove - io e molti altri studiosi - e la nostra tesi sull’
operaio sociale e multinazionale hanno fin qui ricevuto solo delle conferme -
altrove approfondirò il discorso), m’interessa invece problematizzare
l’ontologia del soggetto produttivo sull’orizzonte del mercato mondiale,
mettendola a confronto con le tensioni catastrofiche attorno a cui,
verticalmente, s’è riorganizzato il potere: potere di vita e di morte, potere
nucleare, potere di determinazione del non-essere, - e soprattutto, tentativo del
potere di costruire direttamente la soggettività, di togliere il soggetto produttivo
all’essere ed alla verità. Per mia parte sono convinto - e tento di dimostrarlo -
che la soggettività può opporsi, sul terreno ontologico, alla macchina del
potere capitalistico, che può impedire la sua tensione di morte, che può
autorganizzarsi e costruire opposizione, ed anche antagonismo, contro il
dominio.
E qui ci troviamo su uno snodo importante, che vogliamo cercare di chiarire.
Dentro l’enorme verticalizzazione del potere, il tema della pace è divenuto
essenziale. Esso ci è proposto come ricatto, e ci si minaccia di toglierci, a
questo livello della potenza produttiva, con la pace, l’essere, la vita, la
riproduzione della specie. La difesa della pace è, a questo punto, il risvolto del
dominio. Che cosa vuol dire allora, in questa situazione, formare
antagonismo contro il dominio? Che cosa vuol dire rifondare la vita nel
rifiuto della minaccia di distruzione dell’essere? Che cos’è oggi la critica
dell’economia politica della pace? Rispondere a queste domande è fondare
una nuova prassi collettiva, un nuovo diritto e una nuova società. Riconquistare
la pace non come fondazione dell’oppressione ma come espressione di libertà,
non come incubo di distruzione e necessità del dominio ma come desiderio:
costruzione, innovazione, immaginazione e godimento - collettivi - è la grande
operazione ontologica del secolo che si chiude. Si badi bene: il corrispettivo
formale della possibilità di tutto distruggere, è la potenza materiale di tutto
costruire. Ogni tabù cade - la ragione etica, quella potenza che più mettere le
mani sull’essere e che solo in quanto lo fà, è storicamente significativa - ora,
questa potenza è nella nostra nuova natura e nella nostra ontologica
determinazione. Pace è legare la realtà del movimento all’espressione della
potenza costruttiva - ai nuovi compiti etici che si aprono sui confini dell’essere,
oltre il limite della datità, laddove si scopre che quel potere che può tutto

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distruggere, bisogna disarmarlo - attraverso quella potenza che può tutto
costruire. L’essere soprattutto.
Gli scritti raccolti nella III parte e qui globalmente intitolati << fra
catastrofe e ricostruzione >>, sono stati redatti lungo gli ultimi anni. In che cosa
sia consistita la catastrofe, crediamo sia chiaro - soprattutto al lettore italiano: è
la distruzione della continuità lineare della memoria storica della sovversione, è
la sconfitta politica di un movimento di massa grande e generoso (quale la
storia contemporanea aveva raramente conosciuto, nei paesi capitalistici
avanzati). Ma anche che cosa sia la ricostruzione, credo sia possibile oggi
intenderlo. E’ la ricostruzione di un comportamento sovversivo, di un nuovo
movimento proletario, a partire da una condizione irreversibile della coscienza -
il comunismo come preambolo, come alternativa concreta e prassi immediata,
la coscienza della natura collettiva della produzione e della riproduzione come
nuovo paradigma del sapere, l’immaginazione di nuovi processi di
valorizzazione sociale come compito. Noi viviamo in una società archeologica:
vi sono dei padroni capitalisti che, come sovrani assoluti, comandano la vita
produttiva di milioni di uomini attraverso il pianeta; vi sono altre persone,
gestori e proprietari dei media, che, come inquisitori medioevali, posseggono
tutti gli strumenti di formazione dell’opinione pubblica; vi sono poi degli
individui che possono, fuori da qualsiasi responsabilità personale, scelti - come
in altri tempi gli stregoni - per cooptazione, condannare degli uomini alla
prigione a vita o trattenerli entro istituzioni totali; ecc. ecc. - vi sono infine due
o tre poteri al mondo che, imperialmente, garantiscono questo modo di
produzione e di riproduzione della ricchezza e delle coscienze,
sovraintendendolo in modo mostruoso - attraverso i1 ricatto nucleare, attraverso
la minaccia di distruggere l’essere. Rifiutare tutto questo come si rifiuta quello
che è vecchio e marcito - questo non è un compito ma una necessità, una
precostituzione ontologica. Non è credibile che il mercato mondiale, e le enormi
forza collettive che in esso si muovono, abbiano padroni; non è possibile,
meglio, è senz’altro ripugnante il diritto della proprietà e dello sfruttamento.
Tanto più se queste aberrazioni sono applicate alla formazione dell’opinione
pubblica - qui i cittadini sono imprigionati nel momento in cui dovrebbero
democraticamente sviluppare il loro diritto di informazione, di comunicazione e
di critica. Archeologiche e odoranti morte e follia, sono poi le corporazioni
giuridiche, amministrative, politiche dello Stato della sussunzione reale. Ma la
morte che hanno nelle membra e nel cuore, esse rovesciano contro il mondo!
Rompere con tutto ciò, ricostruire! Lo parlo qui di ricostruzione perché, dopo la
crisi dell’ultimo decennio, ovunque ormai, in Europa come nel mondo, il
processo rivoluzionario si è rimesso in moto. Con fatica, negli anni scorsi, nei
saggi che qui metto insieme, lo abbiamo descritto in questa nuova figura - mano

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a mano approssimandone sempre di più le caratteristiche. La rivoluzione come
preambolo, l’immaginazione al potere, questi sono dunque i poli del processo
di ricostruzione, di uscita dalla catastrofe. Su questo bordo dell’essere noi ci
troviamo davanti ad una natura umana modificata dallo sviluppo e dalle lotte -
anche dalle sconfitte - ad un processo di autovalorizzazione che socialmente ha
formato nuove soggettività e ha depositato una grande esperienza del futuro.
***
Mi è capitato, in questi scritti, di utilizzare ampiamente, quando parlo
dell’immediatezza dell’esperienza di liberazione, il termine filosofico <<
estetica trascendentale >>; quando parlo dell’immaginazione e della sua
funzione creativa, il termine << dialettica trascendentale >>; quando infine, ed
al contrario, parlo della capacità capitalistica di comando attraverso gli
strumenti del nuovo dominio e della stessa produzione di soggettività, utilizzo il
termine << analitica >>. Ora, poiché temo che non tutti i miei lettori abbiano
presente la definizione kantiana di queste categorie della critica, mi permetto
qui di seguito di ricordarla (affinché in tal modo venga meglio compreso l’uso
di queste categorie e la radicale anomalia che in quest’uso introduco). E’
comunque nel paragrafo 3 della Parte III (<< Per un nuovo schematismo >>)
che si discutono alcuni temi kantiani.
Emmanuelle Kant, Critica della ragion pura, trad. il., Bari, 1949, vol. I, pp.
66-67: << Chiamo estetica trascendentale una scienza di tutti i principi a priori
della sensibilità. Deve esserci una tal scienza, che costituisca la prima parte di
una dottrina trascendentale degli elementi, in opposizione a quella che contiene
i principi del pensiero puro e vien [sic] denominata logica trascendentale.
Nella estetica trascendentale, dunque, noi isoleremo dapprima la sensibilità,
separandone tutto ciò che ne pensa coi suoi concetti l’intelletto, affinché non vi
resti altro che l’intuizione empirica. In secondo luogo, separeremo ancora da
questa ciò che appartiene alla sensazione, affinché non ne rimanga altro che la
intuizione pura e la semplice forma dei fenomeni, che è ciò che la sensibilità
può fornire a priori. In questa ricerca si troverà che vi ha due forme pure di
intuizione sensibile, come principi della conoscenza a priori, cioè spazio e
tempo, del cui esame noi ci occuperemo or ora. >>
P. 108: << Analitica trascendentale: questa analitica è la risoluzione di tutta
la nostra conoscenza a priori negli elementi della conoscenza pura intellettuale.
E qui bisogna por mente ai punti seguenti: 1) che i concetti sieno concetti puri,
e non empirici; 2) che appartengano non all’intuizione e alla sensibilità, ma al
pensiero e all’intelletto; 3) che sieno concetti elementari, ben distinti dai
derivati e da quelli risultanti da essi per composizione; 4) che la loro tavola sia

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completa, e abbracci interamente tutto i1 dominio dell’intelletto puro. Or questa
compiutezza d’una scienza data non può ottenersi con sicurezza col calcolo
all’ingrosso di un aggregato messo insieme per tentativi; quindi essa è possibile
soltanto mediante un’idea della totalità della conoscenza intellettuale a priori e
per mezzo della divisione dei concetti che la costituiscono, determinata in base
a cotesta idea, e quindi per mezzo della loro connessione sistematica.
L’intelletto puro si distingue assolutamente, non solo da ogni elemento
empirico, ma anche da ogni sensibilità. E’ dunque un’unità per sé stante,
sufficiente a se stessa, e non suscettibile di aumento per aggiunte dall’esterno.
L’insieme quindi della sua conoscenza formerá un sistema, da essere compreso
e determinato sotto una sola idea, e la cui compiutezza e articolazione possono
fornire a un tempo una pietra di paragone per provare l’esattezza e il valore di
tutte le parti di conoscenza che vi rientrano. Tutta questa parte della logica
trascendentale consta di due libri, uno dei quali comprende i concetti, e l’altro i
principi dell’intelletto puro.>>
Pp. 291, 293, 294: << Noi abbiamo detto più sopra la dialettica in generale
logica dell’apparenza >>. << L’apparenza logica, che consiste nella semplice
imitazione della forma razionale (l’apparenza dei sofismi) sorge unicamente da
un difetto di attenzione alla regola logica. Appena quindi questa viene rivolta
sul caso in questione, quell’apparenza si dilegua del tutto. L’apparenza
trascendentale, invece, non cessa ugualmente, se altri già l’abbia svelata e ne
abbia chiaramente scorta la nullità mediante la Critica trascendentale. E la causa
è questa, che nella nostra ragione (considerata soggettivamente, come facoltà
conoscitiva umana) ci sono regole fondamentali e massime del suo uso, che han
tutto l’aspetto di principi oggettivi, per cui accade che la necessità soggettiva di
una certa connessione del nostri concetti in grazia dell’intelletto venga
considerata come necessità oggettiva della determinazione delle cose in sé.
Illusione, che è affatto inevitabile >>. << La dialettica trascendentale sarà paga
per tanto di scoprire l’apparenza dei giudizi trascendentali, e di prevenire
insieme che essa non tragga in inganno; ma di questa apparenza anche si dilegui
(come l’apparenza logica) e cessi di essere un’apparenza, questo è ciò che non
può giammai conseguire. Perché noi abbiamo che fare con una illusione
naturale ed inevitabile, che si fonda essa stessa su principi soggettivi, e li
scambia per oggettivi; laddove la dialettica logica, nella risoluzione dei
paralogismi, non ha da fare se non con un errore nello svolgimento del principi,
o con un’artificiale imitazione di essi. Essa è dunque una dialettica naturale e
necessaria della ragion pura; non la dialettica in cui s’avviluppi, per es., il
guastamestieri per mancanza di cognizioni, o che un qualunque sofista abbia
escogitato ad arte per imbrogliare la gente ragionevole; ma la dialettica, che è
inscindibilmente legata all’umana ragione e che, anche dopo che noi ne avremo

15
scoperta l’illusione, non cesserà tuttavia di adescarla e trascinarla
incessantemente in errori momentanei, che avranno sempre bisogno di essere
eliminati. >>
Vol. II, p. 516, 517, 519: << Il risultato di tutti i tentativi della ragion pura
non solo conferma quello, che noi già dimostrammo nell’Analitica
trascendentale, ossia, che tutti i nostri ragionamenti, i quali vogliono condurci al
di là del campo dell’esperienza possibile, son fallaci e senza fondamento; ma
c’insegna nello stesso tempo questo di particolare, che l’umana ragione ha qui
una propensione naturale ad oltrepassare questi limiti, che le idee trascendentali
sono per essa altrettanto naturali che per l’intelletto le categorie, sebbene con la
differenza, che le ultime conducono alla verità, cioè all’accordo dei nostri
concetti con l’oggetto, laddove le prime generano una semplice, ma irresistibile
apparenza, la cui illusione, appena si può rimuovere mercè la critica più acuta
>>. << Lo affermo per tanto che le idee trascendentali non sono mai d’uso
costitutivo, sicché per mezzo di esse possono esser dati concetti di certi oggetti;
e che, ove esse siano intese a questo modo, sono semplicemente concetti
sofistici (dialettici). Ma, viceversa, hanno un uso regolativo eccellente e
impreteribilmente necessario: quello di indirizzare l’intelletto a un certo scopo,
in vista del quale le linee direttive di tutte le sue regole convergono in un punto;
il quale - sebbene non sia altro che un’idea (focus immaginarius), cioè un
punto, da cui realmente non muovono i concetti dell’intelletto, essendo esso
affatto fuori dei limiti dell’esperienza possibile, - serve nondimeno a conferir
loro la maggiore unità con la maggiore estensione. Ora per noi sorge veramente
di qui l’illusione, come se queste linee direttive si diramassero (come gli oggetti
sono veduti dietro la superficie dello specchio) da un oggetto stesso, che
gichampionsse fuori del campo della conoscenza empirica possibile; se non che
questa illusione (che pure si può impedire, che non inganni) è tuttavia
inevitabilmente necessaria, se oltre agli oggetti, che ci sono innanzi agli occhi,
vogliamo vedere insieme anche quelli che ci stanno lontani alle spalle, cioè se,
nel nostro caso, vogliamo portare l’intelletto al di là d’ogni esperienza data
(parte della totale esperienza possibile), quindi anche alla maggiore estensione
possibile ed estrema >>. << L’uso ipotetico della ragione per via di idee messe a
fondamento come concetti problematici non è propriamente costitutivo, ossia
non è di tal fatta che, se si vuol giudicare con tutto rigore, ne segua la verità
della legge universale per ipotesi; come sapere infatti tutte le conseguenze
possibili, che, derivando dallo stesso principio assunto, ne dimostrino la
universalità? Esso invece è soltanto regolativo, per mettere, quanto è possibile,
unità nelle conoscenze particolari e approssimare così la regola dell’universalità
>>.

16
***
Fra sussunzione formale e sussunzione reale, fra catastrofe e ricostruzione, e
un viaggio - un dislocamento eptstemologico ed anche un processo storico.
Poiché, come Marx ci ha insegnato, il tempo della rivoluzione modifica lo
spazio, meglio, segna di determinazioni temporali lo spazio e sceglie un tempo
come luogo, più o meno privilegiato, di sviluppo di crisi e di trasformazione.
Noi stiamo vivendo non solo il ciclo della modificazione del modo di produrre
ma soprattutto la sua radicale innovazione, la sua sussunzione al livello più alto,
- intendo, la sintesi terminale dello sviluppo capitalistico. E’ lì, dove lo sviluppo
capitalistico appiattisce e riconduce ogni differenza, che il processo
rivoluzionario deve riconoscersi come preambolo dell’esistente e del suo
rovesciamento, come condizione dell’immaginazione. Diciamo, qua e là, in
questo libro: << Lenin a New York >>, - per scherzare con la storia, attraverso
l’immaginazione rivoluzionaria. New York è la sussunzione reale della società
mondiale nel capitale, Lenin è il genio dell’antagonismo e della sovversione.
Lenin a New York: sembra a me la divisa del comunismo per i prossimi
decenni. Qui io presento solo un’introduzione - etica ed epistemologica - al
problema. Credo tuttavia che questa introduzione sia fondamentale. Negli scritti
contenunti in Appendice, ed in particolare nella << Lettera ai compagni di
Montreal >>, sono indicati del terreni sui quali approfondire la ricerca. Ma non
è possibile farlo se l’etica dell’immaginazione sovversiva non s’instaura alla
base della ricerca. Se il preambolo rivoluzionario non si rivela, come tale, nella
prassi. Transiti diversi, varie strategie sono qui possibili allo scopo di afferrare
praticamente la maturità della trasformazione necessaria. L’urgenza del
paradosso ontologico cui la vicenda del razionalismo occidentale e del
capitalismo ci ha condotto, il quadro di morte che l’estrema accelerazione e
maturazione dello sviluppo ci ha regalato - tutto ciò l’abbiamo dinnanzi. Non
risultano tuttavia tali da imporsi un blocco della ricerca né una paralisi della
volontà. Se il pensiero si impianta nella pratica e sceglie quest’ultima come
luogo ontologico fondamentale, - il paradosso di morte e i rompicapi distruttivi
che ci si presentano, possono essere risolti. Questa è dunque una propedeutica
metafisica alla prassi trasformatrice.
7 aprile 1986
Avvertenza
Alcuni dei testi qui pubblicati, sono già apparsi in varie riviste o sono stati
letti in cenacoli diversi. Così, ad esempio, l’introduzione alla Parte II (<< La
rivoluzione come preamboli >>) è la traccia di una conversazione che ho avuto
l’onore di introdurre, il 15 giugno l984, nel seminario parigino di Francois
Châtelet. Il paragrafo 6 della Parte III (<< a proposito dell’aforisma:

17
pessimismo della ragione, ottimismo della volontà >>) è il testo di un intervento
che in forma solo leggermente semplificata è stato letto e discusso in alcune
sedute del seminario dei prigionieri politici che si teneva nel carcere di
Rebibbia Roma G12, nel settembre - ottobre 1982 Quest articolo nell’attuale
forma e in traduzione francese, è ora in corso di pubblicazione nella rivista <<
Chemin de ronde >>. Il Paragrafo 7 della Parte III (<< Lenin a New York
Progetto di lavoro >>), è una lettera scritta ai compagni che a Montreal,
nell’ambito dell’Università del Quebec, hanno tenuto aperta una sede di lavoro
teorico-politico spinato al marxismo critico rivoluzionario. La lettera è datata 15
aprile 1985, e si riferisce in particolare al risultati del convegno del novembre
1984 sui movimenti autonomi della classe operaia contro lo Stato. I Paragrafi
1, 2, 3, 4, 5, della Parte III sono stati rispettivamente pubblicati: <<
Erkenntnistheorie >>, con il medesimo titolo, in << Metropoli >>, n 5, anno III,
Roma, giugno 1981, pp. 50-53 (il saggio porta comunque la data 25 aprile
1981); << La potenza sociale del lavoro >> come nota introduttiva alla
riedizione di << Classe Operaia >>, Collettivo Libri Rossi/Area Milano, 1980
(la nota porta la data << agosto 1979 >>); << Per un nuovo schematismo della
ragione >> é apparso, in francese, con il titolo << A’ propos de Logos et théorie
des catastrophes de Jean Petitot >> in << Babylone >>, n 4, Printemps-Ete
1985, UGE 10/18, avril 1985, Paris, pp. 219-227; << Sull’orlo dell’essere >>, è
apparso in << Alfabeta >>, n. 41, ottobre 1982, pp.21-22; << L’istituzione
logica del collettivo >> è stato pubblicato in << Aut aut >>, n. 197-198,
settembre - dicembre 1983, pp. 133-142. Ai direttori ed ai redattori delle riviste
che ne hanno concesso a nuova pubblicazione, va il mio ringraziamenti.

18
PARTE II
Prolegomeni di un’ontologia della sovversione
Introduzione
La rivoluzione come preambolo
Ho tra le mani un piccolo libro, recentemente pubblicato da Suhrkamp,
intitolato Mythologie der Vernunft. Hegels ältestes Systemprogramm des
deutschen Idealismus (1). Esso raccoglie, oltre al testo e ad un’introduzione
critica dei curatori, gli articoli che a questo piccolo e fondamentale scritto sono
stati dedicati da Franz Rosenzweig, Otto Pögler, Dieter Heinrich, Annemarie
Gethmann-Siefert. I curatori sono Christoph Jamme e Helmut Schneider. Non
voglio entrare nella polemica sulla paternità del testo e fare un’ennesima
congettura - se ne sia Hegel o Schelling o Hölderlin l’autore - tanto più che
anch’io non sono in difetto in proposito, avendo studiato il problema nei miei
primissimi esercizi filosofici (1958: sul giovane Hegel (2) e 1959: sulla
storiografia (3) di Wilhelm Dilthey e della sua scuola) e poiché non mi sembra
di poter rinunciare, sulla questione dell’attribuzione, alle conclusioni di
Rosenzweig. Voglio solo riprendere questo << antichissimo >> testo come
origine e farci attorno qualche considerazione.
Leggo qualche passo (in una mia libera traduzione) (4): << Un’etica. Poiché
l’intera metafisica si concluderà nella morale - cosa della quale Kant con i suoi
due postulati pratici ha solo dato un esempio senza ciò nulla esaurire - così
quest’etica non sarà altro che un sistema completo di tutte le idee, ovvero, che è
la medesima cosa, di tutti i postulati pratici. La prima idea è naturalmente la
rappresentazione dell’io stesso, come di un’assoluta libera essenza. Con la
libera, autocosciente essenza nel medesimo tempo vien [sic] fuori un mondo
intero, dal nulla - l’unica vera e concepibile creazione dal nulla. - Io vorrei qui
entrare nel campo della fisica, il problema è questo: come dev’essere costruito
un mondo per un essere morale? Potrei così dar nuove ali alla nostra scienza
fisica che avanza tanto lentamente attraverso esperimenti. Dalla natura vengo
dunque all’opera umana. Innanzitutto l’idea di umanità - io voglio mostrare che
non si dà alcuna idea di Stato, poiché lo Stato è qualcosa di meccanico, e non si
dà idea di una macchina. Soltanto quello che è oggetto della libertà, questo si
chiama idea. Noi dobbiamo dunque andar oltre lo Stato! Poiché ogni Stato deve
trattare l’uomo come un ingranaggio meccanico; è appunto ciò che non si deve;
quindi lo Stato dev’essere tolto. Consegue da ciò che qui tutte le idee di pace
perpetua ecc. non sono altro che idee subordinate ad un’idea superiore. Vorrei
nei medesimo tempo fondare principi di una storia dell’umanità e nel medesimo
tempo mettere a nudo tutta la miserabile determinazione dello Stato, della
costituzione, del governo, della legislazione. Vengono infine le idee di un

19
mondo morale, la divinità, l’immortalità - rovesciamento dell’incredulità che è
conseguenza del clericalismo - esso finge ora di usare la ragione, - bene, questo
rovesciamento l’attueremo attraverso la ragione stessa. - Libertà assoluta per
tutti gli spiriti che in sé portano il mondo intellettuale, che non debbono cercare
né Dio né l’immortalità fuori di se stessi. In ultimo luogo l’idea che tutte le altre
idee unifica, quella di bellezza...>>
Questo testo mi ha sempre sconvolto.
Potrei dire che tutta la prima fase del mio lavoro filosofico maturo (negli anni
Sessanta: dallo studio sul formalismo dei giuristi kantiani (5) fino alla
traduzione ed al commento degli scritti di Hegel del 1802-1803 (6), dagli studi
sulla macchina dello Stato (7) alle parallele ricerche sul cartesianismo
nell’ideologia politica e statuale (8) - che questa prima fase matura di lavoro
filosofico non sia stata dunque altro che una riflessione sull’attualità di questi
temi: riprendendone la fortissima valenza critica, e cioè guardando come
l’opera umana della libertà venga resa meccanica e ridotta al nulla dai grandi
poteri che le si oppongono la natura produttiva e lo Stato.
Ma debbo subito aggiungere che nei miei studi di allora, solo sulle sfondo
resisteva il senso costruttivo di queste tematiche critiche, e cioè il tentativo di
identificare che cosa potesse oggi essere una nuova mitologia della ragione,
della libertà, un’estetica trascendentale che non fosse chiusa nelle maglie di una
mediazione coatta. Quest’ultimo infatti era stato l’esito che quell’ <<
antichissimo programma >> aveva subito nello sviluppo della filosofia di
Schelling e di Hegel. Di questo destino Hölderlin era impazzito. Noi lo
rifiutavamo ma eravamo incapaci di liberarcene. Anche il marxismo era afflitto
da questa malattia, inglobato nell’analitico specchio del potere. Quanto agli
autori degli anni Venti e Trenta tedeschi, che soprattutti allora frequentavo: da
Walter Benjamin a Theodor W. Adorno, da Ernst Bloch e Georg Lukacs - bene,
per loro avvertire la crisi era un’esasperata dichiarazione di impotenza. Il
cosiddetto pensiero della crisi, che tanta auge ha ora in Italia e altrove, noi
allora interamente lo vivemmo (9).
Ma ritorniamo al frammento programmatico. La copia hegeliana è dell’inizio
dell’estate del 1796. La grande Rivoluzione sta giungendo all’apogeo del suo
sviluppo. Ora, nelle pagine del frammento, essa è il presupposto del sapere. Se
la libertà umana è il fondamento, il sapere non può presentarsi che come etica e
come costituzione. Giorgio Agamben, uno dei pochissimi filosofi italiani in
questa stanca epoca, ha di recente nuovamente sottolineato questa verità (10).
Come ha potuto allora, questa grande rivoluzionaria rifondazione, essere così
brutalmente tradita? Come ha potuto, alla base della nostra cultura filosofica, la
dialettica dell’idealismo tedesco, ripetere il gioco dagli atroci risvolti di una

20
Dialektik der Aufklärung? Perché l’immediatezza di una nuova e potente
estetica trascendentale, anziché svolgersi verso la sfera dell’immaginazione
vera, è stata sottoposta alla mediazione dell’analitica trascendentale, a questa
artificiosa prigione del desiderio di costituzione?
Leggo le Lezioni sulla fenomenologia dello spirito di Hegel tenute da Martin
Heidegger (11). Vi sento, magistralmente interpretata, non una risposta alla
questione bensì un’apologia di questo risultato. Heidegger mi offre il senso
presente di un’ottusa analitica dello spirito, della storia e della libertà - che è
divenuta impotenza dell’immaginazione e del corpo. L’effettivitá storica di
questa comprensione aumenta il disagio a fronte della tragica consonanza con la
quale l’autore l’accompagna.
Leggo Michael Theunissen, Sein und Schein. Die kritische Funktion der
hegelschen Logik (12). Siamo qui fra gli epigoni della francofortese filosofia
critica. Non v’è qui più alcuna illusione che l’analitica e la logica dialettiche
possano riempirsi di contenuti di verità. V’è tuttavia, in questa recentissima e
sofisticata operazione sulla dialettica hegeliana, a speranza che il negativo
logico possa almeno continuare a rappresentare un’allusione, un’allegoria
dell’essere e fondare perciò qualche formale orizzonte di significatività.
Funzione ontologica del negativo, del differente, nella logica? No, non è
possibile.
Se ho citato questi volumi, non è perché occasionalmente (non potendo, in
questo periodo, frequentare se non episodicamente le biblioteche) me li sono
trovati fra le mani. L’occasione non ne toglie il valore di indice generale.
Ebbene, qui, emblematicamente, il sogno dell’unificazione logica del sapere e
l’hegeliana Darstellung di una logica dell’essere si mostrano e sono offerti
come radice dell’errore. In verità, dopo la rivoluzione, non è l’essere che si è
appropriato della logica bensì è la logica che si è appropriata dell’essere. Con
Hegel la logica è divenuta la matrice dell’ideologia ed un’analitica stringente si
è opposta all’estetica trascendentale della libertà. Lo spazio dell’estetica
trascendentale è stato ridotto, nel migliore dei casi, a misure fenomenologiche.
Il rapporto costitutivo fra estetica e dialettica trascendentale
dell’immaginazione vera è stato costrittivamente attraversato da un’analitica, da
un’epistemologia, asfissianti ed onnicomprensive. Il più antico programma
dell’idealismo tedesco è divenuto il suo rovescio - e noi viviamo questa
tragedia.
Quando la filosofia contemporanea avverte questo esito diviene impotente.
La caduta della dialettica, nella sua figura hegeliana, sembra comportare la
rovina di ogni possibilità di costruzione.

21
Così, nei momento nel quale la tragedia della ragione dialettica diviene
storica e la ragione meccanica raggiunge l’apice della sua espressione
determinata, realizzando completamente, fra Auschwitz e Hiroshima, il rovescio
dell’antico programma di libertà dell’idealismo tedesco ed insieme mostrando
l’efficacia distruttiva del decorso storico della dialettica, la filosofia si sente
sull’orlo estremo dell’essere. Un orlo di distruzione, ove soffia e risucchia il
vento del vuoto, - e l’orrore è moltiplicato.
La favola della filosofia non può tuttavia aver fine. Questo nostro essere
sull’orlo dell’essere ci rivela non solo la disperata effettualità della crisi del
sistema del valore - ci pone anche di fronte alla genealogia di questa crisi e ci
colloca, attraverso questa scoperta, sul solo terreno sul quale l’intelligenza
riflette su se stessa. Viviamo un’età barocca: non la meraviglia o l’ammirazione
ma il terrore sono alla base del risveglio alla filosofia. L’orrore della distruzione
ci incolla al corpo, alla sensibilità, alla vita - alla necessità di una riflessione
intelligente. L’orlo dell’essere ci obbliga al cuore dell’essere, ci stringe su quel
punto sul quale una estetica della libertà può nuovamente coniugarsi con una
dialettica dell’immaginazione produttiva.
<< Un’etica >>.
Con forza di anticipazione e capacità di raccogliere l’anomalia di una
straordinaria condizione storica, Spinoza ci ha indicato questo cammino. Di
nuovo qui posso ripercorrere la mia esperienza filosofica e i miei scritti degli
anni settanta - una seconda fase del mio pensiero. Ora, fino a quando non ho
incontrato Spinoza (13), se mi era chiara la necessità di rompere la
subordinazione della volontà di valorizzazione dei soggetti alla meccanica della
ragione analitica, non me è stato mai chiaro che a questo scopo andava
interrotto il circolo vizioso delle omologie analitiche che continuamente si
determinavano quando dall’esperienza soggettiva si passava all’oggettiva - e
viceversa. Nel migliore dei casi, quando si scioglieva, lo spirito di sistema
liberava (in polemica con l’analitica) volontà anarchica; viceversa, lo spirito
anarchico resolve, alla maniera di un surrealista progetto, alla volontà di
sistema. Nello schema filosofico tradizionale che subivo, la critica indicava la
trascendenza del valore anziché assumere la possibilità radicale di sviluppare la
potenza ontologica del soggetto. In tutti i miei scritti degli anni settanta (14),
che apparivano come scritti politici ma erano essenzialmente scritti di metodo,
mi sono mosso in questo circolo vizioso. E’ il circolo vizioso di un
atteggiamento dialettico che rifiutavo ma non riuscivo ad evitare - anche nei
momenti di più fervida rivendicazione del vero materialismo marxiano (15).
Dall’autovalorizzazione dei soggetti all’autorganizzazione del partito, si diceva,
dalla ricchezza cosciente della spontaneità all’autodeterminazione dei soggetti,

22
al politico - e poi al comunismo (16). E’ sbagliato. Dentro questa trafila
l’autodeterminazione diviene trascendenza. E’ trasfigurazione analitica della
pratica del valore, è surretizio recupero della mistificazione trascendentale della
ragione meccanica. No, l’autodeterminazione viene prima, è il preambolo.
L’etica nasce dalla rivoluzione come preambolo. Il comunismo viene prima,
come pratica.
Non solo Schelling, Hölderlin, Hegel hanno conosciuto la rivoluzione come
preambolo: anche noi abbiamo piantato i nostri alberi della libertà. Fra il 1917 e
il 1968 lo sviluppo pauroso dell’analitica della ragione ha avuto come
corrispettivi il gioioso liberarsi di un’estetica della libertà ed un’immaginazione
vera. Di nuovo una mitologia della ragione si è presentata come possibilità
filosofica. Di nuovo, di contro, contemporanei, il tradimento, il pentimento e
l’analitico sistema del terrore hanno schiacciato questa possibilità. Ma questo
nostro destino è troppo feroce e le sue componenti troppo esasperate perché noi
possiamo ancora illuderci. L’analitica ha immediatamente il volto della morte. A
queste condizioni, l’estetica della libertà ha l’immediata robustezza ontologica
dell’esistenza del corpo. Una nuova mitologia della ragione, un’ontologia
dell’etica, della sensibilità, del corpo: non è possibile spostarle. Sono condizioni
di esistenza.
Troppi << nuovi credenti >> (come li chiamava Leopardi), troppe anime
pallide, ricercano nella trascendenza la via d’uscita da questa tragedia
nell’essere. << Asylum ignorantiae! >>. No, davvero questa forma dell’andar
oltre il terrore analitico ha la figura del salto mortale. Già nella Germania degli
anni Venti e Trenta, in questa comunque straordinaria vicenda culturale, questa
via non significò evitare la catastrofe ma annunciarla. Un pensiero
autodistruttivo. L’<< angelus novus >> non intendeva la rivoluzione come
preambolo bensì come soluzione delle aporie analitiche della ragione. Non
come condizione e Umwelt bensì come sviluppo ed Aufhebung. Il passaggio
dall’estetica alla dialettica dell’immaginazione fingeva così 1 superamento
dell’analitica, in realtà ne subiva il dominio e di conseguenza scartava l’estetica
come fondazione. L’Angelus novus non svolgeva l’estetica in liberazione ma la
traduceva piuttosto nell’idea della redenzione. Erlösung - ci dice quello stesso
Rosenzweig (17) che pure ci aveva restituito il Systemprogramm, quando,
alcuni anni più tardi, non resiste alla potenza della morte che vede prendersi i
suoi compagni nelle trincee della Bielorussia.
Tutti noi abbiamo visto in questi anni la morte sedersi alla nostra tavola.
Eppure non è questa, di Rosenzweig, la via per vincere la morte. Rosenzweig
ripete il terrore analitico nel soffrirne i disperati effetti. Come invece rompere
l’implacabile circolarità analitica e dare significato all’esistenza, a fronte del

23
senso nullificante che in essa l’analitica mette in moto? Come proporre, nelle
maglie del capitalismo maturo e della sua analitica, la rivendicazione di una
nuova dialettica trascendentale dell’illusione vera? Come sviluppare il
preambolo rivoluzionario di un’estetica della libertà verso la costituzione del
reale? Rispondere a questi interrogativi, operare in questo senso, è oggi
ricostruire un’etica.
La rivoluzione come preambolo, il senso della grande trasformazione in corso
e della tragedia incombente - come contenuto elementare dell’estetica: che cosa
significa questo? Se, sull’orlo dell’essere, tutto può essere distrutto, tutto può
essere anche costruito: il contenuto dell’estetica è un paradosso metafisico
trasformato, attraverso le dimensioni delle possibilità, in paradosso pratico.
L’essere è, il non-essere non è: recita l’antico adagio. Ma oggi l’essere può non
essere. La possibilità della non esistenza, come competenza del soggetto, è una
nuova attribuzione dell’analitica. Ma questo essere, divenuto assoluta
contingenza, è possibilità di nuovo essere. La costituzione soggettiva filtra la
possibilità di costituzione ontologica e radica [sic] quest’ultima nell’estetica
trascendentale. L’analitica ci ha restituito il mondo come assoluta contingenza:
con ciò si fonda la radicale possibilità dell’innovazione alternativa. Il contenuto
assoluto della verità, posto dall’analitica come trascendenza sull’estetica,
risorge invece dal basso - non è una richiesta di altro e d’assoluto bensì un altro
e un assoluto che vivono prima.
Un’etica, dunque, una costituzione della libertà. Il cammino che sale
dall’immediatezza estetica della rivoluzione già data, posta come preambolo,
su, fino alla dialettica dell’immaginazione vera - è questo il cammino che
dobbiamo percorrere attraverso etica e costituzione, costituendo un’etica.
Imponendo all’ontologia un’etica. Rovesciando così il processo che ci ha
sempre portati fuori dalle dimensioni etiche dell’essere trasformato e ha
sottoposto questo al dominio dell’analitica. Non può più essere concesso che la
logica sia la matrice dell’ontologia e che l’etica si trovi di conseguenza relegata
sull’orizzonte della trascendenza, gioia delle anime belle e preda del cinismo.
Ancora dal Systemprogramm << Nel medesimo tempo noi sentiamo sovente
dire che le masse hanno bisogno di una religione sensibile. Non solamente le
grandi masse, anche il filosofo ne ha bisogno. Monoteismo della ragione e del
cuore, politeismo dell immaginazione e dell’arte, questo è ciò di cui noi
abbiamo bisogno! Parlerò quindi d’un’idea che, per quanto ne so, mai è venuta
alto spirito di nessuno, non ancora almeno - noi dobbiamo avere una nuova
mitologia, ma questa mitologia deve stare al servizio delle idee - essa deve
divenire una mitologia della ragione >>.
Commentiamo questo brano. Oggi, l’unificazione logica dell’umanità ci si

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propone nuovamente con conseguenze disastrose. L’insignificanza dei linguaggi
e la guerra sono divenuti l’orizzonte dell’esistere: hobbesianamente solo il
dominio ci propone possibilità di esistenza. Quale è la nostra miseria! Le
differenze fra gli uomini sono organizzate sulla gerarchia del dominio. La
grande macchina della rappresentazione logica del reale si è formalizzata e
toglie la vita agli uomini, proiettandola nell’insignificanza e spingendola
sull’orlo della distruzione assoluta (18). Come distruggere questa
ristrutturazione analitica della ragione e proporre invece alla ragione un altro,
diverso, umano orizzonte - una mitologia della ragione, un’estetica
dell’immediatezza ragionevole?
Ho percorso l’orizzonte della guerra armato di una mitologia della ragione, di
una religione sensibile, perciò di quell’orrore non ho subito il dominio. Ora è
per me il momento di riaprire, attraverso la più radicale critica dell’analitica, il
canale di scorrimento fra la resistenza all’orrore e l’immaginazione sensibile
della libertà. Entro in una terza fase del mio lavoro filosofico (19).
Il misticismo di Wittgenstein e l’ascetismo dell’ultimo Husserl ci hanno
mostrato il grande quadro dell’essere ormai spostato sulla linea della più
assoluta Sinnlosigkeit del significante. Il post-moderno e le ideologie
sistemiche hanno accolto e sviluppato in maniera apologetica quest’apprensione
del mondo - senza il dolore che, in casi simili, è proprio della grande filosofia.
Questo morto mondo può essere rotto dal lavoro vivo, dall’immaginazione vera
del soggetto, da un’etica ragionevole dell’immediatezza. La possibilità del mito
è interna alla contingenza feroce di questo mondo, al suo affacciarsi sull’orlo
della distruzione. Solo l’etica può rappresentare la possibilità di una ontologia,
di una filosofia dell’essere vero.
Un’etica? Sì. Una politica.

NOTE INTRODUZIONE
1) Mythologie der Vernunft. Hegels << ältestes >> Systemprogramm des deutschen ldealismus.
hrsg. von C Jamme und H Schneider. Suhrkamp, Frankfurt, 1984.
2) Antonio Negri, Stato e diritto nel giovane Hegel. Studio sulla genesi illuministica della
filosofia giuridica e politica di Hegel, Padova, CEDAM, 1958, pp. 288.
3) Antonio Negri, Saggi sullo storicismo tedesco. Dilthey e Meinecke, Feltrinelli, Milano, 1959,
pp. 303.
4) Cfr comunque anche la traduzione di P Naville in Hölderlin, Oeuvres, Gallimard, Paris, 1967,
pp. 1157-1158.
5) Antonio Negri? Alle origini del formalismo giuridico. Studio sul problema della forma in Kant
e nei giuristi kantiani fra il 1789 e il 1802, Padova, CEDAM, 1962, pp. 400.
6) G W F Hegel, Scritti di filosofia del diritto (1802-1803), traduzione e introduzione di Antonio

25
Negri, Laterza, Bari, 1962.
7) Antonio Negri, La forma Stato. Per la critica dell’economia politica della costituzione,
Feltrinelli, Milano, 1977, pp. 345; Scienze politiche 1 (Stato e politica), << Enciclopedia Feltrinelli-
Fischer >> n. 27, a cura di Antonio Negri, Feltrinelli, Milano, 1970.
8) Antonio Negri, Descartes politico o della ragionevole ideologia, Feltrinelli, Milano, 1970, pp.
212,
9) Antonio Negri, Studi su Max Weber (1956-1965), in << Annuario bibliografico di filosofia del
diritto >>, Giuffrè, Milano, 1967; Antonio Negri, La filosofia tedesca del Novecento, in << Storia
della filosofia >>, diretta da Mario Dal Prà. Volume X, << La filosofia contemporanea: il
Novecento >>, Vallardi, Milano, 1978.
10) Giorgio Agamben, Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Einaudi,
Torino, 1982.
11) Martin Heidegger, La << Phénoménologie de l’esprit >> de Hegel, Gallimard, Paris, 1984.
12) Michael Theunissen, Sein und Schein. Die kritisce Funktion der hegelschen Logik,
Suhrkamp, Frankfurt, 1980.
13) Antonio Negri, L’anomalia selvaggia. Potenza e potere in Baruch Spinoza, Feltrinelli,
Milano, 1981, pp. 300.
14) Antonio Negri, Operai e Stato, Lotte operaie e riforma dello Stato capitalistico tra
Rivoluzione d’Ottobre e New Deal, Feltrinelli, Milano, 1972; Antonio Negri, Crisi dello Stato
piano, Feltrinelli, Milano, 1974; Antonio Negri, Crisi e organizzazione operaia, Feltrinelli, Milano,
1974; Antonio Negri, Proletari e Stato, Feltrinelli, Milano, 1976; A Negri, La fabbrica della
strategia. 33 lezioni su Lenin, Area ed, Milano, 1977, pp. 224; A Negri, Il dominio e il sabotaggio.
Sul metodo marxista della trasformazione sociale, Feltrinelli, Milano, 1978; A Negri, Dall’operaio
massa all’operaio sociale, Multhipla ed, Milano, 1979, pp. 176.
15) Antonio Negri, Marx oltre Marx. Quaderno di lavoro sui Grundrisse, Feltrinelli, Milano,
1979.
16) Antonio Negri, Il comunismo e la guerra, Feltrinelli, Milano, 1980.
17) Franz Rosenzweig, L’Etoile de la Rédemption, Le Seuil, Paris, 1981.
18) Antonio Negri, Macchina-tempo. Rompicapi, liberazione, costituzione, Feltrinelli, Milano,
1982.
19) Antonio Negri, Pipe-line, Lettere da Rebibbia, Einaudi, Torino, 1983.

26
Capitolo Primo.
<< No future >>, ossia sull’essenza etica dell’epistemologia.
1. L’indifferenza dell’universo della comunicazione.
Ci sono tre elementi che caratterizzano l’orizzonte metafisico della nostra
epoca. Il primo dato è che viviamo in un mondo nel quale solo l’immagine
traduce l’esperienza. Ogni autonomo momento di produzione, ogni rapporto dal
senso della proposizione al significato reale dell’evento, ogni trascendimento
del contesto della comunicazione appaiono impossibili. La logica si muove su
questo terreno: perciò non riesce mai a farsi epistemologia, senso e significato
del nostro linguaggio sono irrimediabilmente separati. A partire da questa prima
constatazione vengono molte conseguenze: in primo luogo sembra chiaro che di
questa situazione linguistica non possiamo neppure parlare - ci siamo dentro, e
qualsiasi tentativo di cogliere un riferimento reale non è altro che un
trascendimento. Questa logica è autoreferenziale - meglio, è tautologica. Certo,
il complesso delle proposizioni che descrivono la vita non può immediatamente
essere riportato alla tautologia, - per la semplice ragione che la tautologia non
può ricoprire la complessità. Ma è anche vero che la tautologia è il minimo
comune denominatore di questo universo, che un’immaginaria riduzione ad
elementi semplici degli insiemi linguistici non potrebbe che mostrare la
tautologia come chiave di tutto l’universo logico. Ma allora come funziona
(perché malgrado tutto funziona) questo nostro universo logico, questa nostra
vita organizzata da giudizi e da inferenze logiche?
Vi è un secondo elemento che è assolutamente fondamentale ritenere, ed è
che questo universo linguistico, logico, che non possiede verità ma
semplicemente movimento, - dunque, questo universo logico, è anche un
universo produttivo. Esso comprende, nel momento stesso nel quale fissa delle
relazioni di comunicazione, parametri sociali, strutture e figure, socialmente
efficaci a rendere valido il linguaggio. Si tratta di veri e propri rapporti di
produzione: il linguaggio infatti traduce nella sua propria struttura quella
gerarchia che è alla alla riproduzione della società. Dentro questa circolazione
permanente di flussi linguistici, di immagini che precedono il reale, di un reale
che è incarnato dalla forza della comunicazione, la produzione del mondo si
ripete in maniera continua. E’ qui chiaro lo sviluppo dell’intuizione marxiana
del completarsi del capitalismo nella fase della sussunzione reale. Vale a dire
che ogni elemento dello sviluppo sociale è qui compreso ormai nella totalità
della circolazione delle merci: questa comprensione rende evidentemente
produttiva tutta la società, ma nello stesso momento in cui opera in questo
senso, toglie la specificità del produrre, la oblitera espandendola in ogni
direzione, la rende eguale a tutto ciò che esiste. Il paradosso è solo formale:

27
sostanzialmente il suo significato è che tutto ciò che esiste è capitalisticamente
produttivo, - vale a dire non semplicemente produttivo, ma produttivo dentro
una determinata relazione di sfruttamento.
La sfera linguistica nasconde la totalità del processo produttivo, meglio,
l’assume per distruggerne le caratteristiche antagonistiche. E’ un fatto che
quando tutto è produttivo non può esistere un criterio assoluto di misura - la
misura cade, e con ciò cade anche ogni rapporto reale tra sfera della
comunicazione e sfera della produzione. Ma se la sfera della produzione é
completamente implicita nella sfera della comunicazione - come articolare il
rapporto, come descriverlo, come dominarlo? Si conosce la risposta: è la
moneta: quella merce universale che deve valere per queste funzioni. Ma è ben
vero che per la moneta può essere detto esattamente quello che si è detto più in
generale per il linguaggio. Con la moneta chiamo gli oggetti in maniera diversa,
do loro un nome che è un prezzo - ma tutto ciò subisce la stessa circolazione
insensata che è propria del linguaggio ed ormai nessuno può dire della moneta
che i suoi nomi corrispondano, meglio fissino un reale. Forse è solo la forza che
discrimina e rende ricchi: antica banalità, al di là della quale resta la necessità di
comprendere.
Siamo dunque dentro un universo di sensi molteplici, ma sempre circolanti e
tendenti all’unità linguistica (ed alla nullità epistemologica) della tautologia.
Quest’universo registra la crisi della comprensione del rapporto fra senso e
significato, fra nome e cosa, tra società e produzione. Ma questa crisi è dentro
lo stesso orizzonte, lo stesso livello della circolazione. Ne viene, con la caduta
di ogni parametro di confronto, di misura, un regno di indifferenza.
L’indifferenza è la tendenza. Quanto più questo mondo si sviluppa, quanto più
si matura e si perfeziona, tanto più esso diviene indifferente. Noi immaginiamo
per questo mondo un’intercomunicabilità totale - ma laddove non esiste criterio
di misura, riferimento oggettivo, ivi la comunicazione è caotica - meglio, è
appunto indifferente. Ogni determinazione viene meno, ogni capacità di
riferimento reale è annullata.
Io ritengo che questi siano il termine e l’esaurirsi necessari del pensiero
occidentale, da quando e perché esso ha scelto di privilegiare l’orizzonte del
Logos, cioè l’orizzonte del comando, e di assumerlo a proprio esclusivo
fondamento. Noi abbiamo bisogno di liberarci da tutto questo, da questo
sviluppo del pensiero che non è stato altro che una trascrizione mistificata dello
sviluppo del rapporti di sfruttamento. La ragione ha costruito la sua analitica,
dentro la quale lo studio dell’esperienza ed il riferimento al reale sono stati di
volta in volta depurati o distrutti. La logica ha finto di eliminare ogni finzione
estranea alla specificità del suo proprio cammino. Ma con ciò si è isolata dalla

28
vita - meglio, è servita a mistificare il senso della vita. Qui ora ci ritroviamo
dinnanzi ad una spaventosa crisi di questo cammino. L’analitica trascendentale
della vita ha fatto cilecca, è entrata in crisi, talora s’è fatta prendere da eccessi
paranoici. Come porre, dentro le condizioni di questa crisi - non al di fuori, non
al di là di questa crisi ma, lo ripeto, dentro questa crisi - come porre le
condizioni di una riconquista dell’esperienza? E’ inutile qui ricordare come
Kant abbia posto con forza questo medesimo problema, per la prima volta nel
corso dello sviluppo del pensiero occidentale: quali sono le condizioni di
pensabilità dell’esistente, qual’è la forma nella quale il mondo della vita può
essere percepito? E’ inutile anche ricordare che in Kant erano presenti, come
sempre nella grandezza degli inizi, le varie risposte che a questo interrogativo
potevano essere date ma è certamente vero che la via fondamentale percorsa, in
Kant e nei suoi seguaci, fu quella dell’<< analitica trascendentale >>.
L’analitica si pose come schermo forte e determinante fra << estetica >> e <<
dialettica trascendentali >> - mentre la prima fu man mano ridotta a mostrarsi
non come esperienza irriducibile ma come contenuto dell’analitica, la dialettica
trascendentale venne essa stessa costretta a progettarsi sugli schemi
dell’analitica. Oggi abbiamo il risultato di questo processo. Un risultato che, in
una specie di parallelismo, registra l’equivalenza del processo reale: una sfera
analitica della conoscenza che si è fatta sfera astratta della comunicazione e, in
parallelo, un modo produttivo divenuto sempre più comunicativo e informativo,
ma soprattutto autoreferenziale e tautologico. In ogni caso è indifferente il
riferimento al reale: l’estetica trascendentale è negata.
Un terzo elemento è caratteristico della nostra percezione del mondo, oltre a
quelli già detti, della percezione comunicativa e della consapevolezza della
sussunzione produttiva. Questo terzo elemento è proprio dell’esperienza che
conduciamo dentro questi livelli critici. Vale a dire che se l’indifferenza è la
caratteristica della situazione, se la tautologia è la chiave di volta del sistema
comunicativo, pure tutto questo non può funzionare quando emergono su questi
terreni i problemi della scelta e della decisione etiche. Vale a dire che lo posso
ben muovermi nella pura circolarità delle esperienze che mi sono proposte fino
a quando non mi trovo dinnanzi alla necessità della scelta, vale a dire alla
necessità di mettere in atto le determinazioni del mio volere. Non è, questa, la
ripresa di una nota e prometeica rivendicazione dell’esistenza - stavo dicendo
rivendicazione << esistenziale >> dell’esistenza! Non lo è perché qui questa
contraddizione non è una rottura, non è un << atto puro >> e cioè un’incisione
che riqualifica e dà senso all’indifferenza del contesto analitico questa
percezione è solo un arricchimento del quadro fin qui descritto. Vale a dire che
l’insensatezza del rapporto fra logica tautologica, comunicazione circolare e
contesto produttivo rivela, con l’indifferenza del rapporto, la precarietà del

29
rapporto stesso. Questo emergere della volontà che chiede senso per l’esistenza,
non concede, né forma il senso dell’esistenza. La volontà non è creativa - si
trova messa in scacco a fronte dell’indifferenza dei significati. Ma una cosa essa
rivela, ed è che la componente etica, pratica, materialmente determinata, corre
attraverso l’intero quadro dell’analisi e in nessun momento è possibile da questa
sganciarla. La società della comunicazione è dunque percorsa da un insieme di
rapporti di volontà che, se sono impliciti nella relazione che essa intrattiene con
la produzione, divengono espliciti quando l’esperienza pratica individuale viene
assunta entro l’analisi. Se di nuovo rileggiamo, anche a questo proposito, il
vecchio Marx, di nuovo troviamo un inizio di risposta - ed è, questo inizio,
legato alla definizione dell’esperienza stessa. Vale a dire che, come è
largamente chiarito dalle << Glosse su Feuerbach >>, il tessuto dell’esperienza
non è logico ma trasformativo. E’ quest’affermazione quella che qualifica il
materialismo dell’epoca moderna, su da Machiavelli, attraverso Spinoza, fino
appunto a Marx e ai grandi movimenti di trasformazione della società. Vale a
dire che il disorientamento che l’universo della comunicazione, portato a questo
piano di indifferenza, determina in noi, non riguarda semplicemente i momenti
logici dell’esperienza né quelli produttivi, ma coinvolge la complessità della
figura umana. Ed è evidente che non possa che essere così: poiché quella
mancanza di misura, quella mancanza di criterio che creano il disorientamento,
sono in effetti null’altro che indici della contingenza del rapporto nella sua
complessità, e cioè dell’esistenza intera. La tautologia logica è mancanza di
senso della vita. La mancanza di senso della vita è impossibilità di recuperare
un qualsiasi criterio di scelta, di direzione, di soddisfazione etica. Il tessuto
etico corre attraverso, e ricopre, l’intero mondo della comunicazione. In Marx
questa percezione della sostanziale eticità dell’esperienza del mondo è
continuamente presente. La caduta delle funzioni della << teoria/misura del
valore >> nella fase della sussunzione reale non comporta la caduta delle
caratterizzazioni di valore che l’intera esperienza umana, comunicativa come
produttiva, possiede.
Siamo così al centro della definizione di questo mondo dell’esperienza. In
esso si incrociano a globalità della produzione, l’insensatezza della
comunicazione e l’assoluta contingenza dell’agire. E’ questo cammino una
specie di crescere delle condizioni dentro le quali il nostro problema, e cioè il
problema del senso dell’esperienza, viene ponendosi. La mia tesi è che non sia
possibile ricostruire un’epistemologia (nel senso proprio di teoria della verità)
se non fondandola sul carattere etico dell’universo dell’esperienza. Le
condizioni di un’estetica trascendentale dell’esperienza, date le dimensioni del
mondo della vita che conosciamo, debbono dunque essere impiantate sul
tessuto etico. Non certo perché esse appaiono come elementi imprescindibili

30
dell’esperienza stessa (soprattutto se essa è riguardata dal punto di vista
individuale), ma perché è sul tessuto etico che la contingenza del mondo si
rivela tanto più forte quanto più le sue caratteristiche reali e la sua sussunzione
nella produzione si siano realizzate. Lo vedremo meglio avanzando nella
ricerca, ma fin d’ora possiamo dire che la contingenza etica ha, rispetto allo
sviluppo della nostra ricerca, la stessa importanza centrale che ha il dubbio
logico nell’esperienza Cartesian dei primordi della rivoluzione capitalistica.
Vale a dire che se l’insensatezza logica e la nullità epistemologica possono,
come tali, nel mondo della comunicazione, sviluppare una funzione di
mistificazione e perciò esistere, - il problema della contingenza del mondo
etico, intesa in termini assoluti, e cioè come possibilità o meno dell’esistenza
del mondo, bene, questo problema non può essere mistificato. Non è qui il
problema religioso o moralistico dell’<< essere-per-la-morte >> che porta al
centro dell’analisi: qui il problema è il fatto che la distruzione dell’essere è
divenuta possibile nella misura stessa nella quale l’universo produttivo è stato
sussunto nel capitale e l’universo linguistico è stato ridotto a comunicazione
indifferente. Fra queste operazioni di portata storica esiste un nesso profondo,
ed è a partire da esso che la contingenza generale dell’universo, questa
indifferenza etica dell’universo, saltano in primo piano. La radicale contingenza
dell’essere non è semplicemente possibilità di un punto catastrofico - è una
tendenza, è un’essenza, è un fluire che ha la stessa estensione della costruttività
umana dell’essere.
Tre elementi dunque, in questa crisi dell’epistemologia moderna, insieme
cause ed effetti di questa. Tre elementi che si incrociano e che si nutrono a
vicenda. Il problema sarà dunque quello di vedere quale sia il punto più debole
di questa crisi e come sia possibile definire, oltre le condizioni di un’estetica
trascendentale, di un’esperienza portata a questo livello di maturazione storica,
la fondazione di un progetto epistemologico globale. O semplicemente se sia
possibile muoversi in questa direzione.
2. Rompicapi dello spirito.
Se seguissimo una di quelle vie che si raccolgono nella grande categoria
filosofica del << ritorno a Kant >>, giunti a questo punto della nostra indagine
cercheremo comunque di forzare, dentro l’indifferenza nella quale si configura
il mondo della vita, le sue dimensioni, i suoi orizzonti - cercheremo cioè di
identificare limiti dell’indifferenza e di ricostruire le possibilità di un’analitica
trascendentale. Si badi bene: il fatto di escludere una fondazione logica
dell’epistemologia non toglie la possibilità di organizzare un’analitica critica
della ragion pratica. Nel momento più importante dello sviluppo del
neokantismo, Windelband e Rickert seguirono questa via contro la linea di

31
esasperazione del formalismo della ragion pura, perseguita da Cohen e Natorp.
No, qui si tratta di escludere comunque un progetto analitico, foss’anche
riguardoso della densità di caratterizzazioni etiche che il mondo della vita
rivela.
D’altra parte è proprio quando si approfondisce l’orizzonte dell’estetica
trascendentale, vale a dire il campo dell’esperienza, nel tentativo di produrre un
orizzonte interno di mediazione e/o di costituzione - è proprio allora che il
cammino dell’analitica si mostra impercorribile e che la ricerca si rivela
prigioniera di una serie di rompicapi insolubili. Per rompicapo intendo un limite
essenziale del linguaggio che uso, l’impossibilità di fondare il concetto che
esprimo e l’imbroglio di ogni processo di verifica cui io possa sottoporre il
rapporto linguaggio-concetto-realtà.
Ora, assumendo le caratteristiche del mondo della vita che abbiamo
sottolineato, tentando per ipotesi di costruire un’analitica trascendentale a
partire da quelle condizioni, mi trovo, davanti ad almeno tre rompicapi
fondamentali. Di nuovo insisto: non si tratta semplicemente di singoli punti del
ragionamento che emergono in forma contraddittoria bensì di contraddizioni
irresolubili che partecipano dell’intero meccanismo concettuale che regge ogni
tentativo di costruzione di un’analitica della ragione-logica logica o etica.
Guardiamo questi rompicapi uno per uno.
Il primo rompicapo è quello che si può chiamare del comando o della misura.
Esso può essere espresso in questi termini: quando mi trovo in un universo
completamente sussunto, quando rapporti che si stendono fra soggetti-oggetti di
questo universo, frazioni e produzioni, non posseggono misura possibile, allora
è solo una sovradeterminazione quella che può rendere senso, e un qualche
ordine, a questo universo. Ma, come abbiamo visto e come meglio vedremo
andando avanti, se è vero che a mancanza di misura di questo mondo esprime la
radicale contingenza di tutti gli elementi che lo compongono, se è vero che
questa equivalenza dei soggetti contingenti si riferisce all’estremo
apprezzamento dei limiti dell’essere, cioè alla scelta fra esistenza e non
esistenza collettiva, è chiaro che la sovradeterminazione non potrà darsi in
termini risolubili dentro un processo di verifica del senso logico (o etico) della
proposizione, e quindi verso una determinazione di significati reali. La
relazione di potere è qui dunque statica - allude e tende alla nullità.
Rivediamo il discorso da un altro punto di vista. Se l’orizzonte del mondo
della vita è completamente lineare, se ogni sovradeterminazione risulterà perciò
contraddittoria, può ben darsi che la relazione di potere possa essere definita in
termini appunto relazionali. Vale a dire che, come fanno i matematici che

32
tentano di definire la potenza naturale numerica come limite di serie
equipollenti, anche il concetto di potere - cioè la misura e la discriminazione
degli eventi sociali - potrebbe essere definito non come sovradeterminazione
ma come limite geometrico di serie, volontà, atti formalmente equipollenti. Tale
è ad esempio il meccanismo che conduce alla definizione della << Grundnorm
>> nel pensiero di Hans Kelsen. Più che di sovradeterminazione si dovrebbe in
questo caso allora parlare di << determinazione della determinazione >> - come
di un processo cumulativo che costituisce man mano un referente decisivo. Ma
anche questa ipotesi non regge il peso dell’assoluta contingenza. Certo, lo
schema aperto che sta alla base di questa definizione, ci aiuta a comprendere la
realtà del contesto etico nel quale ci muoviamo - ma esso non risolve il
rompicapo né può rendere efficace un concetto di potere a questo livello. Così
ci troviamo nell’assoluta impossibilità di definire cosa sia << l’uno >>
sull’orizzonte etico e nel quadro della sussunzione. E’ evidente che questo
imbroglio logico è profondo, tocca tutte le determinazioni del problema. E’
evidente che, riguardando il problema del comando dentro le prospettive della
sussunzione reale, ci troviamo nell’impossibilità non solo di risolvere questo
problema, ma addirittura di impostarlo.
Se il primo rompicapo riguarda il problema << dell’uno >>, ovvero il
problema del potere, il secondo rompicapo cui ci troviamo confrontati riguarda
il problema dell’<< altro >>, e cioè di tutto ciò che si oppone all’uno, della
moltitudine che si oppone al potere. Ora, nella tradizionale teoria costituzionale,
ed anche nella teoria economica, a differenza è che, come per i soggetti
costituenti nella teoria politica, il concetto di moltitudine è rotto — nella rozza
solidità dell’insieme che rappresenta - e i suoi materiali sono condotti a
medietà. Per medietà s’intende una dimensione di valore che unifica in termini
equipollenti le molte unità che costituiscono << l’ altro >> (che può essere
chiamato il popolo, la classe, la forza-lavoro… ). La forzatura che viene operata
per ridurre la molteplicità alla medietà, l’importanza che in questo caso assume
il concetto di valore (sia esso produttivo, etico o politico) hanno indubbiamente
un ruolo fondamentale nella riqualificazione dell’orizzonte del mondo della
vita. Non perciò tuttavia questo metodo risulta conclusivo. Infatti anche in
questo caso ci ritrova di fronte ad un imbroglio insolubile: la mediazione è qui
imposta nella forma di una sorta di sottodeterminazione del valore. Ma, non
diversamente da quanto avviene nella sovradeterminazione del potere, così
questa sottodeterminazione del valore si scontra radicalmente con la
contingenza dei soggetti. E la relazione non ha in tal modo la possibilità di
riportare il senso al significato.
Come nel caso del primo rompicapo, anche in questo caso abbiamo una

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forma subordinata di approccio al problema: neppure essa conduce, tuttavia,
alla soluzione del rompicapo medietà / moltitudine. In che cosa consiste questa
seconda redazione del problema? Consiste nel porre il rapporto fra le singole
soggettività non in termini di mediazione (di sottodeterminazione) bensì in
termini di composizione (di interdeterminazione). E chiaro qual’è il vantaggio
di questa posizione: essa sembra costruire il soggetto come cumulo di
determinazioni specifiche, l’analisi dei soggetti e il processo del loro unificarsi
son visti come un processo cumulativo di comportamenti, azioni, bisogni,
tradizioni... insomma come un insieme storico di determinazioni. E’ in questo
caso estremamente importante sottolineare l’utilità di questa impostazione: sulla
sua base una prassi ricompositiva è spesso data e molti dei valori di una cultura
democratica possono fondarsi su un apprezzamento siffatto, rispettoso delle
molteplicità come singoli. Ma, ciò detto, il rompicapo resta. Medietà e
moltitudine, anche in questo caso, si oppongono irriducibilmente e la
costituzione pratica di una dimensione comune, di un tempo comune, quando
non siano pura utopia, divengono mere illusioni.
Se ora, prima di trascorrere all’analisi del terzo rompicapo, guardiamo quanto
residua dalla definizione dei primi due, sembra che alcuni risultati importanti
siano stati definiti. Non solo quelli già segnalati (e cioè, sia attraverso il primo
che il secondo rompicapo, l’approfondimento della figura lineare dell’orizzonte
del mondo della vita) ma soprattutto la critica di ogni caratteristica
strutturalistica nella concezione del valore. Intendo dire che la teoria del valore,
la si assuma in maniera oggettivistica, oppure in maniera soggettivistica, la si
prenda dentro la prospettiva del comando oppure la si ricostruisca in termini di
composizione - comunque rappresenta una struttura rigida che impedisce un
processo di pensiero che rompe con l’analitica trascendentale. Per dirla
altrimenti: la teoria del valore, nelle sue diverse dimensioni e nelle sue
differenti applicazioni, è la forma più alla nella quale si presenti l’analitica
trascendentale. Ed è appunto da questo punto di vista, e dentro l’apprezzamento
di questi rompicapi, che noi cogliamo l’inadeguatezza di tutti i concetti che
comunque alle teorie del valore si riferiscono (e, fra questi, quello di dittatura e
di democrazia, quello di sviluppo e di crisi) - inadeguatezza di tutti questi
concetti ad esprimere la radicale contingenza dell’essere.
Il terzo rompicapo sta nel coniugare il rompicapo primo (o del comando) con
il rompicapo secondo (o vero della costituzione). Questo rompicapo può dirsi
[dirci] rompicapo della rivoluzione. Rivoluzione è la contraddizione che si apre
fra costituzione del comando e libertà della moltitudine. La soluzione di questo
rompicapo si è voluta spesso costruire sulla base dell’apprezzamento del
dinamismo particolare della rivoluzione. La rivoluzione, infatti, da un lato

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distrugge e comunque destruttura, dall’altro ricostruisce e comunque struttura:
si è cercato allora un soggetto dinamico di questo processo, un partito,
un’avanguardia, un principe, una classe rivoluzionaria... comunque un soggetto,
al quale riferire la continuità dei passaggi del processo, quasi questi ultimi
rappresentassero delle espressioni del suo spirito. E’ chiaro che questa
definizione è completamente ipostatica. Se il primo paradosso e il secondo sono
insolubili, tanto più lo è la coniugazione dei due. In questo caso, poi, troppo
spesso la crisi dei paradigmi ideali si è mostrata come tragedia storica. (Si tenga
presente che anche in questo caso esiste un approccio subordinato alla soluzione
del rompicapo - approccio che distende sull’orizzonte del mondo della vita, in
termini storici ed empirici, la descrizione dei processi eversivi. Questa seconda
figura, o forma attenuata della teoria della rivoluzione. mostra il processo come
<< dualismo dei poteri >> e cerca di definire la crescita di un soggetto come
prodotto di una regola puramente antagonista. E’ evidente che, anche in questo
caso, ci si trova di fronte ad una soluzione che è del tutto inadeguata: in effetti,
da questo punto di vista, dentro la rigidità della relazione, non è tanto
l’antagonismo che regola la crescita del potere rivoluzionario bensì quest’ultima
è comandata da una sorta di ricalco e di riflesso negativo del potere avverso. Il
potere rivoluzionario in questo caso finisce per essere complementare,
negativamente complementare, rispetto al potere sovrano, e la libertà del suo
sviluppo è solo apparente).
Ora, a me sembra che ogniqualvolta, a partire dall’esperienza, si tenta di
risalire e di definire delle categorie analitiche che strutturino l’andar oltre il
livello empirico ed i significati immediati del mondo della vita, - bene, in
ognuno di questi casi, si resta prigionieri nella rete dei rompicapi. Questo non
significa che il livello dell’esperienza non debba essere superato, questo non
significa che i grandi fenomeni della comunità umana, della sua organizzazione,
della sua rivoluzione, non debbano essere presi in conto anche secondo le leggi
generali che a questi universi presiedono. Quello che i rompicapi ci rivelano,
non conduce all’inesistenza dei fenomeni, mostra bensì l’impossibilità di una
loro spiegazione dal punto di vista della ragion pura. E non solo di astratta e
impotente spiegazione si tratta: quando ci si muove sulla base dell’egemonia e
dell’esclusività del Logos, si perviene piuttosto ad una serie di perversioni
pratiche - ad una coniugazione e moltiplicazione, cioè, dello sgorbio teorico con
la crudeltà etica. In questa forma, il primo dei rompicapi è il problema del
giacobinismo, il secondo dei rompicapi è la mistificazione del riformismo, il
terzo rompicapo rappresenta il paradosso del cinismo politico, ovvero del
machiavellismo.

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3. Terrore e contingenza.
Per contingenza intendo il fatto che l’essere possa essere e/o possa non essere
- effettivamente. Ovvero l’essere nella sua totalità. Il pensiero classico, nel
considerare la contingenza, non l’ha mai strappata al particolare. Le due coppie,
universale e particolare, necessario e contingente, stabilivano fra loro un
rapporto univoco. Il necessario con l’universale, il contingente con il
particolare. Qui noi viviamo in una situazione nella quale per a prima volta
l’essere intero può essere distrutto. L’universalità dell’essere può praticamente
essere messa in dubbio. L’essere può essere distrutto.
Se ora, a partire da questa prima immediata constatazione, ritorniamo a
quanto detto nei primi approcci di questo lavoro, possiamo cominciare a meglio
comprendere la specificità della condizione metafisica nella quale siamo
inseriti. Vale a dire che il massimo grado di astrazione dell’essere che abbiamo
registrato, e la sua indeterminatezza, si colorano qui di una determinazione
pratica che ne sconvolge interamente la definizione. Dal quadro generale,
astratto, indeterminato, indifferente, non può uscire una determinazione logica:
esce solo una determinazione etica. Perché quel quadro è appunto contingente, e
la contingenza è in questo caso vera e propria precarietà dell’essere, condizione
di negatività che in generale ed individualmente subiamo. Un tempo si diceva
che l’essere che la sua compiutezza che la sua fatticità non potevano essere
disfatte. L’essere insomma era il fondo stabile della nostra esistenza e tutto
all’essere poteva ritornare, così come dall’essere si era staccato. Ma ora l’essere
può essere disfatto. Questo disfacimento non è una legge fisica ma una
possibilità storica, - può essere la conseguenza di un atto. L’essere può essere
distrutto da un soggetto: non questa o quella porzione dell’essere, ma l’essere
intero, il mondo, il mondo della vita. Viviamo l’indifferenza e la massima
astrazione dell’essere, ma improvvisamente, come nella luce di un lampo,
intendiamo che quest’enormità dell’essere nel quale il nostro spirito si
confonde, può essere volontariamente distrutto. L’essere rivela dunque una
natura etica: esso, per esistere, è sottoposto alla volontà, alla soggettività,
all’etica.
Con ciò siamo davanti ad un’inversione epocale del senso umano della vita.
E chiaro che, se ci poniamo il problema di una analitica del conoscere e della
sua crisi, non possiamo più porcelo nei termini di una epistemologia
tradizionale. Poiché infatti l’oggetto stesso del nostro rapporto conoscitivo può
scomparire e comunque è sottoposto ad una congiuntura radicale che ne
impedisce un apprezzamento statico. Ogni apprensione del reale non può
dunque, in questo momento, che porsi su quel punto dove la volontà e la
conoscenza pratica percepiscono la possibilità dell’essere di essere e di non

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essere, di essere disfatto, ma anche e soprattutto di poter essere ricostruito. Ma
di questo più avanti.
Torniamo al filo del nostro discorso. Abbiamo inizialmente osservato la
generale indifferenza del quadro ontologico nel quale siamo inseriti. Abbiamo
poi identificato alcuni grossi rompicapi, che impediscono ogni nostra logica, in
termini tradizionali, da quell’indifferenza. Il problema della determinazione, il
problema scelta, il destino del conoscere filosofico, sono in dubbio dentro
quella situazione. Ora, noi avvertiamo che la massima astrazione dell’essere è la
sua totale, radicale, definitiva, resa alla contingenza: con ciò noi comprendiamo
l’essere come essere etico. Ma quando raggiungiamo questa coscienza, noi la
raggiungiamo dentro le articolazioni dei rompicapi analizzati. Se infatti
logicamente le alternative dell’uno e dei molti, della medietà e della
moltitudine, della potenza e del potere, non riescono ad essere logicamente
superate, pure esse per prime alludono ad un contesto etico nel quale ogni
processo fenomenologico si conclude: sicché la scoperta della contingenza
radicale è il coronamento di quelle prime annotazioni e il complemento formale
del loro presentarsi al nostro spirito.
Ma la scoperta della contingenza non è semplicemente una nuova chiave per
riuscire ad affermare che il processo conoscitivo deve muoversi, direttamente
dentro il piano dell’esistenza, non è solo a capacità di affermare in maniera
indistinguibile il rapporto fra mondo della scienza e mondo etico, e quindi di
ridefinire l’ontologia come ontologia dell’etico: tutto questo non basta, perché il
rapporto tra indifferenza del mondo, sua qualità etica e radicalità della
contingenza ci pone in una situazione assolutamente tragica e deve quindi
riqualificare in tal senso il nostro metodo.
Intendo dire che, attraverso a scoperta della contingenza noi poniamo in
termini radicali il problema del fondamento: ma di nuovo in maniera
completamente irriducibile alla tradizione, perché qui il fondamento non è il
punto a partire dal quale il mondo si spiega - al contrario, questo fondamento è
il punto a partire dal quale si dà il massimo allargarsi della dimensione della
possibilità. Una possibilità tragica, un’eventualità che la nostra ragione e il
nostro cuore non riescono talora a sopportare, - la distruzione, appunto
dell’essere, una morte tanto generalizzata da non possedere ripetizione, - la fine,
insomma, del tempo. Il fondamento non è quindi il più semplice degli elementi
nei quali possiamo scomporre il linguaggio etico e logico, quasi il seme da cui
sorgono gli alberi della vita: no, il fondamento è qui una cellula che può
scindersi nella vita e nella morte, l’elemento semplicissimo dell’affermazione,
della negazione, dell’essere e del non essere. Qui la dialettica non è evidente,
anzi, non ha davvero nulla a che fare con il reale. In effetti qui esiste una regola

37
esclusiva: o c’è l’essere o c’è il non essere. Tutta la logica tradizionale e tutta la
metafisica classica, entrambe basate sulla partecipazione e su una qualche
commistione dell’essere e del non essere, qui vengono meno. La dimensione
metafisica ci si presenta come dimensione antagonista, la crisi è l’assoluto.
Eccoci dunque a spiegare di nuovo come i rompicapi non siano altro che delle
superficiali modalità rispetto alla profonda essenza di un essere per la prima
volta portato alla potenza del non esistere. Nella fenomenologia del mondo
contemporaneo questa situazione metafisica ci è presentata come terrore. La
contingenza è il terrore. Vale a dire che la sovradeterminazione come linea di
soluzione del rompicapi, come analitica della ragione che si oppone alla
radicalità delle determinazioni empiriche, si presenta come terrore. La soluzione
trascendentale o formalistica dei rompicapi dell’esperienza e della contingenza
dell’essere è terroristica.
Non è la prima volta nella storia del pensiero occidentale che una situazione
di crisi, dinnanzi all’immediatezza dei contrasti dialettici ed all’impossibilità di
raggiungere altrimenti una sintesi, cerca una soluzione sovradeterminata dal
terrore. Le pagine del << Leviatano >> costituiscono un punto di riferimento
costante dell’esperienza metafisica. E quanto più la situazione diventa
indifferente, tanto più il mondo delle immagini che regolano l’esistenza degli
uomini è sottoposto a reazioni d’ordine, ad operazioni di semplificazione
esemplare e terroristica: il capro espiatorio, la sostituzione del reale con
l’immagine, la necessità metafisica del potere, queste favole vengono raccontate
da sempre e da sempre funzionano come terroristica medicina alle malattie
dell’umanità. Ma ora noi ci troviamo di fronte ad una determinazione del terrore
che non tocca il mondo delle immagini, ma investe quello reale. Non è un capro
espiatorio attraverso il quale, pur rudemente, l’essere possa essere risanato - non
è questo che ci viene preparato, non è la vecchia morale, la potenza del bene e
quella del male che accrescono o diminuiscono l’essere e che talora debbono
essere esemplificate << in corpore vili >> - non è qui in gioco una concezione
anche terroristica della pena come restaurazione dell’essere in riparazione di
una colpa che l’essere aveva offeso: niente di tutto questo, - qui il terrore tocca
la radice stessa dell’essere. Il terrore è tanto assoluto quanto è assoluta la
contingenza dell’essere. Il terrore non tocca il regno delle immagini,
dell’analitica, ma quello del reale, dei significati. Vige nel regno dell’estetica
trascendentale.
Come sono poveri tutti i tentativi di rinnovare i fasti idealistici dell’analitica
trascendentale in questa situazione! Si pensi al contrario a quel passaggio, già
da noi ricordato, a quel passaggio centrale nella storia del pensiero
contemporaneo, che è registrato nel << Primo abozzò di programma sistematico

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dell’idealismo tedesco >> il senso della crisi era inteso nella sua radicalità e si
voleva, a fronte della crisi dell’individuo e dei lumi, identificare il passaggio
che dall’estetica trascendentale potesse direttamente condurre ad una dialettica
dell’illusione vera. Ebbene, quel passaggio per quanto sproporzionato nelle
dimensioni nelle quali oggi la radicale contingenza dell’essere si presenta, pure
è anche oggi metodologicamente adeguato. Ed invece eccoci di fronte alla
ormai secolare storia dell’analitica plasmata in dialettica, eccoci alla ripetizione
di analitici stereotipi neokantiani su questo frangente, alle chiacchiere fra Hegel
e Heidegger, eccoci insomma di nuovo davanti alla apologia impotente della
Krisis!
La determinazione esistenziale che segue la scoperta della radicale
contingenza dell’essere ci si presenta ora con due caratteristiche. La prima
riguarda la posizione che l’analisi filosofica assume nell’affrontare il tema
dell’essere, la seconda riguarda la natura dell’essere. Ma sia la prima che la
seconda di queste caratteristiche sono legate, in maniera inscindibile,
nell’estetica trascendentale che qui viene definendosi. Vale a dire che non
sarebbe possibile concepire il restringersi della ragione al campo dell’estetica
trascendentale Se, contemporaneamente, la ragione non fosse enormemente
potenziata dall’apprezzamento concreto della nuova potenza metafisica, che è
appunto, insieme tragica ed etica. L’alternativa che l’essere presenta, nella sua
assolutezza, nella sua esclusività, implica la definizione pratica della ragione.
Questo senso della radicale contingenza dell’essere ci pone in una situazione
Cartesian, - non astratta tuttavia bensì eticamente motivata. Come è difficile
esprimere tutto questo nel vecchio linguaggio della filosofia: com’è difficile
dire dell’eticità dell’essere e di questa metafisica precarietà che tocca il livello
dell’estetica trascendentale in quanto tale! La metafisica si è sempre organizzata
in un sistema di livelli per cui il superiore illuminava l’inferiore, o in un sistema
di incastri, quasi un grande gioco di bambole russe, dove l’oggetto più grande
conteneva il più piccolo e, per così dire, lo spiegava. Qui il linguaggio antico e
specialistico della filosofia fa difetto, ed aveva ragione Foucault quando,
rinnovando il metodo nietzschiano della << Genealogia della morale >>,
rinnova anche le regole sintattiche del linguaggio della filosofia morale. Io
vorrei qui tentare una simile via per quanto riguarda il linguaggio della
metafisica.
Ora, siamo in una situazione Cartesian, ma non individuale, come si è detto,
bensì collettiva e astratta, eticamente rilevante, - con ogni probabilità qualificata
in termini antagonisti. Deve essere chiaro che qui noi dobbiamo risalire,
trattenendoli dentro il livello dell’estetica trascendentale, a quei soggetti della
descrizione fenomenologica che abbiamo inizialmente colto. L’alternativa

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dell’essere riguarda così l’intero campo sul quale l’astrazione delle potenze
conoscitive e produttive diviene indifferenza, riguarda tutte le trafile che
percorrono e qualificano queste dimensioni. Nel prossimo paragrafo
cercheremo di vedere come il paradosso della contingenza dell’essere possa
riproporre un cammino positivo per la ricerca: qui ci basti insistere sempre di
nuovo sulla forza di comprensione e sulla capacità di riassumere in sé la
totalità, che ha l’alternativa tragica dell’essere. Questo nuovo territorio
ontologico ed etico riguarda perciò l’epistemologia nella sua totalità. E’
evidente che tutti problemi andranno riportati alle dimensioni di questa
drammatica dualità delle potenze dell’essere. La contingenza è totalità anche e
soprattutto sul piano dell’epistemologia.
4. L’antagonismo come << principium individuationis >>.
Se dunque la definizione dell’essere come assoluta contingenza ci ha
permesso di cogliere le condizioni per così dire negative di un’estetica
trascendentale, ora probabilmente l’approfondimento del discorso potrà
permetterci di toccare alcune condizioni positive di questo medesimo problema.
Abbiamo già sottolineato come per contingenza assoluta s’intenda la possibilità
della distruzione radicale dell’essere, - e come l’antico principio << Factum
infectum fieri nequit >> venga in tal modo messo in crisi. Ma nell’approfondire
la potenza negativa di questa percezione, non possiamo né dobbiamo
dimenticare l’altro aspetto inerente a questa strutturale determinazione: vale a
dire che, se la contingenza assoluta mostra l’estrema possibilità di distruzione,
di perciò stesso essa indica una radicale possibilità di costruzione. E’ come se
fossimo messi dinnanzi ai materiali semplici che compongono l’essere, in una
situazione limite di possibilità costruttiva. Nella filosofia, più volte questi
principi di costruttività sono stati proposti: e forse la forma eminente nella quale
il principio si è espresso, è quel << Verum ipsum Factum >> che dobbiamo a
Gianbattista Vico. Risparmio qui, a me e al lettore la farraginosa ermeneutica
delle fonti e delle interpretazioni: se il principio sia idealistico o materialistico,
se assoluto o relativo, se spiritualistico e creativo o semplicemente filologico e
costitutivo, ecc. ecc.. Certo, il principio riguarda il mondo delle immagini,
interpreta il reale e non lo fonda radicalmente. Qui invece, quando ci troviamo
di fronte al principio della contingenza assoluta, viviamo un paradosso che
investe interamente lo spazio, meglio la separazione, estesi fra negatività e
positività assolute. Non so come meglio spiegare questo paradosso, questa
tensione estrema del concetto, questa condizione anche emotiva - che ci coglie
quando tentiamo di metterci in situazione! Perché infatti non è semplicemente il
<< Verum ipsum factum >> quello che qui affermiamo - qui affermiamo
qualcosa di molto più profondo: << Ens ipsum factum >>. La storia umana,

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pervenuta all’orlo della distruzione dell’essere, rivela a se stessa, e a tutti i
soggetti umani che vivono la storia, che questa, e il mondo e la natura stessa,
sono una loro continua produzione. Non ci sarebbe mondo senza questa
produzione. Quest’affermazione che è sempre stata fatta passare per idealismo
assoluto, - oggi, la consapevolezza della possibilità materiale di distruggere il
mondo, ci rende come affermazione di un assoluto materialismo.
Lo abbiamo già accennato, ma ora, continuando nella ricerca, vale la pena di
sottolinearlo più ampiamente. Dentro questa radicalità fondativa della
contingenza assoluta noi non verifichiamo un punto catastrofico bensì una
tendenza ontologica. Se pensiamo il punto catastrofico, se pensiamo il terrore, è
solo perché questi poteri costituiscono delle spie su un profondo corso
dell’essere, e cioè sul rapporto fra serie delle azioni umane e loro cumularsi
complessivo. Il mondo è questo cumulo, è questa complessità. La materialità
che costituisce il passato del mondo viene così mano a mano riassunta nella
tendenza della storia. La natura diviene (sempre più) storia. Anche in questo
caso è l’attuale possibilità della sua distruzione che ce lo rivela, poiché la
distruzione mostra la natura, il mondo naturale, come contingenza e quindi
come qualcosa che nella misura stessa in cui può essere distrutta, può essere
conservata - ma conservare significa qui ormai produrre, riprodurre,
sviluppare... La natura diviene una protesi dell’uomo. Sempre di più, non è
dell’uomo la condizione ma ne è piuttosto la conclusione. E questo vale non
semplicemente per la natura, ma per la totalità fenomenologica, per quella
enorme quantità di beni, di infrastrutture, di condizioni materiali che la storia
umana ha costruito e che ora, su questo passaggio epocale (nel quale tutto è
sussunto nel capitale e tutto può dunque essere distrutto), è insieme condizione
di distruzione o determinazione rinnovata da una potenza d’innovazione. Alla
radicale contingenza dell’essere corrisponde così, proprio sul paradosso della
mancanza di fondamento, una dinamica continua, tendenziale, totalizzante, - il
problema dell’essere vi è implicato e con esso, necessariamente, quello della
storia e quello dell’ecologia, quello storico e quello scientifico.
E’ chiaro che questa apertura di prospettive e di sublimi orizzonti in qualche
modo potrebbe qui lacerare il drammatico ed estremo paradosso della
contingenza assoluta, - è chiaro inoltre che questa serie di intuizioni del tutto
metafisiche, se da un punto di vista iniziale sono linearmente distese, potrebbe
appiattire l’indagine svigorendo l’evidenza del continuo rinnovarsi del
problema - al contrario, tutto ciò annulla la percezione fondamentale della
contingenza se la natura di questa viene coerentemente e continuamente definita
come antagonistica. Voglio dire che quell’elemento di rottura, di contrasto, di
antagonismo, che risulta definire la medesima percezione fondamentale

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dell’essere - come rapporto tra positivo e negativo, tra essere e non essere - che
tutto ciò permane, si prolunga, si ripresenta su ogni punto dello sviluppo della
tendenza. Questa determinazione antagonista è qualcosa che partecipa di ogni
azione umana, nella misura in cui ogni azione umana contiene una particolare
densità, costruttiva o distruttiva dell’essere. Ed è proprio dentro il continuo
ridimensionamento del positivo e del negativo, dentro l’infinita serie di rapporti
che in questo modo si determinano, è dunque in questo modo che
l’individualità, la singolarità umane vengono definendosi. Nella filosofia
seicentesca, quando l’atomismo propone per la prima volta l’alternativa tra
distruzione e creazione dentro la prospettiva del meccanicismo, quest’idea
dell’individuazione antagonista prende corpo. Oggi, quando il principio del
rapporto fra distruzione e costruzione è strappato all’intelligenza aurorale
dell’atomismo e condotto alla sperimentazione etica, sembra dunque che quel
criterio di individualismo possa essere ripreso. Ma di ciò più avanti.
Qui, prima di ritornare sul criterio di individuazione, val la pena di
sottolineare come le forti intuizioni che il pensiero moderno alle sue origini
aveva sviluppato, sul terreno dell’estetica trascendentale, in vista della
definizione della singolarità, siano state ampiamente negate nello sviluppo
successivo del pensiero filosofico. L’analitica trascendentale è la forma, come
abbiamo visto, nella quale questa negazione si costruisce e si sviluppa. Ma non
è la sola forma: assistiamo infatti, con frequenza, ad una negazione che non è,
per così dire, l’assolutizzazione di un momento del processo conoscitivo - e con
ciò la sua alienazione analitica della totalità, - è bensì una specie di storicistica o
teleologica forma di sottrazione del conoscere, dell’uso conoscitivo dell’essere.
Vale a dire che il pensiero moderno, tutto teso alla ricerca e alla giustificazione
delle forme tecniche della riproduzione umana, ha rifiutato di cogliere
nell’antagonismo - nell’assolutizzarsi di questo - la chiave di volta dello
sviluppo, e contemporaneamente della determinazione dell’identità umana. Una
teodicea della scienza e della tecnica è così venuta sostituendosi all’analisi
dell’essere. I problemi del valore sono stati di volta in volta sottratti alla
centralità che pretendevano sul terreno dell’essere, e portati davanti a tribunali
di grado inferiore. Di fatto l’essere viene in tal modo depotenziato, ed è un
processo di depotenziamento, di subtribunalizzazione continua, quello cui
assistiamo. Anziché mantenere la tragedia dell’essere come elemento che ne
qualifica la presenza - e ciò era già stato ampiamente mostrato alle origini del
pensiero moderno - invece dunque di mantenere questa potentissima presenza,
la si fugge. Il pensiero contemporaneo quando coglie la crisi, non la coglie
come elemento di costruzione ma come incentivo alla fuga. Trasforma la crisi
in nihilismo, trasforma la morale della crisi in irresponsabilità ontologica. La
dimensione globale, metafisica, profonda nella quale si presenta il rapporto fra

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essere e non essere deve essere sfumata, sfuggita. Ci si dedica alla scienza ed
alla tecnica - ma non sono appunto queste ultime che ci riconducono
ineluttabilmente su quell’orlo della distruzione dell’essere? Che significato ha
più, a questo punto, parlare di laicizzazione, o riguardare con una punta di
scetticismo, o con elegante e colta ironia, la possibilità della distruzione? Il
tragico percorre la nostra vita, ma è solo in quanto lo riconosciamo, lo
assumiamo, facciamo di esso la disutopia positiva della nostra conoscenza - è
solo in questo modo che riusciamo a garantire la libertà dalla distruzione e la
sopravvivenza dello spirito. E’ completamente idiota la rivendicazione della
laicità, contro la religione, se quella rivendicazione nasconde che la nostra
determinazione nasce sul ritmo della distruzione, è insomma una condizione
tragica per eccellenza. Alla religione non si oppone il laicismo ma si può solo
opporre un’altra religione - quella del materialismo, quella di chi sa che vivere
o morire è problema suo.
Eccoci dunque in una situazione nella quale qualsiasi tipo di fuga dai
problemi dell’essere ci diviene impossibile. La volontà amaramente si confronta
con se stessa nell’ambito di questa contingenza - e anche la ragione guarda
all’opposizione che la costituisce, con fredda ma non meno timorosa attenzione.
Ciò detto, v’è di contro e contemporaneamente quell’aspetto dell’essere nel
quale risiede la possibilità di ricostruzione, di una ricostruzione radicale e
profonda, - v’è dunque quest’aspetto dell’essere cui tentare di adeguare il
cammino metafisico. Questo tentativo di adeguamento deve essere operoso - lo
dico con qualche distacco, per distinguere le condizioni nelle quali oggi un
discorso sulla speranza è possibile, dall’emergenza che questo tema ebbe
nell’ambito della filosofia contemporanea fra le due guerre. Voglio dire che <<
Das Prinzip Hoffnung >>, il principio della speranza, non può qui essere
concepito, come invece lo fu da Bloch e da Benjamin, come blitz irrazionale
che si sottraeva alla crisi, all’esaurimento delle condizioni della rivoluzione -
qui la speranza nasce dopo Auschwitz e Hiroshima, qui nessuno fugge più
nulla. Qui speranza, dunque, è la stessa cosa dell’operare, e un senso della
mancanza di fondamento talmente profondo (e che ci teniamo sulle spalle), è la
sorpresa del vivere quotidiano - la nostra speranza non ci fa attendere nulla se
non il miracolo della nostra quotidiana riproduzione. Ma tutto questo è una
forza enorme, tutto questo contiene il principio etico dell’estetica
trascendentale. Dagli anni `30 a noi è cambiato solo questo - ed è enorme e cioè
che l’approfondimento del concetto di crisi è pervenuto all’essere, ha strappato i
veli letterari e filosofici che lo mostravano come risultato intellettuale
dell’analitica, per diventare una cosa. Una cosa reale, che si tocca, un incubo
che si vive, un terrore che si subisce. E’ questa materialità della crisi e
dell’essere nella crisi che la speranza interpreta. La chiamiamo speranza perché

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non sappiamo come altrimenti chiamarla; e qualcuno potrebbe ironizzare, e dire
la desuetudine di questo termine, senza tuttavia per questo scandalizzarci.
Prendiamola dunque questa parola come un neologismo per identificare quel
rapporto operoso che si stende tra la condizione negativa e catastrofica e quella
positiva e creativa dell’essere.
Solo su questo terreno, dentro cioè l’antagonismo oggettivo che l’estetica
trascendentale rivela, dentro il presentarsi con polarità contrarie dell’essere,
dentro l’eticità del nesso che tutto questo collega ma che nello stesso tempo
tende in maniera insopportabile - qui il processo di individuazione si dà.
Sarebbe bello - altrove lo faremo - riportare a questo proposito la nostra
memoria al << Libro di Giobbe >>, dove appunto il problema metafisico dell
antagonismo, della colpa e della retribuzione materiale, pervengono
poeticamente ad una fantastica quanto materialmente determinata definizione
dell’individuo. Ora, è appunto questo il terreno sul quale, rompendo con
l’indifferenza dell’orizzonte postmoderno, del capitale sussunto, della
comunicazione onnicomprensiva ed equivalente, la soggettività si pone. Credo
che il processo logico attraverso il quale la determinazione complessiva si
realizza, sia qui ormai chiaro. Ma non si tratta, in primo luogo, di rompere o di
interrompere il meccanismo circolare che costituisce il tessuto fenomenologico
del mondo. Si tratta invece di considerarne la condizione metafisica, e cioè
quella destinazione alla distruzione che esso ha in se stesso. In secondo luogo,
questa contingenza rivelata, si mostra come paradosso: quindi essa si apre ad
un’alternativa completamente etica, l’alternativa dell’essere e del non essere.
Questa alternativa qualifica in termini tendenziali l’intero universo
dell’esistente. Noi la percepiamo ed è collocandoci nell’intreccio delle pulsioni
negative e positive che da questa tendenza sono prodotte, che determiniamo la
nostra individualità. L’orizzonte analitico negava ogni individualità, meglio,
confondeva la singolarità in una circuitazione continua ed equipollente.
Quest’orizzonte era insuperabile, era un labirinto logico, una Babilonia
linguistica ed una sodoma morale. E’ solo il senso della distruzione, di questo
mondo logicamente ed analiticamente corrotto ma anche, con esso, dell’essere
stesso, è dunque solo questa distruzione che ci rimette davanti all’essere. Un
essere fondamentale perché lo si può distruggere o ricostruire, un fondamento
che è contingenza assoluta. E la singolarità viene determinata dalla tensione che
a contingenza comprende in definizione. L’estetica trascendentale viene così
positivamente determinandosi.
5. Per un’estetica trascendentale del corpo.
Zenone a Socrate: << Il volgo infatti ignora che al di fuori di questa strada
che passa per ogni dove, di questo trascorrere di cosa in cosa, è impossibile fare

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in modo che la nostra mente incontri la verità >>. (Parmenide 136e).
Quando si pone, contro l’analitica, il problema dell’estetica trascendentale, e
lo si pone in termini propri, è bene subito aggiungere che la ricerca non potrà
che passare << per ogni dove >> e cioè esercitarsi attraverso approssimazioni
successive, sciogliendo per così dire le categorie analitiche dentro l’esperienza,
innalzando i contenuti dell’esperienza a trasparenza concettuale. Questo
processo di ricerca è un vero e proprio processo costitutivo. Abbiamo visto le
condizioni generali, metafisiche che stanno alla base di questo nostro avanzare:
qui dobbiamo vedere come giudizi analitici vengono costituendosi, in maniera
necessaria, a posteriori. La costituzione del giudizio analitico a posteriori è
quindi, in questo paragrafo, il nostro fondamentale problema.
Deve essere chiaro - e questo lo diciamo prima di entrare nel merito
dell’argomentazione - che quando si parla di giudizio analitico a posteriori, e
cioè di giudizi dotati di un contenuto empirico che in quanto tale garantisce,
mostra, produce, la verità del giudizio stesso - quando dunque si parla di
giudizio analitico a posteriori, non solo si assume con la massima forza
un’estraneità logica dai giudizi a priori o a posteriori in generale, ma soprattutto
si prende distanza dalla teoria kantiana dei giudizi sintetici a priori. Nel
rovesciamento dei termini (poiché sintetico può stare per a posteriori ed
analitico per a priori) uno spirito sofistico potrebbe infatti facilmente
arzigogolare di simiglianza di approccio ed analogie di contenuto. Non è così:
nella gnoseologia kantiana l’elemento assolutamente preminente è quello a
priori in quanto esso rappresenta un attività formativa e la sintesi empirica è
completamente subordinata all’orizzonte trascendentale, - vale a dire a
quell’orizzonte sul quale si condensa ogni attività produttiva della ragione.
Quali che fossero le ambiguità kantiane a questo proposito, nessuno può negare
la profonda coerenza dell’interpretazione idealistica del fondamento
trascendentale. Nella nostra terminologia, e al fondo del nostro progetto, <<
analitico a posteriori >> rovescia radicalmente l’impostazione kantiana.
Significa infatti che l’elemento necessario della conoscenza, il momento
formativo del processo e della tendenza conoscitivi, risiedono nell’esperienza
empirica. Tutto ciò può avvenire (e in questo può essere verificato il
superamento delle aporie tradizionali dell’empirismo), perché la nostra empiria,
il mondo nel quale noi recuperiamo verità è quello disegnato, in termini di
comunicazione, dai grandi flussi di significati che costituiscono ogni orizzonte
sensato. Strano paradosso questo: nella grande corrente dello scetticismo
linguistico moderno, formatasi tra Frege, Russell e Wittgenstein, la distinzione
tra l’orizzonte del senso e quello del significato era intera ed insuperabile; di
fronte alla precarietà ed alla contingenza dell’orizzonte del senso, sfumava

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dentro una lontananza irraggiungibile l’universo materiale dei significati; ma
ecco il rovesciamento: poiché nella misura stessa in cui il mondo del senso
linguistico e comunicativo diveniva esclusivo, su quel mondo si scaricava
l’essenzialità fondamentale del vivere. Così la grande svolta linguistica della
filosofia contemporanea indefinitiva non solo non produce scetticismo ma al
contrario ci restituisce un’ontologia dei significati, un mondo sí circolare e
fluente ma dentro il quale, a posteriori. La necessità della determinazione si
articola all’emergere della verità. Ecco dunque in che senso per noi, qui, il
giudizio analitico a posteriori può darsi.
Direi che un ulteriore paradosso è qui verificabile ed utilizzabile in nostro
favore. Vale a dire, riprendendo la terminologia kantiana: l’analitica
trascendentale aveva, in Kant e nell’idealismo per così dire divorato, a valle,
l’estetica e, a monte, la dialettica trascendentale. Ed aveva, di quest’ultima,
fatto un feticcio scettico, un regno di illusioni, false ma non per questo meno
efficiente. Ora, la riconquista dell’estetica, la denuncia dei processi di
significazione che l’analitica dovrebbe produrre, l’emergere della
determinazione vera sul piano dell’effettualità comunicativa: tutto questo ci
restituisce una dimensione della dialettica trascendentale non più soggiogata nel
regno delle illusion, false bensì intesa come tessuto di continuità conoscitiva e
proiezione di immaginazione vera. E’ nel dislocamento di questi livelli,
nell’articolazione tra queste funzioni parziali, che mano a mano viene
costituendosi << l’analitico a posteriori >>.
Ma che cos’è dunque (oltre la pregnanza gnoseologica della dizione: analitico
a posteriori) il contenuto conoscitivo che è, attraverso questo giudizio, innalzato
a verità? Ora, iniziamo in termini polemica. La verità della determinazione non
può essere colta in termini intuizionistici né comunque condizionata dalla
pretesa psicologica di apprensione di un reale che, in quanto tale,
indipendentemente si dia. Noi viviamo un mondo attraversato da mille sensi,
siamo collocati dentro una rete di relazioni che sole rendono questo mondo
significativo. Ciò che è fondamentale, non è dunque indurre, al di là di questa
rete, dei sostrati stabili quanto irraggiungibili - importante è fissare la
materialità, la irresolubilità di queste relazioni. Che la definizione dell’oggetto
non, possa passare se non attraverso la categoria della totalità e cioè la
conoscenza sia della relazione oggettiva che di quella soggettiva che
s’addensano sull’oggetto: è una verità ormai solidamente piantata nel tessuto
scientifico del materialismo moderno. Eppure spesso il criterio della relazione,
se non il suo contenuto specifico, era convalidato da un elemento esterno alla
relazione. Tipica è, a questo proposito, la posizione di Marx: per lui i rapporti
costituenti soggetti, gli antagonismi, processi di produzione e le articolazioni di

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questa, sono garantiti dalla teoria del valore, - ed è da lui solo lontanamente
prevista una fase (la sussunzione reale della società nel capitale) nella quale i
rapporti di produzione e i valori reali non si distinguono né si duplicano in
funzione astratta. Dobbiamo attendere la più vicina modernità, ed in particolare
gli autori della << svolta linguistica >>, per ritrovare la garanzia del criterio
dentro le relazioni che formano l’oggetto. Quest’operazione è pagata da talora
consistenti concession al formalismo - questo, almeno, in Frege e in Russell -
molto meno è vero però già nell’ultimo Wittgenstein dove l’orizzonte
linguistico esalta una certa ombrosa ontologia. Non basta: dobbiamo liberarci di
ogni minimo residuo dialettico, formalistico o tautologico che esso sia. E’
questo il programma positivo che presiede alla definizione dell’analitico a
posteriori. Ora, quando noi assumiamo l’oggetto, non possiamo perciò che
verificarne fin da subito, con l’insistenza della relazione che lo definisce, la
potenza e la direzione, il vettore insomma sul quale esso si orienta tra le
relazioni che lo costituiscono. Vale a dire che le condizioni conoscitive non
vengono logicamente poste - le condizioni conoscitive sono condizioni di
esistenza: solo l’ << a posteriori >> libera l’analitico dalla tautologia,
dall’isolamento nella sfera del puro senso logico, dall’incapacità di farsi corpo.
In effetti la relazione dev’essere per così dire scissa, interrotta,
geometricamente trasformata in una serie di funzioni diversamente disegnate,
che sempre tuttavia si ricondensano sull’oggetto. Tutto questo non è logico nel
senso che esaurisce la proposizione in un mondo autosufficiente capace di una
propria circolare riproduzione. No, qui il termine logico va, alla maniera
classica, riportato alla capacità di piegarsi, di modularsi, dentro il concreto.
L’analitico sorge dunque qui, da questo non poter essere diverso dal reale che è
descritto dalle relazioni, da questa immanenza assoluta dell’approccio
filosofico. L’analitico dunque può e deve trovare il suo rapporto con la
contingenza. Il problema logico di un’estetica trascendentale di tipo nuovo
muove, come abbiamo visto, dalla rideterminazione dell’essere come
contingenza. La contingenza è l’essere così come ci è presentato, nella sua
mobilità, nella sua versatilità, ed insieme è l’affermazione che l’essere non può
essere diverso. Vi è una verifica analitica della contingenza ed è la necessità che
l’essere sia contingente. Con ciò noi parliamo dell’assoluta necessità che la
dimostrazione scenda sempre a scontrarsi con il reale e a nutrirsi di esso e ad
esasperare il rapporto in esso. Le condizioni di un’estetica trascendentale sono
in questo processo. Se ci chiediamo di nuovo se esse siano sufficienti, in quanto
condizioni logiche, a garantire la costituzione dell’oggetto, possiamo ora
dichiarare l’insufficienza dell’affermazione. Meglio tanto la sua necessità
quanto la sua insufficienza. Della necessità abbiamo detto, e qui, in
conclusione, possiamo sottolineare ancora l’importanza di questo procedere <<

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per ogni dove >>, ma non senza una precisa direzione. Che questo processo non
arrivi ad una conclusione definitiva è d’altra parte necessario: perché la
contingenza che caratterizza l’analitico nella figura che questo assume
sull’orizzonte comunicativo, in nessun caso permette una chiusura logica del
discorso La contingenza, come abbiamo visto, è a chiave che apre la logica
all’ontologia - ma soprattutto apre l’ontologia all’etico. E’ su questo terreno, è
nella prospettiva del fare, del costruire, del costituire a nuova realtà del mondo e
della comunicazione - e dunque in questo processo etico che l’estetica
trascendentale del materialismo viene definendosi. Potenza, tendenza,
antagonismo si disegnano dentro questo sviluppo etico, ed il rapporto tra
processo conoscitivo e verità, fra contingenza e necessita deve essere a questo
contesto riportato. Ma, insisto, questa conversione etica del processo
conoscitivo non indebolisce, né toglie né elimina la specificità della ricerca
logica: ne indica semplicemente l’insufficienza, esattamente quella che nella
filosofia di Frege, di Russell e di Wittgenstein è stata definita. Ne qui, sul a
definizione di questa insufficienza, ci si può ancora fermare. Basti aggiungere
che non v’è specialismo che possa trattenere e imprigionare la ricerca filosofica,
se gli stessi termini della logica rivelano un limite e richiedono un
dislocamento. Questo dislocamento va compiuto - su di esso ogni strumento del
pensiero filosofico va riapplicato. Così torniamo al rapporto fondamentale -
quello definito dalla contingenza - ai suoi diversi aspetti, ai suoi diversi gradi ,
al dualismo radicale che la domina. La logica è il corpo. L’etica è il corpo.
6. Il concetto di costituzione pratica.
Lo sviluppo della ricerca continua a spingerci verso l’ontologia etica. E’ solo
sul terreno dell’ontologia etica infatti che le antonomie e i rompicapi della
conoscenza potranno essere risolti.
Nella nostra introduzione abbiamo letto e commentato il <<
Systemprogramm >> - qui, ora, siamo collocati laddove esso intuisce il
passaggio fra estetica e dialettica trascendentale. Questo passaggio è, qui come
là completamente inserito nella trama dell’essere. Era il momento più alto di
una concezione idealistica a natura si faceva storia, idea. Qui quell’assoluto si
rovescia, come sempre avviene quando lo spingiamo - meglio le forze materiali
della storia lo hanno spinto - fino al suo opposto. Qui è la storia che s fa natura,
o meglio, è la natura che assume un ventaglio di protesi organiche e strutturali.
La natura si modifica attraverso una sorta di assimilazione cibernetica di tutte le
protesi intellettuali che ad essa si sono applicate. E’ uno straordinario
arricchimento, quello cui assistiamo: non è solamente a forza produttiva del
lavoro umano che raggiunge altissimi punti di qualità, assimilando a sé tutto il
sapere, e l’intelligenza, e l’immaginazione che una civiltà superiore sanno

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produrre - non è solo questo, anche se il processo avviene sui ritmi dello
sviluppo della produzione e dell’arricchimento della forza lavoro: è in realtà
l’intero mondo umano a conquistare questa strana e nuova figura. Si potrebbe
parlare di una << seconda natura >>, ma forse anche di una terza, o di una
quarta, o di un’ennesima potenza della natura tanto l’insieme delle facoltà
umane è venuto modificandosi, poi trasformandosi ed arricchendosi. Nessuno
può dire quale sia il senso, in meglio o in peggio, di questa trasformazione - non
ci sono teleologie storiche o antropologiche che possano fissare un termine alla
querelle degli antichi e dei moderni. Detto ciò, e messe le mani avanti in ogni
senso, v’è un’unica cosa che si può dire con certezza: ed è che è aumentata la
capacità di fare, quella specifica capacità umana di fare che è legata all’uso
degli strumenti. Ma questo incrementarsi della ragione strumentale ha condotto
al di là dell’orizzonte degli strumenti: il fare è divenuto natura, ha di questa
colto la forza immediata, l’essenza irreversibile, a corporeità irriducibile.
Con ciò il discorso sulla costituzione pratica dell’essere e sulla fondazione
etica della logica divengono sempre più evidenti. Innanzi tutto quella
soggettività naturale, che fino a questo punto abbiamo seguito nella sua
trasformazione, si presenta come essenza collettiva. Questa essenza collettiva é
tale in senso proprio, vale a dire che ogni soggetto è attraversato da un insieme
di relazioni che lo definiscono in quanto tale. Ma collettivo in senso proprio
significa anche che la capacità produttiva individuale e l’essenza umana
singolare così costituitesi, sono una determinazione universale. Il divenire
sempre più astratto dell’intelletto umano, il divenire sempre più astratto della
forza-lavoro - questo processo di astrazione, questo straordinario incremento
della ragione strumentale producono il paradosso di una nuova singolarità (e la
reale soluzione di questo paradosso). L’astrazione astrae sulla vecchia natura,
costruisce indecenti protesi su un vecchio corpo mutilato - ma a partire da ciò
l’astratto è assorbiti nella nuova corporeità e le protesi si perdono nel prodursi
del nuovo corpo. Tutto questo è tanto collettivo quanto sempre il concetto di
natura è stato universale: collettivo è qui dato in termini di ontologia logica. Vi
è di più: ed è che questa corporeità nuova rivela due caratteristiche
fondamentali. Tanto fondamentali quanto lo sono, in genere, le caratteristiche
strutturali dell’essere. I due caratteri sono quelli della virtualità e della
irreversibilità, il primo come funzione elastica e il secondo come funzione
rigida nello sviluppo di un’etica costitutiva. Per virtualità intendo quella
estrema determinazione del pratico che rappresenta l’essenza della sempre
nuova determinazione singolare dei soggetti. Parlo di possibilità pratica, reale,
come rapporto fra una serie di determinazioni e la semplificazione di queste
nella scelta. Rifiuto qui ogni determinazione della possibilità che ne annulli la
capacità costruttiva, immergendola in una serie indefinita di predisposizioni e di

49
opportunità. Virtualità è, di contro, il rapporto che, in maniera determinata, si
costruisce fra un contesto storico già consolidato, nel quale solo una serie di
tendenze sono prevedibili, - e, d’altra parte, quella pratica di decisione che fra
queste storicamente imitate ma ricche opportunità razionali, sceglie e quindi
costituisce realtà singolare. E’ chiaro che quando si parla di ontologia etica si
assume un tale profondo intreccio di logica e di etica, di giudizi di fatto e di
giudizi di valore - intreccio inteso alla costituzione della realtà stessa - che non
si può più distinguere nettamente fra i due livelli. E’ questa constatazione un
abbassamento del potenziale di libertà che è proprio del soggetto? Io non lo
credo poiché è solo se noi consideriamo il tessuto delle scelte come tessuto
preformato e percorso da tendenze concrete, è solo in questo caso che un
concetto di libertà in quanto concetto di un’attività pratica, può darsi. Intendo
dire che la nozione di possibilità diviene reale solo trasformandosi in concetto
di virtualità, con lo spessore e l’intensità che questa differenza registra.
Ma ciò detto è evidentemente chiarito anche il concetto di irreversibilità.
Esso è, per così dire, il momento rigido della virtualità, la statica che completa
la dinamica. L’irreversibilità è quel punto sul quale una piccola ma essenziale
catastrofe, un salto di qualità, si danno all’interno dell’essere, nel processo della
sua costituzione. L’accumulo di tutte le esperienze ad un certo punto diviene un
evento rivoluzione. E’ come quando guardiamo un disegno ed improvvisamente
cogliamo la bellezza di un particolare che ci era sfuggito e questo ci sembra
trasfigurare l’insieme dell’opera che consideravamo. Irreversibile è il
mutamento della logica dell’esistente: vale a dire che d’ora in avanti, quando
questo passaggio sia stato rivelato, tutti gli elementi della considerazione
dovranno essere organizzati da una nuova logica, interna all’esistente
considerato. Irreversibilità è chiusura di un processo genetico ed apertura di
nuove genealogie. Irreversibilità è definizione di nuove virtualità e rivelazione
di nuove tendenze.
Nel definire queste caratteristiche essenziali dell’essere nell’ambito di un
ontologia etica, noi perveniamo al concetto di virtualità e di irreversibilità da
vari punti di vista. Innanzittutto, come si è visto dall’apprendimento del
rapporto tra logica ed etica, fra giudizi il fatto e giudizi di valore, - meglio, dalla
soluzione pratica dell antinomia che la considerazione separata di codesti due
giudizi può produrre. Solo infatti la dimensione pratica, l’atto razionale di
volontà, qualora siano inseriti in un orizzonte collettivo, possono permetterci di
riconoscere positivamente, e di agire costruttivamente, quello lato che distingue
il conoscere dal valore e di riconquistarlo all’unità dell’essere. Ma vi sono altri
punti di vista dai quali una nuova concezione dell’essere - quando sia
considerata attraverso la rappresentazione della natura, può essere avvicinata.

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Ci spingono innanzitutto avanti le versioni più attuali e critiche della teoria
delle innovazioni nella ricerca scientifica intendo riferirmi alla teoria dei
paradigmi. Essa non ha un fondamento neo-kantiano, - essa è una teoria
ontologica della scienza vale a dire una considerazione del rapporto che la
scienza intrattiene con la natura per modificarla, per costituirla, quindi per
conoscerla. Quando assistiamo ad un mutamento catastrofico del paradigma
scientifico noi percepiamo allora un vero e proprio sussulto dell’essere. Il
nuovo paradigma sarà irreversibile ed aprirà nuove virtualità. Ancora, un altro
punto di vista a partire dal quale possiamo avvicinarsi a questa concezione della
natura, è quello storico intendo il punto di vista di quella storiografia dei
movimenti sociali che permette di definire il passaggio dall’una all’altra
composizione del soggetto storico, e di costruire tendenze e virtualità a partire
dal salto qualitativo, dalla novità radicale, che una nuova composizione mostra
a fronte dell’accumularsi delle stesse esperienze intervenute nel suo processo
genetico. Anche in questo caso vi è una catastrofe, una modificazione radicale,
che talora in termini storici diciamo << rivoluzione >>, - che in ogni caso
residua una qualità assolutamente nuova dell’essere collettivo.
Ecco perché, per l’oggi, parlavamo e continuiamo a parlare di nuovo
giusnaturalismo. Qual’era lo statuto teorico del giusnaturalismo classico dei
secoli dal XVI al XVIII? Era questo: la teoria giusnaturalista si poneva come
immanenza catastrofica contro a concezione teistica dell’autorità e del valore,
come teoria progressiva, individualistica contro la concezione organica e
tradizionale del valore. Vale a dire che la teoria del giusnaturalismo era una
chiave dinamica di proposta trasformativa, di distruzione dell’unità sociale
ipostatica, di trasformazione pratica e di lettura moderna di questa. Il salto
avviene all’interno del progetto: che la teoria giusnaturalistica fosse
essenzialmente individualistica non toglie il fatto che essa rappresentasse, in
termini logici, l’universalità di una pretesa di rinnovamento, anzi la sua
progressiva effettualità. Così, dirsi nuovamente giusnaturalisti significa
assumere il nuovo concetto di natura, questo concetto di una natura trasformata,
dentro la quale la rivoluzione è divenuta fondo stabile del sapere e dell’agire -
come fondamento irreversibile e come definizione di possibilità nuova.
Altrove ho cercato di definire questo processo di singolarizzazione
dell’essenza astratta come apparizione del tempo della vita contro il tempo del
potere, dimostrando come il secondo costituisce una macchina che riduceva a
zero la potenza del lavoro e del sociale. Ma quest antinomia può essere
moltiplicata - ed anche nel corso di questa ricerca abbiamo visto all’opera
alcuni rompicapi che ci sono sembrati avere una radicale funzione di rottura
rispetto all orizzonte logico della tradizione. Mi chiedo: in un estetica

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trascendentale del corpo e della comunità, quand’anche le condizioni logiche
fossero date, non resta troppo generico il rinvio ad atti di significazione etica
perché se ne possano trarre indicazioni efficaci al superamento dei rompicapi.
Altrimenti detto è possibile costruire comunità senza risolvere, logicamente ed
anticipatamente, i rompicapi dello spirito? Ora, io penso che a questo
interrogativo si possa dare risposta positiva. E penso anche che la sola
soluzione dei rompicapi sia pratica. La ricerca deve quindi procedere. Ma
l’abbiamo fatto, credo, in maniera da non essere imprigionati dalle
caratteristiche esterne del rompicapo. Vale a dire: il rompicapo non è
un’antinomia in generale, esso è un’antinomia costruita dentro un paradigma e
quindi una determinazione storica precisa, una produzione determinata.
Non vi è superamento del rompicapo, vi è solo modificazione del paradigma.
Ecco perché una risposta diretta alle questioni poste dai rompicapi, non può
essere una risposta diretta, ed ecco perché possiamo rispondere al quesito su
come sia possibile pensare il corpo e la comunità, prima di, e fuori da, una
soluzione dei rompicapi. Questa possibilità è essa stessa pratica perché il
paradigma è pratico. E’ solo sulla base di un dislocamento globale che la
questione diviene risolvibile. Di nuovo allora possiamo pensare che l’andare
avanti nel pensiero della rivoluzione è, come prevedeva il << Systemprogramm
>> e come dicevamo nella nostra introduzione, possibile solo a partire dalla
rivoluzione come preambolo. Come preambolo storico determinato, dato. Come
modificazione di paradigma già intervenuta.
Nel << Systemprogramm >> si auspica la costruzione di una nuova mitologia
sensibile. Questa richiesta è del tutto collegata sia all’urgenza di passare dal
terreno della logica a quello dell’agire etico-collettivo, sia dalla necessità di
trascorrere dall’estetica trascendentale alla dialettica trascendentale. Il
superamento dell’analitica consiste in queste due operazioni. Invero, di una
mitologia abbiamo bisogno. In questo mondo nel quale ogni determinazione
positiva si è trovata travolta nell’insensatezza di una circolazione pura; in cui
ogni insistenza etica è stata subordinata ad emergenze ciniche ed i valori e i
disvalori sono intercambiabili - bene, una mitologia, un disegno empirico del
valore sembrano nuovamente necessari. Non certo per fondare pretese
profetiche o retoriche, non certo per legittimare riduzioni della complessità
problematica, insomma, non per dare fondamento a ciò che fondamento non ha:
ma solo per aprire un orizzonte che sappia di nuovo... Una mitologia della
ragione etica diviene così non tanto indicazione positiva di un cammino da
percorrere quanto definizione di un orizzonte da riconquistare. La dialettica
trascendentale, oggi, non può configurarsi che come momento di costruzione
dell’immaginazione vera, a partire da un’estetica trascendentale

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dell’immediatezza. Contro ogni analitica, contro ogni pretesa regola della
ripetizione, e contro ogni coazione formale, anzi, assumendo tutto questo come
oggetto specifico della critica razionale, di una critica che attraversa l’empirico
per esercitarvi la scelta etica, la pratica trasformativa - questo è il passaggio
dall’estetica alla dialettica trascendentale. Ed è qualcosa di straordinariamente
pieno di incompiuto - direbbesi, di inconcluso a monte; a valle di una
straordinaria virtualità creativa. La conclusione di questo processo infatti si
potrà cominciare a scorgere solamente quando esso si svolgerà completamente
sul terreno della realtà corporea, della storia politica e della costituzione
comunitaria. Noi possediamo - è quanto attiene alla modificazione del
paradigma, è il contenuto della << rivoluzione come preambolo >> - noi
possediamo un’irreversibile virtualità di astrazione completa del mondo, di sua
singolarizzazione adeguata, quindi, di costruzione di una nuova corporeità
creativa, di un sapere portato al più alto livello dei bisogni, del desideri, dei
piaceri. Questo processo si svolge: ma ogni verifica completa è solo costruzione
piena. Nelle attuali condizioni l’indefinitività di questo processo è rappresentata
da un passare continuo da uno ad un altro grado dell’essere ed il passaggio è
indefinito quand’anche esso si dia da un grado minore ad un grado maggiore di
essere. Certo, vi è comunque un arricchimento, dentro questa rivoluzione
continua, dentro questi movimenti dell’essere. Ma quando riusciremo a dare un
senso collettivo e una definitiva logica compiutezza a questo processo? Quando
la soddisfazione e la gioia etiche si sovrapporranno all’etica della ricerca e della
lotta? Io non vedo risposta. Siamo giunti al punto che nella scissione che
domina questo mondo, nelle dinamiche che contro l’ontologia etica sono messe
in atto dal potere, questa istanza e questa urgenza di mito, sono mistificate nella
miseria del media. L’illusione falsa viene opposta all’immaginazione vera. Così
come il tempo dell’uno, dell’organizzazione e del potere vengono opposti al
tempo dei molti, della comunità e della potenza. Una lotta mortale si sviluppa
fra queste opposte tendenze - e noi abbiamo visto come questa lotta mortale sia
inserita alla stessa radice dell’essere - laddove la contingenza, nella sua
assolutezza, costituisce assoluta mancanza di fondamento e radicale possibilità
di alternativa. Di vita o di morte. Di essere o di non essere. Un’estetica della
ragione è tuttavia, proprio per questo, oggi possibile – e, contrastando ogni
pretesa analitica, è con tutta probabilità possibile progettare, a partire da
quell’estetica, determinazioni dialettiche.

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Capitolo Secondo
<< Metus-superstitio >>: ossia sulla produzione di soggettività nel
capitalismo maturo.
1. Il concetto di sussunzione reale e il problema dell’analitica.
Il processo di sussunzione reale della società nel capitale ci restituisce a
società come un enorme involucro di atti circolari ed uniformi. Noi viviamo
dentro quest’ordine, dentro questa << Umwelt >> ordinata. La ricerca storica si
combina qui con la ricerca teorica nel dare, di questa forma della società, il
quadro compiuto. E mentre la ricerca storica ci permette di seguire l’intreccio
delle varie funzioni sociali ed il loro costituirsi in un tutto unico il confondersi
del lavoro produttivo e del lavoro improdutivo dentro un circuito del valore che
ne toglie la differenza, - la ricerca teorica ci propone il problema della
sovrastruttura e ci mostra come il rapporto, altre volte evidente, con
l’infrastruttura, sia ormai definitivamente concluso. Concluso dentro
un’indifferenza materiale che, se permette di cogliere la genesi delle due
formazioni materialmente ce le dà completamente unificate, indistinguibili,
inseparabili << Da Marx ad Althusser >> la teoria marxista ha descritto la crisi
del rapporto struttura-sovrastruttura mostrando lo sviluppo del processo già
indacato. Da ultimo Althusser, descrivendo il funzionamento delle
apparecchiature ideologiche dello Stato, ha ampiamente mostrato come questi
momenti cosiddetti sovrastrutturali fossero essenziali alla riproduzione della
società capitalistica in quanto tale. Ma le indicazioni di Althusser, per quanto
corrette, non sono sufficienti a descrivere la situazione determinata nella
sussunzione reale. Qui il reciproco compenetrarsi del vari livelli di produzione,
delle merci così come delle norme, diviene totale. Quella che già si chiamava
sovrastruttura, ovvero gli elementi ideologici, teorici, dottrinali, ecc. ecc. che
descrivevano la realtà registrandone in maniera mistificata il riflesso e
riproponendolo efficacemente verso e contro l’empiria - ora vive una vita
completamente interiore allo sviluppo delle strutture produttive.
Quest’orizzonte che abbiamo dinnanzi, questa << Umwelt >> nella quale
siamo immersi, non permettono di operare fini distinzioni: certo gli apici delle
determinazioni, più empiriche o ideologiche, possono essere sempre indicati ma
la determinazione fondamentale è quella della compenetrazione e dell’interna
articolazione. Tutto questo ha un risvolto pratico, immediatamente pratico. La
nostra società è organizzata per questa confusione di livelli per mistificare la
sua totalità produttiva e gli antagonismi che questa totalità reggono. Gli
strumenti di potere e i momenti normativi, da questo punto di vista, sono
completamente interni al sociale. Si potrebbe dire che il sociale non potrebbe
esistere - nella forma, è ovvio, adeguata al grado di produttività attuale - se

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questa compenetrazione degli elementi di comando e delle regole normative,
alle articolazioni del sociale non fosse data. Ma vi è di più. Non solo il sociale è
genericamente assunto nel meccanismo di capitale, non solo le apparecchiature
ideologiche di Stato diventano fondamentali nella riproduzione ordinata della
società, non solo infine la produzione di merce e di norme si articola e si
confonde sul livello sociale: non solo tutto questo dunque, - la società della
sussunzione reale si caratterizza anche come tentativo di produzione diretta
della soggettività. C’è un nesso evidente fra determinazioni strutturali e
determinazioni sovrastrutturali, che attraversa la soggettività. Tutto questo è
stato ampiamente sottolineato nella teoria. Ma oggi ci troviamo di fronte a ben
altro, poiché questo nesso (che interpreta e veicola la forma specifica del
comando capitalistico) tende a costituire la soggettività. La costituzione
capitalistica della soggettività diviene così momento centrale nella fase della
sussunzione reale. Avevamo detto << da Marx ad Althusser >> per descrivere la
crisi e le modificazioni del rapporto struttura e sovrastruttura, - ora possiamo
dire << Da Althusser a Marx >> per indicare quanto si sia approfondito il
rapporto di produzione della soggettività: è come una nuova accumulazione
primitiva; come in quella, in questa fase di sussunzione reale, si costruiscono
non solo le condizioni della riproduzione sociale ma anche gli attori, i portatori,
i soggetti di questa produzione. Come in quel Marx dell’accumulazione
primitiva, così qui la totalità del quadro è indistinguibile dalle componenti.
Questo quadro compatto si presenta sovente come mondo della comunicazione,
come complesso di strutture informatiche, come insieme meccanico-razionale
di una strumentazione intelligente del controllo e della produzione.
Ora, questa situazione presenta alcune difficoltà, che non possono essere
trascurate dall’analisi. Intendo dire che questa << Umwelt >> schiaccia, per
così dire, la possibilità della ricerca sulla linearità, e la disorienta nella
circolarità dei nessi fra singole emergenze soggettive. La stessa emergenza di
un punto di vista critico sembra da ciò vietata. Ci troviamo quindi di fronte a
delle posizioni che, nel tentativo di resistere all’indifferenza, spesso
organizzano la prospettiva di ricerca e quella di intervento in termini
volontaristici, - per esempio, in termini di rivendicazione di autonomia del
punto di vista scientifico. Vediamo un caso. E’ fuori dubbio che, se nella
situazione data (sussunzione reale) la forma valore e la sostanza di valore del
processo di produzione tendono a sovrapporsi, l’analisi deve assumere la <<
Wertform >> e la << Wertsubstanz >> come elementi complementari nella
configurazione della totalità determinata da analizzare. Ma dire complementari,
non significa dire indifferenti - e con ciò accettare il blocco della ricerca. Infatti,
pur tra queste complementarità ed indifferenze, un quadro del genere è
normalmente molto ricco di impliciti: la determinazione infatti, nel mentre

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mostra i contenuti specifici dei meccanismi di produzione del valore, sta dal
punto di vista degli strumenti tecnologici, sia dal punto di vista della pertinenza
dei contenuti, - dall’altro si mostra come tendenza, come apertura potenziale di
nessi produttivi generali, come articolazione di composizioni diverse della
soggettività. Si tratta allora di approfondire il nesso tra ricerca di valore ed
analisi materiale laddove invece, spesso, l’incapacità di procedere in questo
senso, dovuta a permanenze ideologiche o a resistenze nei confronti della nuova
prospettiva, implica una ricerca che fra valore e sostanza ripropone indifferenza
o unità indifferenziate o confuse a connessioni analogiche, - sicché questo
rapporto, in sé scoordinato non può che essere sempre di nuovo riportato
all’analisi e alla pratica del dominio. Le teorie dell’autonomia del politico, da
questo punto di vista, sono teorie attardate su una imperfetta comprensione
degli effetti della sussunzione reale. Di contro, la nostra ricerca assume
l’inerenza di strutture e di sovrastrutture, di forma e di sostanza, come
assolutamente data. Ed è a partire da ciò che i meccanismi di produzione della
soggettività nel capitalismo maturo potranno essere finalmente definiti.
Ma proprio nella misura in cui procediamo in questo senso tanto più il
problema definitivo sarà quello etico. Vale a dire che non è l’analisi dei rapporti
di potere che può permetterci la comprensione di questo mondo compatto che
abbiamo dinnanzi, è bensì, a permetterci questo, l’inerenza della nostra volontà,
della nostra lotta. alla composizione della società. Offe dice chiaramente << Il
problema di una teoria dello Stato che si proponga di dimostrare il carattere
classista del dominio politico consiste dunque nel fatto che, in quanto teoria, in
quanto rappresentazione oggettivante di funzioni statali e del loro riferimento
ad interessi, essa non è assolutamente attuabile. Soltanto la pratica della lotta di
classe ne soddisfa la pretesa conoscitiva... Questa limitatezza della conoscenza
teorica non è tuttavia determinata dall’insufficienza dei suoi metodi, bensì dalla
struttura del suo oggetto. Questo si sottrae alla chiarificazione in termini di una
teoria di classe. Semplificando si può dire che nella società industriale
capitalistica il dominio politico è il metodo del dominio di classe che non si fa
riconoscere come tale >>. Questa dichiarazione di Offe ci sembra
fondamentale. Vale a dire che l’indifferenza del quadro sociale che si presenta
nella sussunzione reale è semplicemente una mistificazione oggettiva: è anche
un momento di falsificazione, meglio di conoscenza falsificata, nella
prospettiva di dominio del soggetto. Ci scontriamo qui con un’operazione di
mistificazione che investe il sociale intero, con un’operazione di mistificazione
che tenta di sottrarre alla coscienza la possibilità di identificare le condizioni
dell’antagonismo.
Questa sottrazione è sostanziale, è reale, - la mistificazione é non solo

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efficace ma produttiva. Vivere questo mondo della mistificazione produttiva,
fino al punto nel quale essa investe la soggettività, è vivere una condizione
eccezionale - evidentemente il problema della rottura di tutto questo, della
definitiva insopportabilità di tutto questo, ci riporta ai grandi temi etici
dell’essere e della sua distruzione o della sua riproduzione. Ma sull’argomento
non vale certo la pena di fermarsi di nuovo. Quello che è fondamentale invece è
notare quanto sostanzialmente pratico sia questo orizzonte della sussunzione
reale. Le produzione materiali tendono verso la soggettività, abbiamo detto: ma
bisogna aggiungere che questa soggettività va soprattutto considerata in termini
di volontà. Sono le soggettività della lotta di classe quelle che qui sono assunte,
mistificate, sottratte alle condizioni dell’antagonismo. Ora quest’analitica della
società, di una società riguardata soprattutto dal punto di vista della volontà, dal
punto di vista della possibilità di lotta e quindi della creazione della differenza,
- quest’analitica è puramente e semplicemente il diritto.
Quando parliamo di diritto parliamo del complesso di norme attraverso il
quale la società costituisce il suo ordine in riferimento alla produzione e alla
riproduzione di se stessa. Intendiamo anche la serie di strumenti che sono messi
in azione per garantire l’efficacia di questa normativa: ma non riduciamo a
normativa a questi strumenti perché essa è infinitamente più larga e la sua
efficacia infinitamente più estesa di quanto gli strumenti specifici
dell’organizzazione giuridica possano il diritto, così come noi i assumiamo, è,
dunque, un’analitica sociale della volontà. La definizione può essere
immediatamente chiarita se risaliamo alla nozione di sussunzione reale ed agli
effetti teorico-pratici che ne seguono. Vale a dire che il diritto ha, rispetto al
mondo della sussunzione reale, lo stesso ruolo che in un universo di
rappresentazioni individuali ha avuto l’analitica kantiana. Il diritto vale qui a
fissare le condizioni di pensabilità di una società capitalistica matura. Solo la
legalità, vale a dire la normatività diffusa ad ogni elemento costitutivo, permette
di pensare la società. L’analitica è la produzione di una mediazione sociale nella
quale tutti i rapporti sono ricondotti alla necessità della riproduzione sociale.
Fondamentale è, ovviamente, il rapporto soggettivo. Ora, l’analitica non
costituisce il soggetto - al soggetto è costituito dal rapporto produttivo in
generale - ma l’analitica, la normatività, il diritto, si estendono lungo tutti i
passaggi che costituiscono il teatro di azioni e reazioni, di rapporti di senso e di
rapporti di significato, costitutivi della sussunzione reale - quindi
il diritto è qui coestensivo, in quanto analitica, della sussunzione reale. Il fatto
di essere qui coestensivo non significa essere identico (vedremo nel prossimo
paragrafo perché). Quello che qui ci interessa di concludere e di sottolineare, è
la densità del rapporto che il diritto ha verso, dentro, la società. E’ un vero e
proprio investimento quello che il diritto opera: esso, in questo distendersi

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globale sul sociale, diviene una specie di abito senza il quale a società non può
mostrarsi. Il diritto è ostensione del sociale, è il linguaggio della sua realtà
profonda, è l’articolazione delle volontà che percorrono e costituiscono il
sociale. Il diritto è una vera e propria kantiana analitica del sociale. Non ho più
parole per esprimere questa inerenza se non quelle adeguate ad esprimere il
rapporto tra il corpo e l’anima: figurazione certo non post-moderna ma
fortemente intrisa di suggestione reale.
Detto ciò occorre aggiungere che questa analitica è la figura morta della
società.
2. Analitica: il diritto come legittimazione.
E’ stato Hegel a mostrarsi il funzionamento del diritto come analitica della
società civile. Quello che non ci si sarebbe aspettato - e che certo Hegel non si
attendeva - è che il diritto man mano divenisse, da analitica, anatomia della
società civile, usurpando così il luogo fin lì ricoperto dall’economia politica.
Dico usurpazione perché il fatto di pervenire ad una tale interiorità nei confronti
della società, non toglie al diritto le sue caratteristiche specificatamente e
fondamentalmente analitiche: la società si è fatta astratta, i suoi movimenti si
sono proiettati verso un’orizzontalità lineare, - il diritto qui dentro ci sta bene, è
adeguato, usurpa una funzione alla quale l’economia politica, per il fatto di
produrre questa società astratta, ha abdicato.
Il diritto segue l’evoluzione dei rapporti sociali di produzione. Ne è la forma.
Ma, procedendo lo sviluppo sociale e proiettandosi questo verso quell’ordine
particolare che è proprio della sussunzione reale, il diritto non è più solamente
forma sociale, meglio, dell’ordine sociale, ma interviene strutturalmente in
quanto funzione generale di legittimazione nella riproduzione sociale. La
legittimazione assume sempre più figure processuali, procedurali, esecutive: la
grande modificazione del diritto nel capitalismo maturo, la sua trasformazione
funzionale, consistono appunto in ciò, nel fatto che il diritto non trascende più i
rapporti sociali ma è ad essi immanente, è esso stesso un evento - quanto
generale si voglia - del processo sociale. Oggi la forma della legittimazione è
assolutamente specifica: vale a dire che essa si pone fra sussunzione reale e
produzione di soggettività. Ciò significa che il diritto costituisce, in forma reale,
i soggetti, dentro una rete di qualificazione delle loro azioni, - rete che non
costituisce semplicemente realtà giuridiche, costituisce bensì il soggetto in
quanto tale. Non v’è soggettività sociale senza che una serie di condizioni
giuridico-istituzionali la configurino. Il diritto interviene dentro la società
delimitando continuamente in maniera amministrativa o giurisdizionale
possibili conflitti - ma non solo: costituendo gli stessi soggetti di un possibile
conflitto, introducendo un sistema di valutazione che cerca di rendersi sempre

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più efficace.
E’ chiaro come questo processo, del diritto in quanto potenza sociale,
rappresenti un morto paesaggio nella vita dello spirito. Si diceva << analitica
>>: vi può essere qualcosa di più analiticamente deprimente di questo continuo
tentativo di bloccare la dinamica detto spirito oggettivo? Il diritto è questo
blocco - un blocco intelligente, una continua selezione dei materiali indistinti
presentati sulla scena della sussunzione reale ed una loro formazione,
un’identificazione - l’invenzione del soggetto. Ma una invenzione che gioca
semplicemente i residui, i margini, le esclusioni. E’ chiaro allora che il processo
di legittimazione in quanto insieme di delimitazioni, selezioni, esclusioni, del
sistema di valutazione e della conseguente esecuzione amministrativa, tenderà
sempre più a ripiegarsi e a chiudersi su se stesso. Ogni difficoltà di soluzione
del processo non potrà che spingere verso la drammatizzazione del momento
esecutivo - stato d’emergenza, situazione di necessità ecc. ecc. Ogni
eliminazione di possibilità corrisponderà ad una tensione verso
un’autolimitazione, un’indipendenza, un’autosufficienza del potere. La
necessità di imporre un meccanismo di regolazione che sia un meccanismo
regolare, costante, continuo - questa necessità spingerà continuamente verso
quell’essenza del comando costituzionale che, con esagerazione linguistica ma
con profonda adesione al reale, Carl Schmitt ha chiamato << dittatura >>. Il
diritto è dunque latenza di dittatura, o meglio dittatura mistificata. Questa
essenza gli deriva dal fatto di essere completamente interiorizzato nella società
ma, in queste condizioni, di selezionare unilateralmente l’insieme delle potenze
sociali. Il diritto, nella sussunzione reale, è di questa coestensivo - ma non è
identico ad essa. Non è identico ad essa perché è un sistema di selezione, una
griglia di valutazione, un meccanismo di esecuzione. Non è identico perché
coglie coestensivamente il tessuto sociale della sussunzione reale ma solo nella
figura negativa che questa permette. Vale a dire che il diritto organizza la
continuità lineare dei processi, i compromessi e le articolazioni di valore che nel
sociale si possono trovare - ma non riesce ad afferrare, né lo desidera, i nuovi
contenuti collettivi che questo sociale attraversano, ed in generale non riesce a
cogliere il passaggio dall’astrattezza del rapporto ad una soggettività superiore.
Il diritto produce soggettività solo in quanto essa si presenti come limitazione.
Limitazione anche dell’astratto. Il diritto teme a potenza della soggettività -
della soggettività ha bisogno solo in quanto materiale su cui costruire la
complessità dell’ordinamento. Insomma il diritto è pura e semplice analitica,
tanto più povera e morta, quanto più lo sviluppo astratto del lavoro si è
affermato come potenza.
Abbiamo detto che il diritto è coestensivo della sussunzione reale ma non

59
identico ad essa, anzi, che esso è predisposto alla rottura degli equilibri
dinamici che si sono formati nel processo di maturazione della sussunzione
reale. E’ noto come sono andate le cose. Nel capitalismo maturo lo schema di
regolazione dello Stato e della società insegue l’adeguamento continuo del
rapporto fra forze produttive, consumi produttivi e stabilità politica. La
regolazione è possibile quando essa avvenga su uno schema di valori unificato
(o in ogni caso non immediatamente contraddittorio) a partire
dall’identificazione di soggetti abilitati alla gestione del rapporto, alla
contrattazione, insomma alla partecipazione al processo di legittimazione. Il
fatto che, in questo schema, il più alto ideale sia quello di un’alla produttività e
che la ripartizione del profitto fra soggetti produttivi si svolga secondo una
regola che introduce nella riproduzione sociale, e dentro questa amplifica, i
benefici della riproduzione secondo moltiplicatori adeguati allo sviluppo - il
fatto insomma che la legittimazione marci a pari passo con la continua riforma
dei rapporti di produzione, esalta in maniera importante la funzione del diritto
nella sussunzione reale e la mostra come articolazione necessaria di questa.
Ma non appena elementi di crisi si rivelano, non appena il diritto è richiamato
in maniera stringente ad esercitare la funzione analitica, ci troviamo dinnanzi ad
una serie di eventi - meglio, di operazioni - che ampiamente caratterizzano il
funzionamento parziale del diritto nella nostra società. Voglio dire che la
legittimazione analitica post-moderna trova una sua specificità quando,
scoprendosi coestensiva della sussunzione reale, rivendica la propria identità,
quindi la separatezza dalla propria funzione. Su tre punti si sviluppa questa
ricostruzione della specificità analitica del diritto: in generale, sulla ripresa,
reinvenzione, ristabilimento, dell’egemonia della forma sopra, contro la
sostanza sociale. In secondo luogo la legittimazione analitica è portata, nel
sistemismo, contro l’unità progressiva del sistema dei valori, e, terzo, nel neo-
contrattualismo, contro il sistema dei soggetti che promuovevano lo sviluppo
giuridico verso l’identità di produzione e riforme.
Accenniamo alle tre forme nelle quali vengono sviluppandosi questi
fenomeni, dal punto di vista storico: procedendo nella ricerca le vedremo con
molta maggiore attenzione, basti qui descrivere la condizione generale del loro
presentarsi. Ora, è particolarmente interessante la forma nella quale si mette
oggi in movimento quel processo che abbiamo detto di scissione fra forma e
sostanza della regolazione sociale. E’ una specie di nuovo trascendentalismo
quello che qui appare. Nella filosofia tedesca contemporanea, in particolare,
nella crisi e negli esiti della scuola di Francoforte, noi soprattutto possiamo
vedere come si sia sviluppata questa rinascita trascendentalistica. La ricerca di
una fondazione critica ha cominciato ad impiantarsi come un bisturi dentro

60
l’unità dell’orizzonte della sussunzione reale. Ma invece di trovarvi
antagonismi, invece di sperimentare e di riassorbire nella scienza quanto in
realtà stava accadendo - la crisi, l’impossibilità di rendere consensuale il nuovo
modello di sviluppo ecc. - invece dunque di far ciò, la fondazione critica ha
separato la forma dalla sostanza di valore: << ipertribunalizzazione >> della
forma di contro alla << subtribunalizzazione >> della sostanza di valore. Vale a
dire che, mentre l’orizzonte trascendentale della forma era fissato in maniera
sempre più stabile, sempre più definitiva, d’altra parte invece la sostanza di
valore era respinta verso i livelli più bassi dell’empiria. La sintesi che, nella
sussunzione reale, si era data, qui scompare. Una costituzione unilaterale del
reale viene così sempre meglio definendosi. Questa costituzione unilaterale è
ottenuta attraverso la sostituzione formale del reale medesimo. L’essere è
definito nella forma della sostituzione. I processi di sussunzione reale sono
trasfigurati nell’immagine della sussunzione - diritto, moneta, rapporti
informatici, simulacri sociali, cifre dell’automatismo sociale, sacro, violenza
della forma eec. La sussunzione ormai ci si presenta solo secondo questa figura,
solo entro questo quadro, prospettiva, orizzonte. Vedremo, procedendo nella
ricerca, come il formalismo si sia modificato in questo periodo di sviluppo, -
ma come questo sviluppo non sia stato altro che realizzazione del distacco fra
forma e sostanza del valore.
Un secondo momento nell’evoluzione del diritto verso funzioni dirette di
costituzione analitica reale (nella fase della sussunzione) ci è data in
quell’episodio dello sviluppo della scienza del diritto che si richiama al
sistemismo. Ora, la finalità essenziale di questa teoria è quella di cercare una
forma della normazione giuridica (e sociale) entro cui l’autonomia e l’insistenza
autentica dei valori, e del loro combinarsi in un’unità dinamica, siano distrutte.
Quello che interessa è determinare una serie di punti di riferimento che si
oppongano, che neghino, che trasfigurino, ogni fondamento ontologico dei
valori. Esiste un antagonismo sociale ed esistono schemi teorici di
organizzazione dinamica-normativa di questo? Non devono esistere. Gli
antagonismi, qualora si diano, non possono essere che funzioni o soluzioni di
processi restaurativi dell’ordine, meccanismi in grado di neutralizzare, di volta
in volta, ogni complessità antagonista. Il diritto dovrà funzionare come
strumento che sposta continuamente, costantemente, i termini di ogni problema
ontologico e trasforma temi potenzialmente conflittuali in struttura di
compatibilità. I soggetti vengono qui prodotti, esattamente come sono prodotti i
valori. Quale terribile vitrea sostanzialità hanno questi soggetti. Quello che
interessa è ridurre il processo di sussunzione reale ad un’immagine naturale -
dove tutti i rapporti reali siano dissolti e gli antagonismi ridotti a fluttuazione -
su questa evoluzione, senza soluzione di continuità, il controllo fila via, come

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appunto la volontà burocratica di dominio vuole.
Non molto diverso, infine, è il terzo esempio che nel seguito della ricerca
ricorderemo. Se nel sistemismo il tema fondamentale è quello della permanente
fluidità del processo e quindi dell’assoluta interscambiabilità dei valori, nel
neocontrattualismo si pone come egemonica la volontà di far circolare la
soggettività dentro uno schema paritario (di eguaglianza, di ricambio, di
commutazione) che di questa soggettività toglie ogni caratteristica materiale. E’
chiaro anche in questo caso che la negazione del carattere ontologico dei
soggetti comporta la massima formalizzazione dei valori. La comunicazione
riflessiva, la commutazione dei soggetti nel neocontrattualismo esige valori di
garanzia che siano assolutamente formali. Non si può scegliere se non
l’equivalente: questo paradosso del valore è, nel neocontrattualismo,
l’equivalente della contingenza dei soggetti nel sistemismo.
Dunque - su tutto ciò torneremo. Basti qui cogliere quello che abbiamo più
volte detto essere ormai la caratteristica fondamentale del diritto come
legittimazione, del diritto come analitica della sussunzione reale. I caratteri di
morte che la funzione giuridica si porta dietro, risultano a questo punto quanto
mai evidenti. Il diritto è la chiave forzosa che deve valere ad escludere la
soggettività dal tessuto sociale della sussunzione reale. Il diritto è il modello di
produzione della soggettività laddove la sussunzione reale sia stata assunta
come semplice orizzonte di produzione e di organizzazione sociale pacificita. E
non basta opporsi a questa onnivora teoria dei sistemi, quale nel diritto è
manifestata, proponendo una semplice mediazione (naturalmente sempre sul
terreno trascendentale) fra teoria dei sistemi e teoria dell’agire.
Occorre invece dare sostanza normativa, polemica ed antagonistica, alla
critica: alla critica della ragione strumentale che qui, nella definizione di diritto
come analitica dello spirito oggettivo, trionfa completamente. Posizioni che non
assumano il punto di vista ontologico, che mantengano i processi di mediazione
che sono propri del trascendentalismo, non riusciranno mai a definire la
sostanza etica del processo critico. I soggetti continueranno ad essere
considerati come semplici residui, non avranno mai la possibilità di esistere se
non in quanto colonizzati dal sistema - elementi sí sempre irrisolti, ma mai
capaci di costruire alternative. Questa è una manovra sofistica sul piano teorico
- sul piano dell’esecuzione del diritto diviene una manovra repressiva. La
razionalità strumentale vince sempre quando la scienza, e le funzioni
dell’organizzazione sociale, non vengono confrontate con il reale. La
mediazione, questa malattia mortale del pensiero filosofico, questa criminale
intenzione del pensiero giuridico, deve scomparire dall’orizzonte della scienza.
Viene così configurandosi il terreno sul quale l’analitica, funzione centrale

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del sapere trascendentale, tenta di configurare un quadro del reale fatto a sua
immagine e somiglianza.
3. Il modello formalistico: Hans Kelsen.
Riconsiderare il pensiero di Hans Kelsen, dopo aver proposto il problema del
formalismo nei termini in cui abbiamo fatto nel paragrafo precedente, può
sembrare inutile preoccupazione archeologica. Non è vero, perché il genio di
Kelsen consistette appunto nel percorrere un cammino che, dal vecchio
formalismo kantiano, portava ben oltre i limiti o le estreme estensioni di questo:
anticipava quella formalizzazione del reale che oggi consideriamo propria della
sussunzione e del postmoderno. In Kelsen il formalismo si presenta come
sovrastruttura della realtà - e però, fin da subito, esso si arma di un’autonoma
produttività, sicché l’avventura intellettuale di Kelsen descrive non solo una
vicenda soggettiva ma piuttosto la tendenza storica del formalismo.
Formalismo come sovrastruttura, dunque. Sovrastruttura di un contesto socio-
economico, forma logica, nella quale questo contesto è analizzato ed ordinato.
Ma, se questa impostazione bastava a Stammler e ai suoi seguaci, se poteva
essere condizione egemone nel revisionismo social-democratico ottocentesco,
non bastava certo a Kelsen. La sovrastruttura è in Kelsen trascendentale. Come
nella scuola di Marburg il trascendentale è produttivo, - produttivo di schemi
della ragione, di tendenze regolatrici, di tipologie formali del linguaggio e della
scienza. Eccoci dunque a scoprire non tanto una base quanto una sorgente del
formalismo, ad identificare cioè il punto sul quale la regolazione del sociale si
manifesta esplicitamente come gestazione di una rete di comando. A partire da
ciò il neokantismo kelseniano si diluisce in un << Opus perpetuum >> che
assume varie figure, tutte agganciate al presupposto neokantiano ma tutte anche
capaci di sganciarsi da questo e di svolgersi, per successive stratificazioni, verso
risultati imprevisti. In una prima fase, il pensiero kelseniano forma lo schema di
lettura (e di organizzazione) del diritto sulla duplice funzione della purezza
logica della teoria e della sua fondazione trascendentale (Grundnorm). Ma
questo non basta: l’analitica deve svolgersi nello schematismo, la teoria pura
del diritto deve accostare ad una statica una nomodinamica: insomma, il diritto
deve produrre la sua realtà. Eccoci dunque, su un primo punto essenziale, al
discoprimento dei meccanismi del formalismo. Lungi dall’essere semplice
registrazione (sovrastrutturale o meno), la forma è un motore, un orizzonte, uno
schema di comprensione. In realtà, la forma è un meccanismo di produzione
sistematica. La Grundnorm produce il sistema. Il sistema si forma attraverso un
meccanismo di gradi - Stufenbau - ed ogni grado è capacità di produzione del
successivo. Gerarchia o meno, qui è egemone l’idea di produzione. Le critiche
rivolte al primo Kelsen, ed appuntate contro la vuotezza del suo formalismo,

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sono pure e semplici banalità. Il pensiero di Kelsen è sempre un pensiero della
produzione e la chiave che lo spinge ad una continua trasformazione, è il
desiderio di cogliere e trattenere nella forma, la realtà. La validità del sistema
delle norme deve farsi efficacia giurisdizionale delle stesse - la norma deve
mordere il reale. Certo, questo senso della realtà che soggiace e regge
l’elaborazione e lo sviluppo della teoria pura del diritto, non deve indurci in
errore. Esso non è altro dal diritto, neppure come strappo, neppure come
anticipazione del diritto: il senso della realtà deve essere prodotto dal diritto.
Questo è il concetto del formalismo kelseniano, - una macchina produttiva,
lanciata sulla realtà, e che a un certo punto non si pone più il problema di
coniugarsi con il reale, si pone piuttosto il problema di produrlo, di sostituirlo
attraverso la produzione, di creare qualcosa che sia simile al concetto che la
teoria ha di se stessa e del diritto.
Questo paradosso è quello di tutta l’analitica moderna. Ma qui assume una
tale incredibile potenza, e violenza di espressione, che davvero c’è da rimanere
sbalorditi. Soprattutto quando, continuando a rielaborare e trasformare il suo
sistema, prima Kelsen proporrà una concenzione realistica e processuale, poi
una concezione decisionistica della norma e del diritto. Per concezione
processuale intendo un disegno del funzionamento del diritto che ricalca la
dinamica procedurale della sua amministrazione nei sistemi giuridici aperti.
Kelsen lavora espressamente su queste ipotesi fino alla definitiva redazione de
<< La dottrina pura del diritto >>, probabilmente il più perfetto esempio di
come il formalismo possa fingere se stesso quale orizzonte ontologico! Ma,
ancora, tutto questo non basta. L’ultimo Kelsen, quello della << Teoria generale
delle norm >>, cercherà di sviluppare non più semplicemente un’ipotesi di
concordanza fra sistema e realtà, fra dottrina pura e determinazione reale, fra
validità ed efficacia: di contro, la potenza stessa della formazione della norma,
in quanto fatto trascendentale, sarà sviluppata come possibilità di costruire il
sistema.
Ora, se noi riprendiamo questo schema di sviluppo del pensiero di Kelsen e
cerchiamo di comprenderlo come filo rosso di un processo storico di crisi e
trasformazione del diritto, le cui fasi finali oggi sperimentiamo - se dunque ci
muoviamo in questo senso ci accorgeremo che, come abbiamo detto, il
formalismo kelseniano è qualcosa di molto più largo di una pura e semplice
trascrizione giuridica del formalismo kantiano. Qui il formalismo è piuttosto
vissuto dentro la realtà del processo storico che conduce dalla fase di <<
sussunzione formale >> del lavoro e della società nel capitale alla fase di <<
sussunzione reale >>. Che cosa significa questo? Significa che, in concomitanza
con questo passaggio storico e assecondando le tendenze che in esso vivono,

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Kelsen interiorizza sempre di più e con sempre maggiore chiarezza il problema
della produzione e della realtà giuridica, della validità e dell’efficacia. La
sussunzione reale è, come ormai lungamente abbiamo sottolineato, quel
momento nel quale la formalità dei rapporti di produzione viventi all’interno di
una società è sottoposta all’egemonia del modo di produzione capitalistica.
Nella sussunzione reale la forma si fa sostanza. La teoria pura del diritto non ha
più quindi bisogno di una Grundnorm che faccia funzionare la sua egemonia
solo in termini parziali e a partire da un fondamento di trascendenza.
Nell’ultima fase del pensiero di Kelsen, ogni norma e una Grundnorm, il
rapporto fra validità ed efficacia è per così dire rovesciato, e l’efficacia anticipa
la validità, ogni norma è in qualche modo norma trascendentale, perché la sua
fattualità non è riconducibile ad altro che alla propria esistenza. La teoria del
diritto sfiora il decisionismo. Ma dello tutto questo, resta il fatto che quel reale è
comunque dinamico. Il sistema produttivo, la sua potenza formativa vengono
fatti combaciare con la realtà. Efficacia e validità che si sono talmente confuse
che vivono ormai insieme la tensione produttiva del reale. Il formalismo
kelseniano è un’ideologia della produzione.
E’ interessante, meglio, fondamentale questo riferimento a Kelsen.
Probabilmente se il suo rapporto non si fosse fatto talmente importante nella
storia del pensiero giuridico e politico contemporaneo, sarebbe stato
difficilissimo elaborare, in positivo o in negativo, una teoria sistemica del
potere. Quello che colpisce è tuttavia soprattutto, nel pensiero di Kelsen, la
scoperta della impossibilità di evitare la produzione e, come abbiamo
sottolineato, la capacità di far seguire a questa scoperta un sistema produttivo
sempre più determinato, sempre più capace di rispecchiarsi nel reale. In Kelsen
dunque noi troviamo completamente sviluppata quella rottura tra forma e
sostanza del processo di valore che si pone come condizione fondamentale della
trasformazione della teoria sul terreno della << sussunzione reale >>. Ma, come
abbiamo visto, questa rottura è anche uno spostamento di livelli, un
dislocamento. Dentro la realtà trasformata nel processo di spiazzamento, di
dislocazione generale, dentro il linguaggio che registra questo orizzonte ed è, su
questo strato della realtà, riorganizzato in termini di senso e di significato, -
ebbene, qui Kelsen ricostruisce una nuova unità, che è un circolo di validità e di
efficacia, di normatività e di decisionismo, di diritto e Stato. Il formalismo
kelseniano, dopo aver vissuto una vicenda gerarchica che lo ha spinto di grado
in grado, attraverso crisi successive, verso un nuovo livello di realtà,
ricostruisce e riorganizza ora questo livello come circolo. Un circolo che è fatto
muovere dalla materialità degli eventi che in esso sono registrati - potremmo
dire che è la produzione ad essere la chiave di volta del movimento
nell’orizzonte formalistico kelseniano.

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Vi sono interessanti analogie che a questo proposito si possono porre: fra
queste, soprattutto importante mi sembra quella che permette di confrontare
movimento e figura del pensiero di Kelsen e di quello di Keynes. Vale a dire
che in entrambi questi autori la preoccupazione sistematica di controllare la
realtà nel sistema (<< Dottrina pura del diritto >> per Kelsen, << Trattato della
moneta >> per Keynes) è spinta ad una tensione massima, che configura
l’astrazione del reale nella forma del sistema. Ma, pervenuti a questo punto,
spinta avanti l’analisi fino a determinare il salto della dislocazione, gli autori si
guardano attorno - scoprono allora che questo sistema dislocato corrisponde
perfettamente al reale. L’operazione di innovazione scientifica ha riconquistato
la realtà, la fiducia nella forma ha restituito la storia. Abbiamo dunque un
secondo Kelsen ed un secondo Keynes (della << Teoria della norma >> e della
<< Teoria generale dell’occupazione e della moneta >>) nei quali questo
rovesciamento che paradossalmente procede all’interno, investendo la tensione
sistematica, è attuato fino in fondo. E la circolarità delle proposizioni e dei
soggetti sistematici è garantita da un autonomo interno movimento - che è
quello sollecitato dal reale. In questo secondo periodo del pensiero di Kelsen, -
possiamo ora smettere l’analogia con Keynes - non vi è solo dunque nostalgia
della realtà e quasi un senile riagganciarsi ad essa (come alcuni interpreti
malevolmente suggeriscono) - vi è bensì la ripresa in carico del compito di
spiegare la realtà giuridica e le trasformazioni dello Stato dal punto di vista
della loro effettualità. La rottura fra forma e sostanza del processo di valore è
quindi, per così dire, superata... naturalmente tutto questo si rivela essere solo
una tendenza. Sarebbe senz’altro esagerato ritenere che il realismo giuridico - e
soprattutto un realismo giuridico tanto sviluppato da essere capace di
interpretare l’orizzonte della << sussunzione >> - divenga oltre che egemone,
esclusivo nell’ultimo Kelsen. Al contrario è certo che tutti i passaggi in questa
direzione, non riescono a togliere al sistema quel radicamento formalistico che
gli è proprio. Ma quello che a noi interessa, è sottolineare come qui venga
sviluppandosi quel dislocamento del terreno della considerazione scientifica,
quella catastrofe del paradigma, che, nei paragrafi successivi, vedremo
dominare l’analitica giuridica della << sussunzione >>. Per dirla in altri termini:
Kelsen riconquista, nell’ultima fase del suo pensiero il primato della legittimità
contro l’eminenza della legalità.
Perché è attorno a questi due concetti che dobbiamo portare la nostra
attenzione. Legittimità è categoria dell’efficacia, è determinazione
fondamentale del sistema, - mentre legalità è validità normativa, è l’orizzonte
formale del medesimo. Ora la circolarità di questi due termini si presenta come
asimmetrica: nel formalismo quest’asimmetria vede la forma prevalere sulla
sostanza del valore. Ora Kelsen inverte i termini, - ma questa inversione non si

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fa a scapito della forma: si fa - tenendo conto delle nuove condizioni del
circuito giuridico - ricalibrando il rapporto fra forma e contenuto, fra legittimità
e legalità, che resta si asimmetrico ma è riequilibrato rispetto ad un concetto di
legittimità estremamente ampio. L’analisi del pensiero di Kelsen ci propone
dunque l’amplificazione dell’orizzonte formale, ci propone un vero e proprio
meccanismo di produzione reale a partire dall’approfondimento dell’analisi
della forma e da un rovesciamento dell’asimmetria fondamentale del rapporto
giuridico. Un nuovo reale è quello che ci è consegnato.
4. Il modello contrattualistico: Rawls.
Dobbiamo andar al di là del Welfarestate: ma verso dove? E’ fuori dubbio che
lo Welfarestate sia in crisi: ma che cosa sostituirgli? E’ certo che la situazione
generale socio-economica si è trasferita e trasfigurata nella dimensione della <<
sussunzione reale >>: quail saranno gli assetti politici e giuridici che ne
seguono?
E’ con queste questioni che si misura il neocontrattualismo anglosassone
nell’ultimo ventennio. Un neocontrattualismo che assume varie figure, o
puramente liberali e giusnaturalistiche (alla Nozick) oppure socialdemocratiche
e consensualistiche (alla Habermas) - oppure, infine, propriamente
neocontrattualistiche alla Rawls. Ora, a noi interessa soprattutto cogliere quel
memento attorno al quale l’analitica del diritto, un’analitica radicata nella
società della << sussunzione >>, comincia a configurarsi. E subito vedremo
come il risultato del pensiero kelseniano sia qui assunto, come il suo
formalismo sia qui utilizzato - ma vedremo anche come, dentro il nuovo livello
di realtà che è assunto, vengano fatti vivere valori e posizioni ideologicamente
pregnanti, volte a distruggere, veramente ab imis, ogni permanenza del
Welfarestate.
La crisi del Welfarestate è dunque considerata irreversible. Al Welfarestate va
opposta una concezione che sappia far valere un’ideologia individualistica nel
sistema del diritto. Questo individualismo deve coniugarsi ad un orizzonte
pluralistico ed egalitario e concorrere alla formazione di uno schema di
legittimazione del diritto e della società economica, così come essi sono dati
nello sviluppo capitalistico. Il contrattualismo non si propone di costruire
schemi di regolazione, si propone piuttosto di determinare le condizioni
affinché possa essere organizzata la società nel periodo dopo lo Welfarestate. Si
badi bene: c’è un individualismo conservatore, legato a valori immobili,
patrimoniali e monetari,. e c’è un individualismo egalitario: fra questi il
contrattualismo sceglie, e sceglie decisamente, nel senso del secondo polo
dell’alternativa. C’è poi un utilitarismo borghese e un utilitarismo che riguarda
le finalità sociali complessive: anche in questo secondo caso il contrattualismo

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pretende di scegliere il secondo dei due principi. Sicché esso ritiene di potere
costruire uno schema di equilibrio sociale orientato dal principio di eguaglianza,
sorretto da un principio di reciprocità formale, sviluppato in termini
sostanzialmente riformistici. E’ chiaro che mai come in questa posizione risulta
evidente la paternità filosofica del kantismo e di una certa neokantiana
fenomenologia: le figure di orientamento e di tendenza che sono definite nel
neocontrattualismo stanno infatti a mezzo fra il formalismo dell’intelletto e lo
schematismo della ragione.
Con ciò un certo tipo di dinamicità formale è impressa al circuito: laddove
tuttavia deve essere chiaro che non v’è soggetto se non come imputazione
formale del circuito stesso. Caratteristica del neocontrattualismo è il fatto di
distruggere ogni soggettività indipendente, di considerarne la possibilità solo in
termini di aggregazione formale. E’ difficile riassumere brevemente la
complessità di mezzi che viene in proposito messa in atto per raggiungere la
descrizione di uno schema di << reflective equilibrium >> sociale-giuridico. Da
un lato giocano, nel senso di questa costruzione, gli elementi già ricordati della
filosofia kantiana e fenomenologica - dall’altro giocano soprattutto le
sollecitazioni che derivano dalle correnti anti-utilitaristiche degli anni ‘30
(Lionel Robbins, Hayek ecc.), e soprattutto che pervengono agli autori del
contrattualismo da parte delle scuole scettiche e realistiche di Pareto, di Arrow
ecc. Insomma i contrattualisti cercano di identificare un terreno sul quale dei
soggetti fittizzi, eguali, equivalenti si confrontano l’uno con l’altro,
determinando all’interno di questo confronto, e come riflessione su questo
confronto, la loro costruzione come soggetti giuridici. Vale a dire che
l’individualismo contrattualista vuole distruggere ogni referenza ontologica del
soggetto. Ma non avevamo noi stessi sostenuto che l’unico livello interessante
per l’analisi era appunto quello sul quale l’astrazione trionfava e il complesso
delle relazioni socio-politiche e giuridiche si offriva solamente come contesto di
equivalenze! Certo - ma questo non significa non cercare di reidentificare, una
volta riconosciuto e fissato questo livello come terreno adeguato della ricerca,
gli antagonismi soggettivi. Il problema non è quello di negare la trasformazione
del reale che abbiamo dinnanzi - è bensì quello di cogliere in questo reale
modificato, il riproporsi dell’antagonismo, il funzionamento dei meccanismi
della soggettività. Sembra chiaro allora che la teoria neocontrattualistica, a
fronte della crisi del Welfarestate e della prassi di regolazione giuridica del
medesimo, pur riconoscendo che questa crisi è definitiva, tenta semplicemente
il ricorso ad un nuovo formalismo - nello sforzo di comprendere analiticamente
il nuovo. Ma è appunto questo il momento critico: quando il contrattualismo
nega la possibilità di considerare i soggetti della contrattazione riformistica se
non dal punto di vista di un’identificazione riflessiva e formale. Occorre andare

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a fondo su questo concetto di riflessività. Esso ha lo spessore della profondità,
ha una liquida densità. Da esso non sembra possibile uscire. Detto tutto ciò
risulta evidente che questa specie di formalismo al quadrato, questo riflettersi
della forma in se stessa definisce esattamente la sostanza del problema e non ne
costituisce la soluzione. Che cos’è infatti l’orizzonte della << sussunzione reale
>> se non appunto questo ingigantirsi ed ispessirsi dell’orizzonte della forma?
Ma, laddove lo stesso Kelsen comprendeva che dentro questo processo si
definiva una nuova realtà, i neocontrattualisti godono nel giocare
formalisticamente gli elementi di questo nuovo complesso. Davvero non può
nascere determinazione in una notte siffatta - qui << tutti i gatti sono bigi >>.
Eppure questa insistenza sulla definitività della crisi di regolazione del
Welfarestate, questa descrizione così approfondita della società attuale come
insieme formale di relazioni riflessive, potevano permettere di inquadrare i
nuovi elementi di conoscenza e di impostare una soluzione giuridica adeguata.
Qui invece ci troviamo di fronte alla vittoria del momento di mistificazione. La
legittimazione del potere dovrebbe nascere, in questo schema, dallo sviluppo
ordinato delle relazioni formali - ma tutto ciò è pura e semplice mistificazione,
e i valori formali non hanno certo la capacità di mordere criticamente la realtà,
hanno al massimo la possibilità di veicolare lo stato di cose esistenti. Sicché,
anche a questo proposito, sembra che il vecchio kelsenismo sia teoria, malgrado
tutto, più scientificamente efficace: esso infatti sembra rappresentare il
problema dentro un quadro dinamico e proporre la tematica dei coefficienti
d’adesione dei soggetti ai principi della legittimità, in termini aperti ma,
malgrado tutto, più definiti di quanto non faccia il contrattualismo.
E’ strano considerare il modo in cui la crisi dello Stato keynesiano si sviluppa
fra questi autori. C’è infatti un’ostinazione nel negare la presenza di soggetti
collettivi nello sviluppo della stessa crisi del Welfarestate - ostinazione davvero
incredibile! Questa mancanza di concettualizzazione nei riguardi dei soggetti
collettivi si regge fondamentalmente su due punti di vista: il primo consiste nel
negare che in qualsiasi memento si possa dare un equilibrio sostanziale al
rapporto di produzione, quando dentro questo rapporto si muovano soggettività
collettive; il secondo punto consiste nell’affermare che non si potrà mai dare
coerenza fra interessi dell’individuo e determinazioni collettive del soggetto.
Sicché la stessa esistenza del contratto fra gli individui è sempre aperta alla
crisi. La razionalità della produzione e la durabilità del contratti prevedono
dunque l’autorità - ma dentro questa stessa previsione è escluso che ciò che
deve essere garantito possa essere il garante - e la difficoltà insormontabile di
costruire soggettività collettive ci costringe dunque a ripiegare sul formalismo.
Ma è corretta questa impostazione? E chi garantisce che l’elemento

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fondamentale cui riferirsi sia l’individuo? Può mai funzionare un sistema
produttivo moderno sulla base dell’individualismo? E che significato ha parlare
oggi di contratti su base individuale? Se si parla di crisi del Welfarestate e di
entrata in una fase di << sussunzione reale >> è appunto per porre il problema
di una fondazione collettiva infinitamente più avanzata, per quanto riguarda la
struttura del diritto e dello Stato! Eccoci dunque a cogliere quello che è il buco
nero delle teorie neocontrattualiste nell’evoluzione della tematica della crisi del
Welfarestate. Il formalismo che esse introducono è un passo indietro rispetto
allo stesso formalismo kelseniano. L’unico contributo importante di queste
correnti viene dalla forte caratterizzazione dell’orizzonte della << sussunzione
>> che è il presupposto dell’analisi. Questo presupposto viene poi abbassato ad
un intreccio di volontà e di intenzioni individuali. Ci è data cioè in forma
mistificata, e solo in forma mistificata, la modificazione del quadro di
riferimento. In forma mistificata, tutto questo ci è dato per una sola ragione:
negare assolutamente l’esistenza del soggetto e la possibilità che rinasca
antagonismo sul livello della << sussunzione >>.
5. Luhmann: il modello strutturale e la sua critica.
Riguardando al modello analitico che è costruito dalle teorie
neocontrattualiste e connfrontandolo con l’impostazione sistemistica che adesso
considereremo con cura, va subito detto che il neocontrattualismo si rivela
essere una determinazione di passaggio, un fenomeno teorico transitorio
piuttosto che una sicura conclusione del processo analitico stesso. Voglio dire
che il neocontrattualismo rivela al suo interno una serie di componenti, che
sono accostate più che sintetizzate, una serie di elementi tipici della tradizione
anglosassone ed in particolare della sua variante conservatrice (non è tanto
Locke, quanto Burke per intenderci). Il neocontrattualismo, nella sua
fondamentale spinta verso l’appiattimento formale delle contraddizioni, verso
un egalitarismo del tutto vuoto di pulsioni soggettive, vale in realtà a descrivere
una serie di comportamenti diversi e a confondere le diversità, piuttosto che
esaltarne un meccanismo di mediazione. Per riprendere la nostra terminologia
(e quella marxiana) si potrà dire che il neocontrattualismo è una teoria giuridica
del passaggio dalla << sussunzione formale >> a quella << reale >> che esso
raccoglie gli elementi diversi di una tradizione composita per confonderli in un
quadro sintetico, che ha bensì trovato una dimensione unitaria ma non ancora
determinato l’efficacia di un unico motore. Stato e diritto vengono così
reinterpretati dentro una fluida mélange di liberalismo, contrattualismo,
federalismo e, insomma, di tutti quegli elementi che in qualche maniera hanno
potuto caratterizzare lo sviluppo dello Stato liberale nell’ultimo secolo. Da
questo punto di vista, e forse in tal modo correggendo delle affermazioni fatte

70
nel paragrafo precedente, si può dire che qui permane una fondamentale
tensione alla legittimazione, che essa si esprime attraverso queste resistenze ed
insistenze tradizionali, che quindi l’egemonia della legalità sull’orizzonte della
legittimità è comunque parziale e, in maniera latente ma reale, sempre insidiata.
Non così certo vanno le cose quando tocchiamo le teorie sistemiche. Il loro
radicalismo configura definitivamente l’orizzonte del diritto nella <<
sussunzione reale >>. L’analitica è qui completamente sviluppata, è l’analitica
di una cosa, di una formidabile morta potenza. Vi è un barlume di estetica
trascendentale che si intravede alla base della monumentale costruzione
analitica: è la definizione della contingenza delle relazioni sociali. Una
contingenza, tuttavia, che non pone il problema di una determinazione e di una
scelta ontologica che valgono a superarla; al contrario, questa contingenza è
assolutizzata, ogni valore in essa circola in maniera completamente indifferente
ed equivalente, nessuna selezione può essere ontologicamente definita, la
circolarità è Completa e la tautologia, che su questa circolarità di referenze si
forma, è anch’essa totale. Su questa base ci si pone il problema: << eliminare la
tautologia nel sistema di autoreferenza: l’obiettivo risiede nell’autocatalisi nella
riduzione della sfera del caso al momento della costituzione del sistema >>. Si
vede quanto l’estetica trascendentale sia mero elemento di orizzonte, quanto il
riferimento alla contingenza valga la pena ad identificare, in senso esclusivo, un
rapporto verso la fatticità analitica. Il tramite della costruzione sistematica è la
comunicazione: << la comunicazione è un processo necessariamente riflessivo
che si integra in se stesso come comunicazione >>, << il Consensus è il telos
della comunicazione >>. Tutto ciò per affermare infine che sono solo le
dimensioni del senso quelle sulle quali le determinazioni della comunicazione
includono la significanza di ogni fenomeno sociale ed escludono ogni rinvio al
di là di questo orizzonte autoreferenziale.
L’illuminismo sociologico e giuridico di Luhmann diviene a questo punto lo
strumento fondamentale per la costruzione del sistema, quando si tenga presente
che questo illuminismo è la capacità di determinare connessioni formali, di
semplificare il complesso, di costruire il sistema. Illuminismo è qui riduzione,
ovvero la produzione di un orizzonte semplice, semplificato, che si ponga come
condizione della logica sistemica. E’ incredibile come questo meccanismo
totalmente formale cresca su se stesso, si espanda, si rafforzi. E’ una protesi
della natura che domina la natura: << i concetti tradizionali di autoreferenza, di
riflessività, di riflessione sono così trasferiti dalla teoria del soggetto alla teoria
dei sistemi; essi sono trattati come strutture della realtà e la conoscenza appare
allora nel sistema come un caso del processo di autoastrazione della realtà >>. Il
meccanismo epistemologico che regge questo sviluppo conoscitivo interpreta

71
una funzione fondamentale, che è quella della neutralizzazione degli
antagonismi, meglio, della distruzione di ogni orizzonte di valore, della
destrutturazione completa di ogni determinazione ontologica propria
dell’universo dell’autodeterminazione (del mondo dell’astrazione del lavoro).
Così si chiude il processo costitutivo dell’orizzonte... e chi può più dire di quale
orizzonte? Orizzonte della legittimità o della legalità? Quando ogni elemento
ontologico è chiuso in una indifferenza che è totale nei confronti di altre
possibilità, quando la dinamica dei fattori è sempre manipolabile in maniera da
poter essere compatible con la stabilità del sistema, quando ogni determinazione
viene assorbita sul terreno del senso, - a questo punto la stessa indicazione di
una alterità fra validità ed efficacia, tra legalità e legittimità risulta inafferrabile.
Come dice giustamente Gozzi: da questa situazione << consegue un processo
senza struttura, un’evoluzione senza soluzioni di continuità in cui il momento
dello scontro viene allontanato nell’infinita possibilità di differenziarlo
attraverso la struttura del potere (monetizzazione, giuridicizzazione,
politicizzazione, spoliticizzazione, ecc.). NelI’evoluzione delle forme
sistemiche anche la decisione diventa solo una funzione del mutare contingente
delle strutture >>. Che dire dunque in questa situazione? Dove mai sarà la
differenza fra quei sensi fondamentali - verso l’ideale, verso il reale - che
caratterizzano l’esperienza? Qui dominano tautologia e fluttuazione, qui emerge
un parmenidismo essenziale. Qui l’orizzonte della pura contingenza diviene una
prigione che trattiene dalla ricerca del significato.
Eccoci, dunque, al centro di un’operazione resa necessaria dal passaggio
compiuto alla << sussunzione reale >>: la distruzione dei valori. Come nella
teoria neocontrattualistica avevamo visto i soggetti sfumarsi dentro un
meccanismo formale di interrelazioni, così ora vediamo l’orizzonte del valore
dissolversi dentro la mobilità del sistema. Al di là dello schema teorico v’è
quindi un duplice meccanismo: il primo è quello della distruzione dei valori nel
senso del riconoscimento che questi possono in ogni caso organizzare un
elemento di blocco, di opposizione e di crisi, del processo di legittimazione
dello Stato democratico-capitalistico; il secondo è un meccanismo di
sostituzione dell’orizzonte stesso sul quale le contingenze si scontrano. Voglio
dire che il sistemismo segue il processo di << sussunzione >>, coglie di questo
il carattere radicalmente catastrofico ed innovativo, identifica la dimensione
astratta che caratterizza questo nuovo universo, caratterizza in maniera adeguata
(contingenza versus comunicazione) questo stesso universo, - ma fa tutto questo
per eliminare ogni possibilità di opposizione, per eliminare le stesse condizioni
dell’opposizione, delle determinazioni storiche. Il sistemismo costituisce al
reale un mondo che non è finto nei meccanismi di astrazione che lo producono -
diviene finto, posticcio, fittizio, solo nella mistificazione del risultato - quando

72
cioè questo mondo viene svuotato di ogni vita.
E’ esattamente quanto i critici rimproverano a Luhmann. Assumiamo e
seguiamo, ad esempio, le critiche di Habermas. Esse si concentrano contro le
affermazioni di Luhmann relative alla possibilità di autoadattamento
dell’amministrazione rispetto alla complessità dei problemi del capitalismo
avanzato; inoltre, Habermas insiste sul deficit di razionalità che è sempre
presente, e a cui certamente non si può ovviare in termini filosofici, nel rapporto
tra amministrazione e controllo. In entrambi i casi Luhmann proporrebbe una
pianificazione globale non partecipativa, una determinazione dell’intervento
amministrativo priva di controlli che non siano puramente tecnici. Ma la tecnica
non può in ogni caso sostituirsi al consenso, soggiunge Habermas, - ed è
impossibile sottrarre lo statuto logico di un progetto di pianificazione o
semplicemente di un disegno o di un’organizzazione amministrativa alla scelta
politica di un certo (o di un altro) concetto di razionalità. Questa critica di
Habermas coglie non solo del punti singoli della sistematica di Luhmann - essa
coglie l’ispirazione stessa di quella teoria. Vale a dire che l’analitica viene qui
svelata nella sua estrema e ultima prepotenza che è quella di togliere ogni
possibilità di ricorso alla determinazione ontologica, al fatto, ai movimenti della
vita. E’ quella di sostituire il reale. Si badi bene: non è contro la materialità,
l’effettualità di questo passaggio che qui si polemizza, è piuttosto contro il fatto
che la verità di questo passaggio è opposta alle dinamiche completamente
umane, fisiche materiali che, sia determinano il passaggio, sia continuano a
caratterizzare il risultato. Da questo punto di vista la stessa critica di Habermas
è, per quanto corretta, solo parziale: qui infatti non si tratta di attaccare le
insufficienze tecniche del discorso di Luhmann (il quale, tuttavia, illustra fino in
fondo il passaggio alla << sussunzione reale >>), qui si tratta di andare a fondo
sulla qualificazione di questo universo nuovo dentro il quale viviamo e di
riqualificare le categorie sociali e la loro critica a questo livello.
Ora, è la posizione, critica e/o costruttiva, che le scuole tedesche (Habermas,
Apel, Tugendhat, ecc.) assumono, sufficiente a rispondere agli interrogativi
proposti dal sistemismo? A me non sembra. Infatti la linea alternativa al
sistemismo, (sulla base della medesima fenomenologia che il sistemismo
assume) è identificata in una nuova definizione di trascendentalismo. Vale a
dire che il rapporto tra sfera del senso e mondo dei significati sociali viene
identificata in genere qui su un terreno medio di espressione del valore. Il
mondo della comunicazione e quello delle contingenze empiriche sarebbero
attraversati da un asse, a sostanza etica, che può ridurre in maniera non tecnica,
in forme non meccaniche, la complessità reale. Le differenze fra codici
linguistici, fra determinazioni pratiche che discendono dai temi linguistici, fra le

73
varie sequenze temporali entro le quali le determinazioni della comunicazione
vengono svolgendosi, - tutto questo deve essere risolto attraverso un’operazione
pragmatico-trascendentale che, per i filosofi tedeschi che si scontrano con il
sistemismo, consiste nel principio del consenso. Laddove il sistemismo tiene, e
forma, anche sul livello del massimo di astrazione, il principio tradizionale
dell’obbligazione, vi questi nostri amici tedeschi (che ormai possiamo
cominciare a chiamare filosofi critici) introducono il tema del consenso come
tessuto sul quale costruire assi di legittimità. Quanto poco questo processo ci
entusiasma, sarà già apparso chiaro dal tipo di esposizione che ne abbiamo
fatto. Certo, onesto è il tentativo di opporsi a quella fondamentale e rigorosa
distruzione della prassi che caratterizza il sistemismo; certo, è molto importante
questo riagganciare il tema dell’etico e riproporlo come chiave di comprensione
logico-teorica; certo è essenziale porre il problema di un attraversamento
ontologico (sia pure, appunto, etico) sull’orizzonte della << sussunzione reale
>>. Ed è a tutti questi problemi infatti che dovremo rispondere. Ma non v’è
speranza di soluzione laddove ci si tenga, come fanno filosofi citati,
all’orizzonte del trascendentale, alla dimensione della mediazione.
Ma su di questo già detto moltissimo e a più riprese, inoltre saremo più
innanzi ancora costretti a tornare su questo vizio occulto della filosofia (e della
filosofia critica in particolare) che si chiama analitica. Qui per concludere
cerchiamo piuttosto di dare, e questa volta senza rivolgersi agli amici tedeschi,
una valutazione complessiva e definitiva del sistemismo. Che dire dunque? Che
dire se non che esso rappresenta un’ambiguità enorme? Esso è ambiguo infatti
perché comprende e offre insieme due dimensioni, una prima - corretta - di
analisi, ed una seconda di mistificazione. Il sistemismo definisce correttamente
la dislocazione, il salto epocale, che l’organizzazione del sistema dei valori
costruisce nel nostro tempo a fronte delle necessità dello sviluppo capitalistico
maturo. Il sistemismo descrive questo universo in maniera ricca e per alcuni
versi compiuta. A lato di questo esso mistifica il processo: ce lo dà come
disperato orizzonte dal quale non e possibile evadere, sul quale si e obbligati ad
autoriferirsi a se stessi. Ma a quale se stessi? Perché infatti qui, non solo non si
danno soggettività, qui non si danno più neppure valori - qui si possono dare
solamente forme di controllo su un contesto di indifferenza totale. Il sistemismo
è dunque una via per la mistificazione: il fatto che la mistificazione risulti
efficace risulta dal fatto che la fenomenologia sulla quale il sistemismo lavora, è
esatta.
6. L’antagonismo nella teoria della legittimazione.
Tentando di riassumere e di definire lo stato della dottrina del diritto nella
fase attuale dobbiamo notare con quanta forza il passaggio ad un’altissima

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integrazione sociale abbia influito sulla forma della scienza. In ciò consiste la
faccia positiva delle discussioni che, sulla natura della scienza e sul suo
sviluppo, oggi sono aperte. Ma d’altra parte questa pressione della farina
dell’interazione sociale sulla farina della scienza si è prodotta in termini
meccanici. Il pensiero borghese si presenta, quindi, nella sua versione forte,
come sistemismo, nella sua versione debole, come funzionalismo e
contrapposizione. Ma non sono queste definizioni, dentro il rapporto lineare che
la lega all’integrazione sociale, piuttosto fossili risultati che prodotti viventi del
rapporto fra scienza e società?
E’ caratteristico il modo nel quale le tendenze a trasferire il rapporto
sociologico (e la sua sempre più stringente moderna qualificazione) versa il
terreno della scienza, come l’apporto di Max Weber alla sociologia della
conoscenza e della scienza, siano stati qui corrotti. In Max Weber la scivolare
del significato, del valore, dal piano della realtà a quella della rappresentazione,
costituiva un rapporto contraddittorio: non dialettico, ma contraddittorio. La
contraddizione non si chiudeva in nessun caso ed il trasferimento delle
tematiche castituiva [costituiva?], per così dire, un piano di intersezione,
mobile, orientato in infiniti sensi, - sicché ogni passaggio versa l’astratto
determinava conflitto, fissava ai valori direzioni politeiste, offriva alla scelta
una dimensione tanto trasversale quanto multilaterale. Ma ora, che cosa
avviene? Guardiamo a questi weberiani accademici: in loro ogni drammaticità
inerente allo scontra dei valori è caduta - la loro unica preoccupazione è che i
criteri di legittimazione possano scontrarsi - o non formarsi compiutamente ed
egemonicamente sul lato del potere esistente. E per loro la democrazia è sempre
un eccesso che va corretto (come un indimenticabile saggio della Trilaterale ha
raccontato per il nostro secolo). Così in Raymond Aron la burocrazia diviene,
molto poco weberianamente, non un prodotta di un processo di legittimazione
fondato comunque su scelte ed antagonismi di valore, ma la base di ogni
moderna democratica fondazione della legittimità. Così per Michel Crozier i
processi di burocratizzazione diventano talmente centrali nella considerazione
che, non prima o attorno o comunque fuori di essi, ma solo dentro di essi,
processi di valore e di legittimazione possono definirsi. In questo modo il
sistemismo tedesco ed anglosassone viene tradotto in francese, con il vantaggio
di essere rivestito di politica, di esperienza amministrativa e di buon senso
burocratico. La figura astratta, provocatoria, radicale del sistemismo tedesco e
anglosassone è tolta. Il sistemismo viene ovattato - perde in realtà anche le sue
caratteristiche fenomenologiche e descrittive, positive per quanto riguarda la
nostra conoscenza dei fenomeni e delle trasformazioni della contemporaneità;
ed in tal modo si riduce a pura e semplice fossile escrescenza di un processo
concluso. L’antagonismo che è alla base del passaggio verso la << sussunzione

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reale >> è così cancellato in maniera, non più radicale, provocatoria, offensiva
per la ragione - forse proprio per questa prepotenza, utile - bensì ne è imposta
una negazione fluida e surretizia. Nel nostro tempo vediamo questa fossile
mistificazione dei processi di legittimazione nella << sussunzione reale >>
divenire assolutamente egemonica E quando si piange sulla spoliticizzazione o
sull’indifferenza dei singoli e delle masse, è a ciò che occorre far risalire il
pensiero: a questa fissazione, ormai indiscutibile, del tema della legittimazione.
Di contro, tessuti vari e campi diversi di esperienza. Vi è una nuova <<
Entzauberung >> che si sta mettendo in atto. Questa meraviglia, questo stupore
filosofico che deve portare allo smagamento non può oggi esercitarsi che su
questa dimensione formidabile del nostro esistere in quanto esseri sociali. La <<
sussunzione reale >> e le forme di legittimazione, fossili e spente, che di essa
organizzano la struttura politica e quella giuridica si scontrano a tal punto con il
sentimento comune, ed a tal punto rivelano la contingenza di ogni soggetto
implicato in questo meccanismo, che il dubbio e la volontà di rispondere non
possono che farsi radicali. Abbiamo già visto nella prima parte di questa nostra
ricerca come appunto sia a fronte della << sussunzione reale >> e di quel <<
postmoderno >> che in parte letterariamente li incarna, che la coscienza della
contingenza e l’estremo radicalismo delle sue scelte vengono emergendo. Qui
non ci interessa tornare a quella profondità: qui ci interessa piuttosto restare in
superficie, - eppure considerare come da questa superficie si diramino delle
possibilità di domanda metafisica, e già, prima, delle domande che investono,
attraverso il tema della legittimazione, la ragione dell’esistenza sociale. Quando
l’uomo è completamente sussunto nella forma della società, la dignità della
filosofia si fonda intera sulla sua adesione al sociale. Venendo al concreto:
l’esperienza, quella stessa esperienza che si scontra con la rigidità delle
mistificazioni del << postmoderno >>, determina un’insofferenza, una tensione
di rottura, riapre in ogni caso del fronti di antagonismo che vengono vissuti
drammaticamente dal soggetto. Certo, i processi di << sussunzione >> non
lasciano spazi di agibilità per il soggetto, al di là di quella superficie totale sulla
quale egli è schiacciato; certo, la domanda sull’essere è domanda sull’essere
sociale quale questo viene rappresentandosi in questa nostra esistenza sussunta.
Ma è appunto questo apparire della soggettività sulla, e come, superficie del
mondo che ripropone un pluralismo a fortissima densità ontologica - ma
pluralismo qui, non può che significare, sul largo orizzonte della <<
sussunzione >>, il costituirsi di chiaroscuro, il definirsi sempre meno
evanescente dei nuclei di soggettività, insomma l’eventualità, meglio la
possibilità, di antagonismo. Io non so come questa esperienza possa essere
compiutamente descritta: qui è luogo, in questo nostro triste tempo, alla
letteratura ed alla poesia più che alla filosofia. Ma è certo che quando, ad

76
esempio, la genesi di questi antagonismi sul terreno sociale viene impattata da
meccanismi di legittimazione rigidi e repressivi, è certo che allora lo scontro fra
libertà e necessità, tra vita e morte, tra dinamica e forza fossile di questo mondo
dominato, diviene un elemento di definizione ontologica della società. La
soggettività come superficie del mondo è un paradosso - ma questo terreno
paradossale è attraversato da tensioni inesauribili che definiscono ogni
orizzonte di vita come terreno di scontro, di genesi e/o di equilibrio di valori.
Nella teoria della legittimazione ci troviamo quindi di fronte, da quello che
siamo venuti dicendo, all’opposizione di due grandi prospettive teoriche. Da un
lato vi è lo schema della legittimazione così come è proposto dalle forze che
hanno dominato il processo della << sussunzione >>: qui, fra
neocontrattualismo, funzionalismo e sistemismo, la macchina del potere tenta di
costruire l’intera panoplia dei beni e dei soggetti giuridici. Che il diritto sia una
macchina per la produzione di qualificazioni per l’azione umana, sociale, è
noto: meno noto è il fatto che qui non si parla di valori da organizzare o di
soggetti da qualificare, si parla bensì di valori e/o soggetti da costruire o da
distruggere. Nella socialità della << sussunzione >> la produzione di
soggettività da parte dello Stato si vuole totale. Totale significa, in questa
accezione, esclusivo di ogni altra autonoma insistenza di valori o soggetti e di
ogni altro meccanismo di produzione di valori e di soggetti. L’egemonia della
produzione di valori e soggetti da parte dello Stato, o del potere, è organizzata
nel processo di legittimazione - e questo processo è lineare, ha la violenza di un
normale fenomeno naturale, è guidato da leggi di semplificazione tanto efficaci
quanto lo sono le leggi naturali. Ma si sa bene che l’astrazione delle leggi
naturali corrisponde solo eccezionalmente alla concretezza del reale. Ed é per
questo che le teorie della legittimazione, funzionali, neocontrattuali,
sistematiche, sono costrette a muoversi in un mondo di evanescenti figure o di
irraggiungibili fantasmi. In questa teoria della legittimazione, l’astratto è
astratto. Non così nella realtà della << sussunzione reale >>: dove l’astrazione è
divenuta vita. Se non si capisce questo si resta prigionieri della forma
mistificata dell’astrazione, sulla quale si basa il modello del dominio. L’uomo è
divenuto diverso, si è arricchito di un’enormità di forze intellettuali e morali. Il
suo cervello è divenuto mille volte più astratto, le sue mani non servono più ma
le macchine sono sempre le sue mani. E’ questo rapporto, che deve essere
rapporto di dominio dell’uomo su questa natura trasformata e meccanizzata, che
costituisce la vita nella << sussunzione reale >>. La si potrà amare o no, ma è la
vita. Ma è vita. Ed è talmente diversa, e mette in movimento un insieme di forze
talmente opposte a quello che è il dominio e la nuova astrazione dell’analitica, -
bene, è questo il terreno sul quale l’analisi va riportata. Se i meccanismi di
legittimazione e i processi complessi che conosciamo attraverso le teorie del

77
diritto, vogliono fissare nell’astrazione dei meccanismi di produzione di
soggettività, noi d’altra parte siamo dentro un tessuto vitale che, per parte sua,
continua a produrre soggettività.
Vale la pena di porsi il problema di una rifondazione della teoria del diritto?
Per chi abbia fatto l’esperienza di quanto le teorie del diritto e dello Stato siano
sempre state il prodotto di una volontà di dominio e come, addirittura, essendo
la centralità e l’importanza di queste teorie eccezionale, le stesse figure
disciplinari della logica, dell’etica, del sapere in generale, siano subordinate alle
ingerenze di dominio delle teorie politico-giuridiche - per chi dunque abbia
fatto questa esperienza la risposta è facilmente negativa. Noi continuiamo a
costruirci la gabbia dentro a quale ci imprigioniamo. Ma questo forse giusto,
certo mistico rifiuto, se vale a toglierci la volontà di rifondare teorie del diritto,
certo non vale ad imporci [imporsi?]di capire che cosa avvenga sul terreno
sociale della produzione e della regolazione di valori e di soggetti. Ora, è fuori
dubbio che qui l’antagonismo non solo non può essere negato ma costituisce
addirittura l’esclusiva chiave di ogni considerazione teorica. E non solo: qui
l’antagonismo e le sue ragioni e il suo modo di essere provano la lore
esclusività sul terreno della << sussunzione >>. La concezione dell’analitica,
secondo la quale il modello teorico antagonistico (un antagonismo fondato su
espressioni ontologiche) scoperto nell’estetica trascendentale, deve essere
riplasmato per potersi collocare nell’analitica e per poter quindi essere
trasferito, già in forma modificata, verso la dialettica trascendentale - bene,
questa pretesa è insostenibile qualora ci si tenga a quella prova di irriducibilità
che continuamente la moderna << Entzauberung >> produce.
L’antagonismo è il processo di sviluppo della << sussunzione >>, è la <<
sussunzione >> in atto. L’antagonismo è quindi l’esperienza dentro la quale
viviamo la crisi ed il suo superamento. L’antagonismo è d’altra parte la bestia
nera, l’elemento assolutamente inaccettabile dalla parte dell’avversario. Ogni
meccanismo di legittimazione dovrebbe concludere all’eliminazione
dell’antagonismo. Ora, è proprio tenendo presente queste assunzioni,
largamente dimostrate nelle pagine precedenti, che lo statuto logico
dell’antagonismo emerge in maniera ineliminabile. Oggi il nostro problema è
quello di ritrovarlo, di riqualificarlo positivamente nell’ambito della <<
sussunzione reale >>. Il problema non sarà quindi certo quello di rifondare
teorie del diritto e dello Stato, - è solo quello di identificare l’antagonismo come
chiave del processo di integrazione sociale, di amministrativizzazione della <<
sussunzione >>, insomma come nuova natura del processo scientifico.
Probabilmente, proprio perché l’antagonismo è questa nuova natura del
rapporto scientifico, è probabilmente per questo che la scienza del diritto avrà

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finalmente mostrato il suo limite costituzionale, ovvero quel limite al di là del
quale non vi è riproduzione. Di questa crisi non potremmo che essere contenti.
Ma ciò che interessa, è cogliere la nuova natura della rappresentazione
scientifica dell’antagonismo. L’analitica sola il diritto, e le teorie dello Stato, in
un ambito disciplinare specifico per noi tutto questo non ha senso. La <<
sussunzione >> ha prodotto l’unificazione dei terreni disciplinari, ha reso
concreta l’universalità del sapere. Ora, su questo terreno, la scienza del diritto e
dello Stato possono solo essere subordinate a quella scienza sociale trasfigurata
di cui la << sussunzione >> permette ed esige la vita. L’antagonismo è quindi
rivelazione di una crisi ed, insieme, costruzione di un nuovo terreno. Nuovo
terreno? Solo impropriamente possiamo dirlo, perché in realtà non si tratta di
accedere ad un nuovo campo di indagine, qualificato in termini originari: si
tratta bensì di ritornare a quella dimensione fenomenologica, a quella estetica
trascendentale da cui siamo partiti. La conoscenza della << sussunzione reale
>> si determina nell’immediatezza dell’esperienza. Questa pratica viene prima
di qualsiasi nuova idea della scienza e della natura. Essa deve comunque
distruggere ogni tentativo di mistificare attraverso la mediazione teorica il
tessuto vivo dell’esperienza. Questo tessuto è caratterizzato in maniera
esclusiva dall’immediatezza dell’antagonismo.
7. Per una nuova determinazione del problema.
Da quanto siamo venuti dicendo in questa parte del nostro lavoro risulta
chiaro che un’epistemologia della legittimità non potrà ormai porsi se non su un
terreno sul quale le vecchie antinomie giuridiche risultano ineffettuali. Ci
troviamo davanti una possibilità molto interessante: è quella di muoversi
dall’interno di un orizzonte, meglio, di una macchina, che caratterizza l’intero
contesto della nostra esperienza. Sia dal punto di vista soggettivo che oggettivo,
sia dal punto di vista individuale che da quello collettivo. La << sussunzione
reale >> ed il suo mondo si manifestano come seconda natura. Ne hanno lo
stesso spessore. Hanno della prima natura il colore e la forza, ma di quella
hanno maggiore intelligenza e più consistente capacità di produzione. Ci
dobbiamo dunque dichiarare, dentro questa natura rinnovata, dentro questa
storia consolidata, a partire dalla capacità di far funzionare almeno parzialmente
questa macchina nella quale siamo inseriti, - ci troviamo dunque a potersi
[poterci ?] dire giusnaturalisti. Non è un paradosso: semplicemente il
sentimento più forte che la protesi è divenuta più umana dell’umano e che
natura e storia sono indistinguibili: sicché la salvazione dell’una o dell’altra e la
riproduzione di entrambe si costituiscono in un solo atto.
Ma il nostro problema è evidentemente, su questo limite di analisi critica
dell’analitica trascendentale, soprattutto quello di fissare il quadro

79
epistemologico della legittimità giuridica. Ora, piuttosto che totalmente, noi
possiamo qui solo definire alcune condizioni che rendono un approccio
costruttivo, a questo problema, possibile. I tre punti sui quali ci fermeremo qui
di seguito sono: la critica del funzionalismo, la critica dell’intuizionismo, la
critica dell’autoreferenzialità del processo.
Per quanto riguarda il funzionalismo - ma potremmo [potremo ?] anche dire
di tutta quella serie di ipotesi che stanno fra formalismo e sistemismo -
possiamo dunque concludere l’analisi già così largamente sviluppata insistendo
sul fatto che questa serie di teorie finisce per non spiegare nulla, nella misura in
cui, anziché teorie, esse rappresentano dei materiali della costruzione del
mondo sussunto. Certo, dentro questa coerenza del quadro, il funzionalismo
produce, per quanto riguarda l’ambiente della nostra esistenza e riproduzione,
una serie di spunti di valore. Vale a dire che la produzione collettiva di momenti
innovativi ed in generale il passaggio ad una nuova epoca (che è quella della <<
sussunzione reale >> trova nel funzionalismo una specie di codice di
regolazione, meglio una stabilizzazione, un’immediatezza, una coerenza che di
quei valori innovati fanno un paesaggio. Una seconda natura, appunto. Detto
questo tuttavia non si è aggiunto molto all’analisi, poiché infatti risulta sempre
più evidente che su questa base possono a pari titolo trovarsi cose tanto diverse
quanto un movimento di liberazione o operazioni di mistificazione. Non è il
funzionalismo che può distinguere le une dalle altre - anzi, esso ci consegna
entrambe le possibilità come equivalent,, o perché - su un lato - di tutte il
funzionalismo ci propone un minimo comune denominatore formale, o perché -
su un altro estremo - il sistemismo ci mostra la connessione e la possibilità di
ribaltamento dell’un termine e dell’altro. Il funzionamento gioca sempre fra la
statica formale e la dinamica sistemica. Il funzionalismo ci mostra un mondo
nuovo, ma esso è, in questo mondo nuovo, dominato da un passivo
sbalordimento.
D’altro lato, questa serie di valori, che si sono consolidati sul nostro
orizzonte, noi possiamo intuirli. Il giusnaturalismo è sempre, per qualche verso,
un intuizionismo. Infatti esso prevede l’immediatezza dei valore, il loro solido
consistere e il loro materiale offrirsi. Il valore è, nell’intuizionismo, qualcosa di
percepibile immediatamente - e anche quando questo nuovo giusnaturalismo si
presenti nella forma della << sussunzione reale >> e/o del postmoderno, bene,
allora i valori, conterranno una tensione a distendersi entro la circolazione
generale - dentro la comunicazione che costituisce l’orizzonte: non per questo
essi saranno meno mediabili e la loro scambiabilità, non per questo, rinnegherà
la consistenza assiologica. Ciò detto, tuttavia, non ci resta che trarre, anche in
questo caso, delle conseguenze critiche. In ogni intuizionismo infatti, ed anche

80
in questo che pure è così sofisticato, vi è sempre un momento fondamentalista -
vale a dire un momento nel quale il valore si sottrae alla circolazione - ma
questo è contro l’ipotesi del passaggio alla << sussunzione >> sia formale che
reale. L’intuizionismo è la filosofia delle anime belle - purtroppo, a questo
livello di sviluppo, c’è poco spazio per queste filosofie. Logicamente
l’intuizione propone, sia pure in forma introduttiva, una teoria della
legittimazione come incontro di volontà, di soggetti e di valori, opposti ma
convergenti. Da questo punto di vista ogni intuizionismo si sviluppa verso il
contrattualismo - e viceversa. Ma come abbiamo visto criticando il
contrattualismo, possiamo ora, sul piano dell’epistemologia, ripetere quelle
critiche - cioè insistere sul fatto che in tal modo si finisce solo per alludere ad
una specie di ventre molle della scienza, ad una confusa materialità che tutto
dovrebbe mediare, ad una in fondo equivoca medietà scientifica. Che tutto
questo sia un aspetto, un carattere, fissato ormai, del mondo della <<
sussunzione >>, è evidente. Ma proprio per questo ogni intuizionismo è
insufficiente a determinare un atteggiamento critico complessivo.
L’autoreferenzialità del modello è un terzo momento da sottoporre a critica.
Di nuovo ci troviamo di fronte ad una caratteristica che è fondamentale nel
sistemismo, ma che lo è anche nell’intuizionismo. Si potrebbe dire che, mentre
nel sistemismo l’autoreferenzialità è costruita dall’alto, in maniera estensiva, e
quindi raccoglie orizzontalmente valori e soggetti in un circuito appunto di
referenze esaustive - nell’intuizionismo l’autoreferenzialità è costruita dal
basso, a partire dal fondamento intuito, e raccoglie così, in un disegno continuo,
su assi verticali, le referenze di valore. Ora, in entrambi casi noi ci troviamo di
fronte ad uno schema che corrisponde al prodotto del movimento verso la <<
sussunzione >> - ma nell’autoreferenzialità questo movimento è perduto,
l’immagine autoreferenziale del prodotto non contiene né il ricordo né la
nostalgia del movimento. L’autoreferenzialità è per qualche verso sempre
ipostatica. Essa è d’altra parte contraddittoria con lo statuto ontologico degli
elementi che ne costituiscono la definitiva figura, perché questi elementi di
contingenza comportano, nel loro dinamismo, alternative radicali - che nella
conclusione del processo sono invece bloccate e fissate. In più: vi è, in questo
concetto di autoreferenzialità, qualche cosa che colpisce negativamente perché
il processo sembra obbligato a svilupparsi in maniera lineare, a possedere un
meccanismo costrittivo - insomma, l’autoreferenzialità esprime un risultato che
era già tutto implicito nella sua origine, non ha quindi movimento. Come già si
è detto, l’autoreferenzialità è parmenidea. Di contro la critica della scienza e la
comprensione delle sue interne dinamiche - la critica della scienza dunque ci
mostra quanto sia reale un processo opposto a quello fissato nel modello di
autoreferenzialità. Lo sviluppo scientifico è uno sviluppo per salti, attraverso

81
modificazioni radicati di paradigmi, ed innovazioni qualitative. La regola che
domina lo sviluppo scientifico è la medesima che regola i processi di fondo,
naturali o storici - nella loro realtà: e quindi le regole della trasformazione
innovativa dei movimenti e della loro sempre nuova dinamica di aperture
multilaterali. Non voglio qui giocare al piccolo Engels, né voglio troppo
stringere una dialettica della natura e la dialettica della scienza - ché, ciò
facendo, si introdurrebbe una connessione lineare del tutto ingiustificabile fra
questi due orizzonti. Ciò su cui voglio insistere è il fatto che tutti i possibili
orizzonti si collegano dentro una grande quantità di possibilità multilaterali di
trasformazione.
Le contingenze sono contingenze vere e proprie — non v’è nessun nesso,
neppure logico, che possa ad esse essere precostituito. Qui verifichiamo fino in
fondo la potenza di quell’ipotesi sull’analitico a posteriori sulla quale, nella
prima parte di questo lavoro, abbiamo tanto insistito - e non è senza grande
emozione che il pensiero si volge verso quelle teorie logiche delle << notiones
communes >> che tanta importanza ha avuto nel momento di nascita della
scienza moderna.
Assunti questi elementi, ed escluso dunque che il problema epistemologico
della legittimità possa essere posto a partire dal funzionalismo,
dall’intuizionismo e dall’autoreferenzialità, - ammesso, tuttavia, che in tutte e
tre queste impostazioni è rivelato qualche aspetto essenziale della
trasformazione degli universi culturali che abbiamo vissuto - assunto dunque
tutto ciò, e con ciò la critica di ogni analitica trascendentale che voglia porsi
come scienza - eccoci dunque a riproporre il tema della legittimazione. E’
chiaro che qui non possiamo che riprendere le conclusioni della prima parte del
nostro lavoro. Abbiamo fatto un détour, piuttosto lungo e comunque tanto
approfondito quanto ne nasceva la necessità in relazione alla natura stessa delle
cose analizzate. Ma è fuori dubbio che qui siamo arrivati alla stessa conclusione
a cui era arrivato il nostro progetto di una possibile estetica trascendentale.
Voglio dire che questo mondo dell’immediatezza, di una immediatezza talmente
astratta e sviluppata, non può trovare senso logico e soluzione teorica se non sul
terreno della pratica. Di nuovo siamo pervenuti a quel limite di crisi che è lo
sviluppo dell’esistente nella << sussunzione reale >>, di nuovo siamo arrivati a
definire quel mondo nel quale astrattamente siamo collocati e quell’indifferenza
nella quale soffochiamo. La logica, l’analitica sono chiave di volta di questa
realtà: una chiave di volta in senso proprio, perché sono infilate nell’edificio e
da esso sono indisgiungibili. Una via d’uscita da questa situazione non può
darsi che sviluppando una pratica emancipativa, alternativa, una proposta di
liberazione. Qui, di nuovo, l’ontologia si libera della logica e chiede uno sbocco

82
etico. Non uno sbocco quanto una rifondazione. Il problema della
legittimazione non è distinguibile da questa operazione di dislocazione
ontologica. Fin qui abbiamo seguito il processo nella sua figura mistificata: ora
dobbiamo vedere finalmente che cosa possa essere, di là da questa
mistificazione analitica, un nesso diretto e costruttivo fra trascendentale e
schematismo (o dialettica ?) della ragione. Ma è una ragione piantata nella
pratica, questa che seguiremo – una ragione etica.

83
Capitolo Terzo
<< Compact >>, per una dialettica trascendentale del potere.
1. Critica del concetto di potere.
Siamo dunque in grado di affrontare il problema dialettico, ovvero di
procedere sul terreno dell’illusione vera. In questa parte, dopo che nella prima
abbiamo cercato di identificare quella rete etica e quel punto di vista pratico che
soli possono permettere lo sviluppo della teoria e, ad essa, di non perdere il
rapporto con l’immediatezza reale, - dopo che nella seconda parte abbiamo
visto come la soggettività, i suoi nomi, sensi, orizzonti, possono essere prodotti
dal potere, direttamente, ma in forma non meno antagonista - in questa parte,
dunque cercheremo di articolare l’immediatezza del fondamento sia riguardo
alla fenomenologia dei soggetti che con riferimento alle finalità del movimento.
Procedere su questo terreno, significa produrre un concetto di potere. Questo
non ci aiuta certo a chiarire le cose - anche se ritenessimo infatti il concetto di
potere subordinato ad una gerarchia di valori, che in qualche modo lo
predeterminano o lo collocano in assetti complessi, saremo preda di vecchie
ambiguità concettuali. Recentemente, del concetto di potere si è molto discusso.
Proprio queste immediate connessioni assiologiche sono state al centro della
critica. Per approfondire la critica, sarà quindi necessario non solo rompere
quelle connessioni ma affrontarle dal punto di vista della genealogia storica e
teorica. Ora, su questo terreno, si avverte che le ambiguità del concetto di
potere erano il frutto di una non conclusa sua secolarizzazione. Così, fissare la
centralità del concetto di potere, significa inseguirne le determinazioni storiche,
vedere come esse siano venute svolgendosi, e contemporaneamente sviluppare
la critica. Ora, la mia ipotesi è che il concetto di potere sia mistificato ogni
qualvolta esso è sganciato dalla concezione del soggetto. Ogni qualvolta ciò
avviene, ed in particolare ogni qualvolta esso ci viene presentato o come
immediatezza oggettiva o come pura rete di rapporti strutturali, bene, questi tipi
ideali estremi di concettualizzazione del potere rappresentano pure e semplici
mistificazioni. A questo proposito non troviamo nulla di diverso da quanto
abbiamo già visto analizzando il concetto di legittimità - quando cioè abbiamo
visto scontrarsi una concezione realistica ed una concezione
formalistica/funzionalistica. Mutatis mutandis, ci troviamo nella medesima
situazione ed abbiamo a che fare con le medesime mistificazioni. Per uscirne è
necessario allora procedere nel senso già precedentemente identificato - cercare
cioè un momento di sintesi per eliminare l’isolamento degli elementi
conoscitivi, l’astratto che è e resta astratto - un momento analitico a posteriori,
una volontà conoscitiva, soggettivamente determinata, dotata di potenza
creativa. Questo fondamento a posteriori del potere, nella sua immediatezza, è

84
dunque comunque soggettivamente definito, - anche se certamente non si
conclude nella soggettività. La storia del concetto di potere ci mostra come
questo venga man mano soggettivandosi, ma nello stesso tempo proponendo
una concezione complessa del soggetto: se vi è un processo di secolarizzazione,
esso non va certamente inteso come compimento dell’antropomorfismo nella
concezione del potere, ma come sempre più complessa articolazione soggettiva
del suo concetto.
Prendiamo un solo esempio: il rapporto fra concetto di potere e concetto di
pace. Che la pace possa essere uno dei contenuti del potere è relazione nota.
Che, con maggiore intensità, la pace debba rappresentare il concetto di potere,
come tale, in maniera esclusiva, è una concezione che si è affermata quando le
origini teologiche del concetto di potere sono state gettate via e la figura
pessimistica del giusnaturalismo è divenuta egemone. Ma il rapporto tra pace e
potere ha presto superato queste determinazioni, per così dire, trascendentali -
perché esse, implicitamente ma non meno necessariamente, facevano di pace e
potere forme tautologiche, indifferenti, morte. Di conseguenza presto il
rapporto si è fatto soggettivo: e se qui si sono ripetute le alternative che nei
periodi precedenti la razionalizzazione del problema era possibile cogliere,
l’interrogativo cioè attorno alla funzione etica della pace e della soluzione del
conflitto - pure, qui, lo sviluppo e la determinazione dei concetti sono stati
caricati di una dimensione operativa, positiva, di una determinazione materiale
sopra una genealogia soggettiva e creativa. Il potere diviene così sempre di più
qualche cosa che cresce con un soggetto sociale, che quindi ha una sua specifica
articolazione interna, un sistema di valori che è capace di esprimere - insomma
il potere è la stessa potenza di esistere di un soggetto collettivo. Non c’è
possibilità di definire il concetto di potere se non in termini sociali, dove cioè la
relazione e i valori non sono esterni ma interni al soggetto, non trascendentali
ma prodotti direttamente dal soggetto. La differenza tra potere e forza, tra
potere e violenza consiste nella razionalizzazione che della forza e della
violenza vien [sic] fatta dal soggetto collettivo - forza, violenza, in questo caso,
possono anche chiamarci [chiamarsi ?] pace - è infatti del tutto chiaro che la
pace deve essere conquistata, difesa e organizzata, ecc. ecc.
Entriamo dunque, in questo modo, su quel terreno sul quale la capacità di
esistere costituisce un tessuto complesso. In questa prospettiva il potere diviene
un luogo originario che va determinato. Potere è quindi, genealogicamente, in
primo luogo, lavoro. Il lavoro infatti è, stando alla definizione dei classici,
quella attività trasformativa che viene esercitata al fine 1. del dominio della
natura e 2. della riproduzione della specie. Ma il potere tenta continuamente di
introdurre, al di là di queste determinazioni, una nuova struttura: quella 3. del

85
dominio dell’uomo sull’uomo. E di specificarla. Esso ha ragione di muoversi in
questo modo, perché così, sia pure in form a mistificata, soggettivizza il
concetto di potere. E’ esattamente lo sviluppo di questa soggettivizzazione
mistificata che distrugge infatti quella terza determinazione: meglio, toglie ogni
pretesa di razionalità alla definizione del dominio dell’uomo sull’uomo e
riconduce le determinazioni del potere ad un luogo critico, aperto all’attività e
alle qualificazioni sociali. Il lavoro dunque, e le sue modalità trasformative,
l’insieme della forza lavoro, costituiscono la base del concetto di potere. E se
quella legge infame che vuole che le ragioni del dominio corrano assieme, anzi
si identifichino con quelle dell’organizzazione del lavoro, va distrutta, - si può
qui subito aggiungere che ciò può darsi solo se essa sia colta ed estremizzata e,
per così dire, spinta verso a sua estinzione materiale, dopo che la sua
insensatezza logica sia stata provata.
Tutto questo in maniera generalissima. Qui di seguito cercheremo ora di
vedere come il concetto di potere si articoli e si autodefinisca, interpretando
quella soggettività specifica che è il prodotto dei meccanismi di sfruttamento
del lavoro nella fase della << sussunzione reale >>. Cercheremo cioè di vedere
come, in questa dimensione, il soggetto lavorativo si autorganizzi, quale
rapporto esso stabilisca con altri soggetti sulla scena sociale, come i suoi
bisogni e desideri vengano trasformandosi e infine come la sua egemonia possa
organizzarsi. E’ su questa specificità che si raccoglieranno fili dell’analisi
complessiva.
Su questa specificità. Significa che la prossimità di soggetti diversi
costituisce un elemento centrale della percezione fenomenologica del sociale e
del politico. Può darsi che questi soggetti collettivi siano confusi in formule
generali di accordo, di consenso, di processo costituzionale, - può appunto
darsi: ma per quanto? Se c’è una cosa che il processo di secolarizzazione e di
soggettivazione complessa del potere ha mostrato, attraverso un irresistibile
seguirsi di crisi e convulsioni, è il fatto che sulla scena costituzionale si presenta
una irriducibile pluralità di soggetti collettivi. Il rapporto fra questi non ha
nessuna caratteristica formale: esso si esprime, e si risolve (se si risolve), solo
su una lunga prospettiva di rapporti di forza. Il potere è certo sempre funzione
ed organizzazione costituzionali, è certo schema trascendentale di una serie di
pulsioni e tendenze che vogliono trovare coordinazione logica fra di loro - ma il
fatto di essere tutto questo non toglie, anzi sollecita il fatto che il processo si
sviluppi dentro ed attraverso le singole separate soggettività. Il potere è sempre
funzione costituzionale, ma e costitutivo non di un rapporto generale ma di un
rapporto particolare, di un’articolazione specifica, all’interno delle singole
grandi soggettività. Potere è costituzione, costituzione è specificità. Al di là di

86
queste generalità si tratterà allora di determinare lo spazio, il tempo, la qualità
di ogni singola emergenza soggettiva e di ogni specifica risultante
costituzionale.
Quando affrontiamo questi problemi, noi sviluppiamo allora più importanti
spunti di un’estetica trascendentale della prassi. Vale a dire che noi sviluppiamo
il punto di vista del fare come punto di vista fondamentale. La centralità di
questa prospettiva discende, con caratteristiche di necessità, dalla centralità
ontologica dell’etica, meglio, dal fatto che noi ci muoviamo dall’interno di
un’ontologia etica, vivendola, come si può vivere un’esperienza egemone nella
sensibilità filosofica contemporanea. E’ una genealogia del potere o dei poteri,
quella che è qui proposta. Il rapporto tra soggettività, punto di vista del fare,
ontologia ed etica, è centrale perché questo solo sembra essere il tessuto sul
quale poter determinare un orientamento metafisico. Foucault sosteneva che
solo da un punto di vista storico queste filiere del fare potevano essere seguite -
ed è vero. Ma non è men vero che, da un punto di vista metodologico, queste
potenze possono essere spinte verso un punto di vista teorico e quindi essere
considerate nell’indipendenza delle teorie, - senza, con ciò, che esse perdano la
loro etica pregnanza.
Seguiamo ora questo cammino con riferimento al problema del potere. Ci
siamo fin qui aperti alla critica del concetto e delle sue possibili mistificazioni,
abbiamo poi definito un possibile punto di vista metodologico. Infine, nei
prossimi capitoli, vedremo le interne articolazioni di questo processo. Ma ora,
tra il prima e il dopo, ci resta da chiarire un concetto: ed è che il potere, se son
veri i presupposti, si presenta sempre come molteplicità, come contro-poteri,
meglio, come rete di contro-poteri. Parlando di etica avevamo sottolineato il
ruolo fondamentale del principio di antagonismo: in forma generalissima
basterebbe questo a dar ragione del fatto che il potere si dia come contro potere.
Ma ogni condizione siffatta determina problema. Ne deriva che la singolarità
delle determinazioni soggettive che costituisce il rapporto antagonistico dei
poteri va analizzata specificamente - perché questa singolarità, questa forte
individuazione attraverso forte antagonismo, non negano ma nutrono e
costituiscono la complessità specifica del quadro. Troppo spesso, nella
esposizione volgare dei concetti filosofici, ci siamo trovati di fronte a sequenze,
cosiddette dialettiche, in cui, all’incrementare del grado di antagonismo,
corrispondeva l’estinguersi della sua misura nella complessità. Questo è
appunto un meccanismo espositivo, tanto comune e banale quanto perverso. Di
contro, l’aver collocato il principio ontologico nel bel mezzo della vita etica,
l’aver con ciò fissato una connessione indissolubile fra ontologia ed etica, ci
permette oggi di dimostrare che sull’orizzonte dell’antagonismo è l’intera

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complessità del reale che si prova. Siamo nella << sussunzione reale >>. Siamo
in una situazione nella quale ogni determinazione, tanto più se teorica, può
essere completamente riassunta nell’insensatezza circolare di una
fenomenologia del dominio. Solo il fare, il punto di vista pratico - solo quella
determinazione che si colloca sull’orlo dell’essere e del non essere, a cavallo fra
la catastrofe e la speranza - ecco dunque la collocazione aggressiva
dell’immaginazione trascendentale, oggi. Essa non annulla ma evidenzia
drammaticamente la complessità del processo storico. Un’enorme contingenza
ha invaso l’esistente. A partire da questa contingenza che tocca tanto a natura
del fare quanto le sue dimensioni e i suoi orizzonti, noi comprendiamo la
complessità. Le collocazioni antagoniste, e cioè un loro certo porsi nello spazio,
nel tempo, nel contesto dei valori, dunque, non tolgono complessità né
all’essere né all’antagonismo. Né l’antagonismo cancella la complessità, né
viceversa a complessità cancella l’antagonismo. Se uno dei due termini è
eliminato, questa determinazione non dipende dal principio complementare ma
da altre ragioni. Condizione comunque difficilissima da verificare.
La critica del concetto di potere, riassumendo le determinazioni che siamo
venuti fin qui fissando, esprime, dunque, una situazione metafisica in cui
soggettività, antagonismo, pluralità, complessità, convivono, si susseguono nel
caratterizzare la potenza sociale. E’ una specie di universo leibniziano quello
che abbiamo davanti, è l’universo nel quale la libertà etica vive della
contingenza, quindi dell’indeterminatezza di traiettoria della soggettività.
Leibniziana è anche l’idea che, quanto più si scontra con l’esterno, tanto più la
soggettività scava in se stessa ed organizza la propria costituzione. Noi potremo
dunque parlare di costituzione, se ne parleremo, a partire da un contesto di
contro-poteri, e cioè da un contesto di determinazioni soggettive che abbiano
scoperto in se stesse il massimo di articolazioni di potenza.
Per fare un esempio. E’ fuori dubbio che, ad un certo punto. nella storia del
pensiero politico occidentale, è intervenuta un’efficace operazione di
mistificazione, una vera e propria perversa modificazione di paradigma, in
riferimento al concetto di potere. Vale a dire che il tessuto sociale, nel primo
contrattualismo dell’evo moderno, era definito su un orizzonte, per così dire,
piatto, orizzontale, appunto << contractum unionis >>. Ad un certo punto,
tuttavia, un enorme potenziale antagonistico, un enorme potenziale soggettivo
che pretende all’egemonia, vengono rovesciati su questo rapporto, al fine di
determinare una sua verticalizzazione: << contractum subjectionis >>. Il
pluralismo, così, non vien [sic] più dato come tessuto di eguaglianza, come
terreno delle possibilità, come contingenza, - ci viene invece dato già
organizzato dentro una struttura gerarchica. La società è sussunta formalmente

88
nel capitale. In questo modo il potere viene tolto alla potenza dei soggetti.
Questo peccato originale è un implicito nella storia del pensiero politico
occidentale. Per continuare nell’esempio accennato si può allora notare in che
modo il valore << pace >> venga giocato su questo passaggio: è la pretesa di
garantire la pace che sta alla base della verticalizzazione del potere, cioè della
sua perversa semplificazione, cioè della repressione del pluralismo e
dell’antagonismo. Qui la pace è concepita come l’elemento di scarico di ogni
tensione vitale, come tranquillità di fronte al movimento, come vuoto di fronte
al pieno delle passioni, dei desideri, dei movimenti delle singolarità. La
semplificazione del complesso: questo è la pace. Ma questo può essere anche
puro e semplice terrore...
Ecco perché, dunque, insistiamo e reinsistiamo sul fatto che il concetto di
potere, così come può essere definito attraverso la critica, non è altro che il
concetto di movimento delle potenze sociali che noi sperimentiamo nel loro
pluralismo e nell’antagonismo, che verifichiamo dunque come processo e rete
di contro-poteri. E’ evidente che, per riprendere il nostro esempio, noi non
semplificheremo i formidabili problemi sollevati dall’intreccio fra movimento
dei contro-poteri ed esigenza della pace. Esiste qui una contrapposizione
insolubile? Noi non lo crediamo. Anzi. Solo percorrendo questo cammino
accidentato, che è quello che la storia e le nostre coscienze ci presentano,
riusciremo a costruire a figura positiva della critica del potere. Materialmente.
2. A proposito di movimento, oggi.
Quando diciamo movimento indichiamo quella dimensione sociale che è
costitutiva del potere. Come si rivela? Qual’è il rapporto che stringe, al livello
attuale dei rapporti di produzione e di cultura, soggetto ed ambiente?
E’ chiaro, sulla base dei presupposti generali della nostra analisi, e cioè sulla
base di quel singolare intreccio tra Krisis e Umwelt, fra risultanze critiche dello
sviluppo e dislocamento generale delle condizioni di riproduzione, che abbiamo
verificato - è chiaro, dunque, che l’inerenza di soggetto e ambiente è qui totale.
Quando parliamo di dimensione ecologica come base costante dell’analisi, a
tutti i livelli, oggi, noi non facciamo che evidenziare questa inerenza che
costituisce la faccia, per così dire, superiore di quell’integrazione dei circuiti
sociali che << sussunzione >> e post-moderno ci presentano. Ogni parametro
del vivere sociale è oggi dato in termini ecologici - non che questo costituisce
una grande novità rispetto alla condizione metafisica del rapporto uomo-
ambiente, che sempre ha mostrato questa fondamentale relazione: oggi la
modificazione consiste nel fatto che il conflitto che caratterizza, come ha
sempre caratterizzato, la dimensione ecologica, non si svolge semplicemente
attorno al confronto tra uomo e natura, bensì sul ritmo del confronto fra vari

89
modelli di integrazione uomo-natura. Altrove, e precedentemente in questo
stesso scritto, ho molto insistito sul concetto di << seconda natura >>, per
indicare in questa categoria il risultato di una trasformazione del rapporto
dell’uomo con la natura ed il consolidamento di una specie di nuovo
presupposto naturale (che è evidentemente storico, dotato di una certa
astrazione, ecc.) alla base dell’analisi dell’universalità umana, oggi. Se ora
cerchiamo di definire questo rapporto ontologico nuovo in relazione all’idea di
potenza, e quindi se cerchiamo di coniugare l’analisi delle condizioni
ecologiche (<< seconda natura>>) con il concetto singolare di movimento
( <<contropotere >>, contropoteri), eccoci davanti al nostro problema.
Stranamente, quando approfondiamo questo rapporto, questo problema,
abbiamo una prima serie di annotazioni che sembrano costringerci ad una
considerazione << quasi scettica >> dell’oggetto in analisi. Voglio dire che, a
prima vista, tutte le determinazioni che possiamo cogliere in superficie, ci
riportano a quell’interpretazione di soggetto-ambiente che, nella sua circolarità,
è ineffabile, comunque indifferente e inafferrabile. Si comprende bene, allora,
come sul livello teorico e pratico l’ecologia abbia potuto presentarsi come
ambientalismo, una specie cioè di fondamentalistica rivendicazione di valori
naturali. Il fatto che questi valori, cosiddetti [cosidetti ?] naturali, fossero in
realtà irriconoscibili, come tali, che dunque la rivendicazione fondamentalistica
si muovesse fra il sogno di un’utopica restaurazione e l’esaltazione di un certo
banale e posticcio equilibrio uomo-natura, nulla aggiungeva: l’utopia e la
giaculatoria non aggiungono chiarezza all’indistinzione logica che l’assunzione
di un rapporto strettissimo uomo-natura nell’immediato determina. Si può
aggiungere che anche la definizione di una << seconda natura >> non modifica
a banalità, l’insignificanza delle determinazioni che immediatamente emergono
dall’integrazione/interazione uomo-natura. Insomma, una volta che la natura sia
data come potenza completamente intercambiabile nell’ambiente umano, siamo
di fronte all’impossibilità di discernere linee di movimento e tendenze di
trasformazione. Non a caso il fondamentalismo ecologico non propone che una
sempre potenziale e sempre frustrata alternativa o una paradossale conclusione:
la catastrofe. Il fondamentalismo non riesce ad articolarsi se non assumendo il
suo opposto come momento di identificazione, di interna autocoscienza, come
indice costruttivo.
Se assumiamo di nuovo il discorso sul rapporto tra potere e pace, come
traccia ed esempio, possiamo vedere quali siano le metamorfosi mistificatorie
del fondamentalismo ecologico. Esso si tende verso la ricerca di un limite
naturale assoluto, di una condizione naturale ideale, - ma per definirla, ha
bisogno di distruggere le realtà tecniche e storiche che hanno modificato in

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maniera irriversibile la vita degli uomini. Essendo quindi impossibile questo
passaggio, il fondamentalismo chiede aiuto all’immaginario collettivo e, nella
ricerca della pace, quindi nell’esercizio di un atto di potere che alla
determinazione della pace deve pervenire, cerca di inserire la sua utopica
natura. Ma che cos’è quest’utopica natura? Non è nulla di reale, neppure una
vestigia o un ricordo, è semplicemente il contrario della situazione catastrofica,
rovinosa, che è intuibile dopo l’avvenimento distruttivo nucleare. La natura è il
contrario della distruzione - la pace è il contrario di una guerra più che
distruttiva, mortale per l’umanità. Dentro questa opposizione, in realtà nulla si
muove. La forza degli opposti è talmente enorme da rendere impossibile
l’analisi della singolarità, del corpi, che fra questi opposti vivono e si
riproducono. Insomma la circolarità reale del rapporto uomo-ambiente
impedisce che del modelli vengano formandosi ed ammette che questi modelli
si diano solo come estremizzazione dell’esistente, della sua polarità. La pace
diviene così un feticcio, altrettanto vuoto, nel rappresentare l’assoluto
contrapasso rispetto alla morte catastrofica, quanto lo era nelle teorie del
giusnaturalismo borghese, che assumevano il concetto di pace come momento
centrale nella costruzione della sovranità e nella repressione dei contropoteri
sociali.
E’ invece, appunto, questo il nostro problema: quello di identificare
l’emergere e lo svolgersi dei contropoteri, proprio su quel terreno unificato che
<< sussunzione >> e post-moderno de finiscono. Un’altra obiezione, tuttavia, ci
si presenta dinnanzi. Si dice: se la relazione singolarità/ambiente è tanto
stringente, se la diversità può cogliersi solo nella forma dell’utopia,
dell’alternativa radicale, nella progettazione totalmente altra, - bene, allora si
tratta di sviluppare un programma radicalmente alternativo, che si ponga la
totalità nemica come avversario e che, rispetto a questa, si misuri. Ma ecco,
anche in questo caso, insorgere alcune difficoltà. Esse consistono nel fatto che
anche qui, malgrado tutto, e cioè malgrado la forte attenzione allo specifico, si
cade nella trappola della generale indifferenza. Qui l’opposizione, il
contropotere, possono essere concretamente identificabili: ma, d’altro canto, qui
l’alternativa deve accedere al livello della totalità del potere. Il rapporto
simbiotico fra uomo e natura è allora, in questo modo, completamente
trasfigurato e considerato su un terreno di totalità che è il medesimo che è
attribuibile al concetto di potere. Non se ne esce: si determinano, così, una serie
di omologie che impediscono la considerazione del diverso, delle singolarità,
del riprodursi di questo e di quella, dentro meccanismi di contropotere. Così,
essendo data l’indifferenza del contesto, l’analisi si sviluppa tra Scilla e
Cariddi: laddove, su un lato, stanno l’impossibilità di discernere il singolare e il
tentativo di riaffermarlo attraverso la produzione di opposizioni utopiche; su

91
una seconda polarità sta, nel corpo dell’indifferenza, l’illusione di poter
recuperare uno spazio politico e teorico, produttivo e riproduttivo, attraverso la
totalità, quindi dentro l’omologia con il potere.
Dobbiamo riproporre il problema ab imis. Innanzi tutto giocando su quel
punto di vista pratico, etico, di cui abbiamo rivendicato la validità. Ora, a partire
da questo punto di vista, l’integrazione tra singolarità e natura non è una
condizione statica, ma una condizione dinamica. Il rapporto che la << seconda
natura >> fissa, non è un rapporto definitivamente dato - è data semplicemente
la capacità di produrre unità fra uomo e natura, in forme sempre diverse e
sempre più mature, a partire da quella base iniziale. Insomma la << seconda
natura >> è, mi si perdoni il controsenso [contro senso?], una macchina. Ora, in
secondo luogo, è appunto questa connessione che bisogna percorrere. Occorre
percorrerla nel mentre essa si sviluppa, nel mentre essa costruisce nuovi e più
stretti circuiti di integrazione. In questa condizione generale l’uomo si fa
potenza naturale appropriandosi della natura. Il movimento reale è movimento
di appropriazione. Il concetto di potere è forza che si apre fra le determinazioni
già concluse del processo della << seconda natura >>. Il contropotere è
appropriazione reale nel mondo della << seconda natura >>. Tutto questo
significa che il potere non può essere condotto all’utopia del fondamentalismo
né essere omologia con il potere esistente. Il contropotere è una forte e
durissima movenza di appropriazione. Esso vive solo laddove può, per così
dire, essere in osmosi con la Umwelt storica, solo laddove riesce a sviluppare
un rapporto omeopatico con le determinazioni storico-naturali dell’ambiente. Il
contropotere è un’esperienza pragmatica che attraversa e sussume l’esperienza e
la prassi che su quei territori sussunti sono venute svolgendosi.
Probabilmente il concetto fondamentale che dalla definizione del contesto
fenomenologico della prassi oggi si può trarre, è che ogni atto di potenza,
sviluppato dalla singolarità, è equivalente su questo livello. Quest’equivalenza è
prodotto della sussunzione. L’affermazione è tanto più importante perché
insieme essa fissa un metodo e riqualifica una serie di categorie. Fissa il metodo
di una costruzione filiforme e plurale del potere. Un potere lillipuziano, il
contrario di una generalizzazione del suo concetto, eppure tanto potente da
riuscire ad imprigionare qualsiasi Gulliver. Una metodologia. dunque, che veda
il potere come momento analitico a posteriori, che lo considera come una
dinamica che costruisce, in maniera sempre più larga, assetti determinati.
Potremmo chiamare questo metodo in termini antichi: ideologia libertaria o
impostazione << liberal >> (all’americana), concezione decentrata
dell’amministrazione, democrazia di base,… ma ognuna di queste definizioni è
parziale. Perché qui, muovendosi no, all’interno di una Umwelt sussunta, e cioè

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all’interno dell’indistinzione tra sfere diverse - nella fattispecie,
nell’indistinzione fra economico e politico, fra produttivo e riproduttivo - bene,
in questa situazione, la nostra metodologia è metodologia di riappropriazione
materiale. Questa singolare filatura del concetto di potere ci mostra l’unità del
livello politico e di quello economico e produttivo. Come vedremo andando più
avanti nel nostro ragionamento, vi sono soggetti specifici, individui collettivi
mutanti, che sono alla base di questa considerazione del concetto di potere. Qui
ci basti continuare ad insistere su questo metodo, su questo punto di vista, su
questa ricchissima considerazione delle articolazioni del reale. Il potere è
questo.
Di qui si apre la considerazione di alcune altre categorie. Ma una, soprattutto,
qui prendiamo in esame quella di legittimità. Altrove abbiamo notato come
sempre esista una certa asimmetria fra il concetto di legittimità e quello di
legalità (validità giuridica). Qui possiamo dire che questa asimmetria è finita,
nel senso che non vi è più possibilità di assumere la legalità come << altro >>
dalla legittimità. La norma giuridica non potrà che valere in quanto atto
particolare sottoposto alla dinamica del contropoteri, raccolto nella concretezza
della dialettica del consenso. Quando si parla di consenso e di legittimità, (che
ci piace qui considerare come concetti assolutamente complementari) si parla,
dunque, di nuovo, di quel metodo di contrasto, di << compact >>, di
articolazione potente e di confronto fra interessi materiali diversi (sociali,
economici e politici) - non certo di un equivoco prodotto generale del consenso,
non certo di una volontà generale che lo sostituirebbe, e neppure, infine, di
figure contrattuali entro le quali si eserciterebbero volontà astratte.
Potere è contropoteri. Potere è l’immediatezza della potenza della singolarità.
Potere è movimento, dimensione sociale di questo, totalità del rapporto fra
soggetto ed ambiente. Potere è contropoteri eguali ed equivalenti, che tutti
coloro che operano in una società, possono materialmente detenere. Ma se
quest’eguaglianza è tanto reale da apparire come equivalente, la comunanza
delle opportunità e dei beni è qualcosa di necessario, di implicito, di
presupposto. Il comunismo è un presupposto del potere e non semplicemente un
suo risultato. E parliamo a questo proposito di un comunismo pervasivo, etico,
che caratterizza tutti i passaggi del rapporto fra uomo e natura, così come sono
stati definiti nel processo di storicizzazione dell’universo: il comunismo come
movimento, tanto esteso quanto è estesa la vita. Se non è possibile immaginare
alcun rapporto vitale fra uomo e uomo, fra uomo e natura che non sia rapporto
di potere, tanto meno è oggi possibile immaginare una società non comunista. Il
reale che abbiamo dinanzi è illusione. Dietro l’illusione si nasconde la realtà del
comunismo. Dobbiamo dunque scavare, rispondere a molti interrogativi: che

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cosa significa che potere è libertà, che nella particolarità dei contropoteri si
annidano prodotti collettivi di libertà, meglio, che la libertà, nascendo dal
rinnovato contesto uomo-natura si vuole come comunismo? Tutto ciò siamo
venuti fino a questo momento analizzando da un punto di vista, per dire, di
superficie. Ora, qui di seguito, dovremo approfondire l’analisi per vedere come
questo contesto, questo ambiente, questo rapporto fra poteri, e fra natura e
storia, e fra uomini, - come, dunque, questo rapporto di superficie sia
organizzato da una macchina più profonda e potente.
3. Il lavoro del soggetto.
Il tema della crisi e la critica del potere che lo attraversa, a partire da quelle
caratteristiche di sviluppo e di movimento che sono specifiche della
sussunzione, non possono che concludere alla’riproposizione del tema del
soggetto. Non esiste processo senza soggetto: neppure la più alla analisi formale
è riuscita a darci uno schema plausibile di un siffatto meccanismo, a meno di
non proiettarlo sul più screditato degli schermi, quello della ragion pura e
dell’analitica. Né il materialismo ha mai escluso il soggetto, anzi la scoperta
specifica del materialismo marxiano è appunto quella del carattere ontologico
del soggetto. Tutte le determinazioni devono infatti rovesciarsi sul soggetto,
perché è solo il soggetto che sa esprimere lavoro. Il lavoro non è solo
sfruttamento, ma è anche paradossalmente e soprattutto questo: perché
attraverso lo sfruttamento passa un attività di rifiuto, di lotta e,
conseguentemente, di innovazione: è questa attività che mette in movimento
l’intero processo storico. Il lavoro del soggetto è dunque la chiave di volta di
ogni determinazione positiva dell’essere. Filando questo tessuto, seguendo la
molteplicità dei suoi disegni, noi possiamo allora determinare il rapporto
complesso che si stende fra sfondo ontologico e figura specifica del soggetto.
La mia ricerca, e quella di molti miei compagni, si è sviluppata lungo gli anni
attorno a questo problema del rapporto fra sfondo ontologico e determinazione
dell’attività soggettiva. Il logo << composizione di classe >> ha sempre infatti
alluso a questo tema. E’ subito da aggiungere che troppo spesso, ma non
sempre, la sua trattazione è stata rigida: il rapporto fra i vari elementi, storici,
politici, tecnici, ma anche morali e più largamente etici, che caratterizzano il
rapporto compositivo, è stato studiato e descritto secondo trafile lineari. Troppo
spesso la dialettica, meglio, una specie di tradizionale e cieca fiducia nel
realizzarsi di processi di negazione e superamento: da essi, appunto, è formata
la cosidetta dialettica - bene, troppo spesso questa simulazione ideale si è
sovrapposta alla concretezza del progetto. Inoltre, di nuovo troppo spesso, gli
elementi di volontà politica e lo stesso formarsi della coscienza, sono stati visti
sgorgare dalla composizione quasi si trattasse di una conseguenza logica e non

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invece - come era - di un salto e di un’innovazione storici. Eppure da questa
autocritica non può derivare un annullamento delle grosse verità che
nell’ambito di quelle ricerche erano state costruite: sia dal punto di vista
metodologico che sostanziale.
Dal punto di vista metodologico. Il lavoro del soggetto consiste in due
operazioni fondamentali: la prima è quella per così dire centripeta, vale a dire di
attrazione ed accumulazione sulla figura del soggetto di tutti gli effetti
dell’organizzazione del lavoro che il soggetto stesso coglie come elementi della
propria costituzione e sviluppa criticamente verso orizzonti di rifiuto, di lotta e
d’innovazione. Vi è poi un’operazione centrifuga: essa dipende o deriva o segue
alla concentrazione di forza che permette quella costruzione delle soggettività:
ora, nel rapporto che si stende tra la soggettività e l’ordinamento oggettivo del
reale si determina una differenza di potenziale che, quando si scarica, determina
insieme crisi e dislocazione del rapporto dato. Questa connessione fra lavoro e
dislocazione del quadro oggettivo è, metodologicamente, il più alto risultato
dell’analisi della << della composizione di classe >>. Tutto ciò lo riteniamo
come contenuto del nostro conoscere e come strumento ancora importante per
proseguire nell’analisi. Né quanto siamo venuti dicendo, potrà certo essere
negato dall’approfondimento promesso in questo lavoro a partire dall’estetica
trascendentale: perché infatti, quand’anche la relazione fosse spinta su quel
limite di scissione fra essere e non essere di cui abbiamo parlato - ciò non
ridurrebbe la relazione alla catastrofe ed anche in questo caso fondamentale
resterebbe comunque l’apprezzamento dei contenuti progressivi della relazione
- ed è rispetto a questi che l’analisi deve sempre essere rinnovata.
Anche dal punto di vista sostanziale il nostro vecchio lavoro lascia, poi, dei
risultati positivi, e all’autocritica è dato solo di perfezionarli. La figura
soggettiva, nello sviluppo del capitalismo, ci si è presentata in un gioco
complesso di appropriazione di forme dell’organizzazione produttiva, ed
almeno quattro grandi figure di soggetto produttore sono state identificate come
egemoni in singole e successive fasi dello sviluppo: l’operaio indifferenziato,
l’operaio professionale, l’operaio massa ed, infine, quella complessa e
definitiva figura ch’è l’operaio collettivo-sociale. Siamo nel mezzo della grande
trasformazione che, appunto, a questa figura sociale del lavoro sta
compiutamente portandoci. Ed è, credo, attorno a questa trasformazione che
vale, quindi, oggi soffermarsi e vedere come si svolge il lavoro del soggetto.
Il punto più interessante è quando verifichiamo una concentrazione di nuove
capacità produttive. Cominciamo a fissarvi l’analisi. Ora, c’è un nesso
sincronico che corre fra tecnologia, società e cultura. Ovvero, c’è un quadro
generale entro il quale la tecnologia si presenta come produzione di socialità ed

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insieme le condizioni generali della società si presentano come elementi di
produzione di tecnologia. E’ chiaro che il rapporto tra tecnologia e processo
sociale, proprio perché investe un così ampio spettro d’esperienza, non è un
nesso semplice - né sincronicamente, e cioè se identifichiamo le correlazioni
puntuali che processo, soggetti lavorativi e sistema produttivo presentano; né
diacronicamente, e cioè quando inseguiamo grandi passaggi storici di
modificazione delle tecnologie e delle composizioni soggettive, che si
accompagnano. Processo complesso dunque, mancanza di omologie: eppure
riproposizione, in tal modo, di un tema fondamentale, ovvero, del tema della
crisi e della dislocazione. Osserviamo come venga annunciandosi e come
cominci a svolgersi il passaggio verso la composizione dell’operaio sociale e la
sua presenza egemone. Una differenza di potenziale, come si diceva, viene qui
innanzittutto determinandosi. Il lavoro produce valore: ma questo valore,
meglio il plusvalore estorto, non è riunificato e trasformato in valori mercantili
ed in profitti monetari sul luogo della produzione; di contro, solo la circolazione
(come livello diffusivo, come massimo di estensione del mercato) e la
riproduzione (come livello intensivo, di accumulo istantaneo di valori
produttivi) ci mostrano il valore stesso. Siamo di fronte ad una modificazione
del sistema produttivo che è caratterizzato dal fatto che esso, in termini propri,
non produce valore, ma semplicemente ne è il motore di una globale
trascrizione sociale. Almeno così appare. In tal modo l’origine del plusvalore è
nascosta. Il meccanismo produttivo sociale diviene un velo che nasconde lo
sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Non a caso le caratteristiche tremende dello
sfruttamento non si riveleranno - né saranno percepite - come immediatamente
collegate al lavoro, bensì esse si riveleranno collegate alla società lavorativa - il
numero degli esclusi, dei nuovi poveri, degli emarginati, dei carcerati, dei
malati, dei pazzi, ecc. ecc., potrà solo essere calcolato sulla dimensione sociale
dello sfruttamento. Ma qui l’apparenza si squaglia ed una serie di conseguenze
divengono esplicite. La società dell’automazione si mostra come struttura di
dislocazione della natura del valore. Non vi è più valore che possa essere
riferito all’entità singola di sfruttamento. Il marxismo volgare degli economisti
oggi non serve neppure come scienza di gestione. Vale, invece fino in fondo, il
marxismo come scienza della società e della sua dinamica: quindi come
conoscenza della dislocazione del valore. Il lavoro del soggetto è dunque, oggi,
sociale nella sua estensione e collettivo nella sua qualità. Sappiamo questo da
sempre - si potrà obiettare: ed in effetti da sempre il lavoro è stato sociale e
collettivo ed è attraverso queste caratteristiche che esso ha sempre prodotto più
della somma degli sforzi individuali. Ma questa obiezione non è molto
significativa quando si consideri che oggi il lavoro individuale non è più
distinguibile dal lavoro sociale e collettivo. Un tempo, il lavoro collettivo era un

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risultato, ora il lavoro sociale e collettivo è un presupposto. Avevamo
cominciato col dire che ci si trova di fronte ad un meccanismo che non mostra
l’estrazione del valore, anzi che la mistifica e nasconde, mentre esibisce su un
piano di traslazione sociale l’insieme del valore prodotto dalla società. Ma più
procediamo nella discussione e nella ricerca, più avvertiamo di essere dinnanzi
ad una specie di autentica seconda accumulazione originaria. Autozione come
struttura di dislocazione della natura del valore? Pare proprio di sí. Ma allora
ritorniamo al lavoro del soggetto. Se la prima accumulazione originaria è
consistita in un processo violentissimo attraverso il quale alla forza lavoro è
stata imposta la forma-merce, la seconda accumulazione originaria rappresenta
ora l’imposizione di uno schema generale di dominio ad una forza-lavoro che,
attraversando il mondo delle merci, ha scoperto di possedere un’ernorme
ricchezza ed una infinita sapienza produttiva. La traslazione del valore
corrisponde così ad una dislocazione del soggetto. Siamo di fronte ad una delle
grandi trasformazioni epocali della natura della forza-lavoro. Se volessimo
seguire qui le mille articolazioni di questo processo potremmo farlo senza
fatica: ma non interessa e altrove comunque lo faremo. Qui interessa solamente
percepire come le leggi generali che regolano il lavoro del soggetto si siano di
nuovo rivelate su un passaggio fondamentale, di modificazione radicale del
modo di produrre. Di conseguenza, dentro e attraverso, fuori e contro questa
trasformazione, si è venuto formando un nuovo soggetto - se è difficile farne un
identikit, non è perché le caratteristiche complessive del processo di formazione
siano ignorate ma perché una definitiva figurazione può darla a se stesso solo il
nuovo soggetto, riproducendosi materialmente ma soprattutto politicamente.
C’è un altro livello, del tutto complementare al primo, rispetto al quale la
ricerca deve ora procedere, muovendo dal vecchio concetto di << composizione
di classe >>,: è quello che lega le determinazioni intensive, qualitative,
nazionali del tema << operaio sociale >> alle dimensioni estensive, dinamiche e
multi o transnazionali. Ci troviamo per la prima volta di fronte ad un processo
che tocca i limiti del nostro universo conoscitivo. All’unificazione capitalistica
del mondo, alla sua riduzione intera a mercato, corrisponde sia un susseguirsi di
lotte, di resistenze e di dinamiche antagoniste sui singoli snodi del mercato - e
di qui la necessità di controlli repressivi sempre più efficaci e di dislocazioni
produttive sempre più astratte; sia un ripiegarsi mobile ed articolato del
comando sulle dimensioni della giornata lavorativa - sicché la sua
frammentazione, la sua flessibilità, la sua plasmabilità, ecc. possano essere
rigorosamente ricomposte su un piano generalissimo, non perciò meno
costrittivo. Prendiamo il mercato mondiale ed imponiamogli un sistema di assi
Cartesian: avremo sull’ordinata la mobilità della giornata lavorativa e
sull’ascissa l’estensione orizzontale del mercato, con tutte le sue difficoltà e i

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suoi intoppi. Ma dal quadro Cartesian uscirà, appunto, un meccanismo spazio-
temporale completamente modificato rispetto alla tradizione. Questa
dimensione, che chiamiamo trans o multinazionale e che comprende anche (non
certo in termini secondari) quella figura temporale infranta della giornata
lavorativa - questo quadro, dunque, si accompagna strettamente alle
determinazioni tecnologiche già considerate. Nella dislocazione del soggetto
noi non verifichiamo, dunque, soltanto la socialità della figura produttiva, ma
anche questa dimensione multinazionale. Automazione, rottura della giornata
lavorativa, mercato mondiale, misurano unitamente, simbioticamente, la figura
dell’operaio sociale. Ecco dunque un esempio di dislocazione, un momento
paradigmatico del lavoro del soggetto.
II mondo s’è chiuso. Quando tocchiamo questa verità dell’estetica
trascendentale, noi non affermiamo una vecchia verità. Noi non ripetiamo quel
sentimento di impotenza che spesso ha toccato l’uomo, pascalianamente,
davanti all’incombere delle sue miserie. Qui la chiusura del mondo corrisponde
all’enorme espandersi di tutte le componenti interne di questo medesimo
mondo. Quello che scopriamo non è nuovamente il vecchio mondo medioevale
- mondo finito per antonomasia - scopriamo invece come il mondo infinito della
rivoluzione rinascimentale si sia esaurito, rovesciandosi riflessivamente su se
stesso, e come l’infinita del rapporti che quell’immagine del mondo conteneva,
si sia ora riqualificata dentro sequenze puramente intensive. Vale a dire che oggi
il mondo è infinito solamente nella misura della divisibilità, non in quella
dell’estensione. Il mondo è infinito verso il suo interno: indefinitivamente
plasmabile ma non superabile. I suoi limiti sono rigidi.
Ecco dunque, il lavoro del soggetto pervenire, in maniera definitiva, alla
riscoperta, ridefinizione e verifica di quei paradossi dell’estetica trascendentale
che inizialmente avevamo colto e definito in termini di immediatezza. Il lavoro
del soggetto ci si mostra qui come causa di quella situazione ontologica che
l’estetica trascendentale ci attestava in prima battuta. Ora, è evidente qui che il
soggetto non è semplicemente un prodotto del movimento storico: esso è il
motore di quella serie di rapporti che si stabiliscono in un tutto unico che
coinvolge l’ambiente e l’ontologia produttiva. Ciò è un primo risultato: l’unità e
l’indifferenza del sostrato ontologico, produttivo, collettivo, sono qui verificate.
In secondo luogo, poi, questa matrice pratica che costituisce la soggettività ci
pone davanti all’estrema tensione dell’essere: ad un processo che, dislocazione
dopo dislocazione, ha chiuso questo mondo su se stesso. E’ al soggetto
muoversi, al suo lavoro scegliere di essere o non essere.
4. Lavoro, territorio, libertà.
Stiamo riagganciando ontologia e soggettività. Non solo, stiamo anche

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rideterminando le caratteristiche storiche di questo rapporto. Un pensiero
filosofico che muove dal punto di vista dell’immediatezza empirica, cogliendo
in questa l’universalità delle determinazioni ontologiche, non può che
procedere, appunto, come procediamo: riflettendo su se stesso, scoprendo in
maniera totalmente dispiegata ciò che era implicito, e rivelando il dato dalla cui
implicita ricchezza la ricerca è partita. L’estetica trascendentale offre alla
dialettica dell’immaginazione vera un terreno di scoperta e di verifica. Il lavoro
del soggetto si fa, dunque, soggetto del lavoro: vale a dire che quel lavoro che
abbiamo visto svilupparsi come critica dell’esistente, come costruzione di
movimento, come rifiuto di essere preda della produzione capitalistica di
soggettività - quel lavoro ora smette << le vesti curiali >> e torna
all’abbigliamento quotidiano, che è quello del lavoratore, che è quello
dell’organizzazione collettiva del lavoro. D’altra parte, è solo la capacità che
deriva dall’aver attraversato le regioni della << sussunzione >>, e cioè dall’aver
toccato quell’incredibile misura di astrazione che lo sviluppo delle forze
produttive e il comando su di esse ha determinato, a permetterci ora di cogliere
il soggetto del lavoro nella sua storica corporeità. Il lavoro astratto diviene
corpo. Non è un mistero, non è nuova incarnazione dialettica, tanto meno
religiosa o simbolica - quest’incarnazione è quella che il lavoro conosce
passando attraverso il macchinario informatico e le reti di telecomunicazione.
Quest’astratto diviene concreto perché in esso si sviluppa l’appropriazione
materiale dei contenuti di conoscenza che le tecniche e i sistemi producono.
Come altrove abbiamo scritto la protesi diviene natura. Di più diviene corpo.
Ma i corpi sono singolarità. Qui lo sviluppo dei paradossi dell’essere nella
fase della << sussunzione reale >> si incrementa ancor più, poiché, infatti, non
solo quel mondo astratto che è la comune matrice di ogni corporeizzazione, si
scinde nelle singolarità - ma queste singolarità assumono dimensioni specifiche,
quiddità - e poi identità collettive, potenziali di libertà - tali che alle singolarità
si accoppia un fortissimo grado di diversità. La grande rete dell’astrazione è qui
percorsa, quasi sostituita, in ogni caso segnata << a contrario >> (ad ogni
momento dell’indifferenza si oppone una differenza) da una rete multicolorata
di espressioni singolari. Si potrebbe dire che queste due reti rappresentano due
aspetti di un gioco ottico: ad un lieve movimento, l’uniformità incolore
dell’astratto si tramuta in un trionfo di tinte. La costituzione dell’essere consiste
in questo: in questa contemporaneità, simultaneità, di una contraddizione che è
antagonista, tra il massimo di astrazione e il massimo di concretizzazione
corporea. La regola antagonistica si manifesta qui come regola della
costituzione. E’ per questa diversità che la rete dell’astratto si è sconvolta in rete
di espressioni singolari. Ultimo, ma non meno importante elemento di questo
processo, che ora cogliamo nelle sue fasi estreme, è il condensarsi comunitario

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di queste espressioni. Vale a dire che nello scontro che le oppone alla rete
astratta ed uniforme del comando, le espressioni di libertà, di lavoro, di
corporeità, raggiungono una sorta di equilibrio che le riterritorializza, cioè
sistema gli elementi della diversità dentro una comunità, un territorio
umanamente contrassegnato, uno spazio umano.
E’ importante sottolineare questa serie di passaggi. Probabilmente non vi è
una legge che determini priorità, sequenze, rigidità - non può esservi. Abbiamo
in ogni caso casistiche di percorsi differenziati. Ma ciò che è importante
sottolineare è che questa serie di elementi, questa precipitata consistenza di
materialistiche determinazioni, ha uno spessore ontologico fortissimo. Nei miei
lavori precedenti, troppo spesso ho considerato il rapporto tra i processi di
autovalorizzazione e processi di autorganizzazione come termini conseguenti,
come tappe di un medesimo progetto - l’autovalorizzazione, la spontaneità del
processo visto dalla prospettiva proletaria erano comunque prima, fondanti,
ontologicamente superficiali ed evanescenti. Non a caso, di conseguenza, la
determinazione aperta dei fili di autovalorizzazione - immagine che qui
confermo - mi sembrava scaricare il quadro di caratteristiche ontologiche
pesanti. Ci si muoveva nel soft piuttosto che sull’hard. Invece qui vogliamo
proprio insistere sull’altro aspetto - vedere cioè come i processi di
autorganizzazione procedano, o comunque siano contemporanei, a quelli di
autovalorizzazione. Spieghiamoci. Innanzitutto i due processi sono
complementari e la definizione dell’uno solo difficilmente (o del tutto
erroneamente) può essere fatta senza la definizione dell’altro. Certo, vi saranno
crasi, deviazioni, sentieri interrotti: ma è essenziale ricordare che
autorganizzazione e autovalorizzazione si iscrivono su un medesimo contesto
ontologico. In un secondo luogo, tuttavia, occorre affermare che
l’autorganizzazione viene prima di tutto: essa è la via che va in profondità,
quasi uno scivolamento tettonico, un radicarsi che non può subire strappi e
comunque è capace di una sublime resistenza. Tutti i termini della rete di
espressioni che costituisce (nel senso pesante di costituzione) l’essere del
soggetto, troviamo qui una sistemazione, un ordinamento interno, una tendenza
vitale, per così dire, diretta dalla ragione di queste connessioni. Immanente,
autoriflessiva, potente. Di tutte queste caratteristiche che si può parlare senza
attribuire loro qualificazioni organicistiche: la dinamica è descrivibile su un
terreno meccanico - quando a questa meccanica sia garantita l’intera
dimensione di potenza dell’essere. A me Spinoza è servito per leggere in tal
modo, fuori da ogni tentazione organica, fuori da ogni scivolamento idealistico,
questa potenza dell’essere. L’autorganizzazione, dunque, precede
ontologicamente l’autovalorizzazione. Ma questa precedenza è, come abbiamo
accennato, logica piuttosto che storica. Vale a dire che le vicende storiche, nel

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mentre si danno e variano e si moltiplicano, fanno comunque precipitare ed
iscrivono segni sulla corteccia razionale dell’essere. L’autovalorizzazione
organizza: ma non potrebbe farlo se questo passaggio attivo non possedesse una
referenza solida, una rete dentro la quale collocare il significato degli eventi, un
senso secondo il quale organizzarli. Se qui si insiste tanto su questa
anticipazione (in ogni caso logica) della potenza ontologica su quella storica: è
perché la nostra esperienza ci ha a questo condotto. Cioè a considerare che
l’attività etica non poteva sviluppare il suo senso se non quando fosse inserita
su un tessuto ontologico e che molti fallimenti, logici e pratici, avrebbero potuto
essere evitati se la determinazione pesante dell’ontologia etica fosse sempre
stata criticamente posta all’ordine del giorno ed esibita come prima linea di
orientamento.
Tuttavia non è certo questa potenza ontologica che, sia pure come sfondo,
può fermare la felice vitalità dei processi di autovalorizzazione. Dicevamo
prima che i percorsi nell’essere, di produzione dell’essere, possono subire
deviazioni ed intralci e conoscere difficoltà. Ma questo non solo è necessario: è
anche bello. L’estetica trascendentale raccoglie qui, sia pure in termini di pura
superficie, la felicità dell’evento. Ed è probabilmente su questa leggerezza
dell’essere che un’eventuale dialettica può essere ritmata. Deviazioni, dunque,
intralci, scontri: la potenza ontologica è una rete di contropoteri. E’ dentro
questa vicenda, che noi ci ostiniamo a ritenere felice, com’è felice la superficie
dell’essere, anche quando mostra risvolti di tragico, - è dunque dentro questa
dimensione che le leggi di formazione della soggettività vengono fissandosi.
Quelle leggi che, nel paragrafo precedente, abbiamo cercato di descrivere: leggi
di condensazione, ma poi di appropriazione e di dislocazione, leggi che
scandiscono il definirsi di identità collettive a livelli sempre superiori. Ma
queste leggi di formazione devono essere esse stesse sottoposte a quel ritmo
instabile che qualifica il rapporto fra autorganizzazione e autovalorizzazione,
che lo colloca, in maniera fragile e pur duratura, dentro un territorio dello
spirito e che attraversa con libertà queste temporanee determinazioni. Ogni
linearità uniforme è rotta: meglio, può forse essere utilizzata come ipotesi, ma è
solo una verifica portata su tutte le vicende del processo che ne convalida il
senso ed il significato. Ogni teoria dello sviluppo attraverso determinazioni
preconcette, stadi e fasi, è anch’essa rotta: di nuovo, può essere utilizzata come
ipotesi di ricerca ma solo quando il meccanismo della ricerca non tenga dietro o
si disperda fra pedagogiche tradizioni.
Ogni analisi concreta, fin qui condotta o sviluppata altrove, conferma la
correttezza delle qualificazioni e tendenze del rapporto fra lavoro, territorio e
libertà che sono state descritte. Torniamo, ad esempio, all’identificazione del

101
soggetto sociale e multinazionale del lavoro e dello sfruttamento: vedremo, in
questo caso, come appunto lo sviluppo della potenza produttiva del lavoro abbia
raggiunto un consolidamento irreversibile, come sul ritmo di questo
consolidamento si siano ovunque formale identità collettive del medesimo
spessore. L’ultimo proletariato entrato nel mercato mondiale non deve
percorrere tutti gli stadi dello sviluppo per pervenire a collocarsi nel circuito
mondiale di scambio delle merci e di realizzazione del valore: tutte le tematiche
relative ai prerequisiti sono enormemente semplificate, e non esiste dottrina che
possa (in maniera rigida) proporre fissi scenari di sviluppo. Di contro: quest’
inserimento nel mercato, ed ai più alti livelli dei processi produttivi, esplicita
momenti di resistenza e processi di identificazione al più alto livello. I rapporti
che si pongono fra mercati diversi, vengono in gran fretta sospinti verso un
massimo di orizzontalità ed una massima intensità di reciproco ricambio.
Questo in generale. Tanto più tutto ciò vale per i soggetti che in questi processi
sono insieme collocati (come ad esempio varie frazioni della classe operaia
impiegata da una medesima trasnazionale, o diversi segmenti proletari
partecipanti ad una medesima filiera produttiva) ed organizzati nelle dinamiche
unitarie che corrono la produzione ed il mercato. Sicché l’operaio sociale-
multinazionale si trova dinnanzi al compito di stringere il rapporto fra le diverse
frazioni del proletariato mondiale perché la materialità stessa del rapporto
produttivo mostra che l’interesse degli uni e degli altri deve coagularsi su un
unico asse. L’internazionalismo non è certo morto!
E’ difficile, per noi stessi che abbiamo vissuto questo periodo, comprendere
con quanta intensità questo processo di identificazione di soggetti collettivi
abbia proceduto nei tempi stretti della << sussunzione reale >>. Ma è certo che,
entro questi tempi strettissimi, è corsa una implacabile iniziativa del capitale.
Ed è altresì certo che, di contro alla possibilità operaia e proletaria di forzare la
costruzione soggettiva della resistenza, le regole del dominio si sono riproposte
a quell’altissimo livello di unificazione, con straordinaria efficacia; e che,
quanto più l’istanza di riterritorializzazione attraversava le nuove identità
collettive, tanto più da parte capitalistica venivano astratti i modi dello
sfruttamento e i contenuti del controllo. Ad esempio, un orizzonte di controllo
puramente monetario, simbolico ma non perciò meno efficace, veniva imposto
con strumenti terroristici durante il decennio che segue al ‘68 ed alla
conseguente crisi nixoniana del dollaro e del petrolio. Da allora la moneta
fluttua senza senso - senza un senso che non sia quello dell’adeguamento
puntuale ed istantaneo alle necessità di repressione. Così i momenti potenti di
autodeterminazione si scontrano ad una capacità di repressione esatta e feroce.
Così i processi di appropriazione sono bloccati sul nascere. E ciò che sembrava
divenire corpo, è in tal modo confinato all’astratto, ciò che tentava di divenire

102
comunità è condannato al ghetto. Finché non si dia rivolta. Quale rivolta? Quale
insistenza antagonistica? Dal 1982 è chiaro come questa resistenza possa
formarsi: appunto sul livello e contro il terrore monetario, contro il ricatto e la
repressione che si esercita attraverso l’equivalenza generale. Dentro questo
passaggio si spiegano, in termini assolutamente espliciti, le dimensioni del
rapporto di forza che al lavoro del soggetto sono in questo periodo imposte, -
fra il 1971 e il 1982, fra la liberazione nixoniana del dollaro e la rivolta dei
paesi indebitati contro la ferocia delle banche e degli Stati centrali.
Lasciamo per ora ulteriori esemplificazioni: su di esse potremo
eventualmente più tardi tornare. Quello che invece qui non possiamo trascurare,
è di osservare come, a partire dalla situazione esemplificata, il livello di
resistenza ontologica si sia, per così dire, talmente fissato da rendere pressoché
nulla l’elasticità del sistema. Dall’analisi di questa situazione possiamo indurre
un’ulteriore modificazione del paradigma. Se non fosse paradossale dirlo in
questo momento, e cioè proprio quando la funzione repressiva della moneta si
sviluppa appieno, si potrebbe prevedere che, a fronte del grado di resistenza
oggi verificata, gli strumenti monetari hanno concluso il ciclo storico nel quale
era a loro affidata la funzione centrale nel controllo. Si può oggi, di fronte alle
resistenze che contro il comando monetario si sono levate, parlare di
capitalismo senza moneta? Non Sarebbe la prima volta che il comando si è
esercitato, nella storia dell’umanità, fuori del rapporto monetario. Né
l’eventuale conclusione del ciclo del comando monetario del capitale può
garantirci [garantirsi ?] che altre adeguate forme di comando non subentrino
alla moneta. Ma ciò che è qui estremamente interessante notare, è che, nel
momento nel quale la funzione del comando monetario viene meno, gli aspetti,
certo non esclusivi e comunque non secondari, progressivi della funzione
monetaria, - sono ora fatti propri dal soggetto del lavoro. Voglio dire che
quell’universalità di comunicazione e di movimento, quella mobilità e quella
leggerezza che il danaro impone agli uomini e alle merci, - ed in tutto ciò è
consistita un’enorme spinta progressiva per l’umanità - bene, tutto ciò è
conquistato direttamente ed immediatamente dai soggetti produttivi. Nella
stessa misura in cui il capitale distoglie dal denaro la funzione immediata,
diretta del comando - il capitale oggi propone comando in termini militari e
terroristici. Sicché uno dopo l’altro una serie di elementi di libertà si
accumulano sul soggetto del lavoro: ma su di esso si condensano nella misura
in cui, dall’altra parte, il controllo, il comando, il capitale, estremizzano
l’esercizio del potere e ne portano la disponibilità direttamente sull’alternativa
fra l’essere e il non essere. C’è una nascente metafisica che si mostra in maniera
opposta, antagonista, per il lavoro e il capitale: ora, quanto più si determinano
sviluppo e modernità, tanto più questo antagonismo perviene all’ alternativa

103
dell’essere e del non essere, perché a questo punto al lavoro del soggetto è dato
il rapporto con l’essere in maniera esclusiva, mentre al capitale è dato, in
maniera sempre più stringente, il non essere. Dunque, ogni qualvolta il processo
complessivo avanza, noi ci troviamo di fronte ad un allargamento di questa
alternativa. Ogni qualvolta matura la grande capacità produttiva del soggetto del
lavoro, tanto più la biforcazione si scandisce e si approfondisce. Siamo
nell’epoca nella quale questa scissione, prodotto della crisi, del suo
superamento, delle lotte e del loro futuro, è tesa al massimo dei livelli.
Nell’osservare tutto questo, abbiamo nuovamente affrontato il tema della
simulazione astratta, per quanto concerne il controllo dei meccanismi di valore.
Altrove abbiamo chiarito come i meccanismi di valore si configurino oggi sul
terreno della circolazione sociale, meglio, in forma collettiva; e come, mentre è
impossibile riferire all’individuo la determinazione del valore, questa si può
costituire attraverso il lavoro di soggettività collettive. E’ interessante allora,
sulla base del ragionamento che abbiamo fin qui condotto, aggiungere qualche
considerazione su come il rapporto fra astrazione e comando venga
disgiungendosi. Vale a dire che nella misura in cui l’astrazione diviene sostanza
del soggetto ed il comando tende ad essere unico elemento caratterizzante del
potere contrapposto - bene, in questo caso noi ci troviamo di fronte ad
un’operazione con una immediata valenza etica. Vale, ancora, a dire che il
valore è direttamente implicate in questo processo e che il processo stesso
mostra una immediata divaricazione. Così da un lato, a questo livello dello
sviluppo, il valore è strappato alla forza-lavoro individuabile e riproposto come
figura dell’insieme collettivo delle attività sociali. D’altro lato, invece, ecco che
il simulacro diviene pura e semplice falsità, ipocrisia, ideologia. Esso è puro
comando, non contiene più l’allusione al valore, non è più neppure
mistificazione. E’ violenza diretta, tanto folle, vuota ed assurda quanto lo è il
comando di un despota. La simulazione è non essere, è paranoia,
autoproduzione fantastica, espressione esasperata di un comando esasperato... Il
lavoro del soggetto è il contrario di tutto questo. Questa simulazione potrebbe
definirsi come il lavoro dell’oggetto: morto e cieco. Se dal lavoro del soggetto
siamo risaliti al soggetto del lavoro e questo abbiamo collocato su un territorio
di libertà, - simulazione è, assieme alla negazione del valore, negazione del
lavoro, della sua territorializzazione e della sua libertà.
5. Compact: fra diritto e rivoluzione.
Ci siamo fin qui mossi dentro la materialità dei rapporti sociali e la loro
immediatezza - che pur abbiamo trovato piena di senso. Ma questi rapporti
vanno portati al pieno del loro significato, vanno dipanati e riguardati come
elementi di coscienza. Questo compito è urgente: già sul terreno dell’estetica

104
trascendentale lo sviluppo dei rapporti sociali si è mostrato come precipitazione
verso un orlo dell’essere che noi abbiamo considerato aperto al nulla
dell’essere. Ora, è appunto su quest’orlo, che la nostra necessità di rendere
coscienti, e con ciò desiderabili, prevedibili, costruibili i rapporti sociali, si
pone con estrema intensità. Questa necessità, sulla base dello sviluppo della
coscienza, viene dall’interno dei rapporti sociali - quest’internità inoltre
definisce come urgente il compito di sviluppare il processo di presa di
coscienza, anzi, esalta la pertinenza dell’impegno. E’ un cammino che viene
dall’interno dell’immediatezza: qui si dimostra come assolutamente inutile la
mediazione, la presa di distanza che è un controllo sulla genesi dei processi che
ci interessano - qui si rivela come vuota la pretesa totalizzante del controllo,
della previa astrazione e separazione dei valori che comandano l’esistente.
Questi valori sono ricchi. Il reale comprende, nella sua lussureggiante figura, un
sottobosco in cui i valori si riproducono, contraddittori ma ricchi. Il sottobosco
dei valori è la loro enorme potenza. Il cammino che attraversa la realtà, per
promuovere in essa gli elementi di innovazione, di potenza e di creatività, non è
quindi (e non può essere) una mistificata, previa e preconcetta selezione di
valori - esso si distende ovunque - la vocazione è alla cucitura, al collegamento,
all’articolazione del valori. Insomma, siamo al limite inferiore della dialettica
trascendentale ma questa dialettica trascendentale non scende da un’analitica
qualsiasi, deriva invece direttamente dall’interna articolazione dell’estetica
trascendentale e di questa spiega la densità ontologica, trasformando quelle
premesse in strumenti di conoscenza più generale e di fondazione dell’etica.
Questa deviazione del cammino è prepotente - l’analitica è un fondo inerte della
conoscenza e un residuo morto ed antagonistico (antagonistico in quanto morto)
della coscienza. Solo questa denuncia, questa dichiarazione, già all’interno del
minuto meccanismo dell’essere singolare, ci indicano l’interiorità della scelta -
quest’eterno Cartesian o Socratic dubbio - nell’immediatezza.
Una dialettica trascendentale, dunque, che non sia una teoria della
mediazione ed una conseguente pratica cosciente dell’immediatezza: eccoci a
fronte di questo compito e delle sue condizioni. Meglio, le condizioni sono
presupposte, si tratta di sviluppare il compito. Noi dunque muoviamo
dall’interno del reale, dell’immediatezza - vogliamo costruire, ed immaginiamo
tutti i passaggi e gli strumenti che possono permetterci di costruire veramente il
mondo. Dialettica trascendentale diviene così l’insieme degli strumenti che
permettono la realizzazione dell’immaginazione vera - di quell’immaginazione
che tenta di raggiungere e contenere e modificare strati della realtà.
Un’immaginazione creativa. Abbiamo visto come la rete che chiude l’orizzonte
dell’esistenza, sul terreno dell’estetica trascendentale, possa essere strappata
quando la sua coerenza è posta a fronte degli antagonismi elementari che la

105
dominano - ora, è appunto su questo strappo che si apre la speranza
ricostruttiva... Che contenuto di violenza esistenziale prevede la costruzione di
un orizzonte etico, una prospettiva etica di ricostruzione! Non è certo qui luogo
di pensiero debole: il pensiero è forte, energumeno - è ricerca di toccare la terra
per averne tutta la sua forza. Né pensiero debole è quanto segue a quest’atto di
rottura: un venire avanti progettando, mettendo all’opera schemi di conoscenza
possibile, collegando momenti empirici e pulsioni ideali. Induzione, ma
intrecciata alla deduzione - induzione profonda, quindi, alla Peirce, andar
cercando e costruendo, secondo ordini che abbiamo trovato all’interno della
nostra esperienza empirica... Ma questo andar per tracce, non è pensiero debole,
di nuovo: è inseguire le linee interne dell’essere, è uno sforzo ontologico.
Con ciò cominciamo ad entrare nel merito di quello che più propriamente qui
ci interessa. Rispondere cioè alla domanda: come può organizzarsi l’insieme di
pulsioni etiche che ci permettono di costruire il rapporto sociale e di
controllarlo nel suo distendersi temporale? Che cos’è una dialettica
trascendentale dell’immaginazione vera?
Ora, quello che su questo terreno noi sempre di nuovo ci troviamo davanti è
il tentativo di chiudere in formulazioni analitiche il processo costitutivo della
realtà sociale. Questo tentativo di bloccare la fantasia creativa e il suo rapporto
con l’innovazione reale va sempre battuto. Vale a dire che nello svilupparsi del
punto di vista costitutivo deve risiedere sempre uno spunto antagonistico che lo
individua. Ma questo spunto antagonistico non solo individua, singolarizza,
esso pone anche il problema di come, fra queste differenze necessarie, possa
svilupparsi punto di vista costitutivo. Problema: il modo nel quale essa possa
determinare la prospettiva della ricostruzione, dello sviluppo
dell’immaginazione vera: anzi, questa forza di rottura aumenta ed ingigantisce
le differenze e dilata le difficoltà.
Ma perché diciamo questo? Non è vero, al contrario, che il contesto delle
differenze è il contesto della ricchezza dell’esperienza? E che un processo
costitutivo deve di conseguenza provarsi essenzialmente e soprattutto su questo
terreno? Il punto di vista costitutivo è quello della costruzione interna del
disegno innovativo, in ogni momento della nostra vita e della nostra esperienza;
la costituzione si presenta come un processo umano, sempre aperto, sempre
enormemente potente. Quando consideriamo tutto questo, percepiamo allora
che la dialettica trascendentale della ragione si rappresenta qui, realmente, come
dialettica ontologica fra singolarità, autovalorizzazioni, insorgenze di
movimento, - e questo nella figura della differenza. E’ un processo del tutto
formativo, che plasma la realtà, che soffre delle sue durezze ma che, nel
contempo, di quegli antagonismi fa un momento propulsore. In fondo, il

106
rapporto fra autorganizzazione e autovalorizzazione, e la stessa dialettica che
fra queste funzioni si esercita, ritrova in questo formare, in questo processo
continuo, la sua ricchezza. La sua articolazione e la sua potenza. Potenza è in
effetti questo rapporto continuamente aperto. Il disegno costitutivo è la
creazione che il sapere e la volontà esprimono, raggruppando e trasformando gli
oggetti e gli uomini e il loro rapporto reciproco. Tutto questo avviene dentro
quell’area di sostanziale omogeneità che l’ambiente determina - ogni punto di
vista ha una dimensione ecologica cui riferirsi, laddove per ecologia riteniamo
l’insieme di tutte le forze che costituiscono l’ambiente, - fisiche, morali,
storiche.
E’ qui, dunque. che il discorso si fa esplicito: poiché pone attraverso
l’interiorità ontologica, la necessità di riferimento, da una parte di questa
potenza ontologica, all’esteriorità dell’essere. Dobbiamo muoverci [muoversi ?]
dentro l’esteriorità dell’essere: la capacità critica consiste in questo, in questo
aver portato il pensiero e l’esperienza fino alla loro esteriorità. Ora, si tratta di
far incontrare ciò che percorre cammini diversi e vedere come possa, se non
accordarsi, certo trovare la maniera di convivere - ma soprattutto si tratta di
porre il problema di come le compresenze ontologiche, le contemporanee
differenze possono costruire, attraverso il rapporto, nuovo essere, nuova
potenza.
Il pensiero sul diritto ha sempre questo vantaggio, fra le varie forme di
pensiero dell’essere: ed è quello di proporsi l’esteriorità, vale a dire il massimo
della potenza dispiegata. Perché infatti, diversamente da quanto possano
pensare i kantiani e tutti coloro che del diritto danno un’immagine banalizzata
nella sua esteriorità, - ecco invece l’esteriorità divenire dignità ulteriore del
pensiero e massimo punto di creatività, nel momento stesso nel quale essa si
presenta come incontro di differenze ed articolazione, terribile e drammatica, di
esse. La parola << Compact >> ci piace molto, in questo senso. Essa definisce
ogni diritto come diritto federativo - essa scontra il giacobinismo in tutte le sue
articolazioni, avendo, del giacobinismo, conosciuto preventivamente ogni
possibile perversione. Essa mostra le differenze all’opera nel costruire l’ambito
normativo della convivenza, della collaborazione, della costruttività sociale -
senza nascondere come quest’ambito sia anche, e comunque possa essere,
quello della dialettica distruttiva, fino all’ultimo antagonistica e feroce. Il diritto
non nasce dall’attualità della pacificazione - nasce solo dalle condizioni di <<
compact >>, dalla possibilità di una pacificazione, meglio, di un passaggio in
avanti del contrasto fra forze sociali, fra le soggettività antagonistiche, che sia
tale da arricchire l’intero ambito della conoscenza e dell’interazione umane. Su
questo termine << compact >>, sul contenuto federalistico e nello stesso tempo

107
fortemente dialettico che esso comprende, noi naturalmente proseguiremo il
discorso: ma quello che qui, metodologicamente almeno, va sottolineato,
fortemente, è il fatto che solo la differenza crea diritto, ed il suo immediato e
forte riconoscimento.
Ma occorre essere chiari. Il diritto non toglie la rivoluzione. E’ curioso notare
come ogni concezione realistica del diritto, spesso molto aperta e sinceramente
progressiva, veda quest’ultimo come forma nella quale la rivoluzione si
organizza. E’ questo l’ultimo modo di togliere la rivoluzione: considerare che il
diritto la organizzi. No, è la rivoluzione che organizza il diritto. Con ciò il
diritto diviene normatività, tessuto nel quale si determina una trasformazione
continua degli assetti sociali - insomma, è nel rapporto potente fra rivoluzione e
diritto che si formano gli strumenti della costruzione continua della dialettica
trascendentale, - tentativo di raggiungere il valore a partire dal reale, di
autovalorizzazione a partire dal fatto di consistere ontologicamente. Altrimenti
il diritto è solo comando idiota, buco nero nell’insieme collettivo delle
coscienze, resto distruttivo dell’esistere. Dunque, quando la totalità si oppone
alla differenza, o lo fa in quanto essa è pienezza delle differenze, ed allora è
rivoluzione - e conseguentemente diritto - e ancora rivoluzione e diritto, ecc. -
oppure la totalità è vuotezza delle differenze, ed allora il diritto è la forma zero
del potere, l’organizzazione della pura volontà di potere spinta alla distruzione
degli uomini e della loro capacità di immaginare sempre di nuovo il reale.
Il reale è un contesto di contropoteri. Il soggetto si configura come
contropotere. Meglio sarebbe dire come potenza, come contropotenza, per
definire l’inerenza dell’antagonismo alla definizione della potenza stessa. La
potenza non solo esprime un contenuto metafisico ontologicamente originale,
essa sviluppa anche una specificità, un differenziale che nasce
dall’antagonismo, dalla particolarità, dalla singolarità che la contraddistingue.
Ora è in questo gioco che la rivoluzione, dopo averlo legittimato, si differenzia
dal diritto. Fra diritto e rivoluzione, infatti non c’è solo una differenza di
potenziale: il primo è più debole, la seconda è più forte. No, c’è qualcosa di più
- ed è la caduta di ogni omologia con lo stato nello svilupparsi della rivoluzione
mentre il diritto può esistere anche in società statali - anche se esse sono società
di morte. Il rapporto fra la rivoluzione e lo Stato, anche se la rivoluzione passa
attraverso il diritto, è invece - lo ripetiamo - di nessuna omologia. La
dimostrazione di questa affermazione va, com’è evidente, riportata all’analisi
ontologica. Il tema dell’omologia, questo tema così profondamente criticato -
ma prima di tutto posto all’ordine del giorno - da Foucault, bene, esso ormai
domina i nostri pensieri. L’analisi ontologica apre alla scelta dell’essere etico.
E’ perciò che noi vogliamo distruggere ogni omologia con il passato, con quella

108
concezione del potere che ci ha imprigionato. Il diritto non toglie la rivoluzione
- ma la rivoluzione che si articola a quelle figure del diritto naturale alle quali
noi ci richiamiamo, toglie comunque lo Stato. Il reale è un libero contesto di
contropoteri. Rivoluzione e diritto, se vogliono esser degni dello stesso nome,
nascono sotto la stessa coperta.
Eccoci dunque a poter descrivere l’ampio e variegato gioco sul quale si
esercita il << compact >> delle energie soggettive - questo terreno ampio,
dentro il quale si formano e si distruggono i soggetti, ma che mostra sempre, di
conseguenza, un disegno, un ordinamento. Questa vita del diritto e della
rivoluzione, che nasce dal medesimo movimento, dalla medesima origine, -
ecco, questa è la linea che dobbiamo seguire. Altri lo ha fatto dal punto di vista
della genealogia della morale, altri dal punto di vista dell’intreccio fra
istituzioni e volontà politiche - ma nel passato, guardando indietro a quanto era
avvenuto, sia pure per averne un’indicazione positiva nel futuro. Per la teoria.
Qui noi ci muoviamo sul terreno del presente. Riprendiamo quell’aurea linea
teorica che è stata di Machiavelli, Spinoza e Marx - la prendiamo come si
prende un’arma, pronti a colpire. E’ la linea del sapere pratico, del sapere che
incide sull’ontologia, che in ogni momento opera quel miracoloso effetto che è
il coordinamento tendenziale delle soggettività quand’esse siano intese alla
costruzione del reale.
E’ assolutamente necessario togliere di mezzo qualsiasi sospetto di idealismo,
quando si affronta questo tipo di analisi e si insiste su questa metodologia. Non
è difficile comprendere che questo approccio metodologico non solo non è
intenzionalmente idealistico - non lo può comunque essere: perché è la
materialità delle istanze soggettive che qui si confrontano, ad escluderlo.
Quando dico materialità delle istanze soggetttive [sic, soggettive] intendo tutto
quello che cade nel potere dell’uomo, ovvero gli oggetti e le idee, che egli usa.
Il concetto di prassi è materialistico non perché ripeta insulse definizioni
meccanicistiche: non le ripete, infatti - ma perché comprende questo formarsi
complesso del reale come conseguenza di atti diversi, ognuno dei quali ha una
sua resistenza, una maggiore o minore elasticità, un potenziale diverso ecc. ecc.
Qui tutto si crea e si distrugge. Non ci sono avveniri diversi da quelli che
l’uomo costruisce, collettivamente, per se stesso e per la propria collettività.
Quando risalgo appunto a quell’illustre tradizione alla quale mi richiamo - a
Machiavelli, a Spinoza e a Marx - ai quali posso aggiungere alcuni nomi della
filosofia contemporanea e, di nuovo a mezzo fra la modernità ed il presente, il
ricordo del mio eroe Leopardi - dunque, in questo quadro io allontano non dico
l’accusa ma solo il sospetto di idealismo. A meno di non considerare il
materialismo come, ero giovane, alcuni marxisti di scuola sovietica lo

109
intendevano: un catechismo per bambini scemi!
Mi sembra che quanto sono venuto fin qui dicendo, sia da tempo consolidato
in un sapere che si intende quale prodotto di movimento, cioè di un processo
collettivo, di trasformazione. Ma ecco, di nuovo, qui vicina, una obiezione
seria: di quale diritto, dunque tu parli? Non hai sempre considerato, nelle tue
precedenti opere, ed in consonanza marxista, il diritto e lo Stato come
equivalenti? Ed ora come puoi dimostrare che il diritto è rivoluzione e non
Stato?
Ora, non è per gioco che ho fin qui, nei capitoli che precedono, tanto insistito
sul rapporto fra livello ontologico e livello storico, che ho tentato di spiegare
come l’autorganizzazione venga prima e non dopo dell’autovalorizzazione. Non
è per gioco che ho tentato di far capire come un nesso ontologico o comunque
un momento di ordinamento interno della coscienza, non solo non siano opposti
ma centrali nell’organizzazione del movimento esterno della coscienza e nella
stessa formazione delle soggettività. Ora, detto tutto questo, e inserita, come
fosse un segno di caratterizzazione profonda, la legge dell’antagonismo nel
mezzo dello stesso meccanismo dell’individualismo, il diritto sembra possa
essere recuperato al pensiero rivoluzionario. Come? Forse quel diritto del quale
tutti abbiamo subito la pazzesca idiozia e volontà di repressione? L’arbitrio e il
gioco al massacro, la simulazione e la ferocia della condanna? No, non è di
questo che si parla - si parla invece della possibilità-necessità di far nascere un
diritto come ordinamento aperto e vivace, vivente e forte, dall’interno del
processo rivoluzionario, dall’interno del processo di distruzione della rigidità
burocratica del mondo che conosciamo. Un diritto completamente impiantato
nella libertà collettiva - un diritto mai vendicativo e sempre aperto alla gioia
dell’innovazione.
Non vorrei più usare la parola diritto. E’ una parola sporca, è una parola che
sporca alcune delle realtà che descrive. Intendo, le realtà nuove. Un
ordinamento che nasca dalla vitalità collettiva e che si formi sull’urgenza di
distinguere l’essere dal non essere, la violenza distruttiva da quella creativa - un
diritto siffatto lo abbiamo spesso conosciuto e, quando lo abbiamo conosciuto,
lo abbiamo amato. Ora, noi vogliamo seguire questa strada che abbiamo
indicato e riconoscerla. Coordinamento di soggettività, coordinamento
tendenziale, - abbiamo detto. Sia chiaro: nulla è precostituito, tutto è aperto, è
giocato in quanto è giocabile attraverso mille tendenze. Che cosa significa
allora coordinare, che cosa significa tendenza? Per rispondere non possiamo che
riportarci a quanto abbiamo più volte ripetuto - e cioè che una sorta di
condensazione è quella che, in maniera centripeta, si forma nello sviluppo delle
forze soggettive che costituiscono le singolarità rivoltose, sovversive, cariche

110
della dignità dell’essere e della liberazione. Che poi una specie di catastrofe si
scatena, e su questa catastrofe di tutti i sensi finalmente si inquadrano
nuovamente le figure dell’essere. Nuove composizioni si danno. Nuovi
orizzonti si definiscono. La genealogia è ritornata ad essere cosmogonia -
meglio, cosmologia, ma dentro, per un mondo che è completamente e
definitivamente astratto: tra questa astrazione, non come medietà bensì come
tendenza materiale e sempre di nuovo costruita, e sempre di nuovo verificata, il
movimento del mondo va compiendosi. La sua ontologia è a posteriori, non
esiste per essa necessità metafisica - ma è ben vero che una volta formatasi essa
assume la verità dell’analitico. Senza esserlo, negandolo. Analitico a posteriori.
Eccoci dunque al termine di queste pagine e dello sviluppo di questa
tematica. Abbiamo visto quanto il concetto di << compact >> ci possa
concedere in termini di ricchezza e di utilità sistematica. Fra diritto e
rivoluzione noi veniamo così raccogliendo gli elementi fondamentali della
nostra ipotesi. Essa riconquista la metafisica per porla in prime piano sul terreno
materialistico e ateo dell’analisi - sul terreno soggettivo della costruzione. Il
senso della costituzione si traduce nel reale. Nell’operatività grandissima delle
mute e mille energie che all’interno di esso si formano e si sviluppano. E’ un
fiume quello che ci corre davanti: ma noi sappiamo che potremmo essere dentro
ogni singola corrente che questo fiume, infinitamente, compone. Lo abbiamo
visto nella nostra esperienza rivoluzionaria, ogniqualvolta l’abbiamo vissuta
onestamente. L’abbiamo visto nella storia dei processi rivoluzionari e
soprattutto nella formidabile avventura leninista e maoista. Ora, e forse in
maniera più importante (dell’orgoglio della ragione occore [occorre?] andar
fieri, se è vero che per esso l’Eden fu perduto) - ora dunque, queste gigantesche
esperienze noi possiamo raccoglierle in uno schema ideale. Erasmo viene prima
di Lutero. Melantone viene dopo: mi trovo ad essere l’un l’altro, al servizio di
un Lutero eterno.
6. Il concetto di pratica sociale.
Siamo così giunti al termine della nostra ricerca. Essa s’è mossa da una
fenomenologia del presente che ci ha mostrato come noi fossimo costretti a
vivere un reale, completamente trasfigurato dallo sviluppo del capitalismo. E’
stato difficile riconoscersi li dentro - siamo stati risucchiati in una circolazione
dalla quale non riuscivamo a liberarci ed i paradossi che immediatamente
apparivano, ecco, essi pure erano per noi elementi di prigione e non momenti di
liberazione. La prigionia dell’esperienza era nello stesso tempo prigione
linguistica - la filosofia contemporanea si sviluppa in questo senso, raggiunge
questi formidabili limiti - sono i limiti di un’illusione che non sa rompersi e non
è possibile andare oltre a riconquistare il reale. Ho vissuto questo sviluppo nel

111
mio pensiero, - assieme alla mia generazione, alla mia epoca. Marx ci ha
mostrato, nello sviluppo del capitalismo, quello che Wittgenstein ci ha mostrato
per lo sviluppo della filosofia borghese: la sussunzione reale, dove il linguaggio
diviene la gabbia sociale che tutto comprende, e non c’è possibilità di romperla
né di cogliere di là da essa un reale vero, un terreno su cui posare i piedi, una
base che ci strappi all’irruenza del fiume della circolazione.
Eppure, sul limite estremo di quest’orizzonte, al quale pure eravamo
obbligati, ma non solo, schiacciati piuttosto, legati – su questo limite, ecco la
crisi mostrarsi in termini estremi, - non è la nostra intelligenza che ci porta di là
del reale, né il nostro desiderio - vorrebbero: ma solo la violenza del reale, in
questo caso, della contraddizione, dell’estremo antagonismo, vi riesce. Questo
mondo chiuso e disperato nel quale ci siamo trovati a vivere, nella figura del
quale l’intera storia del razionalismo occidentale si chiude - mostra un limite
nel suo proprio cuore. Questo limite, lo sviluppo ci mette dinnanzi: è la scelta
fra l’essere e il non essere, fra il continuare ed il finire - è la scelta della vita o
della morte. Insomma, v’è un punto, dentro la circolazione totale
dell’irrazionale, che sfugge alla circolazione, alla mistificazione che in essa si
rivela - è il punto sul quale una scelta diviene possibile. Quel mondo che si è
sempre nuovamente composto davanti a noi, fino al punto nel quale la
composizione sociale e la stessa composizione di classe, si sono mostrate come
prigione, quel mondo dunque ora viene rovesciato: deve essere scelto, quel
mondo, perché la sua conclusione è la morte. Ma laddove vi è morte, là c’è
anche la possibilità per la vita di riapparire. Essa deve riapparire, come
alternativa. La vita non la troviamo più - laddove la troviamo. Essa è gettata
all’irrazionalità ed alla possibilità di morte - la vita non la ritroviamo, bensì la
ricostruiamo. Questo paradosso è il termine della nostra vita passiva, del nostro
subire. E’ l’inizio del nostro desiderio, della vita attiva. Il principio della pratica
sociale si determina solo a questo punto. La pratica sociale, nasce, si mostra, in
primo luogo, come scoperta della tessitura ontologica della costituzione sociale.
Nella crisi che lo sviluppo della razionalità occidentale ci ha proposto, noi
scopriamo che la costituzione, che il principio costitutivo dunque, precede la
composizione dell’essere, la sua datità. L’essere è quello che noi vogliamo, che
noi accettiamo essere. E ciò, almeno nel momento più mostruoso
dell’esperienza collettiva, e cioè laddove la scelta diviene esplicita fra la vita e
la morte, fra l’essere e il non essere. Il concetto di composizione porta con sé la
pregnanza di una relazione dialettica, di un fare soggettivo - ma non ha la
potenza formativa del costituire, e la complessità della composizione deve
perciò dissolversi nella felicità della costituzione, nella serie di rapporti
innovativi, nella radicalità che questa ci mostra. Eccoci allora nel mezzo di
questo cammino costitutivo - il principio della pratica sociale, che qui

112
dobbiamo solo definire, è il principio creativo: un cogliere, analizzare e
percepire, formare e sviluppare, costruire e seguire quelle linee che la volontà, il
sapere, il desiderio costituiscono. Immediatamente.
Mille obiezioni vengono opposte a questa determinazione. In particolare la
mentalità metafisica insegue sempre il reale, non per costruirlo, non per
identificare regole e situazioni nelle quali il processo della datità e della
passività possa essere invertito, - al contrario, sempre la metafisica ci rinvia, di
mediazione in mediazione di ipotesi in ipostasi, a quel sostrato cieco e violento,
sul quale l’essere inutilmente ripete una vuota identità. Il principio della pratica
sociale è la negazione di tutto ciò. E’ il punto sul quale, poco o moltissimo - ma
quasi sempre poco, un frammento, una traccia, eppure un elemento creativo - è
creato. La pratica sociale nasce su questo limite, ed è qui che essa mostra
quanto sia incontenibile questa sua pochezza: un atto di resistenza, di rivolta, di
gioia, un atto intrattabile - l’essere che appare, e distrugge ogni blocco ed ogni
compiacimento della miseria. Un atto che costituisce, un atto che mostra che la
pratica ci pone effettivamente sul terreno della prassi costitutiva e che in ciò
l’essere è raggiungibile e plasmabile. Il mondo della costituzione ci si rivela a
questo punto come qualcosa che davvero non può essere mistificato. La
scoperta alla sua base, di un concetto di azione, la scoperta che l’essere è
fondato su un’operazione etica, tutto questo ci mostra il mondo della
costituzione come un mondo che è segnato dal correre di fili magicamente
costruttivi. Cartografie etiche, tessiture ontologiche, filature di atti, di
operazioni dell’essere e dell’azione etica, insieme.
Quest’ontologia etica ha le caratteristiche di un orizzonte ecologico. Noi ci
troviamo dentro, e di essa conosciamo già l’aspetto molteplice e le molte vite e
le molte variazioni, e i fili che a percorrono e che ci permettono di orientarci.
Siamo in essa immersi come in un mare vasto, del quale conosciamo molte
articolazioni. Ma sempre di un mare si tratta - se vogliamo trasformarlo appieno
in macchina controllabile, se vogliamo compiere quest’opera difficile ed
onerosa, allora dobbiamo accettare di muoverci in esso... fino al riconoscimento
dell’impossibilità di mettere questa macchina in nostro possesso.
L’appropriazione è un processo che non riesce a farsi macchina risolta. La
macchina è sempre irrisolta. Lo sfondo ontologico, che pure costituiamo, non si
fa afferrare. L’ontologia è un’epistemologia - ma un’epistemologia solo
dell’attraversamento - l’essere ecologico non può essere afferrato. Un
attraversamento. L’epistemologia qui si segnala come una tecnica che solo a
posteriori è comprensibile. Procediamo nell’essere - solo segni, tracce, sintomi,
quelli che afferriamo - essi si aprono verso tendenze, che si aprono a loro volta.
Verso dove? Anche queste tendenze non sono definitive - la struttura ecologica,

113
in maniera caratteristica, reagisce come insieme di tendenze, sensi, e
diramazioni - fino al punto in cui un nuovo equilibrio viene formandosi - ma
anche questo, e queste macchine che lo esibiscono, e in generale queste
stabilizzazioni del movimento dell’essere, non sono preformate. Perché
l’ecologia non è uno stato, è un soggetto dinamico.
Ma come? Come possiamo rompere questa situazione nella quale la pratica
sociale è presa dentro le mute antinomie e dentro le mille vegetazioni
dell’ontologia della trasformazione? Ci siamo riconosciuti come partecipi di un
orizzonte teorico e pratico autoreferenziale, di una fenomenologia chiusa, di
un’insensatezza fondamentale - attraverso la percezione di quest’insensatezza, e
del dolore che ne segue, abbiamo posto la domanda sulle condizioni di questa
realtà, e del suo rovescio. Come possiamo, ora, dare all’atto costitutivo che è
elemento di rottura del labirinto, di vendetta contro Babilonia, come possiamo
dunque fissare una ragione della << pratica della pratica >>? Dico della <<
pratica della pratica >>, perché alla sola pratica è già concesso il vivere e il
costituire - ma insensato. Esiste, e come si definisce, una << pratica della
pratica >>, che ci permetta di rompere la volgare meccanicità di quest’universo
che ci chiude?
Il concetto di pratica sociale è un concetto di pratica della pratica. E’ concetto
di una decisione, di una scelta, di un passo in avanti decisivi. Qualcosa che ha
l’intensità di un atto religioso, di un’operazione orgiastica. La pratica della
pratica è la costruzione della pratica, il possesso indiziario ma efficace della sua
macchina, è l’atto di innovazione ontologica. La pratica della pratica, e cioè il
concetto completamente dispiegato della pratica sociale, è un surplus
ontologico che noi aggiungiamo all’orizzonte del mondo. Certe volte non so
spiegarmi: questo è il caso. Sono davanti ad un momento di modificazione
dell’essere che non può essere concluso nel rapporto fra le mille determinazioni
del divenire. Qui il rapporto fa un << piccolo salto >> in avanti - e si
arricchisce, in maniera straordinaria. Qui il principio della pratica sociale, della
pratica della pratica, cioè della riflessione del fare su stesso, si fa principio del
soggetto. Il lavoro è la pratica, è la pratica che si spinge su se stessa. Il soggetto
è la consolidazione del lavoro. Ed e così che questo innova: costruendosi,
costruendo, trasformando il reale in sempre nuovo reale. Non so spiegarmi con
me stesso, perché questo progredire è un processo indefinito e senza limite -
sempre verso una comprensione maggiore, - che mai saprà darmi un concetto
bell’e fatto e mettermelo fra le mani - riuscirà tuttavia a darmi una capacità
sempre maggiore di comprendere. E di costruire. E di desiderare. Questo
modificarsi è una pratica, una pratica inflessibile, una spada conficcata nel
tempo, garantita dall’essere, dalla modificazione che sempre procede e

114
costruisce: costruisce essenza. Il processo dell’ontologia si modifica.
L’ontologia viene dopo, è il prodotto dell’essere vivente. L’ontologia non è più
un presupposto, ma un prodotto. Prodotto della pratica, prodotto della
soggettività.
Questa conclusione è epistemologica: vale a dire che nel principio della
pratica si forma qui l’ontologia della conoscenza. Ma perciò stesso questo
principio non è concluso: possiamo e dobbiamo parlare di inconclusività
dell’etica - l’ontologia, noi la formiamo, ma la formiamo solo nella misura in
cui continuiamo a formarla, a costruirla, a fissare criteri di direzione e di
dinamicizzazione etiche. L’etica è conclusa. Essa costruisce essere stendendosi
in un tempo reale, infinito nella sua estensione, nella pluralità che lo costituisce,
ed indefinito nella sua durata, nella susseguente riapparizione [riparazione?] di
mondi, di orizzonti, che forma il suo incedere. Ed è all’incrocio di questo
meccanismo, di determinazione ontologica e indefinitezza etica, che si forma la
singolarità, - singolarità dell’evento e del soggetto, singolarità dell’atto e del
sostrato. La pratica della pratica consolida il principio del soggetto solo
astrattamente: concretamente, singolarmente, questa pratica costitutiva
attraversa mille emergenze e fissa mille precipitazioni di eventi. E’ una rete di
antagonismi, reali e storici, di discriminazioni, logiche ed etiche, quella che si
forma dentro questo incedere dell’essere. L’essere si forma in maniera continua,
instancabile - la sua formazione non è altro che un continuo sovrapporsi di strati
dinamici, una meccanica di argomenti e di alternative, che si conclude, di volta
in volta, su singolarità specifiche. La pratica sociale diviene costituzione del
soggetto, in termini propri, in termini veri, solo quando attraversa questa grande
quantità di occasioni ontologiche, di singole costruzioni ontologiche. La pratica
della pratica, la riflessione della pratica su se stessa, diviene elemento definitivo
nella storia dell’ontologia, nella genealogia dell’essere, solo quando si
accompagna ad una specie di sovrabbondanza nella costruzione di infinite
sintesi, mai concluse, di singolarità, - sintesi aperte su ogni lato, e su ogni lato
debordanti.
Di nuovo insorgono difficoltà di descrizione - meccanismi di rottura si
accompagnano ovunque allo sviluppo dell’epistemologia costitutiva - di fatto,
non riusciamo a fissare delle leggi generali - ogni omologia costitutiva è tolta -
noi riusciamo solamente ad esaltare la singolarità e a considerare la singolarità
come elemento che non può essere racchiuso in sequenze rigide. Si sviluppano
tipologie costitutive - questo è il massimo dello sforzo sistematico cui possiamo
accedere. Tipologie costitutive che ripetiamo sulla base dell’analogia empirica,
e non sulla base di qualche criterio di scientificità. Quella rottura che il
principio della pratica della pratica ha innanzitutto cercato, per definire se

115
stesso, noi la ritroviamo ora come un dato - un dato che qualifica le tipologie, le
distingue l’una dall’altra, determina - insomma - ogniqualvolta una singolarità è
nata - un rinnovamento del senso dell’indefinitività del cammino della pratica.
Il momento di determinazione ontologica è anche quello sul quale
l’indefinitività del cammino etico si propone. La fissazione epistemologica
dell’oggetto è definizione dell’inconclusività etica del soggetto.
La pratica della pratica sociale: è così anche questo continuo ritorno che la
pratica é costretta ad operare su se stessa. Nell’oscillare fra certezza
epistemologica e inconclusività etica, la pratica è costretta a piegarsi
continuamente su se stessa, a riflettere. Riflessione della pratica su se stessa:
non è dunque un principio idealistico, né un principio di autocoscienza o
solamente di critica o autocritica - riflessione della pratica su se stessa è pratica
della pratica, è un fondare essere e un prenderne le distanze, ma solamente in
maniera pratica, e cioè attraverso la continua costruzione di essere, di nuovi
scenari teorici e di nuove prospettive etiche dell’agire ontologico.
Perché allora non chiamare semplicemente rivoluzione questo movimento
della pratica che costituisce essere, nello stesso momento in cui riflette su se
stesso e propone un’instancabile e obbligata continuità del processo? Fra limiti
e superamenti, che non hanno senso unitario ma solo determinazione e senso
singolare? Perché allora non chiamare semplicemente rivoluzione la pratica
della pratica, il concetto della pratica sociale?
Per rispondere a quest’ultimo quesito - ultimo nell’ordine della nostra ricerca
- occorre rispondere che il concetto di rivoluzione è stato spesso confuso con
operazioni politiche di dubbio senso e che spesso si sono intrattenute sulla più
screditata superficie della storia. Noi siamo disposti a riprendere il termine
rivoluzione solo se riusciamo a ricondurlo al significato ontologico della
locuzione. Rivoluzione: accettiamo il termine solo se esso ci indica una
modificazione della sostanza profonda del tempo storico, una trasformazione
delle anime, una mutazione dei soggetti. C’è un punto di equilibrio, nella
definizione del concetto di rivoluzione, - un punto di equilibrio ontologico che
troviamo piazzato fra il senso del tempo lungo di Tocqueville e il principio di
salto qualitativo, di catastrofe storica, che è di Lenin. Entrambe queste tendenze
toccano la dimensione profonda dell’essere, - e non è nostra l’abitudine di
distinguere specie, raffinate o meno, dell’essere. L’essere è l’essere. Non
feticizziamo il tempo lungo o la catastrofe: entrambi possono intervenire in
maniera rivoluzionaria sull’essere, - è quest’effetto che ci interessa, è
quest’irriducibile qualità che ci piace. Ora, dunque, il problema è solo quello di
strappare al concetto di rivoluzione le connotazioni estremistiche, utopiche,
politicistiche, che contiene. Di rendergli le caratteristiche storiche, profonde,

116
innovative, di mutazione, che possiede.
Pratica della pratica diviene allora allusione a quest’evento dell’essere.
Rivoluzionario è dunque ogni atto della conoscenza che modifica i rapporti di
potere, esprimendo potenza ed innovazione. L’innovazione dell’essere si
realizza laddove la potenza la vuole. La relazione fra potenza delle singolarità,
lavoro del soggetto ed innovazione dell’essere è, come sappiamo, non lineare
ma certamente esistente. Noi non possiamo descriverla in maniera definita, non
possiamo ricondurla a motivi astratti - ma possiamo viverla. Quell’evento
dell’essere che chiamiamo pratica della pratica, principio rivoluzionario della
pratica sociale è, più semplicemente, rivoluzione - è dunque una testimonianza
continua e comune della nostra appartenenza all’essere collettivo, e sua
trasformazione, sua mutazione. L’alternativa si alza, fuori della continuità
indifferente della circolazione dei valori assoggettati dal capitalismo, e
quest’alternativa si fa creativa. Creativa di altro essere. Basta che passi nella
coscienza, questo principio di mutazione, in una coscienza - di lì, da questa
ricchezza discende allora a rivoluzione.
Ritorniamo, ricollochiamoci nel paesaggio che ci è stato offerto all’inizio
della nostra ricerca. Un orizzonte nel quale tutto circolava e l’epistemologia
lineare di un comando astratto sostitutiva senza posa, al presente ed alla sua
pesantezza, orizzonti insignificanti e funzionali. Abbiamo attraversato
quest’orizzonte - lo abbiamo riconosciuto - abbiamo scoperto che, malgrado la
sua atroce crudeltà, questo orizzonte costituiva la nostra seconda natura. Dentro
la dislocazione che con ciò si determinava, era a noi dato, tuttavia, scegliere.
Meglio, lottare. Lo abbiamo fatto. Abbiamo scelto se accettare o no che la
seconda natura - dentro la quale, comunque, la nostra energia vitale e le nostre
capacità costruttive erano moltiplicate - restasse nelle mani del vecchio potere,
fosse assoggettata all’inerzia dell’antico potere. Un potere che annullava
l’essere, che ne riduceva ogni qualità all’indifferenza ed ogni tempo a zero
Abbiamo rifiutato. Nel rifiuto sta la nostra dignità. Nell’approfondimento del
rifiuto, nel ricominciare la nostra bellissima via attraverso l’essere, nel ritorno
all’essere, al senso della mutazione, sta principio di rivoluzione. La pratica della
pratica sociale lo rinnova.

117
PARTE III
Fra catastrofe e ricostruzione.
Appendice.
1. Erkenntnistheorie. Elogio dell’assenza di memoria.
Lascia stupiti l’iterazione della dichiarazione che il ‘68 è morto. Per non dire
del ‘77. L’informazione di regime recluta suoi funzionari sulla base di
un’esplicita vocazione: farò il becchino, quindi il giornalista politico, ecc. Il
paradosso si ingigantisce quando si avverte che la memoria esistente del ‘68 e
del decennio successivo è ormai solo quella del becchino. Il rinvio a giudizio
del 7 aprile è memoria del becchino: la cerimonia (ma ciò si deve allo scarso
gusto degli autori) ha poi il grossolano fasto del funerale meridionale. Avrebbe
potuto essere più elegante. Peccato!
Forse per questo il proletariato metropolitano, da Berlino a Brixton, da
Napoli a Zurigo, da Amsterdam a Varsavia, conosce la realtà ed è rivoluzionario
secondo dispositivi che la memoria non gli ha consegnato.
Quello che mi interessa è dunque la mancanza di memoria. Come possano
esistere un sapere rivoluzionario - ed esiste - ed una teoria della conoscenza su
questo terreno - teoria che è effettuale - fuori dalla memoria storica del
movimento, indipendentemente dalla sua continuità e dalle sue cesure e dai suoi
problemi? La mancanza di memoria: la pongo a problema.
***
Si potrebbe cominciare col dire: quello che era volontario si è fatto
fisiologico, senza che la trasformazione sia stata mediata dalla memoria, da una
qualsiasi continuità più o meno cosciente.
La storia si è fatta natura, seconda natura, - così come avviene sempre sulla
trasformazione della composizione di classe. E’ una ipotesi: ma non spiega lo
specifico del nostro problema, che è quello della mancanza di memoria, non
quello della pura e semplice trasformazione. L’epistemologia borghese e quella
socialista conoscono questo passaggio dalla storia alla natura, alla seconda
natura della composizione di classe trasformata, e lo tematizzano attorno al
concetto di organizzazione del lavoro e di trasformazione dei rapporti di
produzione. La sequenza << lotta di classe / ristrutturazione capitalistica /
nuova composizione proletaria / nuovo dominio >> rappresenta la più astuta
descrizione del processo.
Ma in questo caso, nel caso di mancanza di memoria, non serve. Infatti, nel
quadro dell’epistemologia borghese e socialista, la dialettica di spinte e
controspinte, di lavoro e conoscenza, è indistricabile: una termodinamica di

118
evoluzione, da stato di equilibrio a stato di equilibrio, è sottesa allo schema
esplicativo. Dialettica / storicismo / metafisica. Se l’uno si divida in due o il due
ritorni all’unità: da Platone a Ciu En Lai la possanza dell’argomentazione s’è
riposata in questa miseria di alternative: in realtà, di equivalenze. La chiave
dell’ambiguità è sempre nella memoria. La dialettica è memoria. Un filo nero di
coscienza la percorre.
Affabulazione del passato, consolidamento di discipline, lavoro, comando. Il
tempo è azzerato dalla memoria così come dalla coscienza alienata. Il tempo è
azzerato dal lavoro, - tempo misura di atti umani ridotti ad astrazione. Ma
questo azzeramento è un’operazione reale e la memoria resta. Non è dunque il
nostro caso.
Di contro, infatti, la composizione di classe del soggetto metropolitano
contemporaneo non ha memoria perché non ha lavoro, perché non vuole lavoro
comandato, lavoro dialettico. Non ha memoria perché solo il lavoro può
costruire peril proletariato un rapporto con la storia passata. Non ha dialettica
perché solo la memoria ed il lavoro costituiscono la dialettica.
Ma il non-lavoro è comunque un soggetto: tutti lo vedono. Privo di memoria
e di dialettica. Ma un soggetto: tutti lo temono. Quindi un agente di conoscenza
in quanto cumulo di sapere. Di quale sapere e di quale conoscenza?
Al termine dell’illuminismo e nel mezzo della trionfante rivoluzione
capitalistica, Immanuel Kant si chiudeva quali fossero le condizioni di un
conoscere che costituisse il nuovo mondo della libertà borghese. Concludeva la
sua ricerca affermando che, sulla base della formativa della scienza e del lavoro
capitalistici, si dovevano stendere schemi e progetti di ricostruzione del reale, di
dominio sul proletariato come << cosa in sé >> inconoscibile, progetti
giustificati non dalla certezza del risultato ma dalla necessità etica del conoscere
e del lavoro. Al teorico borghese rivoluzionario il mondo si mostrava infatti
come immediatamente scisso. Ma l’unità del mondo è l’ideale della ragione. Il
conoscere ha una essenza unitaria, è dispositivo tecnico, è sapere che costruisce
dominio ed esprime con ciò la natura del soggetto. Esso si dispiega nell’assalto
all’oggetto, sfiorandolo prima, con continui tentativi di possederlo,
organizzandolo poi entro reti di dominio produttivo. Per Kant libertà è
produzione - quindi dominio dell’oggetto, della << cosa in sé >>.
Oggi questa rete della libertà è tutta distesa. Non abbiamo mai avuto tanta
libertà, tanto dominio della libertà. Kant ha vinto: lo schematismo
trascendentale della ragione si è fatto sussunzione reale del lavoro da parte del
capitale. L’oggetto è stato posseduto, plasmato, trasfigurato. La cosa in sé tolta.
Il sistema invece è posto. La norma è voluta. Lo stato delle cose presenti è la

119
libertà. Il lavoro è la legge. L’apriori è il capitale, cioè il lavoro organizzato,
sistematizzato, normativizzato. Il sapere è dunque conoscenza di questo
rapporto di dominio, sua continua tessitura, memoria, iterazione,
perfezionamento. Il conoscere e il ricordare sono funzioni di questo assoluto.
Viva Kant, viva Hegel, viva Mao Tse Tung!
Ma, come dicevano i vecchi, antichissimi Horkheimer - Adorno, il trionfo
dell’illuminismo e la sua crisi. Se gratti Kant, trovi Heidegger. Per parlare in
soldoni: quando tutto il tempo della vita è tempo di lavoro, quale logica, quale
conoscere distingue più il piacere della vita dal dominio del lavoro? Quando
tutto il circuito della vita è chiuso in quello dello sfruttamento, trasposto
nell’orizzonte del sistema, il mio rifiuto dello sfruttamento e del sistema sono
un’altra vita.
***
La mancanza di memoria è per il proletariato metropolitano una potenza
rivoluzionaria. Voglio spiegare il concetto di sussunzione reale. Parlare di
proletariato metropolitano significa infatti fare un discorso insieme molto
complesso e molto semplice. Il passaggio dal concetto generico di proletariato a
quello specifico di proletariato metropolitano è un passaggio che prevede la
determinazione reale della sussunzione del lavoro nel capitale. I processi della
sussunzione si leggono nel Capitolo VI inedito del Capitale di Marx. Su questa
base, io sottolineo il fatto che sussunzione reale significa l’estinzione della
divisione fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo [improdutivo] e
integrazione dei circuiti della produzione e della riproduzione (circolazione) - in
parallelo l’emergere del concetto di lavoro sociale produttivo e quindi la
localizzazione metropolitana dell’operaio sociale.
La sussunzione reale determina un dislocamento qualitativo dell’essenza
proletaria (della forma dello sfruttamento e della cooperazione, dei bisogni e dei
desideri): nulla che abbia a vedere con il vecchio ritmo delle ricomposizioni e
delle ristrutturazioni. Tanto è vero che in Marx il passaggio alla sussunzione
reale del lavoro nel capitale è immediatamente il passaggio dal socialismo al
comunismo. E’ un errore di Marx. Ma ci serve per chiarire il nostro punto di
vista. Di fatto la sussunzione reale si verifica senza mettere in gioco la
transizione. E’ un passaggio capitalistico.
Ma questo passaggio capitalistico è radicale. L’antagonismo che sorge
all’interno della sussunzione reale è assolutamente radicale, anch’esso. Il
problema della transizione non si pone in nome del passaggio capitalistico della
sussunzione, ma si pone nel momento nel quale all’interno della sussunzione si
chiarisce il nuovo antagonismo. Vale a dire che la sussunzione reale non elimina

120
(come in Marx) l’antagonismo, ma lo disloca radicalmente (siamo nell’oltre
Marx).
Ma cos’è allora l’antagonismo nella sussunzione reale? E’ l’emergere del
proletariato come nuova essenza collettiva, separata, non dialettizzabile
[dialetizzabile ?]. L’emergenza dell’antagonismo come istituzionalità.
***
Ben vengano le ricostruzioni (tipo rinvio a giudizio del 7 aprile) degli anni
più belli della nostra vita: il loro distruggere la memoria ci fa gioco. Il loro
falsificare il passato esalta il nuovo. La continuità soprattutto nelle sue figure
terroristiche, è tutta loro. Giacobino di destra e giacobino di sinistra giacciono
sotto la stessa coperta. Si coniugano. In questo mondo sussunto dal capitale
l’unica memoria è quella del padrone.
Solo la negazione della memoria ci rende l’orizzonte della vita. La
sussunzione reale del lavoro da parte del capitale distrugge ogni soggetto
produttivo separato, assume la società intera nella produzione. Ma la
sussunzione ha il suo antagonismo specifico: dove tutto il tempo della vita è
tempo di produzione, l’antagonismo è determinato dalla diversa qualità della
vita. Il tempo capitalistico misura e sfrutta la totalità sociale della produzione, -
la vita quindi si oppone al tempo misura. Conquista una nuova qualità del
tempo. Così procedendo, dunque, il capitale ci restituisce l’essenza collettiva
del soggetto che si rifiuta allo sfruttamento, insistendo su una qualità della vita
completamente separata e su un modello di vita alternativo.
La sussunzione capitalistica del lavoro ci rende la soggettività sociale e ce la
rende nel senso di un completo dislocamento. Se v’è dislocamento non c’è
memoria. Nel momento nel quale il capitale si sente tutto ed è tutto,
l’antagonismo spiazza la sua propria collocazione. Gli schemi della memoria, e
quindi la memoria del funzionamento della legge del valore (perché null’altro
può essere la memoria proletaria), scompaiono nella catastrofe di una
dislocazione radicale, nel buio di uno spazio interstellare. Il sapere proletario
non comprende più la legge sul valore, neppure come sofferenza passata, come
volgare coscienza del nesso servo-padrone. I miei figli non sono il mio passato.
La dialettica si sfuma. La mancanza di dialettica, ha mancanza di memoria è
ricchezza.
Alla caduta della memoria corrisponde l’apparire storico, la consistenza
dell’istituzionalità proletaria. Non insistiamo tanto sulla separatezza: essa è
indice e codice dello spessore materiale dell’istituzionalità proletaria, del suo
processo evolutivo. Ma non la mistica della separatezza, bensì la logica
dell’istituzionalità segnala la mancanza di memoria. Mancanza di memoria è

121
libertà: non solo da un passato, ma da un futuro che non sia autonomamente
determinato. Transizione comunista è mancanza di memoria.
***
La teoria della conoscenza proletaria è la stessa cosa della sua istituzionalità,
separata. Ma la separazione della memoria del rapporto dialettico e dello
sfruttamento. Istituzionalità separata è pieno sviluppo del lavoro negativo, del
lavoro che distrugge il criterio del profitto e pone quello della felicità.
Conoscenza ed istituzionalità proletarie: posseggono un fondamento, un
metodo, uno sviluppo.
Il fondamento è la vita, il suo rispetto, la sua felicità. Questa convenzione è
fondamentale. E’ convenzione che esclude il principio hobbesiano del ricatto
della paura a fondamento della convivenza umana e toglie quindi anche il
principio della pace - quando la pace venga intesa come risultato del ricatto del
più forte, come valore che sovradetermina quello della vita. (Stato e BR in
perfetta sintonia). La struttura conoscitiva di questo principio è
fenomenologica: essa insegue il rapporto bisogni, desideri, realtà. Sono i mille
aspetti della vita che vengono positivamente proposti al desiderio collettivo.
Ragione e paura non si pongono in nessun senso sullo stesso terreno.
Divengono del tutto asimmetriche. Hobbes è un lurido reazionario. Spinoza è il
piacere della vita, la sua materialità creativa sono il fondamento. E’ la paura, in
quanto collegata alla ragione che pone il formalismo della ragione. La vita, il
desiderio, in quanto incarnano la ragione, pongono il materialismo della
conoscenza.
Il metodo e quello della molteplicità. Non v’è << norma >>, nella conoscenza
della comunità proletaria, ma solo << patto >>, solo accordo e convenienza
pratica. Non c’è obbligatorietà ma solo conversione collettiva sugli obiettivi
della ragione. Tutta la scienza del capitale, tutta la scienza del tempio e della
reggia, hanno sempre puntato sul concetto di potere e di norma, di potere come
esercizio della normativa, come autoselezione di ceto dirigente. Tutto questo è
finito.
La norma è solo spettro di un comando che vuol farsi reale incutendo paura.
Se la logica capitalistica è sempre un tentativo di dominare la << cosa in sé >>,
unificandola nel sistema, la cosa è ora fuori dalla sua possibilità logica. Il
metodo proletario è invece consustanziale [consostanziale?] il progetto di
costituzione pattizia per la felicità. Non c’è dittatura se non in questo senso: nel
senso di impedire ogni sopraffazione dell’unità sulla molteplicità, di affermare
la continua catastrofe della norma a fronte delle procedure pattizie, di
distruggere ogni sovradeterminazione fosse pure quella semplicemente formale

122
del richiamo all’unità o addirittura il formale della crisi.
Infine lo sviluppo dell’istituzionalità proletaria. Essa si dà sull’intero arco
della vita. Non esistono pubblico e privato, sociale e politico, - esiste solamente,
come oggetto, l’estensione della giornata lavorativa sociale che va interamente
liberata. La conoscenza qui diventa prefigurazione. La critica del progetto, di
cui il riformismo oggi si nutre, è solo funzione interna al potere ed alla sua
riproduzione, - analisi dei modi in cui si possono perfezionare le pratiche di
delega e di rappresentanza, dunque nuovamente presunzione della volontà
generale. Ma perciò stesso anche riconoscimento della sua ineffettualità. Il
progetto del potere ha fallito. Proprio qui la prefigurazione proletaria incastra la
sua libertà.
La vita e la felicità costituiscono fondamento, il materialismo della gestione
dualistica del molteplice costituisce il metodo: bene, qui la struttura del sapere
proletario si fa immediatamente pratica.
***
Possiamo rovesciare lo schema kantiano del conoscere. Il rovesciamento
consiste in ciò: che il nuovo illuminismo proletario è istituzionale, non
considera la realtà come oggetto di dominio, bensì come terreno di liberazione.
Di kantiano resta l’istituzionalità indipendente dell’approccio conoscitivo della
realtà. Ma il suo senso è appunto completamente rovesciato. Il proletario, la <<
cosa in sé >> sviluppata, dislocata, è il soggetto del conoscere. All’inverso il
capitale è ora << cosa in sé >> irraggiungibile e lontana. Ah, ah, se lo tengano il
loro bel capitale postmoderno! Tempo e spazio costituiscono per il proletariato,
per il soggetto rivoluzionario forme a priori che nulla hanno più a che fare con
la istituzionalità capitalistica. Certo, la << cosa in sé >> capitalistica permane:
permarrà per chissà quanto tempo ancora. Ma il limite non toglie l’egemonia
del punto di vista proletario. In ogni caso, oggi non il dominio del capitale ma il
lavoro negativo della liberazione costituisce l’ideale della ragione.
La mancanza di memoria è costitutiva di un nuovo orizzonte del sapere.
***
Vi è chi insiste sul fatto che bisognerebbe produrre una memoria interna al
movimento, una memoria di questi ultimi anni. E’ ridicolo. Certo, potremmo
ricorrere alle malizie rinascimentali dell’arte della memoria: con un po’ di
kabbala questa storia può ben essere ricostruita. Ma perché togliere questi
piaceri ai giudici della Repubblica che di kabbala se ne intendono? Una
coscienza che, come quella proletaria, si vuole istituzionale non ha bisogno di
una memoria che è solo memoria della propria estraneità, della propria passata
estraneazione. Quello che l’istituzionalità proletaria deve ricordare lo trattiene

123
come base della propria esistenza, lo ha come sostanza della sua pratica
materiale. E’ iscritto nella sua esistenza. Non hanno bisogno di memoria i
giovani di Zurigo, i proletari napoletani e gli operai di Danzica: hanno solo
bisogno di quella speranza che costruiscono. Giustamente in Kant, su quello
snodo di transizione della filosofia della rivoluzione borghese, non c’è una
compiuta teoria della memoria. In Lenin e in tutta la fase socialista della
rivoluzione proletaria la memoria è portata solo sulla sofferenza o sugli errori
proletari, è arma - un po’ piagnona e sordida ma sempre un arma - e come tale
la memoria è legittimata. Ma ora, nel mezzo della transizione comunista, a che
diavolo serve la memoria? Non c’è spazio per essa. Come, e a rovescio che in
Kant, la memoria è nella forma stessa a priori del conoscere proletario, nel
meccanismo della sua espansione materiale. La memoria si legge solo nel
futuro.
Di conseguenza: il processo 7 aprile non va impostato come rivendicazione di
un passato, ma va concepito come presagio e dimostrazione di una nuova
istituzionalità proletaria, nella sua realtà. Al processo 7 aprile si va a
considerare la chiusura di un’epoca e il dislocamento in avanti della lotta di
liberazione. La memoria sarà solo forma della nostra - indipendente separata
creativa - esistenza di comunità comunista. Nelle grandi dimensioni sociali
della sussunzione reale e dell’antagonismo nuovo che l’attualità della storia di
classe mostra.
***
E’ evidente che ci sono anche tanti altri orizzonti della memoria. E che alcuni
vanno percorsi proprio per costruire l’istituzionalità proletaria. Qui il mio
problema (qui e nel processo 7 aprile) è; solo quello di rovesciare in positivo
quella spaventosa violenza che la memoria del potere produce per quello che
riguarda il decennio che comincia con il ‘68, ovvero il decennio più bello della
nostra vita. Se memoria diviene memoria del potere, memoria del
funzionamento della legge del valore, memoria della sussunzione reale, di per
ciò stesso la violenza annulla la nostra memoria. Questa violenza va comunque
presa in positivo: rovesciata, assunta sul terreno dell’antagonismo, scarnificata,
- se la memoria è la violenza, la nostra vita è la negazione della memoria: ma
non basta! Poi ricominceremo a ricostruire gli orizzonti alternativi del ricordo.
Per noi non c’è la possibilità di accostare senza violenza il passato: il nemico ce
lo ha reso tale. Ma esiste, probabilmente, una memoria dell’altro soggetto. Di
noi come soggetto.
E c’è da dire che la coincidenza della distruzione capitalistica della memoria
con il risoluto ingresso del capitale nella fase della sussunzione reale, mette in
sintonia - dal punto di vista proletario - e senza alcuno scandalo, la riscoperta

124
dell’essenza collettiva, della prefigurazione necessaria, della possibilità di
ricostruzione del mondo e, d’altro canto, la caduta di ogni residua illusione di
continuità.
2. Nota introduttiva alla ristampa di << Classe operaia >>. La potenza
sociale del lavoro.
Perché ristampare << Classe operaia >>? La decisione non è stata mia: alcuni
compagni ritengono utile intraprendere questa iniziativa e mi chiedono
[chiudono?] di fare una introduzione. Debbo comunque rispondere alla
proposta, in maniera affermativa o negativa. Tanto vale dunque fare
l’introduzione. Ma solo per argomentare: che cosa?
Il mio consenso o il mio dissenso. Sfoglio le pagine della rivista: mi ci
ritrovo, il mio ricordo ci si ritrova. Quante riunioni, quante amicizie fatte e
disfatte, quante giornate di tipografia (sí, perché eravamo io e Manfredo
Massironi a impaginarla e a farla in tipografia per un paio d’anni). Quante
emozioni. Dunque << Classe operaia >> va ripubblicata; per quale ragione?
Perché è la dimostrazione di una nobile ascendenza delle posizioni politiche che
gran parte del movimento svilupperà negli anni successivi? Perché è, con i <<
Quaderni Rossi >>, la solida pietra sulla quale una nuova corrente del pensiero
politico italiano, marxista e proletaria, è venuta costruendosi? E non solo in
Italia? Perché dunque ha una particolare importanza scientifica e le persone che
hanno collaborato alla sua fattura, fanno - in una maniera o nell’altra - parte
della storia del movimento proletario chez nous?
Non mi soddisfano queste ragioni. Che << Classe operaia >> sia un pezzo di
storia, va bene: ma allora ne va verificata politicamente la sua attualità, o meno,
direttamente, senza soffermarsi sul feticcio << rivista >> degli << anni Sessanta
>>: feticcio favoloso quanto per certi versi fuorviante. Quanto all’importanza
scientifica di << Classe operaia >> va notato che coloro che vi hanno
collaborato sono andati avanti, su da quella esperienza: e hanno fatto i loro libri
nei quali con maggiore ampiezza e con maggior rigore hanno sviluppato il loro
pensiero politico. Studiamo dunque i loro libri, direttamente. E allora perché, di
nuovo, ristampare << Classe operaia >>?
Debbo sinceramente riconoscere di non saper dare una risposta, dal punto di
vista di uno degli autori di quell’impresa. Rivediamo allora la questione dal
punto di vista dell’utenza. << Classe operaia >> va ristampata perché i militanti
politici di oggi possano avere a disposizione un testo al quale confrontarsi e sul
quale misurarsi. Ma direi che questa ragione non giustifica affatto la ristampa.
Infatti i militanti del proletariato, oggi, son persone fortemente diverse da quel
ceto politico che allora esprimeva una rivista come << Classe operaia >>. Il

125
discorso << operaista >>, in senso stretto, della rivista non corrisponde neppure
lontanamente a quelle che oggi sono le concezioni della lotta di classe che il
militante medio, autonomo, l’operaio sociale degli anni ‘70 e ‘80 posseggono:
all’orizzonte che si sono costruiti con tante lotte e con una riflessione critica
così profonda. Già negli anni scorsi, quando feci vedere a militanti tedeschi e
americani, la mia collezione di << Classe operaia >> (oggi questa collezione,
rubatami da qualche poliziotto, giace nella polvere di un archivio giudiziario),
le reazioni erano già affascinate ma distaccate. Per i nuovi strati di militanti, <<
Classe operaia >> è in realtà una reliquia. Come tutte le reliquie può avere
effetti di rassicurazione sulle anime belle, certo - e perché negare l’utilità della
rassicurazione teorica, in tempi così atroci? Ma, dal punto di vista della lotta
politica, questa rassicurazione rischia persino di essere mistificante. Dove sono
più infatti le categoire stesse sulle quali il lavoro di << Classe operaia >> si
fondava? Dove i rapporti, ambigui e sotterranei, con il movimento operaio
ufficiale che << Classe operaia >> comunque supponeva? Qual’è più oggi il
modo di leggere le ambiguità delle quali << Classe operaia >> ridondava? Quel
bell’operaio massa, che a tutto tondo veniva fuori dalle pagine della rivista, era
indubbiamente allora, nel panorama della pubblicistica della sinistra
rivoluzionaria, una figura nuova: ma oggi dov’è più. Oggi l’attenzione critica e
trasformatrice si basa su ben altri, corposi e nuovi soggetti: anche noi, uomini e
proletari di oggi, abbiamo il nostro carico di ambiguità nei confronti del nuovo
soggetto, ma sono ambiguità esse stesse non riferibili a quella realtà degli anni
Sessanta. Non c’è omologia possibile fra << quella >> figura dell’operaio
massa e l’attuale vivacità del soggetto sociale proletario.
A guardar bene, poi, quella figura a tutto tondo dell’operaio massa che
emergeva dalle pagine di << Classe operaia >> era già una figura vecchia. Noi,
di << Classe operaia >>, eravamo un po’ delle nottole di Minerva che
apparivano all’imbrunire: scoprivamo la novità della figura dell’operaio massa
quando questa figura si era già storicamente consolidata (da almeno trent’anni),
era già del tutto matura, era - e questo è quello che più conta - già in corso di
superamento. In realtà non scoprivamo una categoria della lotta di classe ma
solo denunciavamo il ritardo storico del movimento operaio ufficiale
nell’identificare una strategia fondata sulla centralità dell’operaio massa. Di qui
una serie ulteriore di ambiguità: quest’operaio massa che venivamo tirando
fuori dai dimenticatoi del movimento operaio ufficiale, quest’operaio massa che
intagliavamo come figura distinta dall’operaio professionale, in realtà poi lo
dipingevamo con vecchi colori. Il nostro operaio massa puzzava di officina
Putilov in maniera indecente. Non che nel discorso di << Classe operaia >> non
esistessero momenti di superamento di questa ambiguità, non sto dicendo
questo.

126
Risulterebbe comunque molto difficile oggi riconoscere se era più forte
l’ambiguità o il suo superamento. Solo il dopo, solo la vicenda storica che
comincia appunto quando l’esperienza di << Classe operaia >> termina, solo
questo può dare una risposta.
Ma sicuramente in << Classe operaia >> manca un gusto per lo stato nascente
della soggettività proletaria. C’è il gusto teorico della analisi soggettiva
proletaria. C’è il gusto teorico della analisi oggettiva, della identificazione della
crisi: l’operaio massa che forza, colto nella sua piena maturità, lo sviluppo
capitalistico fino a rovinarne proporzioni e compatibilità. Ma quello che manca
è il senso delle relazioni complesse che costruiscono, nella crisi, nuova energia
soggettiva, nuovi bisogni, nuovi comportamenti. Certo, la form a della lotta a
<< gatto selvaggio >> è colta ed esaltata: ma riportata a che cosa? Era
progettata sul vuoto, non innestata dentro un meccanismo costitutivo di
soggettività nuova. I discorsi sull’organizzazione furono, in << Classe operaia
>>, prima fumosi, poi unilateralmente rivolti a riscoprire una chiave dialettica
nei confronti del movimento operaio ufficiale. Quando, fra il ‘66 e il ‘67, <<
Classe operaia >> chiude definitivamente i battenti, essa aveva sicuramente
previsto l’addensarsi della crisi nell’immediata fase successiva. Ma la forma
della soggettività della crisi, la rivolta degli studenti, l’impatto del
terzomondismo, l’apparizione della povertà proletaria, l’emarginazione,
insomma tutte le componenti dell’operaio sociale, tutto questo le sfuggiva,
veniva meccanicamente ed immediatamente ricondotto alla guida dell’operaio
massa. E ciò proprio nel momento in cui tutto si stava rovesciando: era infatti la
soggettività sociale del proletariato che conquistava la centralità politica del
processo, ed aggrediva la fabbrica stessa ed il lavoro produttivo, prima
dall’esterno, poi dall’interno modificando la natura stessa del lavoro produttivo
ed imponendo, nella fabbrica capitalistica, dentro di essa, l’egemonia dei
comportamenti nuovi dell’operaio sociale. << Classe operaia >> aveva
registrato la maturità della figura dell’operaio massa, non ne aveva inteso la
vera natura però: l’operaio massa non era altro che un termine del passaggio
all’operaio sociale, un primo prodotto della dissoluzione capitalistica del
mercato del lavoro e un primo agente della trasformazione dell’interesse
operaio e del suo trasferirsi dal terreno della produzione a quello della
riproduzione. Molti di noi, d’istinto però e non tanto dal punto di vista di una
riflessione matura, intendemmo questo: molti anni ancora erano tuttavia
necessari perché l’intuizione raggiungesse un’adeguata figura teorica.
Proprio la forza dell’esperienza teorica di << Classe operaia >>, direi la
consistenza soggettiva ed intellettuale dei collaboratori della rivista, costituì un
freno, pesantissimo, allo sviluppo dei germi di analisi nuova che andavano al di

127
là dell’esaltazione (storicamente postuma) dell’operaio massa. << Classe
operaia >> è da questo punto di vista un’operazione coscientemente,
consapevolmente incompiuta. Volutamente incompiuta, in se: assomiglia
all’Ulisse.
Ma appunto come l’Ulisse rischia di castrare, per il paradosso della sua
interna compiutezza, ogni ulteriore tentativo dell’avanguardia letteraria, così <<
Classe operaia >> blocca lo sviluppo dei temi nuovi che pure comprende. Quali
sono questi nuovi temi? Sono essenzialmente quelli che vengono fuori dalla
fenomenologia delle lotte, sono quelli che fissano i meccanismi del <<
superamento >> dell’operaio massa, che determinano l’oscillazione delle
dinamiche di lotta fuori dal tessuto dello scontro sul salario e cominciano a
considerare il rapporto fra produzione e riproduzione. Sono in secondo luogo
quei motivi che vengono fuori dalla paradossale inversione della parola
d’ordine operaista. << Operai senza alleati >>: vale a dire che se la fabbrica
sociale esiste, in essa non si dà semplice estensione. Il comportamento
dell’operaio della singola fabbrica bensì si dà una nuova figura sociale, un salto
dalla quantità alla qualità. Nei comportamenti sovversivi che sono quelli che
vengono fuori dall’approfondimento implacabile della critica del lavoro
capitalistico, dall’enfasi sul tema del << rifiuto del lavoro >>: tema, questo, che
non può essere limitato alla casistica sociologica della analisi dei
comportamenti, di fabbrica e sociali, ma deve svolgersi in progettazione
alternativa della produzione, deve incarnarsi nella tematica della transizione
comunista, deve immediatamente trovare un rapporto con lo sviluppo di
comportamenti di massa autovalorizzati. Certo, a volerle leggere oggi, queste
cose sono tutte in << Classe operaia >>, in seme, con aurorale potenza: ma non
è un caso che non emergano [emergono?], che non diventino [diventano?] da
subito elementi fondamentali. E’ l’organizzazione complessiva del discorso del
giornale che lo vieta, è il suo storico ritardo sulla complessità dei movimenti
che registra e che << Classe operaia >> in effetti riconduce alla sola critica
dell’operaio professionale, all’identificazione dell’inadeguatezza del sindacato
professionale nei confronti dell’operaio massa. Qui il nuovo si autolimita. La
ricerca si sbarazza solo a metà dell’ideologia. Di qui l’impotenza pratica.
Perché l’intervento, che pure - come già nei << Quaderni Rossi >> - il corpo
redazionale della rivista svolge, attorno alle fabbriche, non riesce a trovare una
continuità organizzativa. Non riesce a trovare continuità organizzativa perché
l’intervento è puramente definito su scadenze oggettive e non sulla continuità di
processi soggettivi. Si stabiliscono scadenze di fabbrica, scadenze di settore,
scadenze politiche generali: lo scheletro delle interdipendenze dell’economia
dello sfruttamento è evidentemente chiarissimo a << Classe operaia >>, meno
evidenti sono i passaggi soggettivi, di organizzazione, il peso dell’intervento

128
come iniziativa continuata, come progetto sul quale non si scarica solo
l’intelligenza strategica ma soprattutto la tattica, la partecipazione, la
microiniziativa quotidiana. Come le pagine di << Classe operaia >>
documentano (cfr. in particolare le pagine di documentazione del n.3 del 1965)
l’intervento è molto ampio: ma non residua un solo livello organizzativo (salvo
alcune eccezioni). L’operaismo si collega ad un atteggiamento illuministico che
non ha in realtà alcuna speranza di mordere il reale. Dentro queste difficoltà la
polemica della rivista, e quella condotta nel corso dell’intervento, si limitano
sempre di più alle sole tematiche sindacali. Con comportamento classico della
vecchia sinistra terzinternazionalista, l’attacco al sindacato è accompagnato
dalla mano tesa nei confronti del partito. E questo proprio quando il
fondamentale punto di partenza, sia nei << Quaderni Rossi >> che nella nuova
rivista, era stato il riconoscimento dell’identità del contenuto dell’azione
sindacale e dell’azione politica nella società fabbrica della pianificazione
capitalistica. Le contraddizioni presto si ritrovano tra i compagni stessi
promotori dell’iniziativa non era infatti possibile diluire la radicalità del
progetto senza determinare delle conseguenze pratiche che sarebbero
immediatamente ricomparse sul livello teorico. L’impotenza pratica diviene
ragione sufficiente di scissioni teoriche.
Alla fine del ‘64, un anno appena dal suo inizio, la rivista è in crisi. Le
ambiguità si accumulano soprattutto sul passaggio << intervento - sviluppo
generale del discorso politico - sue varianti tattiche >> per la mancanza di una
teoria dell’organizzazione qualsiasi. Nel 1965, anno secondo della rivista, la
polemica si apre ferocemente nel la redazione. Non sono tanto gli insuccessi
pratici dell’intervento a determinarla quanto la riflessione sempre più pesante,
che solo una teoria dell’organizzazione poteva permettere di andare avanti. Ma
non solo una teoria dell’organizzazione non c’è: non la si vuole. Una parte
consistente della redazione comincia infatti a considerare l’intervento operaio e
politico come un puro e semplice strumento di pressione sui livello politico: sul
PCI.
Si teorizza l’ << entrismo di tipo nuovo >>. Non più quell’entrismo
miserabile che è tradizione dei gruppi minoritari della III Internazionale, non
più la critica e la pressione politica che si sviluppano sugli snodi
dell’organizzazione formale del partito: una pressione ed una critica che si
vogliono di massa, invece, nella convinzione che il partito, il partito comunista
italiano nella fattispecie, sarà costretto a recepire questa critica e a modificare la
sua politica di conseguenza. Il giudizio portato sul sindacato è drastico: nulla
può venire dal sindacato, esso è, rimane, ed è bene che rimanga, una pura
cinghia di trasmissione del partito. L’intero sforzo del nuovo entrismo va

129
dunque rovesciato sulla lotta politica di partito. Questo è dunque quello che
sostiene una parte della redazione della rivista. Sulla base di questo progetto
essa si espone sempre più coerentemente in un lavoro di trattativa e di
infiltrazione nel sindacato e soprattutto nel partito. Un giudizio molto
ottimistico sulla base operaia del PCI tende ad elidere ogni considerazione circa
il funzionamento del centralismo democratico rozzamente si considera il
rapporto di forza all’interno del partito come omologabile al rapporto di lotta di
classe! Lo spessore dell’ideologia di partito, la forza materiale della
centralizzazione burocratica, la violenza distruttiva dell’ideologia del lavoro
vengono permanentemente sottovalutate. L’entrismo di massa, dentro questo
gioco che tende a divenire sempre più e solamente intellettuale, si trasforma
presto in entrismo individuale di vecchio tipo. Alla fine del 1965, dopo che la
crisi interna alla rivista aveva già durante l’anno bloccato il suo lavoro, la
scissione della redazione è praticamente data. I numeri del ‘66 sono già interni
all’operazione entrista ed impegnano solo una parte di compagni.
Di contro all’entrismo ed alla sua storia, dentro al gruppo redazionale di <<
Classe operaia >> se ne apre tuttavia un’altra. E’ la storia dell’operaismo
militante, della lotta contro il revisionismo della lunga marcia per
l’organizzazione dell’autonomia operaia e proletaria. Questa storia è ormai
molto nota e non val forse la pena di sottolinearla, di tornarci ancora sopra, qui.
Chi sostiene questo indirizzo sono i compagni direttamente impegnati nel
lavoro politico e di agitazione attorno alle grandi fabbriche del Nord. La
geografia operaia degli anni ‘68/69 si stabilisce a questo punto. Fiat, Pirelli,
Alfa, Porto Marghera: questo adagio di milioni di volantini comincia a
costituire l’ipostruttura della coscienza del militante. Ora, già durante l’ultimo
anno di redazione di << Classe operaia >>, la vicenda di questi compagni si
autonomizza. Formidabili quadri operai prendono la direzione del movimento
di contestazione già a partire dal ‘6 5/66.
Ogni compromesso diviene quindi impossibile. Ma non è appunto questa
storia che va qui rinarrata. Si deve piuttosto insistere su un fatto, negativo e
residuo, che anche l’esperienza ed il discorso di questi compagni contengono.
Ed è l’incapacità di proporre, per un lungo tempo, di nuovo trovandosi
prigionieri delle ambiguità essenziali del discorso teorico di << Classe operaia
>>, una tematica dell’organizzazione. Le caratteristiche del gruppo di compagni
redattori di << Classe operaia >> che rifiutarono l’opzione entrista (entrismo di
vecchio e di nuovo tipo), sono tali che, mentre da un lato l’enfasi sulla forza
teorica della prassi è massima, dall’altro la riflessione specifica in proposito è
minima. Certo, si punta tutto sull’organizzazione di base ma senza intendere la
complessità dei rapporti dialettici che a questa si presentavano.

130
L’organizzazione di base poteva costituire la rifondazione del movimento
comunista solo nella misura in cui fosse in grado di dominare la complessità dei
rapporti che si stendevano dinanzi. Dentro la lotta continua, dentro la mancanza
o la carenza di un’iniziativa adeguata di ristrutturazione del dominio da parte
dell’avversario di classe, era possibile immaginare un meccanismo
organizzativo che sviluppasse potenzialità complessive, nel senso appunto della
continuità.
Ma la lotta di classe non è un continuo. La sua discontinuità poneva
inevitabilmente il problema della centralizzazione, della direzione. Questi
problemi vengono posti, ma con estrema prudenza solo con il ‘68 entreranno al
centro della tematica di massa Ma troppo tardi. E d’altra parte, nel ‘68,
paradossalmente (anche) troppo presto: perché infatti, con la ristrutturazione,
con la formidabile lotta di resistenza che si apre nei primi anni ‘70, con il
trasformarsi della figura operaia egemone, lo stesso problema
dell’organizzazione comincia a porsi in maniera diversa, - comincia cioè a porsi
come problema di una massiccia e compatta forza operaia che sviluppa la sua
autonomia mediando al suo interno azione di avanguardia e azione di massa in
termini del tutto nuovi ed originali, in termini di autovalorizzazione. Torniamo a
noi, torniamo a quegli anni ‘65/67, anni immediatamente precedenti il più
grande sommovimento di classe che mai le nostre generazioni abbiano
conosciuto Bene, eravamo allora completamente coinvolti in una problematica
insolubile: da un lato ci indicavano come via d’uscita realistica quella
dell’opportunismo, dell’entrismo, della ripresa di contatto con il movimento
operaio ufficiale; ci chiedevano insomma la dichiarazione dell’impossibilità di
ogni alternativa organizzativa per la classe operaia e proletaria. D’altro lato
c’era il rifiuto di tutto questo ma anche l’impossibilità di dare una risposta che
coprisse i problemi reali che avevamo davanti. Si scelse l’attesa attiva ed
operante, si scelse il contatto di classe, la vita interna del movimento, - nel
‘65/66/67 nulla sembrava mutato rispetto alla grande crisi del movimento
operaio che ci perseguitava dal 1956/58, nulla << sembrava >> essersi
modificato. E invece, l’attesa, quali che fossero i suoi limiti attuali, quali (e
certamente ingiustificabili) che fossero i limiti di discorso e di approfondimento
che comportava, pure si rivelò non utile ma eccezionalmente feconda.
D’altra parte, perché farsi prendere dall’impazienza proprio allora, attorno
alla fine del 1965? Un decennio era appena trascorso da quando la << grande
crisi >> s’era aperta nel movimento comunista. 1956/1958: attorno alla crisi
ungherese, attorno alla prima rivolta operaia contro il regime del socialismo
realizzato. Nel 1953 erano stati gli edili di Berlino a muoversi ma l’odio
antitedesco non aveva permesso di cogliere la pesantezza della cosa. Nel ‘56

131
non c’erano invece possibilità di confondersi.
In Ungheria la classe operaia in armi non contestava altro che il tradimento e
la propria miseria. In Italia siamo al centro della crisi del movimento nella sua
forma postresistenziale. Dalla sconfitta del 1953 (alla Fiat) al ‘56 il movimento
aveva faticosamente tentato di riprendere una figura politica: la lotta operaia
ungherese ci ridà fiato e speranza. Esiste ancora un comunismo per il quale
lottare. La formazione dei << Quaderni Rossi >>, alla fine degli anni ‘50, è il
primo coagulo di una speranza comunista che comincia a rivivere, articolandosi
con nuove tecniche di ricerca e nuove prospettive di critica radicale. Tutto
doveva muoversi: tutto si muove. Genova: 1960. Piazza Statuto: 1962. Il
movimento operaio ufficiale e il ceto capitalistico stesso corrono ai ripari: ormai
il movimento si è dato gambe per muoversi, occorre quindi stabilire nuovi
schemi, nuove linee dentro le quali inglobarlo.
I primi tentativi di riammodernamento capitalistico e riformistico sono però
fin dall’inizio inseguiti da una coscienza critica, articolata alle lotte, che
costituirà nei successivi decenni la grande dignità del movimento operaio
rivoluzionario in Italia.
Gli anni ‘60 sono un grande laboratorio nel quale la sintesi di un nuovo ceto
politico rivoluzionario e del movimento reale della lotta operaia cominciano a
funzionare assieme. La << grande crisi >> comincia a dare i suoi frutti. Certo,
malgrado molte faticose iniziative, malgrado l’altissimo livello del dibattito, il
movimento operaio tradizionale resta impermeabile. Vi sono piccoli momenti di
crisi, deviazioni, ma la centralità burocratica resiste impavida. Eppure lo
sconvolgimento è fondamentale e marcia anche quando non lo si vuol vedere.
Personalmente odio tutte le concezioni teoriche che vedono la rivoluzione
uscire matura dal cervello di Giove, e cioè dalla casalità [causalità?]. Che la
rivoluzione sia un’arte non significa che sia irrazionale, che il suo ritmo sia
discontinuo non significa che la sua formazione non abbia le caratteristiche di
continuità di tutti i processi materiali. La crisi della fine degli anni ‘60 risponde
alla crisi politica del ‘56/58: chi l’aveva subita, i vecchi militanti comunisti, gli
intellettuali del dissenso ungherese ne sono probabilmente fuori, spiazzati; la
dirigenza del movimento operaio tradizionale sembra presentarsi compatta. Ma
che cosa è avvenuto di nuovo?
E’ avvenuto che è stato distrutto il patrimonio ideologico del movimento
operaio tradizionale, che il rapporto con la lotta è inventato daccapo, che nuove
generazioni si presentano alla lotta non preventivamente mistificate da
un’educazione politica arcaica. I << Quaderni Rossi >> sono il frutto
rivoluzionario della crisi politica del ‘56/58. Inventano un nuovo metodo di
approccio alla realtà delle lotte. Un metodo insufficiente? Certo. Ma è un

132
terreno sul quale la pratica rivoluzionaria diventa possibile, sul quale
l’invenzione politica, la fantasia divengono obbligatori. I limiti di
quest’approccio sono immediatamente visibili. Opportunismo nei confronti
dell’azione sindacale, oggettivismo ed economicismo estremi, confusione sui
fini della lotta rivoluzionaria, socialismo latente. Ma la modificazione avviene
nella pratica: << Quaderni Rossi >> portano la rottura - effettuata, stabilizzata -
con la linea del movimento operaio ufficiale nell’educazione politica delle
nuove generazioni. Le << magliette a striscie >> del ‘60, i nuovi emigrati
cominciano ad avere un cervello.
I limiti di quel movimento non erano superabili all’interno del discorso di <<
Classe operaia >>. Si sono fatte infinite esercitazioni letterarie per andare ad
identificare le distinzioni, le differenze, le contraddizioni fra il movimento dei
<< Quaderni Rossi >> e quello di << Classe operaia >>: esercitazioni letterarie,
appunto! Tutto si riduce ad alcune incompatibilità e, soprattutto, ad un
meccanismo di selezione di gruppo dirigente. Con << Classe operaia >> i <<
Quaderni Rossi >> continuano: continuano sulla strada della radicalità, ma
continuano anche sulla via del limiti e delle passività che a qualsiasi attività
minoritaria non potevano che derivare dal movimento reale. Continuano
girando attorno al problema che era stato, per così dire, solamente annusato:
quello dell’impatto sociale dell’operaio massa, quello della socializzazione
della sua figura e della sua lotta. Il paradosso ed il blocco del discorso sono lì ,
tutti lì: ed oggi, guardandoli a distanza, sembra quasi impossibile che si siano
dati in quella forma. Ora, da un lato la critica dell’economia politica conduceva
alla definizione della società fabbrica; dall’altro l’attenzione politica si
confinava su una retorica dell’operaio di fabbrica che, prima di tutto, a questo
faceva torto. Da un lato la potenza dello sviluppo capitalistico mostrava la sua
forza di espansione mondiale; dall’altro la fantasia politica non sapeva vedere il
cumularsi delle lotte dell’operaio metropolitano e del proletariato del << terzo
mondo >>. L’identificazione teorica della centralità della fabbrica si rovesciava
in una concezione del lavoro produttivo (del lavoro sfruttato per il plusvalore)
che quasi riconquistava toni populistici di esaltazione del lavoro manuale. In <<
Classe operaia >> la retorica operaista diviene sempre più forte quanto più
diminuisce la capacità di progettazione del gruppo. Su queste incredibili
contraddizioni il dibattito ristagna. Eppure bastava andare avanti insistendo
sulle premesse, scavandone il presupposto. << Classe operaia >> non ci riesce.
Ci riescono tuttavia i compagni del movimento. Il << buon senso >> proletario
non s’arresta ai sofismi della teoria. Quando il movimento scoppia e si diffonde
in forma massificata tutti questi problemi vengono fusi nell’iniziativa unitaria.
La verginità del credo operaista è subito fottuta. << Classe operaia >>
giustamente archiviata. I suoi incredibili limiti non potevano essere superati che

133
da un movimento di massa che dislocasse praticamente il quadro del discorso
cui eravamo stati condannati dalle caratteristiche della crisi degli anni ‘50: di
quella crisi di cui eravamo figli. Ma ora il quadro muta. Ora, con il ‘68, una
formidabile possibilità di espansione teorica e pratica si dà: prima pratica, poi
teorica. Ma dalla pratica è necessario ricavare il massimo: malgrado gli errori
precedenti, malgrado tutti i limiti, la maggior parte di noi riesce a ricollegarsi a
questa realtà.
Ricollegarsi alla realtà attraverso la pratica significa essere presto in grado di
rinnovare anche il livello della teoria. Abbiamo già segnalato alcuni paradossi
di cui il discorso di << Classe operaia >> era ricco. Fondamentale è ovviamente
quello che si distente fra concezione della società-fabbrica, dell’espansione
ristrutturante dell’iniziativa capitalistica (da un lato) e (dall’altro) la definizione
della composizione di classe. Abbiamo già sottolineato come la seconda fosse,
inspiegabilmente, arretrata rispetto alla prima: l’unica giustificazione c’è
sembrato poterla ritrovare nel fatto che i problemi di << Classe operaia >> non
era no in realtà ancora stati dislocati rispetto alla tematica della crisi del
movimento degli anni ‘50. Vi sono però degli elementi nel discorso della rivista
che possono, più di altri, sostenere il passaggio al superamento delle
contraddizioni. Quando il ricollegamento alla pratica, quando il salto che la
lotta impone, sono dati, allora questi elementi più di altri contribuiscono allo
sviluppo della teoria, - e nella fattispecie allo sviluppo della teoria della
composizione di classe. Ora, tutti questi elementi progressivi ed espansivi si
collegano proprio al concetto della << centralità operaia >>. Perché questo
concetto non è inteso in maniera empirica e burocratica (così come ricorre
spesso, a tutt’oggi, nel dibattito) ma in maniera scientifica: vale a dire che la
concezione del lavoro produttivo operaio era data, in << Classe operaia >>,
come idea di un’attività soggettiva, come una realtà insieme intensiva ed
espansiva. Intensiva perché appunto il lavoro è la base di tutto il valore
possibile ed immaginabile, estensiva perché questa concezione del lavoro
riconquistava la continuità del ciclo espansivo sociale della riproduzione
operaia e proletaria. La pregnanza del concetto di salario nella tematica di <<
Classe operaia >> non consiste solamente nell’insistenza della sua variabilità
indipendente a fronte della rigidità del comando pianificato, ma anche nella sua
potenza collettiva su tutte le articolazioni dell’organizzazione pianificata della
società. << Centralità operaia >> eguale << potenza sociale del lavoro
produttivo >>, eguale << espansività della soggettività operaia >>. E’ ben vero,
dunque, che questi elementi restano a lungo nascosti, nella loro potenza,
all’interno di un décalage storico e teorico: ma non appena i comportamenti
operai riprendono il luogo che debbono avere nella teoria, non appena la lotta
operaia riprende per mano e guida il pensiero rivoluzionario, di nuovo,

134
direttamente, questi elementi subito trovano modo di rappresentarsi
teoricamente in tutta chiarezza. La forbice che, in << Classe operaia >>, si dava
fra concezione oggettivistica della società-fabbrica e soggettività mal sviluppata
della composizione si chiude: la soggettività operaia si eleva al livello, e ben
oltre, la capacità capitalistica di controllo sociale. Di conseguenza un altro
elemento confuso ma fecondo della problematica di << Classe operaia >>
viene, per così dire, alla luce: si libera cioè delle ambiguità che lo
contraddistinguono.
Ed è la concezione dinamica del rapporto di capitale. Si era detto che lo
sviluppo capitalistico era frutto delle lotte operaie: questa affermazione era
rimasta a lungo incapace di produrre teoria, poteva di contro indurre effetti
estatici o addirittura mitologie tecnocratiche. Bene, dentro la pratica delle lotte e
non appena la pratica rivela la soggettività di classe operaia ed il suo grado di
espansione sociale, allora si intende che non solo lo sviluppo ma soprattutto la
crisi dello sviluppo, e a pari titolo, è frutto della lotta operaia. Di fatto il
rapporto di capitale doveva man mano dimettere la sua forma dialettica, per
assumere figura antagonistica, solo ed interamente antagonistica, fra due
opposte polarità soggettive: classe e capitale. E qui s’intende infine che solo
uno sviluppo tematico di questo genere, così imposto dalle lotte, poteva spazzar
via l’illusione di riproporre il problema dell’organizzazione operaia nei termini
nei quali l’avevamo ereditato dalla tradizione terzinternazionalista e dalla crisi
stessa degli anni ‘50. Ma con questi problemi siamo ormai ai nostri giorni, al
tessuto della riflessione quotidiana del movimento: le contraddizioni di un
vecchio dibattito non risuonano più con intensità.
Vale allora la pena di ristampare << Classe operaia >>? Chiediamocelo infine
di nuovo. Mi sono riletto quanto ho scritto fin qui e, forse con contraddizione
(ma certo perdonabile), mi sembra di poter dire: sí pubblichiamola. Ma se lo
facciamo, avvertiamo tutti di leggere quell’antica rivista dall’altezza
dell’esperienza fin qui fatta, a partire dagli anni `68-`69 fino a tutte le lotte degli
anni `70. Avvertiamo i compagni che solo in questa prospettiva << Classe
operaia >> ridiventa un testo importante da leggere: poiché costituisce una
pietra di quell’edificio dell’organizzazione autonoma del proletariato che
stiamo costruendo. Ma una pietra sola, ed essa stessa, per essere utilizzata nella
continuità della nostra esperienza di lotta, ha dovuto essere tolta dalla vecchia
calce che l’imbrattava, ripulita, scalpellata, ed infine ricollocata nelle
fondamenta dell’edificio, con un nuovo cemento.
3. Per un nuovo schematismo della ragione. Risposta a Petitot.
Per chi abbia subito il dibattito sul pensiero di Thom da una situazione
marginale come è stata, a questo proposito e in questi anni, quella italiana, la

135
lettera del saggio di Jean Petitot << à propos de Logos et théorie des
catastrophes >> (apparso nel numero 2/3 di Babylone) è tonificante. E lo è
soprattutto nella sua impostazione, laddove, a fronte del senso della Krisis che
percorre la filosofia contemporanea (ed istericamente totalizza quella italiana),
viene immediatamente rivendicata la funzione costitutiva del nesso
epistemologia-ontologia. Il senso forte del paradigma teorico innovativo << alla
Kuhn >> è qui richiamato: la riflessione sul pensiero di Thom, infatti, lungi
dall’esaltare funzioni unilaterali e tecniche di un’epistemologia strumentale,
apre spazi e può permettere di muoversi sul terreno della costituzione,
ontologicamente determinante, di << regioni del senso >> - obiettivi,
semiotiche, comunicative. Questo è quello che inizialmente ci dice Petitot. E’ il
processo razionale dell’obiettivazione che è qui possibile riconquistare alla
filosofia, dopo la lunga fase di predominio del pensiero della Krisis ed è di là
dell’angosciosa fatica della sua verificazione. E’ una nuova << estetica
trascendentale della ragione >> ad essere qui possibile, - sostiene Petitot, - una
estetica trascendentale modificata e completata, sulla quale direttamente si
fondino le determinazioni oggettive e costitutive dello schematismo, giovandosi
dello sviluppo delle matematiche e dell’epistemologia, ben oltre il livello della
loro elaborazione in periodo kantiano. Il razionalismo classico, di cui Kant è
l’ultima espressione e del quale le filosofie della Krisis sperimentano
l’estinzione, basato com’era sulla disgiunzione fra l’essere fisico e razionale e,
d’altro canto e di contro, l’apparire fenomenico, - viene dunque superato
dall’impostazione di Thom, il cui fondamentale merito consiste
nell’integrazione del fenomeni critici nella descrizione razionale, nella
riconciliazione dell’essere fisico e dell’apparire morfologico.
Petitot cerca di dimostrare il suo assunto attraverso un discorso che con molta
efficacia intercala considerazioni di metodologia scientifica e suggestioni
storico-filosofiche.
Per quanto riguarda le seconde, egli traccia un cammino denso di referenze.
Rivedendo inizialmente la problematica kantiana dello schematismo
trascendentale della ragione, così come essa è stata sviluppata e condotta a crisi
nell’elaborazione husserliana, egli nota come Husserl abbia correttamente
inteso l’irresolubilità del problema posto in quelle forme da Kant. Il passaggio
kantiano dall’estetica all’analitica allo schematismo disgiunge in maniera
definitiva i giudizi determinanti (a portata ontologica) da quelli riflettenti (a
portata ipotetico-metafisica). Su questo passaggio il criticismo non riesce a
concludere il suo progetto, anzi esso ci lascia un mondo scisso,
ontologicamente irraggiungibile Ma la correttezza della comprensione del
fallimento kantiano nella soluzione del problema della conoscenza, non porta

136
Husserl ad una corretta soluzione del medesimo problema, aggiunge Petitot.
Anzi, la ricerca dell’obiettività viene a questo punto, in Husserl, affidata non
più all’intuizione pura bensì all’intenzionalità, non all’approfondimento
dell’estetica bensì allo sviluppo dell’analitica. L’assiomatica intuitiva della
scienza è dispersa nel formalismo fenomenologico della coscienza e mistificata
nella trascendenza dell’intenzionalità. Su questo terreno, quando la temporalità
originaria della coscienza si oppone alla teoria nazionale dell’obiettività,
Heidegger potrà trarre da Husserl conseguenze estreme e legittimare la
condizione di Krisis del pensiero europeo. Certo, Kant ha reso possibile questa
conseguenza del suo pensiero: ma anche altre, sostiene Petitot. Ora, ci si deve
chiedere: contro Husserl e Heidegger, non è possibile identificare, fra le
possibilità della ragion pura, una diversa via di sviluppo della teoria della
conoscenza, fra estetica e schematismo trascendentale?
Le matematiche moderne, incalza Petitot, possono offrirsi [offrirci ?] questa
nuova via di soluzione per il problema lasciato irrisolto fra Kant e Husserl.
Secondo Petitot, sulla base dell’insegnamento di Thom, la scissione
insuperabile fra schematismo e costruzione, fra categorie ed intuizioni pure, fra
esposizione metafisica ed esposizione trascendentale dell’estetica, può essere
sciolta. Caratteristica fondamentale delle matematiche moderne è infatti quella
di elaborare concetti matematici strutturali a contenuto categoriale, - certo, non
<< immediatamente >> ritrovati nell’intuizione pura ma << mediatamente >>
costruiti nella geometria della spazio-tempo. Nello sviluppo delle matematiche,
nella loro storia concreta, i concetti e i giudizi riflettenti possono man mano
divenire concetti e giudizi determinanti, essere cioè portati ad intensità
ontologica. Riferendosi al lavoro di Lautman, Petitot giunge a questa
formulazione: << la dialectique du concept immanente à l’histoire des théories
mathématiques et à leur mouvement vers l’unité doit être conçue, en rapport
avec l’éxpérience possible. Comme le principe d’un schématisme généralisé
susceptible de constituer les ontologies régionales d’objectivités alternatives
>>.
Dire questo è come dire che finalmente la scienza matematica ci permette di
cogliere gli << stati reali delle cose >>, di penetrare ed affermare la loro
oggettività razionale; è come dire che sulla base della scienza contemporanea
<< giudizi analitici a posteriori >> sono formulabili. Si compie in questo modo
la vendetta dell’estetica sull’analitica - quando cioè lo schematismo
trascendentale della ragione risulta essere prolungamento e verificazione della
prima e non - come in tutto il neokantismo - fondamento del formalismo delle
ipotesi analitiche. Un anti-neokantismo radicale vorrebbe dunque essere qui
fondato attraverso il combinato disposto dell’analisi della Krisis del pensiero

137
filosofico (bloccato sulla denuncia e sull’impossibilità di superare le perduranze
del razionalismo classico) e della nuova costruttività del pensiero matematico
contemporaneo.
***
Non posso non essere d’accordo con questo sviluppo e con questo progetto
contenuti nel saggio di Petitot. Con due riserve, su motivi espressi dall’autore,
che mi sembrano minare l’efficacia della sua proposta e rappresentare degli
ostacoli che vanno in ogni modo evitati, affinché la proposta non rovini su se
stessa. Il primo di questi ostacoli mi sembra consistere nella ripetuta
dichiarazione di fedeltà all’impostazione strutturalista, il secondo ostacolo mi
sembra consistere nella troppo riduzionistica concezione della Umwelt
fenomenologica - e quindi nella sottovalutazione dell’intensità ontologico-
regionale del << problema del senso >>. A proposito del primo ostacolo, vorrei
solamente notare che il richiamo allo strutturalismo come alla prospettiva che
prevede l’unità razionale del senso e della forma e sotto la quale la nuova
formulazione epistemologica può essere restaurata, risulta contraddittorio con
l’elemento più innovativo dell’opera di Thom e dell’apprezzamento che Petitot
ne fa. Voglio dire che lo strutturalismo, comunque inteso, è contraddittorio con
lo schematismo; che lo strutturalismo, rigorosamente inteso, non permette quel
positivo squilibrio fra << Sachverhalten >> e costruttività razionale entro il
quale la scienza considera i fenomeni critici del reale e si adegua alla loro
autonomia. Non a caso Petitot è costretto, per risolvere questo problema, ad
assumere nella lettura della metodologia di Thom la centralità di un << tiers
terme >> fra oggetto e soggettività empirica: terzo termine che non è
semplicemente un elemento costruttivo della prospettiva scientifica (e dunque,
come tale, indefinitivamente ed operativamente plasmabile) - è bensì una legge
d’essenza regionale, un elemento eidetico costitutivo, una modellizzazione
matematica a priori. Ora, questa assunzione, se è indubbiamente coerente con
una lettura strutturalistica del mondo, è profondamente contraddittoria con lo
spirito dello schematismo. Essa mi sembra ripetere elementi non irrilevanti del
formalismo husserliano.
E’ noto come venga formandosi, storicamente e problematicamente, il
formalismo husserliano. Esso si pone alla confluenza di due fondamentali
sviluppi della filosofia posthegeliana e della critica delle concezioni dialettiche
nel tardo ottocento tedesco. Da un lato esso riprende l’esigenza della scuola di
Martburg di sviluppare il kantismo come eidetica e simbolismo della ragione;
dall’altro esso riprende la tendenza, viva in Dilthey e nella sua scuola, come
nelle prime impostazioni gestaltistiche, di fissare i criteri strutturali (regionali)
di una metodologia genetica e descrittiva. In entrambi questi filoni, e a partire

138
dalla sintesi pur innovativa che Husserl opera nelle Logische Untersuchungen,
si formano indirizzi di pensiero tipologici, gestaltistici, simbolici e formalisti.
Ora, che cosa ha a che fare questo comportamento di descrizione eidetica con lo
schematismo costitutivo precedentemente descritto? In tal modo non si ritorna
piuttosto a santificare il formalismo, scarnificato quanto si vuole, eppure
presente, in qualcuna delle sue molteplici figure? Non ritorna l’analitica
trascendentale a schiacciare la capacità dell’estetica del senso di esprimere
autonomamente la propria tensione schematica? Sorge qui il dubbio che la
stessa prescrizione, precedentemente offerta allo sviluppo della metodologia
della ricerca, di identificare concetti strutturali a contenuto categoriale,
costruendoli attraverso un << processo di mediazione >> fra i dati
dell’esperienza, possa risultare ambigua. Che cosa infatti significa più <<
mediazione >> a questo punto? E’ di nuovo forse << mediazione >> di essenze
analitiche e contenuti concreti? E’ addirittura ripetizione di un processo di <<
deduzione >> trascendentale? Non sembrava, inizialmente, che le cose stessero
in questi termini; sembrava invece che << mediazione >> fosse sinonimo di <<
costruzione >> - e che l’estetica della sensibilità producesse essa stessa il
proprio schema di sviluppo. In questo caso l’analisi si sviluppa (e l’analitico si
forma) non deduttivamente, bensì dentro l’aposteriori stesso.
A proposito di questo primo ostacolo che sorge sulla via che Petitot percorre,
mi sembra dunque che si debba scrupolosamente tener distinta la nuova lettura
dello schematismo costruttivo che dobbiamo a Thom (e la sua rielaborazione
nello stesso Petitot) dalla tentazione di ricondurla dentro la tradizione dello
strutturalismo. Il ritorno allo strutturalismo rappresenterebbe infatti non la
riscoperta della funzione costitutiva del nesso epistemologia-ontologia, bensì
una riconferma del formalismo e dei trucchi deduttivistici di un’analitica
disincarnata.
Ma v’è anche un secondo ostacolo che si presenta nel corso della lettura che
Petitot fa del pensiero di Thom. Intendo parlare di un certo << riduzionismo >>
nella definizione del << problema del senso >>. Ora, in questo saggio di Petitot,
siamo dinanzi alla compresenza di un’impostazione di carattere generale (che
ha come compito la rilettura dello schematismo trascendentale della ragione) e
di un’applicazione di carattere particolare (la rilettura della teoria delle
catastrofi in Thom e l’impatto dell’impostazione geometrico-matematica
sull’insieme teorico dell’epistemologia). Si tratta ora di chiedersi Se, non
episodicamente né casualmente, il senso generale dell’impostazione non sia
tradito dall’esemplificazione, dalla dimostrazione particolare. Meglio, se nel
corso dell’applicazione, Petitot non sia indotto a ridurre in maniera sostanziale
il campo di intervento, piegando e stringendo il discorso sullo schematismo

139
dentro quello sulla modellizzazione matematica. Io non penso che le cose
vadano in questo senso, penso invece che il discorso di Petitot sia
sostanzialmente lineare nella direzione di un ritrovamento degli elementi dello
schematismo della ragione - a valenza universale. Ho tuttavia l’impressione
che, ciò malgrado, sia in lui prevalente la tendenza modellistica sopra e contro il
progetto ontologico dello schematismo, e che in generale questo prevalere di
tendenze modellistiche possa rappresentare un potenziale ostacolo ad un nuovo
progetto di schematismo della ragione. Vale dunque esplorare la possibilità di
questo errore.
Ora, Krisis è crisi del razionalismo classico. Il razionalismo classico, nella
sua conclusione, relega l’ontologia al di fuori della logica e fa di quest’ultima la
sola scienza costitutiva, analitica in senso proprio. Ma Krisis è anche crisi del
razionalismo dialettico. La dialettica impone le leggi di una logica (rinnovata)
all’ontologia. In primo luogo si tratta dunque di chiedersi: quando la
modellizzazione matematica viene assunta come traccia dello schematismo
della ragione nella sua funzione costitutiva del mondo, non si rischia una <<
riduzione >> del campo ontologico che inevitabilmente << lascia spazio >>
almeno a feticci dialettici - se non al razionalismo classico? Ma il problema è
più generale e supera di gran lunga il pericolo di veder rivivere una discreditata
dialettica. Il problema consiste piuttosto nel chiedersi quale sia il nuovo globale
significato, e le forme e le dimensioni, dello schematismo trascendentale
rispetto all’età kantiana ed allo svilppo [sic] del razionalismo classico, dialettico
o critico. Il problema non è da poco. Nell’ultima parte del suo saggio,
riprendendo alcune fondamentali intuizioni di Habermas, Petitot riconosce che
lo sviluppo contemporaneo delle scienze e delle tecnologie si costituisce in
un’opacità storica che somiglia all’opacità dell’evoluzione naturale. Una <<
seconda natura >>, la cui inerzia ed insensatezza ripetono la dialettica oscura
della << prima natura >>. Che cosa dunque significa << senso >> in questo
quadro? E’ davvero possibile afferrare la pregnanza e l’estensione di questa
realtà a partire dalla modellistica matematica? Quale può essere la << presa >>
di modelli matematici, anche rinnovati, a questo livello di sussunzione, e di
indifferenza, del mondo nell’orizzonte della scienza e delle tecnologie? Di
contro: qual’è la << differenza >> che lo sviluppo dello schematismo deve
imporre in questa nuova Umwelt naturalistica? Noi conosciamo l’analitica
trascendentale di quest’universo e l’enorme prigione di insensatezza che essa
produce: ma non sappiamo che cosa significa oggi, nella totalità del suo senso,
un’estetica trascendentale. Come risolvere questo problema? La sociologia è
chiaro, si presenta come regione naturalistica essa stessa: il senso di
un’ontologia non è dunque in nessun caso riducibile a quello di una regione
sociologica - ed ha ragione Petitot a criticare quest’illusione in Habermas. Ma

140
se questa << via brevis >> non è data, resta comunque il problema di chiarire
che cosa possa essere un ontologia che si ponga a livello della grande
trasformazione del senso dell’esperienza - quale è quella che stiamo vivendo.
Che interpreti, ad esempio, la pregnanza dell’indistinzione del Sachverhalten
(quali il descriveva l’ultimo Wittgenstein); che rompa la circolarità delle
fenomenologie funzionalistiche, ecc. ecc..
La risposta a questi interrogativi, credo debba costituire il compito del lavoro
filosofico nei prossimi anni. Per ora l’unica preoccupazione dovrebbe essere
quella di non racchiudere nuovi modelli di costituzione critica del reale sotto
vecchi paradigmi di razionalità. Da questo punto di vista il richiamo di Petitot
(richiamo fuggevole) alla rilettura che Deleuze ha fatto dell’estetica
trascendentale, sembra particolarmente opportuno.
4. Sull’orlo dell’essere.
A proposito di Giorgio Agamben, Il linguaggio e la morte. Un seminario sul
luogo del negativo, Torino, Einaudi, 1982; di << Vingt ans de pensée allemande
>>, numero speciale di Critique 413, ottobre 1981, Paris, t. XXXVII, con
articoli di H. Gadamer, K.O. Apel, R. Bubner, J. Habermas, D. Henrich, N.
Luhmann, O. Marquard, E. Tugendhat, R. Wiehl, W. Iser, H.R. Jauss, G.
Kortian; di Vincent Descombes La même et l’autre, Quarante-cinq ans de
philosophie française (1933-1978), Paris, Les éd. de Minuit, 1979.
Il pensiero della Krisis ha rappresentato, per una non più breve stagione, il
punto di riferimento della crisi del marxismo in Italia. Lo sfaldamento della
teoria marxiana del valore e l’impossibilità di riportarla ad uno schema
razionale di pianificazione e delle formule politiche che ad essa si erano
richiamate - determinano la necessità, tipicamente italiana (e cioè imposta
dall’alto livello di lotte e di politicizzazione comunque esistente lungo gli anni
settanta), di salvare la politica comunista oltre la crisi della teoria comunista. Il
pensiero della Krisis sembra svolgersi in questo quadro.
Sulla crisi della teoria del valore, e cioè del fondamento della razionalità
complessiva del sapere rivoluzionario, si pone lo sforzo di rifondazione del
progetto. Un prometeismo della politica in assenza di una scienza, anzi, in
presenza della crisi radicale del suo fondamento. La scienza è perciò del
progetto, nella misura stessa nella quale non può più essere scienza del
fondamento. Una sorta di acuta schizofrenia coglie così la teoria di una parte
consistente del comunismo italiano: quanto più la scepsi si approfondisce e va
indietro alle origini stesse del pensiero filosofico e politico dell’occidente
moderno, tanto più viene svolgendosi una specie di scienza pura della politica.
Il fondamento sprofonda nella mistica ad indicare l’assenza di ogni

141
validazione per quella razionalità tecnica cui si accede tuttavia nel disincantato
della politica - nel cinismo si rappresenta il fantasma della weberiana Beruf
politica (talora non si evitano moralistiche inflessioni tratte da quell’antica
socratica scuola - come quelle, absit iniuria, rilevabili nel famoso discorso
dell’Eliseo). Il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà
raggiungevano un paradossale apogeo. C’è da aggiungere che queste traiettorie
filosofiche-politiche negarono con insistenza, o riconobbero con estrema
difficoltà, la matrice tecnica che autenticamente le sosteneva. Non se ne intende
la ragione: non per la prima volta infatti la teoria socialista dell’autonomia
relativa del politico, dello Stato e del diritto avrebbe esplicitamente assunto una
dimensione tecnicistica -come ad esempio avvenne a pensatori della statura di
Lundstedt, in fecondo contatto con l’irrazionalismo etico della scuola di
Uppsala negli anni trenta. In mancanza di questo riconoscimento a funzione del
<< pensiero negativo >> rischia chez nous di risultare mistificatoria - e la
mistificazione può godere di disprezzo e oblio.
Il libro di Agamben ha un primo merito storico-critico: ed è quello di
afferrare il pensiero della Krisis per i capelli e di sganciarlo dalla mistificazione
politica che lo animava. Da questo punto di vista reintroduce il pensiero
negativo nella discussione filosofica del nostro tempo, riconsegnandogli la
dignità di passaggio critico.
Rispetto a che cosa? Rispetto appunto al problema della definizione del
fondamento. Ed è qui anche il secondo merito del libro di Agamben: il fatto di
attaccare con grande determinazione a posizione stessa del problema del
fondamento, e di consegnare la soluzione non all’ipostasi della Krisis ma alla
riscoperta di un nesso dell’essere e della pratica.
Agamben muove dalla convinzione che il luogo di nascita della filosofia
occidentale, la sua ricerca del fondamento ontologico, articolandosi
necessariamente alla definizione del linguaggio che lo esprime, sia luogo
essenzialmente mistico - la ricerca del fondamento ontologico si aggira infatti
fatalmente attorno alla definizione di un dicibile che null’altro può essere se
non la ripetizione dell’essere detto.
La fondazione si riduce al mezzo di espressione: la fondazione può esserci
solo in quanto è detta, ma l’esser [l’essere ?] detto non ha così fondazione, è
pura voce. L’escamotage del pensiero della Krisis e quello di ammettere la crisi
del fondamento e di accertare il suo affondare nel pensiero mistico, ma di
assumere nel contempo, simultaneamente, la voce e la logica di espressione
come intenzioni autonome ed indipendenti dal misticismo del fondamento:
sicché la logica del progetto non solo si vuole senza un fondamento ma - astuzia
degli dei - lo è davvero. Il pensiero del progetto risulta, su queste basi,

142
ineffettuale - esso vive dell’illusione di riprendere la potenza logica di un
problema insoluto. Potenza logica, quindi, insussistente.
Ricostruendo storicamente lo sviluppo del problema del fondamento, ovvero
del rapporto fra fondamento ontologico e voce che lo esprime, Agamben taglia
due nodi principali: Hegel e Heidegger. In Hegel l’identificazione del problema
del fondamento e della dimensione logica della sua espressione è totale.
Ma è proprio questa assunzione radicale del problema del fondamento nella
dimensione della logica a far esplodere il problema. La circolarità indefinita
della soluzione è da Hegel assunta a fondamento. Il cattivo infinito che si
vorrebbe evitare diviene il principio. Il fondamento diviene, e non può che
essere nella logica, l’infondato. L’insignificanza della voce pretende a
fondamento dell’essere - ma la voce è solo una modalità dell’essere e non lo
fonda. Il circolo ontologico-linguistico non si chiude.
Heidegger mostra come questo circolo non si chiude in nessun caso. E a
ragione: egli spinge l’intenzionalità husserliana fino all’identificazione nel
tempo dell’essere, e qui il senso (significato) dell’essere può concludere solo
alla vanificazione [verificazione ?] di ogni senso (direzione) dell’essere, alla
dichiarazione della completa inessenzialità dell’esistente. Quindi, ad uno statuto
ontologico completamente negativo anche per la voce che esprime l’essere.
Il tentativo di considerare l’essere, in Hegel, come relazione di tutte le
relazioni è vanificato [venificato ?] nel riconoscimento che ogni relazione è
infondata - il senso della metafisica è dunque il cogliere questa nullità delle
relazioni.
Heidegger porta paradossalmente a termine, nel nihilismo, il più antico
programma sistematico dell’idealismo tedesco, che era consistito nel disegno di
riportare il negativo, attraverso a dialettica, nel processo della totalità - come
dichiarazione dell’essere e probabilmente, data la connessione fra senso della
totalità e senso etico della vita, come idea di autocostituzione etica del mondo.
La rete logica che stringe questo progetto è per Heidegger dissolta - e l’eticità
ridotta a logica è essa stessa tratta dentro questo processo non di autofondazione
ma di autodissoluzione. Invero, sottolinea Agamben, quest’autodissoluzione
nihilista dell’essere lascia libera la voce - ma un’altra voce, una voce assoluta,
assolta dalla negatività di cui si è fatta portatrice, effettivamente piesis ora, in
quanto essa permane come unica potenza di quest’universo dissolto. La voce si
libera dalla genealogia della negatività - prima di una disperata solitudine, poi
tentando di riorganizzarsi nel rapporto linguistico, e quindi di riassumere
l’esistente nel rapporto etico. E’ possibile dunque un’assoluzione della voce che
la proponga come base di una umana metafisica? E’ possibile nella misura nella

143
quale la voce non si presenti come logica, a riassumere in sé la metafisica, bensì
si presenti come etica e da questa dipani le ragioni dell’essere: solo in questo
modo il valore del nihilismo può essere colto.
E rovesciato? La voce, dopo essere stata la chiave della logicizzazione
dell’essere ed aver quindi costituito il terreno della dissoluzione del suo stesso
senso, nella costituzione dell’infondatezza del dire il fondamento, - può dunque
ora costituirsi in orizzonte di senso? E verso dove?
La voce pone comunque il problema dell’etica. Non sono certo di interpretare
correttamente Agamben, a questo punto. A me sembra che qui intervenga un
terzo autore, mai citato ma presente. Si tratta di Marx. Di un Marx strappato su,
fino al livello della sussunzione reale e cioè all’orizzonte di una completa
riduzione dell’essere alla voce, della catena dei rapporti produttivi alla comunità
delle relazioni linguistiche.
Qui si potrebbe presentare una teoria della voce come voce della coniazione
dell’essere. Ma coniare l’essere ha senso solo se a voce è assunta in termini
etici: una coniazione logica dell’essere sarebbe semplicemente riproposizione
del problema del fondamento e quindi riproposizione della Krisis, della
circolarità insensata del fondamento logico dell’essere. Ne risulta che la voce,
in quanto voce collettiva, eticamente sensata, produttiva e costitutiva,
rappresenta la sola base di una filosofia che possa riconquistare l’essere.
Da Hegel a Heidegger si scioglie la tradizione della metafisica occidentale. Il
suo compimento e la sua fine. Fine dei tempi, come Kojève ha visto in Hegel -
ma fine dei tempi è apertura di un nuovo tempo, dominato dalla voce etica.
Marx ne ha intuito il significato, e il pensiero negativo non sostituisce Marx,
non mette la politica al posto della teoria, ma è semplicemente l’introduzione ad
una rilettura di Marx nella sussunzione reale. Quindi ad una rifondazione della
teoria.
Ma rivediamo questo passaggio. E’ su di esso infatti che, nella filosofia
italiana, si compiono operazioni analogamente tentate, in questi anni, dal
pensiero francese e da quello tedesco. Un primo episodio va identificato nella
filosofia tedesca (Habermas, Apel, Tugendhat, ecc.). Qui il riconoscimento della
Krisis è avvenuto nel comune esaurirsi delle prospettive realistiche e delle
ultime espressioni della tradizione del criticismo. Mentre le prime concezioni
continuamente si scontrano con l’impossibile soluzione del problema del
fondamento - << ma i Topici non concludono >> -, la seconda impostazione
crolla nell’inconclusività della trafila << avalutatività-decisionismo-
razionalismo critico >>. L’unica via d’uscita è il trascendentalismo. Donde un
singolare ritorno a Kant - non tanto allo scopo di riaffermare l’orizzonte critico

144
come tale, quanto nel tentativo di dare sostrato ontologico al trascendentalismo.
Ma quale può essere questo sostrato? Può solo essere un terreno di interazione
comunicativa. Si badi bene: non è la critica sociologica ma soprattutto la scuola
ermeneutica a spingere in questo senso, e non la densità dei suoi strumenti.
L’estetica trascendentale, attraversando il terreno della voce, della
comunicazione collettiva, tende alla rifondazione di un progetto etico. Il tema
etico è tema di strategie comunicative.
La critica della ragione strumentale, sottolinea Habermas, non è riuscita ad
avere sostanza comunicativa, deve quindi nuovamente svilupparsi in teoria
dell’agire comunicativo. Ed Apel insiste sulla necessaria coniugazione di
coscienza ed intersoggettività, sulla necessaria implicazione istituzionale di
evidenza e di validità; e Tugendhat dipana l’unità trascendentale del soggetto in
una serie di contigue e/o alternative decisioni consensuali.
Che tutto questo possa non rappresentare altro’ che una nuova defatigante e
moderata filosofia della mediazione, è vero; che l’illuminismo di questi autori
sia eclettico e fastidioso - Garve e non Kant - è pur evidente. Eppure non va
sottovalutato il terreno sul quale il discorso filosofico è costretto: il mondo è la
voce, l’interazione linguistica, l’essere del pratico. La recezione del mondo in
termini di linguaggio (o di interazione comunicativa) resta tuttavia in modo
indifferenziata. L’estetica trascendentale, pur caratterizzata da un soggetto
qual’è quello dell’etica (ermeneutica del soggetto) e della politica (ermeneutica
della comunicazione), non riesce a descriversi altrimenti che come promozione
di un qualche eventuate schematismo della ragione. E il riconoscimento di sé
come essenza etica si svolge di nuovo nella dialettica che va dalla solitudine al
terrore o in quella senza fine del riformismo. La primarietà della sfera
comunicativa è comunque l’irreversibile risultato fissato dalla filosofia tedesca
contemporanea. La violenza dell’immediata appercezione etica del mondo sta
invece alla base della filosofia francese contemporanea. Qui la fine dei tempi, il
senso della produzione dell’essere, l’apprensione della categoria etica,
assumono in primo luogo l’immediatezza di questo passaggio costitutivo, lo
danno come assoluta datità. In ciò consiste indubbiamente la superiorità della
filosofia francese su quella tedesca.
Attraverso il bagno purificatore dello strutturalismo, nelle sue varie tendenze
epistemologiche, nihiliste, empiristiche, surrealistiche, alla Bataille, alla
Derrida, alla Deleuze, il problema della produzione si situa sull’orizzonte
dell’essere equivoco, dato, irresolubile. La distruzione della metafisica avviene
sulla dimensione della metafisica. L’essere è percepito senza negatività e
trascendenza, perché negatività e trascendenza sono insignificanti, irriducibili
alla datità.

145
Ma, in secondo luogo, la distruzione della metafisica diviene un’operazione.
Il soggetto si sa soggetto etico in quanto operatore della distruzione della
metafisica, il soggetto e immediatamente positivo in quanto - pur schiacciato
sulla dimensione della distruzione della metafisica - coglie l’essere come
orizzonte da percorrere, assolutamente aperto.
Nel primo programma sistematico dell’idealismo tedesco, per stare ad una
continua sollecitazione di Agamben, la totalità dell’etico è un risultato, è la
polis da ricostruire. Nella filosofia francese la totalità dell’etico è il
presupposto, l’unico presupposto, formato dal linguaggio, dalla produzione,
dalle differenze. Se l’essere appare nelle dimensioni heideggeriane, su queste
dimensioni esso va ripercorso - sapendo tuttavia che l’univocità dell’essere
heideggeriano si è dissoluta in equivocità. Perciò ripercorrere l’essere non
significa dominarlo: significa assumerlo per quel che è, destrutturarlo, e
mostrarlo come figura della voce collettiva e sua continua dislocazione sul
ritmo delle voci.
Io non so bene se Agamben possa accettare questo terreno del filosofare, e
questa definizione della metafisica. La cosa certa è che egli giunge su quest’orlo
- con un lavoro che innova e riassume tendenze della critica francese e della
costruzione postfrancofortese dei teorici tedeschi. Io sento che ora siamo
obbligati ad accettare questo comune terreno di proposta filosofica. Il discorso
di Agamben ha per certi versi un andamento humeano: disarticola la
complessità della tradizione, forse solo per distruggerne i presupposti, - ma con
ciò afferma una rinnovata prospettiva di lavoro, come presupposto
problematico. Questo morto materiale può dunque essere usato come
fertilizzante di nuova vita. Non occorre sapere che cosa sia il mondo perché
l’esser - ci produca - se solo amiamo questa frontiera dell’essere come disutopia
totale e sola nostra speranza possibile. La filosofia non anticipa il reale, può
solo accettarlo e procedere sincronicamente con esso. Una metafisica
dell’assolutamente positivo è rappresentata dalla possibilità di propor - si su
quest’orlo dell’essere - armati di un’intera disillusione del reale. Il massimo di
ottimismo della ragione, unito al massimo di pessimismo della volontà, -
rovesciando in tal modo lo stolto stereotipo paleocomunista che ci voleva
incapaci di speranza (pessimismo della ragione) e fanatici nell’azione
(ottimismo della volontà), perciò preda del terrorismo della filosofia del
fondamento.
Noi invece il fondamento lo poniamo nel futuro, nel razionalismo assoluto di
un’etica positiva. Il passaggio che ora si deve compiere è compreso nell’arco
dei problemi che la critica ha proposto: esso consiste cioè nell’articolazione
della voce. La determinazione collettiva, produttiva, ontologicamente

146
costitutiva della voce umana va posta a soluzione del contesto etico. Etica
significa comunicazione e l’essere della comunicazione è sensato.
In realtà, alle origini dell’idealismo trascendentale, il Sistema dell’eticità di
Hegel aveva sviluppato questa consapevolezza in un quadro avvertito della
complessità etica - ma questa complessità lo spinge verso la rassicurazione, e il
mondo etico va quindi risotto nella forza della mediazione e della logica. Di
contro, la filosofia contemporanea moltiplica il terrore trascendentale della
complessità etica ma nel contempo pone l’impossibilità che la logica
rappresenti la chiusura del reale. Heidegger svolge il problema fino a ridurre
all’insignificanza il compito eroico che l’ascetismo logico di Husserl gli aveva
affidato. Wittgenstein vanifica ed esalta in godimento mistico la completa
circolarità di questo compito metafisico: la disillusione si fa gioco, il décir è
liberty. Oltre ascetica e mistica, oltre la tragedia di due guerre e la crisi del
socialismo reale, la filosofia deve ritrovare un terreno di fondazione: ed è quello
sul quale ristà la vita dell’uomo, un orlo di un essere che non è ancora. Un’etica
assoluta senza valore e senza futuro. Eppure il fondamento è nel futuro. Ma
fondamento e parola vana.
Riusciamo dunque a sbrogliare la matassa delle speranze, razionalmente,
senza affidarci [affidarsi?] ad alcun ottimismo della volontà? Riusciamo a
cogliere la voce che rappresenta la nostra umana essenza non come sostitutivo
dell’essere ma come costituente il essere? Ho l’impressione che la filosofia
contemporanea ci abbia portato su questo limite. Ho l’impressione che la
disperazione dell’esistente ci spinga oltre.
Staccata dalle funzioni politiche che le sono state impropriamente affidate e
dalla mistificazione che con ciò le giungeva ad esprimere, la filosofia della
Krisis può così rappresentare una possibile introduzione al pensiero positivo,
alla filosofia del futuro. Un terreno etico è costituito. Il problema ora è di
scavarlo e di coltivarlo, questo terreno. Senza farsi cogliere da ulteriori moti di
resipiscenza e tentare nuovi e surrettizi recuperi del negativo. Il concetto di
possibilità non introduce il negativo, la speranza razionale non implica il
negativo - il fisico non chiama negativo il fatto che la natura conosca dei limiti,
che la vita conosca la morte. E’ così - il non essere non è. Questo vuoto può
solo essere riempito di umana operosità.
5. L’istituzione logica del collettivo e le fatiche dell’estetica.
(A proposito del libro su Frege di Roberta De Monticelli).
E’ noto come il linguaggio - in quanto insieme di proposizioni ma anche,
semplicemente, insieme sensato di proposizioni - possa essere considerato un
orizzonte intrascendibile. Quando l’orizzonte linguistico venga presentato

147
secondo queste determinazioni, diciamo che il linguaggio costituisce un
orizzonte ontologico - è il mondo e non ce n’è altri. Oppure ce ne possono
essere altri, ma altrettanto esclusivi: se vi siano chiavi per trascorrere dall’uno
all’altro è problema che inizialmente non ci tocca. Se l’orizzonte linguistico è
ontologia, è mondo, allora il problema della verità può essere posto solo al suo
interno: la corrispondenza al reale della proposizione andrà
epistemologicamente verificata nel suo valore logico in quanto questo sia
ritrovato nella circolarità dell’orizzonte medesimo. L’epistemologia in senso
proprio (come teoria della verificabilità della popolazione nella sua
corrispondenza con il reale) è finita. Meglio: è riassunta nell’ontologia.
Un’ontologia che, nel mondo linguistico, può solo essere formale, non può cioè
promuovere la sua forza di verifica che dall’interno di una correlazione
indipendente. Intrascendibile, appunto. Se ci chiediamo quale sia il significato
di una proposizione, entro quest’intrascendibile universo linguistico, non
potremo far altro che ricercarlo seguendo i tratti formali del senso della
proposizione - non certo ricorrendo a funzioni semantiche di interpretazione che
presupporrebbero il linguaggio e il mondo come indipendentemente
caratterizzabili. La verità si mostra al pensiero, dentro al pensiero - essa non è
l’obiettivo della logica ma l’oggetto e la sostanza del pensiero. Nelle scienze
naturali si cerca la verità, nella logica la si mostra. L’interferenza logica è solo
un movimento - non una produzione - di verità. Secondo Frege, nella lettura dei
suoi maggiori interpreti ed ora di Roberta De Monticelli (Dottrine
dell’intelligenza. Saggio su Frege e Wittgenstein, De Donato, Bari 1982), << il
Sinn di un’espressione è il modo di determinazione, o anche il modo di datità o
di presentazione della Bedeutung di quell’espressione >>. Il senso è dunque
l’istituzione di uno spazio logico - istituzione dell’ordine esclusivo delle
possibilità logiche che l’espressione presenta.
Inoltre, Frege aggiunge: << lo sostengo che il concetto precede logicamente
la propria estensione e considero erroneo il tentativo di far dipendere
l’estensione del concetto come classe non dal concetto ma dagli individui >>. Il
valore semantico dei segni linguistici è dunque il loro potenziale di
discriminazione ontologica: il Sinn crea la Bedeutung, l’insieme delle
proposizioni è il mondo. Michael Dummett (nel suo Frege del 1973) non ha
esitato a considerare di importanza Cartesian la svolta linguistica della filosofia
imposta appunto da Frege.
Roberta De Monticelli, il cui volume merita un’approfondita discussione, non
ha dubbi nel trarre decisamente verso un orizzonte linguistico, qualificato in
termini di intrascendibilità, anzi senz’altro Wittgenstein, la teoria del pensiero -
ed in genere la logica di Frege. Quest’operazione viene condotta nei primi otto

148
capitoli che costituiscono la prima parte del suo volume. Le critiche che si
possono opporre a questa prima operazione di geometrica proiezione di Frege
su Wittgenstein (operazione che potrebbe essere ritenuta di appiattimento) sono
parecchie. Meglio di tutti, e con molta attenzione filologica, le eleva Michael
Dummet [sic one or two t’s? ] nella sua prefazione al volume. Il peso indubbio
di queste critiche non toglie il fatto che l’operazione della De Monticelli, nel
suo libro, sia molto robusta e stimolante.
Ma vediamo lo obiezioni di Dummet. a) L’autrice esagera il carattere
aprioristico del pensiero di Frege - il resoconto a priori del linguaggio che
Wittgenstein elabora nel Tractatus, non è invece nel programma di Frege. b) La
negazione dell’epistemologia non è in Frege presupposizione di una metafisica
realistica - come invece avviene in Wittgenstein. In Frege v’è al massimo un
orientamento in tal senso. c) Il rapporto fra realismo ed oggettività dei pensieri
e del loro valori di verità non esclude, come invece avviene nel Tractatus, i
problemi dell’apprensione, della nostra capacità di riconoscere le condizioni di
vera. d) Troppo facile è la riduzione della Bedeutung al Sinn - in realtà, in
questi termini, il linguaggio viene ridotto a concetto astratto. Ma storicamente
non è avvenuto così. La svolta linguistica della filosofia non ha tralasciato la
considerazione del rapporto reale e il Sinn, come in genere il rapporto logico, è
stato inizialmente interpretato come veicolo del reale. e) E’ davvero il pensiero
di Frege tanto coerente quanto la De Monticelli (poggiando sul tardo scritto Der
Gedanke - 1918) ritiene? Come distinguere e come ridurre ad unità e continuità
tesi diverse, se non contraddittorie [contradditorie ?], sostenute in opere
diverse? f) E infine: l’autrice non tiene presente altri elementi che caratterizzano
- fuori ed indipendentemente dal Sinn - gli enunciati: in particolare la << forza
>> della Bedeutung, ovvero una relazione di verità immediatamente evidente,
in funzione comunicativa. La comunicazione è dunque, nello stesso Frege,
elemento dell’intelligenza.
Come ho già detto, credo che queste obiezioni, più che inficiare lo schema
della ricerca della De Monticelli, ne mostrino a robustezza dell’impianto.
Poiché, a mio avviso, quanto è filologicamente avventuroso - il sospetto
appiattimento di Frege su Wittgenstein - è filosoficamente legittimo e vale a
porre un problema per noi fondamentale. Poco importa se sia un problema
nuovo. A me sembra infatti che, attraverso la sua interpretazione nella svolta
linguistica della filosofia, la De Monticelli esplichi un paradosso teorico - che
può essere così formulato: l’ontologia formale dell’orizzonte linguistico del
Tractatus interpreta correttamente le istanze realistiche e l’apertura alle esigenze
della comunicazione che sono proprie della filosofia fregeana. Fra Frege e
Wittgenstein non cambia il desiderio di realtà - è cambiata, effettualmente, la

149
realtà. Il mondo ci è dato nella forma dell’ontologia linguistica - la genesi
fregeana di quest’ontologia non è contraddittoria con il risultato - malgrado il
carattere paradossale del processo. Il mondo linguistico sussume i problemi del
realismo. (E’ chiaro allora che a M. Dummet, che dagli anni ‘50 va sviluppando
una concezione antirealistica ed intuizionistica del linguaggio, queste premesse
della De Monticelli sembrino fortemente criticabili. Diverso sarà
l’atteggiamento di M. Dummett a fronte delle conclusioni dell’autrice - ma di
questo più tardi).
<< Nella seconda parte del suo libro, la De Monticelli fa un audace tentativo
di costruire un’epistemologia sul fondamento della filosofia del pensiero
esposta nella parte prima >> (M. Dummett). Vale a dire che la De Monticelli,
memore del debito con il realismo fregeano, dopo aver descritto la sussunzione
del mondo nel linguaggio, cerca di dare caratteristiche materiali all’ontologia
costituita, di riarticolare l’universo - fin qui solo formalmente descritto. Deve
appunto mostrare la genesi del risultato. Deve riaprire la dialettica
dell’epistemologia a livello di una metafisica realistica. Che questo - della
riarticolazione realistica dell’orizzonte formale della comunicazione - sia un
problema attuale, che la riproposizione di un compito epistemologico (in senso
proprio) costituisca un passaggio centrale, nessuno, credo, potrà negarlo. E che
questo cammino debba svilupparsi secondo figura capaci di esprimere, a livello
di questo mondo sussunto, la materialità della vita, sembra addirittura ovvio.
La De Monticelli risponde solo parzialmente alla questione che si è proposta.
Definito correttamente il terreno della ricerca, se ne ritrae infatti
precipitosamente, scegliendo una consueta quanto perniciosa scorciatoia nello
svolgimento del compito: una via kantiana. Nei capitoli IX (<< La ‘vita’ e il
‘mondo’ >>), X (<< Frege e la teoria kantiana dell’intelligenza >>), XI (<<
Esperienza e giudizio >>), che aprono la seconda parte del suo volume, la De
Monticelli tenta dunque di sviluppare, su base fregeana, una dottrina
complessiva dell’intelligenza. I tre capitoli costituiscono, nell’allargamento
tematico che presentano, un’analisi degli elementi di avvicinamento di Frege a
Kant, nella teoria della percezione, nella teoria dell’lo e dell’autocoscienza,
nella teoria del concetto. E’ chiaro che, in questo campo, ogni passo verso Kant
è un passo di allontanamento da Wittgenstein. Ma l’argomentazione si fa
appunto teoretica. E si svolge: a) attraverso la ridefinizione di una teoria della
percezione cognitiva, in senso kantiano, e cioè di una teoria che prevede la
coincidenza di elementi percettivi e di elementi intelligenti come condizione dei
primi. Il segno kantiano è allegato alla teoria delle condizioni dell’essere
conoscitivo; b) la ridefinizione di una teoria trascendentale dell’orizzonte
linguistico, ovvero del passaggio - mediato dall’io cosciente - dalla percezione

150
degli oggetti alla definizione dei concetti. Questo kantiano passaggio contiene
la refutazione dell’idealismo soggettivo; c) terzo punto è l’elaborazione della
teoria del concetto come sintesi di esperienza ed intelligenza nel linguaggio. Su
questo terreno la De Monticelli sviluppa con coerenza la teoria del concetto
verso l’articolazione di funzioni logiche (ad esempio, con riferimento al
problema dell’individuazione) e la rifonda nella prospettiva costitutiva dello
schematismo trascendentale. La relazione Sinn Bedeutung è oggi
completamente risolta dentro questo rapporto. Ci ritroviamo qui su uno snodo
fondamentale. A me sembra che questo uso del kantismo rappresenti
un’éscamotage che annulla la determinazione globale dell’orizzonte linguistico.
Il problema dell’articolazione raggiunta, viene disarticolato nel linguaggio
kantiano. Lo schematismo è chiave della teoria del giudizio e dell’estetica.
Evita la produzione. Insomma, è una recessione nella questa che la De
Monticelli propone.
Nei capitoli successivi XII-XV, l’avvicinamento a Kant viene ulteriormente
spinto e specificato - nel senso che, sulla base della dottrina fregeana dell’<<
afferrare >> (posta a contrasto, a differenza del << giudicare >> kantiano), tutto
il processo viene per così dire centralizzato, appesantito, << empiriocriticizzato
>>. Si badi bene: non è che l’orizzonte kantiano sia superato, la verità non viene
tolta alla sua realtà trascendentale-critica (e si rifiuta radicalmente la teoria della
verità-verificabilità) - l’orizzonte kantiano viene << più >> empiricamente
connotato. Così ad esempio, si insiste sul ruolo delle << espressioni indicali >>,
degli << stati modali >>, sul << colore >> delle proposizioni. Per concludere:
<< la valenza epistemologica del concetto di senso (ritenuto il vecchio concetto
di epistemologia come rapporto fra verità e verificabilità) fa della posizione di
Frege un realismo forte, ma non un realismo puro >>. Un realismo << poetico
>>, soggiunge la De Monticelli. Annotazioni analoghe si possono fare quando
l’autrice passa, dalla dottrina del Sinn, alla considerazione della teoria della
Bedeutung. La funzione riferimento, con le sue due caratteristiche di
immediatezza percettiva e persistenza concettuale, viene riportata all’orizzonte
del realismo << impuro >> dell’intenzionalità, à la Brentano. Il processo
dell’individuazione ha solo degli aspetti delle componenti epistemologiche - di
verificabilità. << Vie d’accesso alle cose >> - che non si concludono, sentieri
interrotti. I processi d’individuazione hanno componenti epistemologiche ma
solo la teoria del Sinn determina la completezza del progetto. La sensibilità è
infatti coinvolta nelle procedure di individuazione ma non nella procedura di
giustificazione dell’oggetto. La comunicazione, le funzioni-riferimento sono
intenzionali. Il processo di verifica non è altro che un processo, un ondeggiare
fra apparenza e realtà, fra soggettivo ed oggettivo, una descrizione
fenomenologica del processo stesso. L’idea di distinguibilità fra essere ed

151
apparenza è costitutiva della percezione - ma solo, appunto, come idea e
dinamica. Nel cap. XV la tesi viene ulteriormente ribadita e sviluppata, sulla
base dello schematismo kantiano della percezione e del concetto - con una
nuova forzatura in termini estetici [estatici?] e poetici della tematica.
Quest’innesto, sull’albero della filosofia linguistica, di apporti kantiani e
fenomenologici, pur essendo tipicamente scolastico (nell’accademia Italiana),
coglie tuttavia la polarità fondamentale del pensiero filosofico contemporaneo
che si confronta con la sovradeterminazione ontologica del mondo linguistico -
fra Husserl e Wittgenstein. Originale è nella De Monticelli il sentimento della
necessità della disarticolazione interna dell’ascettivismo husserliano e del
misticismo wittgenstiano - e la sua tendenza a riconquistare il senso della realtà
della totalità linguistica, inverandone la genesi, ad esperire con coraggio
l’istituzionalità complessiva dello spazio logico e la sua potenziale elasticità.
All’originalità della strategia si contrappone [sic] l’infelicità della mossa
kantiana.
Commentando la seconda parte del volume della De Monticelli, M. Dummet
- come aveva criticato la trazione di Frege verso Wittgenstein operata nella
prima parte - critica ora la torsione kantiana qui operata. In sostanza Dummett
nega la possibilità filologica di questa torsione - sia a proposito della teoria
dell’lo, sia della teoria del senso e dell’intenzionalità, sia in genere su tutti quei
punti di vista nei quali si valuta [voluta?] e si ristabilisce il rapporto fra teoria
del pensiero e teoria della conoscenza. Di nuovo queste annotazioni filologiche
di Dummett vanno accettate. Senonché esse sfiorano solamente la critica - ed il
problema della De Monticelli. se infatti come il problema teorico
fondamentale,. qui proposto, dovremo - piuttosto che ribattere filologicamente
alle conclusioni della ricerca - riprendere il suo filo. E rifiutare dunque non
tanto la trazione verso Wittgenstein del realismo fregeano quanto la specifica
torsione kantiana nell’interpretazione della sovradeterminazione ontologico-
linguistica. La De Monticelli è convinta che il mondo conquistato rappresenti la
fine dell’universo del Logos. Difficile sarebbe sollevare in proposito obiezioni.
Quanto all’uso di Kant, su questo tornante ed alto scopo di sottolineare la
possibilità che la Krisis offre - esso è, almeno a partire da Schopenhauer,
consueto. Ma d’altro canto, non ci sembra che la De Monticelli sia disponibile a
trarre dalla crisi del Logos conclusioni irrazionalistiche. Sicché, tra i divergenti
rifiuti, essa sceglie una via intermedia, tentando la riarticolazione del mondo
della Krisis attraverso un’ambigua sfera della percezione: fantasmi che
schematicamente adempiono a funzioni trascendentali. Un realismo impuro?
(oppure, nella qualificazione leniniana dell’empiriocriticismo, un idealismo
impuro?). Una teoria dell’immaginazione? Di fatto, come s’è già visto, negli

152
ultimi capitoli del suo appassionato libro, la De Monticelli spiega la
ricostruzione di una prospettiva kantiana nel senso di una sorta di realismo
poetico - impuro. Realismo - perché l’immersione nel mondo è senz’altro
fondante e le qualificazioni di verità e falsità costituiscono le condizioni stesse
del linguaggio (<< Nella sostantivazione del predicato ‘vero’ si cela (si mostra)
l’essenziale identità di categorie ontologiche (stati di cose, fatto e dunque classe
e cosa) e categoria logica delle sue espressioni >>). Ma realismo impuro:
poiché la possibilità di discorrere dell’essere è fondata sullo scarto - e
soggettivamente sullo scontro - fra ciò che logicamente comprendiamo e ciò
che la logica mostra. Il pensiero dell’essere, il realismo diventano misura
dell’imperfezione logica - ed i filosofi, nel momento stesso nel quale si
riconoscono nell’universo linguistico, debbono provarsi nella trasformazione
del << rumore >> in significato e nell’adeguare le forme linguistiche alle
funzioni. Qui, su questo passaggio, la questione del linguaggio non verbale
diviene centrale. L’impurita del realismo logico non è solo un limite - è anche
una produzione di sensi diversi. La Krisis del Logos è la possibilità di nuovi
significati reali e di nuovi sensi linguistici. Il realismo impuro è realismo
poetico.
Ma ricostruire un orizzonte articolato e realistico, nella crisi del logos, dentro
la svolta linguistica, è forse compito che possa essere affidato alla poetica? E’
con estremo disagio che mi propongo questo interrogativo perché, se da un lato
sento la suggestione della proposta e la forza e il colore e la costruttività del
progetto (non nuovo tuttavia, è già nello Steinhof, attorno ai medesimi
problemi, prospettato), pure non riesco a considerare la poesia come alternativa
alla crisi del logos. Certo, è il pregiudizio di una millenaria cultura che in ciò mi
blocca: ma, en philosophie, è anche la convinzione che la conoscenza estetica
non innovi rispetto alla logica, che sia rinchiusa nello stesso orizzonte. Che,
confusamente, essa aspiri alla potenza della tautologia. Per la filosofia del
linguaggio come per l’estetica, all’interno della sovradeterminazione
linguistica, la verificabilità è tolta. La crisi del Logos consiste nel suo deficit
realistico. L’ontologia dell’universo linguistico è raggomitolata nella formalità.
L’intrascendibilità è mistica. Il problema è dunque quello di ridare spessore
realistico a questo mondo del linguaggio e della comunicazione. Perché mai
l’estetica dovrebbe avere la capacità di compensare a crisi del Logos? Non ne è
invece la semplice trascrizione? O, semmai, addirittura lo sviluppo in termini
fantastici, idealistici? La funzione dello schematismo trascendentale si stempera
man mano in funzione riflettente, nel giudizio estetico e l’lo trascendentale,
nell’idealismo classico, stravolge a questa stregua la stessa confutazione
kantiana dell’idealismo soggettivo. Perché dunque vestire il pensiero nudo, così
faticosamente riconquistato, come rappresentante di una nuda vita - perché

153
fargli indossare le vesti di Arlecchino - poetiche ma pagliaccesche?
Se ci fermassimo a questo punto non intenderemmo tuttavia appieno
l’importanza del libro della De Monticelli. Vale invece ricordare, proprio
quando essa arriva a queste conclusioni, che da ben altro si era mossa e
ricostringerla a Frege e a Wittgenstein. Chiediamoci dunque di nuovo: perché
Frege? Perché Wittgenstein? Perché è tanto importante riprendere l’analisi a
partire da questi autori?
Ora, il problema è la Krisis del Logos. Crisi esasperata dalla conclusione
wittgensteiniana della logica nel Tractatus, dalla sovradeterminazione mistica
che la sussunzione logico-linguistica del mondo riceve. La De Monticelli
attacca la sussunzione ripercorrendone la genesi: Frege. La domanda è quindi:
evitando ogni éscamotage kantiano, può Frege indicarci, assieme alla via verso
la sussunzione logica, una chiave di articolazione - che è come dire, di
riappropriazione logica del mondo? Secondo me è possibile rispondere
affermativamente alla questione - pur trattenendo il gioco filosofico fra questi
due autori. Purché la potenza del pensiero logico di Frege sia assunta fino in
fondo e la dialettica fra la genesi fregeana della sussunzione logistica del
mondo e la sovradeterminazione mistica che ne fa Wittgenstein siano
considerate in tutte le loro articolazioni. Ora, Wittgenstein raccoglie e mistifica
il procedimento fregeano. Poiché Frege costruisce un mondo di oggetti in cui la
tensione al passaggio, al dislocamento verso l’orizzonte della generalità non
toglie in nessun caso la referenza ontologica. La generalità astratta è reale Frege
scopre lo scheletro del mondo come comunicazione, come informazione. Se in
Kant la contaminazione dell’orizzonte analitico e di quello empirico spinge su
verso l’io trascendentale e il giudizio sintetico a priori, in Frege e nella logica
rivoluzionaria la tensione dell’analisi è inversa, rivolta verso la produttività
dell’essere, è costitutiva di oggetti sul terreno delle astrazioni reali che li
compongono. Il giudizio vuole essere analitico a posteriori. In Frege
l’autonomia relativa dell’orizzonte del Sinn è sempre piegato alla referenza
ontologica della Bedeutung. Di contro, Wittgenstein, assumendo la tensione
fregeana alla sussunzione logistica del mondo, la fonda come logicismo, come
regno della tautologia. La tensione ontologica della logica cade - il reale è
sospeso. Di conseguenza interviene il misticismo come conclusione adeguata
all’impossibilità di risolvere la differenza del Sinn e della Bedeutung - il
sentimento dei limiti del dicibile e del pensabile prende il luogo del processo di
produzione della logica del mondo. In Wittgenstein la composizione conclusiva
del Logos è perciò la sua crisi. Ma non è possibile riproporre la produttività
della logica a livello di dislocamento? Leggere Wittgestein [sic] attraverso la
genesi del logicismo, piegandone le conclusioni alla dinamica materiale

154
attraverso la quale si produce questo stesso suo mondo? Se il problema della De
Monticelli è questo, come crediamo, è altresì vero che nella sua soluzione essa
non ne ha rispettato le condizioni. Che sono invece ciò che a noi più interessa.
Le condizioni fregeane del dislocamento verso la sussunzione logica sono
infatti tali da introdurre - contemporaneamente - l’unità e la molteplicità,
l’intensità e l’estensione, e soprattutto da porre le regole del dinamismo di
questo mondo astratto - delle sue relazioni e della sua dualistica asimmetricità.
L’istituzione dello spazio logico in Frege è la definizione della possibilità del
suo movimento. Wittgenstein è invero il Berkeley, il mistico vescovo dello
sviluppo del realismo logico contemporaneo lo scopritore di una paradossale e
paralizzante riduzione del mondo reale nell’identità tautologica. Frege è lo
Hume del realismo logico, colui che ci dà le chiavi attraverso cui entriamo in
quel mondo dell’astrazione reale che è nostro, ed ivi identifichiamo gli oggetti
nuovi e propri, classi ed insiemi, individui di nuova specie. Dualismi,
equinumericità, asimmetrie. Certo, stando a Frege, lo scontro fra logica ed
ontologia non si chiude mai: ma a che formidabile livello è stata traslocata la
figura di questo scontro! L’astrazione del mondo, l’intelletto generale è l’ambito
dello scontro - la comunicazione non assume ipotetici fondamenti alla sua
origine, svolge piuttosto insieme identificazione e scontro dei soggetti come
vicenda di elementi continuamente emergenti sull’orizzonte dell’informazione.
Frege non raggiunge l’astrazione reale, l’assoluta intrascendibilità del mondo di
Wittgenstein - ma quest’ultima è un immobile paradosso. Frege pone il
problema di rompere il paradosso produttivamente, definendo il nuovo quadro
di articolazioni nel mentre cerca di mostrarne la tendenza di sviluppo. Tendenza
che non si concluderà mai perché lo scontro è la sua chiave dinamica. In
Wittgenstein la logica intensionale del Sinn conduce ad un’ontologia a valore
zero e, conseguentemente, la logica estensionale della Bedeutung riconosce
l’annullamento della sua stessa possibilità. In Frege la logica intensionale ha un
contenuto relazionale e quindi esalta la logica estensionale in un orizzonte
plurimo, in un’ontologia aperta.
A me non importa molto che la De Monticelli non abbia sviluppato il suo
discorso in questo senso. Ritengo particolarmente infelice il tentato éscamotage
kantiano (che, oltre tutto, come riconosce lo stesso Dummett ha ben poche
ragioni sul piano filologico). Ma ritengo che i problemi posti dalla De
Monticelli siano fondamentali. Andiamo oltre la Krisis del Logos cercando di
attraversarne l’intera intensità: questo ci sembra dire, in maniera irrefutabile, la
De Monticelli. Ed è questo orizzonte della sussunzione, dell’astratto generale,
questa Krisis che riformulano gli oggetti e riqualificano le dinamiche e gli
ambiti. E’ qui dentro che il mondo - questo incredibile ma vero astratto mondo -
si fa ora vita e produzione.

155
Di qui in avanti la De Monticelli non ci aiuta più. Crede infatti di poter
scegliere una via estetica per la soluzione di quello che chiamiamo il <<
problema Frege (Hume) >>. Già Hamann e i primiromantici lo pensarono: il
Belief diveniva alternativamente Gnade oppure costruzione estetica. Ma
l’estetico non è che la proiezione depotenziata del logico mondo
dell’individualismo. Né Kant può aiutarci ad uscire da queste nebbie. Mentre
l’altro presupposto fregeano, che è in questo caso completamente dimenticato,
deve essere soprattutto ripreso: ed è il postulato (adeguato alla sussunzione
logica del mondo) dell’annullamento dell’individuo. L’istituzione dello spazio
logico è istituzione del collettivo. Nella logica contemporanea il problema
humeano del Belief si presenta come problema degli aggregati di classe: da
Russell a Moore fino alla logica rabbinica di Kripke, tutti debbono ripetere
l’adagio fregeano: la classe è prima degli individui. Si potrebbe definire la
stessa Krisis nel Tractatus come paralisi indotta dalla meraviglia di questa
scoperta. Ed è questa la vera svolta impressa dalla filosofia linguistica: la
definizione dell’orizzonte mondano come comunicazione collettiva. Questa
scoperta non è poi così strana se si pensa che essa avviene all’interno dello
sviluppo capitalistico, e nella maturità di questo. Se il Belief humeano gioca un
ruolo fondamentale nella fondazione della market-society dell’individualismo,
nella smithiana paternità del capitalismo - come agisce il Belief della
comunicazione collettiva? Nell’ulteriore vicenda della logica contemporanea,
dopo Wittgenstein, il problema della comunicazione diviene fondamentale. Il
realismo ritorna ad opporsi con forza a quell’empirismo mistico che il Tractatus
aveva generato, a quell’empirismo alla Carnap di cui sono state giustamente
criticate la prodigalità nel dispendio del patrimonio logico e l’estrema avarizia
nella produzione di espressioni descrittive. Scetticismo nei confronti delle
tautologie, giusta impazienza dinnanzi all’incontinenza logicista, si riaprono
così ai problemi del rapporto fra senso e significato, alle ricerche strutturali
sulla forma (comunità e/o discontinuità, varianza e/o invarianza) del rapporto
fra logica ed ontologia. Quali siano le molte figure di queste problematiche, fra
Quine e Kuhn, fra Putnam e Kripke, quel che è certo è che la tensione realistica
di Frege ha trionfato contro la rigidità cadaverica cui conclude la wittgenstiana
descrizione del mondo. La nuova logica è oggi problema della comunicazione.
Come dunque agisce il Belief della comunicazione collettiva? Sono
personalmente convinto che su questo snodo i giochi siano tutti da farsi. Ma
contemporaneamente sono certo che la filosofia del Logos, in quanto filosofia
profondamente determinata da una concezione della razionalità individuale, non
ha su questo terreno la minima possibilità di sviluppo, neppure nella sua
estrema sofisticazione estetica - Andy Warhol come interprete di Wittgenstein -
e che conseguentemente la teoria logica va riproposta sulla base

156
dell’ermeneutica della comunicazione collettiva.
E’ interessante notare, a questo punto, come i concetti base di certa tradizione
della logica, di cui sembra non si riesca a liberarsi, siano invece non solo in crisi
ma, per così dire, cancellati dalle acquisizioni rivoluzionarie della logica
postfregeana - ed in particolare dinanzi alle determinazioni produttive del
giudizio analitico a posteriori (dove la presupposizione della classe
dell’individuo non è semplicemente descrittiva) ed alla conseguente
dissoluzione della tradizionale divisione fra enunciati descrittivi ed enunciati
valutativi. Qui la logica postfregeana si coniuga con l’epistemologia
postbachelardiana.
Poiché la comunicazione è un fenomeno etico-politico e presenta l’essere
come un orizzonte di praticabilità, come un cantiere di formazioni linguistiche,
solo un’antropologia del movimento collettivo può allora chiarirla. La scienza
della produzione - o della distruzione - la potenza ed il potere si presentano su
quest’orlo dell’essere, dentro la totalità dell’intelletto generale e le dimensioni
della sussunzione, come esclusivi elementi critici. E’ ben vero che l’immagine -
come vuole la De Monticelli - veste ora il cosiddetto pensiero nudo, ma lo
riveste dentro quelle dimensioni pubbliche, collettive, produttive che il
pensiero, fuori da qualsiasi robinsoniana nudità, ha assunto. E noi abbiamo
bisogno di una logica a questo livello, che abbandoni ogni nostalgia del
fondamento, che assuma interamente il commercio umano e la multitudo come
dimensione propria. Probabilmente la determinazione etica del mondo è il solo
orizzonte che la rivoluzione logica ci consegna come possibilità di scienza. Il
problema del mondo e quello della vita ritornano ad essere uno solo.
6. A proposito dell’aforisma << pessimismo della ragione, ottimismo
della volontà >> e della ragionevole opportunità di rovesciarlo.
Note di lettura su testi di Luhmann, Baudrillard, Lyotard, Habermas ecc.
1. Aforisma e cinismo.
L’aforisma rappresenta una delle forme nelle quali la << ragion cinica >> si
organizza nella società nella quale viviamo. Sorge il problema di comprendere
se quest’antinomia, in questa formulazione, non sia apparente e nasconda
invece una più profonda scissione: fra soggettività etiche diversamente
orientate.
Sono sempre stato stupito dalla frequenza con la quale negli ambienti politici
ho sentito e sento ripetere l’aforisma << pessimismo della ragione, ottimismo
della volontà >>. Dopo Gramsci (1). La ripetizione è di gramsciani e non, di
progressisti e reazionari, di carcerati e carcerieri, di amici e nemici, di comunisti
e liberali, di giovani e vecchi. Il tono argomentativo che accompagna

157
l’esclamazione è più o meno questo: razionalmente non c’è nulla, o c’è poco, da
fare - proviamo comunque. Se la ragione attesta un blocco, un limite - solo una
sobria resistenza, una convinta insistenza potranno permetterci un orientamento
positivo. Poco m’interessa l’ipocrisia spesso celata dall’aforisma: qui non
dobbiamo fare né satira né moralismo. Assumo piuttosto l’aforisma come segno
di una contraddizione, immediatamente rivelata, nell’etico e nel politico. E
poiché il politico è, o dovrebbe essere, la scienza del possibile e quindi della
volontà (ed è comunque interpretato in questo senso dai ripetitori dell’aforisma)
- mentre l’etica è scienza del desiderabile e quindi della ragione, assumo
l’aforisma come indicazione di un’eventuale contraddizione fra l’etico e il
politico, fra la ragione e la volontà. Per cominciare.
Sembra accertato che, all’inizio dell’età moderna, nella rinascenza, la
contraddizione fra l’etico e il politico sia storicamente generata dalla necessità
di rendere autonomo il politico dalla morale. In effetti, l’assorbimento della
morale nella teologia non lasciava altra via d’uscita a chi volesse emanciparsi
[emanciparci?] da forme tradizionali di dominio. Il cosiddetto conflitto di
morale e di politica è quindi, originariamente, rappresentazione di un atto di
libertà. Esso perciò non riproduce un << eterno >> conflitto fra diverse
categorie metafisiche (come il pensiero reazionario ha sempre ripetuto) quanto
invece propone la fondazione di un nuovo orizzonte etico, meglio, di un nuovo
orizzonte metafisico, - nel quale morale e politica potessero collocarsi in una
diversa figura e la politica conquistare l’egemonia del rapporto. Su questo
snodo la politica borghese, il << buon governo >>, l’amministrazione legittima,
sembrano a lungo impersonare anche l’istanza morale. La scienza della politica,
si presenti essa come esecuzione del governo giuridico o come pratica del
governo economico, tende - in questa prospettiva - ad elidere ogni conflitto. Nel
diritto, e soprattutto nel formalismo giuridico, sostanzializzato dalla gestione
inflessibile dello Stato di diritto, si ricostruiva così un ambito unificato di
morale e di politica, sulla base di nuovi valori (2).
Senonché un ostacolo, per così dire, ontologico presto si rivela. Ed è che,
comunque motivata, la politica come scienza del possibile, rivela l’impossibile
e la pratica del governo scontra nuovi limiti strutturali. E’ attorno alla
consapevolezza del limite che l’ipotesi del conflitto fra morale e politica si
ripropone. Nella vicenda dello Stato moderno, la concezione gerarchica del
rapporto di morale e politica (o di politica e di morale) fa così luogo ad una
concezione orizzontale, di reciproca autonomia ed esclusione, fra morale e
politica. L’autonomia del politico, come pratica e come scienza, si distingue
dall’autonomia della morale. Morale e politica istituiscono spazi separati. Il
volto demoniaco del potere diviene consueto, quanto quello angelico della

158
morale. Se la prima separazione (umanistica) del politico dalla morale è un atto
di libertà e un momento di costituzione egemonica del politico (soprattutto nella
sofisticata immagine dello Stato di diritto), - la seconda separazione, tipica della
nostra epoca, è un atto di riflessione critica, di limitazione dell’energia
costitutiva. Ed è qui che si riafferma l’aforisma << pessimismo della ragione,
ottimismo della volontà >>: come registrazione dell’impossibilità di costruire la
totalità e come esplicazione dell’urgenza di afferrarla comunque (3).
Su questa congiuntura precipitano motivazioni quanto mai diverse. Così, in
primo luogo, qui convergono le concezioni del << determinismo scientifico >>.
Quando la saldezza dell’orizzonte scientifico non riesce ad adeguarsi alla
temporalità determinata dell’agire, allora lo jato che si apre è solo controllabile
attraverso l’appello alla più alla moralità. << Il cielo stellato sopra di me e la
legge morale dentro di me >>. Il determinismo si accompagna al volontarismo
etico, la certezza conoscitiva è (per contrasto) santificata dal libero << Sollen
>> della volontà. La storia del dualismo kantiano, ma soprattutto quella del
neokantismo ottocentesco, in tutte le sue versioni, è dimostrazione di questo
sviluppo (4).
In secondo luogo, e rafforzandola, la concezione del limite razionale della
politica è affermata da quel corpo di dottrine che chiamiamo del << relativismo
etico >>. Avalutatività (razionale) e decisionismo (pratico) sono le forme nelle
quali si presentano qui i concetti di validità e di valore, le figure centrali di
scienza politica e di etica - e quindi di una dialettica di autolimitazione che,
riconoscendosi come tale, esige comunque di essere efficace, di fondarsi quindi
sulla necessità razionale di un << salto mortale >>. Tanto più avalutativo è il
giudizio, tanto più decisionistica è la proposta (5).
In terzo luogo conduce ad una similare concezione del limite razionale della
politica il << realismo sociologico >> - quando, agitandosi fra omogenee
contingenze, fra equipollenti potenze, è indotto ad una serie di dilemmi che solo
un certo ottimismo della volontà, una certa sovradeterminazione pratica
possono risolvere. Il realismo sociologico non sa distinguere né cogliere le
singolarità, - se non attraverso riferimenti esterni, trascendenti il suo orizzonte
linguistico. La sovradeterminazione della volontà a fronte della relativa
impotenza della ragione è, in ciascuno di questi casi, l’unica soluzione.
Si potrebbe continuare nella casistica. L’antinomia fra ragionevole e limitata
scienza della politica e decisione etica è segno caratteristico del nostro tempo.
Questa situazione critica si è, per così dire, normalizzata, fino a manifestarsi
regolarmente nel linguaggio comune - talora in termini caricaturali. Che solo gli
enunciati descrittivi creino certezza mentre gli enunciati valutativi sono fortuiti,
che i giudizi etici sono quindi azzardati, ecc. - bene, questi sono ormai ritornelli

159
di un sapere comune che mostra le difficoltà dell’agire come momenti
antinomici, razionalmente insolubili. Su questa base, le stesse forme della
politica, le più gelosamente custodite quali indici di valore comunque
legittimanti (e nella democrazia questo è necessario), rivelano dimensioni
antinomiche e sviluppano matrici non risolubili. si consideri ad esempio il
meccanismo della rappresentanza democratica o gli scenari
dell’amministrazione. Essi dovrebbero consistere in strutture descrittive, regni
della trasparenza, - divengono invece, sulla base dell’antinomia assunta, matrici
di valutazione fortuita, luoghi di mediazione azzardata, semplice decisione. Un
elemento di innovazione inserisce alla struttura del politico - ma è elemento
irrazionale (6). Ottimismo della volontà, appunto, sopra il pessimismo della
ragione - di questa ragione che non potrà mai comprendere il reale.
Cinismo, allora? Valutazione solo irrazionale, violenta, immediata della
realtà? Com’è altrimenti possibile rispondere alle esigenze della pratica? Il
politico è un mondo limitato, non riesce a comprendere il resto, il differente -
ma il resto, il differente debbono essere condotti al limite, essere compresi nel
limite. Cinismo è questa riduzione della totalità al limitato, - è la frustrazione
dell’etico assunta a fondamento del politico. Il conflitto fra il politico e l’etico
non è considerato come un terreno sul quale si svolga una lotta di valori - bensì
come scenario di soluzioni obbligate secondo le norme di un potere che,
sentendosi parziale e limitato, pure deve raggiungere un risultato. La razionalità
è regola di emergenza, di eccezionalità. Pessimismo della ragione, ottimismo
della volontà, di una ragione impotente e limitata e di una volontà potente e
cinica (7).
Con ciò la confusione è completa. E’ indubbio infatti che questa concezione
del politico è essa stessa un’etica, depotenziata ma non perciò meno efficace.
Una sorta di divinità terrestre, rovesciata e maligna. Ma, se è così, il conflitto
cui assistiamo non è fra etica e politica, bensì è antagonismo fra corpi diversi -
un corpo etico-politico e, di contro, un altro corpo etico-politico, e così di
seguito. Il conflitto è fra diverse divinità. Chi riordinerà queste potenti
contingenze? Max Weber, uno dei più lucidi studiosi della politica del secolo
XX, ha appunto chiarito come dal monoteismo si dovesse trascorrere al
politeismo nella definizione dell’orizzonte di valore che costituisce la politica.
Egli chiede a ciascuno di prendere posizione, di radicare eticamente la sua <<
Beruf >> politica, di entrare nella mischia. Sapere la relatività, egli sostiene,
fosse pure l’unicità del punto di vista, non toglie la radicalità dell’approccio.
Toglie solo la possibilità di un confronto razionalmente irresolubile. L’aforisma
da noi considerato sembra allora ben registrare questa situazione - e non dunque
attenere al generico conflitto fra etica e politica ma piuttosto all’antagonismo

160
fra diverse etiche e politiche, fra differenti orizzonti valutativi, fra parti separate
e soggetti diversi.
2. La riforma del modello.
Nel sistemismo tedesco (Luhmann) l‘ottimismo della volontà si fa tecnica di
riduzione della complessità sociale. Quest’operazione consiste nell’astrarre le
antinomie a base ontologica, nel collocarle in un progetto di simulazione,
insomma, nel riqualificarle in uno scenario sostitutivo della realtà. Il processo di
simulazione (nel postmoderno) come processo di sostituzione del reale.
Nella crisi del pensiero etico, giuridico e politico del nostro tempo si
introduce dunque, in primo luogo e prepotentemente, la necessità, se non di
risolvere questi problemi, almeno di dar conto di questi fenomeni. E’ stato
notato che l’esistenza dell’ordine sociale è ormai inverosimile, - vale a dire che
non è spiegabile la sua normalità. Man mano che la complessità sociale
aumenta, la contingenza di tutti gli eventi tende a divenire assoluta. Il
pessimismo della ragione aumenta così a dismisura, fino a produrre risultanze
scettiche. Occorre però salvarsi dall’invadenza distruttiva della contingenza,
dalla sua onnilaterale possibilità mai riducibile alla necessità razionale. Se, per
dirlo nei termini della filosofia classica, l’essere è equivoco, dentro
quest’equivocità occorre comunque orientarsi [orientarci ?] - tanto più poiché
l’essere sociale è condizione di esistenza. Se queste contingenze, ad esempio,
fossero armate - ed il raffinamento degli arsenali è continuo - chi si salverà?
Qual’è il limite nella relazione fra contingenza e ragione di sopravvivenza? Qui,
l’ottimismo della volontà assume allora una veste finalistica, strumentale e
tecnica. Ci si chiede di accettare soluzioni tecniche che sono anche risposte alle
questioni di una sorta di morale provvisoria, - un sistema di convenzioni atte a
ridurre la complessità delle contingenze, a permetterne la selezione,
l’ordinamento, in vista della sopravvivenza.
Quella cui qui voglio riferirmi con qualche accenno è la costruzione
dell’immagine del mondo sociale propostaci dal sistemismo tedesco, ed in
particolare da Niklas Luhmann. Quest’autore è probabilmente il miglior
riformulatore di un’ipotesi di ottimismo della volontà nel nostro mondo (8).
Ora, l’immagine del mondo sociale qui presentata è, a prima vista, del tutto
paradossale. Essa si vuole infatti completamente oggettiva - ed infatti lo è, in
quanto la comprensione dell’essere sociale è affatto strumentale, tecnica - ma
nel contempo è un immagine pan-etica. Il sistema è infatti autoreferenziale:
quindi la sua oggettività implica la soggettività dell’autoreferenza. Ogni segno
dell’esistenza viene compreso e ridotto dentro la complessità sociale e
l’operazione di riduzione proposta è interna ai segni dell’esperienza, e della

161
totalità dell’orizzonte sociale interpretato dal soggetto. Di conseguenza, la
questione che si pone e che va risolta, è la seguente: quali sono i parametri che
rendono verosimile la selezione della complessità? Che cosa può rendere meno
equivoco - se non univoco - l’essere sociale? E come può la volontà dibattersi
nel caos delle contingenze e dare qualche verisimiglianza alla generosità della
sua pretesa, all’esigenza di efficacia della ragione strumentale? Il problema è
decisivo perché, essendo il referente sociale considerato in termini omogenei,
esclusivi, il fine perseguito non è semplicemente tecnico. Ma che cos’è una
tecnica della morale, una tecnica costretta ad investire l’intero mondo etico, -
una tecnica quindi, non solo del comando bensì del consenso, una morale,
dunque, si provvisoria, ma coestensiva all’intera politicità?
L’ottimismo della volontà dà a questa serie di problemi una risposta quanto
mai ingegnosa - l’operazione di riduzione della complessità sociale è tradotta in
operazione di sostituzione della realtà. Ma, oltre ad essere ingegnosa, questa
risposta è coerente - non potrebbe essere diversa. La morale provvisoria si
presenta infatti nella forma del sistema. Il sistema viene costituendosi attraverso
un processo di riduzione della complessità. Questo processo di riduzione e
produzione di un’immagine oggettiva, dotata di sistematicità interna,
autoreferenziale, che seleziona continuamente gli elementi che sono coerenti –
l’ambiente e la storia possono solo essere recuperati dentro un meccanismo di
riduzione-selezione che l’ottimismo della volontà guida a sostituire la realtà.
L’inversione del rapporto fra ontologia e logica, e la primalità di quest’ultima
- sicché è il senso degli enunciati e delle funzioni a produrre il significato - è
cosa consueta nella filosofia contemporanea, a partire da quella che è stata
chiamata la svolta linguistica (9). Ma non è pacifica - tanto più quando
quest’inversione avviene nel campo dell’etica e investe le burrascose condizioni
di esistenza del sociale. Ma di ciò più avanti. Qui interessa ancora scrivere
come l’ottimismo della volontà possa presumere di organizzarsi in logica
costitutiva del sociale. Questo può avvenire ad alcune condizioni, tutte proposte
da un processo teorico di depotenziamento del reale, di svuotamento ontologico
del mondo. Mentre nelle forme più ingenue dell’ottimismo della volontà il
mondo non è negato ma semplicemente assunto come condizione tragica ed
irresolubile, in queste più sofisticate versioni la volontà si fa rappresentazione.
Il mondo è orizzonte di comunicazione, come tale si organizza in sistema
autoreferenziale - ma questa produzione di significati è inevitabilmente
tautologica - e solo la creatio continua, la continua parousia della volontà
permette la determinazione di elementi selettivi, la riduzione della sfera del
caso, la posizione di proposte innovative. Datosi come sostituzione del reale, il
sistema del mondo trova solo l’ottimismo della volontà come attività che ne

162
allarga la presa nell’orizzonte della vita. E quest’ottimismo della volontà è, per
così dire, reso metafisico - perché è metafisica la progressione del reale come
autoastrazione, come dinamica di strutture e di sistemi dentro i quali ogni
attività soggettiva si oggettivizza e appunto con ciò definisce nuove possibilità
di riduzione-produzione (10).
Che Schopenhauer sia fra le letture di Wittgenstein, è noto -che ne sia anche
il prodotto, quando la filosofia ritorna sul sociale, è interessante. Se in
Wittgenstein il rapporto verisimiglianza-normalità, per quanto pittoricamente
depotenziato, è comunque dato, - nello schopenhauerismo degli epigoni tale
rapporto è radicalizzato: la normalità è e resta inverosimile. La volontà
interviene a far si che il contenuto della comunicazione intersistemica sia eguale
a zero. Ché infatti solo in tal modo le condizioni di tenuta del sistema - è del
suo equilibrio - sono soddisfatte. Non quelle della verisimiglianza ma la
riproduzione della normalità inverosimile. A tal fine e in tale quadro, la
dinamica del sistema non può essere letta che come creazione continua di
emergenze determinate, compensative degli squilibri, - atto di volontà.
L’ottimismo della volontà è eroicamente irrazionale. Il sociale è astratto sul
ritmo creazionistico della volontà: produce sostituzione astratta di/per una realtà
ridotta. Un romanticismo forte costituisce pallide formazioni logistiche. Il
misticismo è totale. Mentre il pessimistico realismo dei primi ripetitori
dell’aforisma considerato poteva dirsi cinico - ed il cinismo può anche essere
forte nel comportamento beffardo e sprezzante della realtà che talora mostra -
qui il sistema è illusionistico, eine Schwärmerei.
(E se invece, di contro, il processo di astrazione della realtà fosse un processo
reale e razionale? Ma di questo più tardi).
Qui affermare è togliere. L’ottimismo della volontà diviene qui una
formalistica autoproduzione, un’equivoca hegeliana Aufhebung - esasperazione
irrazionalistica e volgare del salto in avanti come salto mortale. La diafana
figura del sistemismo non ha più neppure la curiosa concretezza del gioco e del
divertimento, dell’astuzia e del compiacimento estetico. L’astrazione è
simulazione, è sostituzione della realtà. L’autoastrazione è autocostituzione, ma
illogica, vuota. Asylum ignorantiae. Mai la volontà ha tanto disperatamente
opposto la propria pretesa di rappresentazione, il proprio frenetico bisogno di
spostamento, di annullamento e/o di sostituzione del reale - alla prassi concreta,
collettiva e costitutiva, razionale. In questa riforma del modello aforistico del
pessimismo della ragione e dell’ottimismo della volontà precipitano tutti i
motivi irrazionalistici della crisi contemporanea. La linea Schopenhauer-
Wittgenstein si conclude nel sistemismo. E questo precipitato raccoglie tutte le
espressioni teoriche dell’ottimismo della volontà cieca (11). Come un impluvio

163
dai mille canali. Si sa tuttavia quanto gli equilibri ecologici siano corrotti. Vuol
forse dire questo che nell’impluvio sistemico, talora divenuto latrina di
periferia, specchi il suo faccione anche la continua tentazione fascista e
autoritaria? E’ comunque certo che nell’attuale crisi della democrazia
l’ottimismo della volontà nutre un’autonomia del politico che è tensione di
progetto totalitario. Il Politico ha come obiettivo la riproduzione di se stesso in
fondo completamente indipendente - esso assorbe tutta la realtà, per sostituirla a
sua immagine e somiglianza. Per tenerla nell’inverosimiglianza e nell’assurdità
della sua normalità.
3. Astrazione, tautologia, costituzione.
La realtà esiste. E’ anzi possibile considerare il processo di astrazione del
reale come un processo (reale) di nuova costituzione del mondo. Contro le
teorie sistemiche, le teorie linguistiche rappresentano un tramite per afferrare la
sostanza ontologica del mondo astratto nel quale siamo costituiti.
L’autoastrazione del reale è un processo reale. Proprio perché esso è reale
non conclude alla tautologia - in nessun caso. Noi possiamo trasformare in
tensione reale la tensione teorica propria dell’analisi sistemica a confronto con
l’ambiente e con la storia. Quella tensione che nel sistemismo è continuamente
frustrata nel fittizio dualismo di teoria e realtà, di sistema autoreferenziale e
pratica di sostituzione - noi possiamo coglierla in termini reali. Di qui l’effettivo
progresso conoscitivo che una mistificazione epistemologica (quale la
sistemica) può comportare. Ora, possiamo dunque registrare alcune novità
conoscitive che non l’ottimismo della volontà ma la forza della ragione
dovranno verificare.
Il primo punto consiste nella definizione dello stesso processo di
autoastrazione del reale, e cioè della realtà sociale. Poco ci interessa qui
strappare la maschera idealistica imposta al processo: è utile e sufficiente
sottolineare alcuni caratteri formali del processo stesso (per intenderci che
ritroviamo fondati nell’analisi del processo di sussunzione capitalistica della
società produttiva e nella trasformazione della qualità del lavoro produttivo)
(12). Ora, nel processo di autoastrazione del reale la distinzione fra soggetto ed
oggetto viene meno. Conseguentemente, il rapporto fra logica ed ontologia si
appiattisce, si ristruttura su un orizzonte di reciproche funzioni. L’articolazione
interna della realtà astratta è posta nella circolazione di ipotesi logiche e di
costituzioni ontologiche - formalmente funzionali. In secondo luogo, date
queste fondamentali qualificazioni dell’astrazione sociale, ne viene che ogni
problema epistemologico riguardante lo statuto di corrispondenza fra il pensiero
ed il reale, fra il dover essere e l’essere, è tolto. La distinzione fra giudizi
descrittivi e giudizi valutativi, capo delle tempeste di ogni epistemologia etica e

164
di ogni deontologia politica, è anch’essa tolta. Il problema epistemologico è
sostituito dall’analisi formale della circolazione sistemica. I soggetti si
presentano fuori da ogni possibilità di collocazione sistemica che non sia
puramente connotativa - onde, per esemplificare, l’approccio sistemico non si
ritiene contraddittorio con quello dialogico-mutualistico. In terzo luogo, quindi,
le esigenze delle teorie della comunicazione e delle teorie dell’interazione
comunicativa sono accolte e rese rigorose dall’appiattimento ontologico di ogni
pretesa trascendentale sul terreno logico e funzionale (13).
Ora, se nel paragrafo precedente ho sottolineato come l’orizzontalità e
l’equipollenza di ogni dimensione del quadro sistematico non possano essere
vivificate se non da un rozzo procedimento volontaristico, da un decisionismo
solo sofisticato da una lettura creazionista, continuata, - e quindi come la
mistificazione consista nella volontà di nascondere le contraddizioni reali, gli
antagonismi della prassi, addirittura nella volontà di distruggere la prassi per
esaltare la pura determinazione irrazionale del dominio - qui va detta la ragione
per la quale questa sortita reazionaria nella teoria politica è comunque
interessante e portatrice di novità conoscitive. Va detto perché essa ponga un
problema del tutto reale.
Il fatto innovativo, e problematico, consiste in ciò che l’autoastrazione della
realtà sociale non è una tendenza ideale ma un processo reale - un atto
costitutivo dell’ontologia sociale. Da questo punto di vista è forse interessante
notare che alcune conquiste fatte, in forma estremamente più matura,
estremamente più forte, dalla logica contemporanea nel suo sviluppo, possono
valere come referente analogico nel chiarimento del problema registrato dal
sistemismo. Alludo al fatto che, nella vicenda della logica contemporanea ed
all’interno della sua svolta linguistica, abbiamo sia l’integrale riduzione del
mondo ad un orizzonte comunicativo, sia la perfetta identificazione dell’ordine
delle relazioni semantiche (indicatrici di realtà) e dell’ordine delle relazioni
costitutive (costruttive di senso). Questa è una trascrizione ottimale del processo
di autoastrazione della realtà sociale - nella misura stessa in cui questo processo
si offre all’intera estensività e all’interna elasticità del rapporto fra senso e
significato, trasferendolo sull’orizzonte della comunicazione collettiva, di
soggetti collettivi, di classi d’individui. E quella linguistica è anche un’ottimale
definizione dei nuovi orizzonti della pratica, dove non gerarchie ma solo
antagonismi lineari possono presentarsi. Sicché l’autoastrazione del reale non
eguaglia il mondo se non come orizzonte, nel mentre, su questo stesso
orizzonte, apre la possibilità della paritaria espressione delle potenze reali. Gli
universali si presentano fra 1 mondo e la vita a dimostrare la possibilità di una
loro realizzazione.

165
Ma perché questo avvenga è necessario che il rapporto fra astrazione e
tautologia sia sciolto. E lo è soltanto nella misura nella quale l’astrazione della
realtà sociale non subisce la violenza di una formalizzazione depotenziata e
depotenziante, del misticismo della forma - prodromo del volontarismo,
dell’ottimismo della volontà, della stoltezza del decisionismo. La logica
linguistica prefigura le avventure del formalismo e del funzionalismo sistemici -
mostrando essa stessa, come quest’ultimo fa, la potenza dell’astrazione sociale -
ma nello stesso tempo indica la diversione pratico-ideologica e la distorsione
dell’astrazione quand’essa acceda alla prospettiva formalistica. La logica
linguistica riesce a dimostrare queste distorsioni non certo perché sia immune
alle urgenze della pratica, quanto perché essa, nella sua storia, ha subito le
tentazioni del misticismo della forma, e se ne è liberata, sentendone l’intera
impotenza - ed avvertendo che l’ottimismo della volontà sta alla radice di
quest’impotenza ed è estraneo e nemico al pensiero. Negli sviluppi
postwittgensteiani della filosofia linguistica non assistiamo dunque ad una
rifondazione del Logos, sulla cui crisi si instaurano egualmente il misticismo
teoretico (pessimismo della ragione) e il volontarismo ascetico (ottimismo della
volontà) - assistiamo bensì ad una dislocazione universale del pensiero e del
sapere, del soggetto e della comunicazione, della ragione e della volontà.
Nell’intrecciarsi con il significato il senso si fa potenza - e il mondo si avvia a
riconquistare la vita (14).
Nella sistemica etico-politica l’astrazione del mondo si fa invece tautologia
della vita - scienza del potere e negazione pratica della vita. Che, astraendosi, la
vita divenga più potente del mondo, l’ottimismo della volontà non lo vuole. Che
il sapere sia costitutivo, che la sua potenza sia autodeterminazione esclusiva del
potere, l’ottimismo della volontà non può accettare - sarebbe una contradictio in
adjecto poiché l’ottimismo della volontà è in sé sovradeterminazione. Che il
concetto di volontà debba essere inteso come variante della ragione collettiva,
produttiva, costitutiva - l’ottimismo della volontà non può soffrirne perché le
dimensioni scettiche della sua fondazione si son fatte pratica di cinismo, lotta
contro la vita, condizione di separazione.
Nel processo di autoastrazione della società il mondo si è fatto invece mondo
etico, l’essere si è rivelato come essere etico - e comunicazione ed antagonismo
si rivelano a loro volta come potenze orientate al fine di identificare,
qualificare, svolgere le dimensioni collettive della riproduzione dell’essere. La
logica contemporanea ci ha condotto su quello stesso bordo della
determinazione etica che l’autoastrazione del sociale ha costituito. L’ottimismo
della volontà tenta di combattere questo salto dell’essere, di negarlo non nella
sua effettualità ma nel suo significato - di imbalsamarlo come tautologia,

166
astrazione vuota, impotenza (15).
4. Sul bordo trascendentale delle strategie etiche.
La teoria critica, che rinasce a fronte della crisi delle teorie sistemiche, cerca
di costituirsi in orizzonte trascendentale. Ma l’orizzonte trascendentale, così
come ogni altro orizzonte di mediazione, rivela un deficit critico: esso non
riesce a cogliere quel reale che si è costituito in potenza etica, poiché alla
potenza oppone la mediazione e all’etica il formalismo. Il criticismo non va al
di là del postmoderno.
Tutte le condizioni a che l’orizzonte << avalutatività-decisionismo >>, <<
pessimismo della ragione-ottimismo della volontà >> sia distrutto e rovesciato,
sembrano a questo punto date. Ma distruzione e rovesciamento non si danno. La
filosofia contemporanea è come ipnotizzata dal vuoto della << sussunzione
reale >>. Sia sufficiente, in proposito, guardare ad uno dei tentativi più
interessanti che - presupponendo l’eclissi della ragione su questo livello di
astrazione del reale - è stato proposto: il tentativo neocritico di Habermas (16).
Ora, la ricostruzione di un orizzonte unitario, qualificato in termini linguistici e
comunicativi, non va oltre (nella maggioranza dei casi) la proposta di una
dinamica trascendentale che si ponga fra referenza, universale ma vuota, del
quadro globale ed iniziativa, razionale ed etica, dei soggetti. Questa dinamica è
centrale nelle configurazioni teoriche à la Habermas (17): è un intreccio di
strategie soggettive che, nella loro complessità intercomunicativa ed
istituzionale, insieme alludono e formano un quadro trascendentale. Il
trascendentalismo è qui connotazione delle condizioni attraverso le quali le
strategie comunicano, formano cioè quel tessuto di consenso, di universalità che
è - appunto - lo sfondo necessario della comprensione interumana ed
intrasistematica. V’è di più: il trascendentalismo cerca fondamento ontologico,
o almeno uno spessore ontologico. E’ dentro questa tensione verso i livelli
ontologici, verso i soggetti agenti, che le condizioni trascendentali del sapere e
della volontà si attualizzano e che i valori si pongono - come sintesi di
comunicazione e come prammatica funzionale. Al funzionalismo obiettivo delle
teorie sistemiche viene così opposta la forzatura critica di un funzionalismo
soggettivo che intende dare all’orizzonte sistemico consistenza trascendentale e
ricondurre la validità al valore. Il bordo trascendentale del sistemismo è portato
su un limite cui tende la molteplicità delle azioni individuali, su un centro cui si
imputa il significato delle azioni dei soggetti. L’ottimismo della volontà sembra
quindi voler uscire dalla frustrazione di una mancanza di referente
trascendentale e liberarsi dal cinismo cui tale mancanza lo condanna.
Ma questo volere è ontologicamente debole e in definitiva impotente. Può il
criticismo rappresentare i processi di autoastrazione della realtà sociale? Se la

167
variante sistemica del formalismo si chiude in una dichiarazione di impotenza e
nell’incapacità di produrre innovazione, la variante criticistica è non meno
bloccata: il limite fra prammatica soggettiva e orizzonte trascendentale ha le
stimmate di tutti i cattivi infiniti del pensiero filosofico. Sicché il criticismo del
nostro tempo vaga continuamente fra la presupposizione fenomenologica e
preriflessiva della legittimazione del valore (e solo in tal modo la
comunicazione diviene possibile) e la determinazione quasi dialettica
dell’implicazione istituzionale di evidenza e di validità, di coscienza e di
intersoggettività (e solo in tal modo senso e consenso si presentano come
verità). Ma queste relazioni non sono mai chiuse. La << cosa in sé >>, oggi
presentata come << altro >> mondo << in sé >>, resta irraggiungibile. Ogni
tensione verso il livello ontologico resta << tensione >>, << intenzione >>, <<
tendenza >>. Il criticismo non può cogliere il reale - dal reale astratto che è
venuto costituendosi davanti a noi esso resta solo confuso.
Quando si trascorre dal terreno della riflessione epistemologica a quello della
riflessione etico-politica, il dilemma è altrettanto insolubile, ed il pensiero
risulta inabile a districarsi dal cattivo infinito, e lo spazio fra potere e comunità,
fra legittimità e legittimazione è tanto confuso quanto indistinto. Il deficit del
criticismo consiste nella fatica di fissare un rapporto sempre aperto alla
ridefinizione dei referenti, delle polarità: un orizzonte trascendentale che
tuttavia, quando assume consistenza, riduce i soggetti a pure utenze, - un
orizzonte dei soggetti che quando si sostanzia in strategie adeguate, perde ogni
punto di orientamento. Qui, allora, l’ottimismo della volontà (che non è voluto)
è subito, è una costrizione cui il fallimento della mediazione induce.
Ma non è questo il destino di ogni filosofia della mediazione? E che senso ha
più porre il problema della mediazione a fronte dei dislocamenti che la realtà
sociale ha determinato nel suo processo di autoastrazione? L’autoastrazione
sociale comprende la mediazione, la subordina, la sostanzializza come
caratteristica della crisi del valore umano di ogni sintesi sociale, come risultato
dello sviluppo della ragione strumentale (18). A che pro reintrodurre la
mediazione quando è dalla conclusione tragica dei suoi processi che
l’ottimismo della volontà è stato costretto a dare irragionevole prova di sé? A
che scopo accedere a questo depotenziamento ontologico, che il criticismo e il
trascendentalismo dimostrano, quando la mediazione (nella finezza kantiana,
nella forzatura hegeliana) ha mostrato l’incapacità di afferrare l’essere - e con
ciò ha indotto irrazionalismo e crisi? (19).
Il criticismo contemporaneo, ridotto sul limite del significato umano
dell’agire, sul fronte del quale la legittimazione non può più essere data
attraverso la tecnica, tenta di riconquistare un orizzonte di mediazione

168
trascendentale attraverso la comunicazione. Ma la comunicazione non può
essere metacritica, non può essere fondativa. Essa è il terreno su cui esercitare
la critica. E’ il risultato dell’autoastrazione del reale, è tessuto ontologico. Le
parole sono enti. Il mondo è l’essere parlato e riprodotto nella comunicazione.
La vita è la lotta che si sviluppa in questo ambito, ed è crisi e trasformazione.
Sul terreno della comunicazione si mostrano le potenze dell’essere, in tutta la
freschezza e la violenza che le caratterizza - strategie, traiettorie, direzioni. Il
rapporto critico << avalutatività-decisionismo >> non può perciò essere
aggredito sul piano di una nuova teoria della mediazione, che inevitabilmente
introduce una metacritica. Una teoria del fondamento - sotto il profilo della
volontà e del suo ottimismo, della sostituzione della ragione con qualche
depotenziato simulacro. Simulazione di fondamento. Ma a che scopo cercare
fondamento? Fondamento di che cosa? Il << trilemma di Münchausen >> è
effettivamente insoubile: ogni filosofia della fondazione ultima cade o nella
regressione infinita o nel circolo logico o nell’arresto del processo di
fondazione (20). Ma se il dilemma altro non fosse che la descrizione della
nostra realtà? Perché è scetticismo accettare che questa realtà linguistica e
comunicativa fissi la sua verità non nel fondamento ma nella sua mancanza?
Sulla apertura delle infinite strategie che sul bordo dell’essere s’affacciano nel
tentativo di costruire la vita? Lo scetticismo è un dato certo - è l’universo
mondano che viviamo. Di qui comincia la filosofia - il pensiero comprende le
proprie condizioni come struttura dalle infinite aperture e queste condizioni
sono ontologicamente varie ed instabili - descrivibili in termini tradizionali
riferibili allo scetticismo. Ma perché mai questa condizione dovrebbe fissare il
pensiero dell’impotenza? Perché mai contingenza dovrebbe essere negazione
della ragione? (21) Di contro, sul suo bordo trascendentale, la strategia etica,
come interazione comunicativa, trova ed accetta e lavora sulla crisi di ogni
orizzonte trascendentale. La trascendentalità, l’universalità è compresa in una
istituzionalità che è precostituita - condizione pregressa di costituzione. In
un’istituzionalità che non è altro che immersione nel mondo della vita da parte
dei soggetti, corrispondenza del mondo del pensiero con il mondo della vita e
tensione verso la costituzione di altri spazi di vita e di pensiero (22).
Il funzionalismo soggettivo, le filosofie dell’interazione comunicativa non
sono dunque altro che soluzioni oblique e contraddittorie rispetto ai problemi ed
alla descrizione del mondo che il funzionalismo oggettivo, il sistemismo (nella
grande svolta linguistica della filosofia contemporanea) ci consegnano,
mistificandoli. Anche le filosofie dell’interazione comunicativa colgono brani
di questa problematica - rivendicando il ruolo della soggettività. Ma che
soggetto è questo che ci consegnano? Un soggetto che va ancora a cercare
mediazioni critiche, trascendentali, indeterminate, indefinite... No! Di contro, il

169
soggetto nasce già dentro un nuovo assoluto livello di autoastrazione della
realtà. Non abbiamo bisogno dell’ottimismo della volontà - perché siamo
finalmente a contatto di un nuovo orizzonte ontologico.
5. Comunicazione, antagonismo, soggetto.
L’equivalenza del termini dell’universo della comunicazione è indifferenza.
L’indifferenza può essere rotta solo dall’antagonismo soggettivo che attraversa
quest’universo. La stessa definizione del soggetti è derivata dall’antagonismo.
L’antagonismo è creativo della soggettività ma, contemporaneamente, è
costituzione dell’etico. Ottimismo della ragione e, forse, pessimismo della
volontà.
Se tuttavia pensiamo in termini di autoastrazione e consideriamo il soggetto
come iscritto nel solito mondo della comunicazione linguistica, di nuovo
paradossalmente possiamo trovarci dinanzi all’opportunità di utilizzare come
strumento di orientamento etico i comportamenti prescritti dall’aforisma sul
pessimismo della ragione e sull’ottimismo della volontà. Essere investiti dalla
totalità dell’autoastrazione significa infatti sentirsi parte della totalità del mondo
della comunicazione, articolazione della mano immateriale che lo regge,
organismo di questo mare profondo. Dentro la serie infinita delle relazioni che
si stendono attorno a qualsiasi punto di questo universo, dentro i rapporti che
costituiscono i poteri, solo una limitazione - si argomenta -della pretesa
razionale può permettere al soggetto di orientarsi. La pretesa alla percezione
della totalità dei nessi sarebbe impensabile, comunque impraticabile.
L’orientamento è possibile a partire dalla razionalità limitata, dalla attenta
discriminazione di ogni effetto perverso che si può comunque produrre,
dall’investimento strategico delle contingenze. Occorre epistemologicamente
arrangiarsi: pessimismo della ragione (23). Ma su questo orizzonte contingente
la volontà può muoversi con moderato coraggio e prudente consapevolezza.
Non si dà morale - non c’è una morale di principi - c’è però una morale
casistica, non teleologica, interamente riassorbita nell’orizzonte della
probabilità. La totalità del quadro relativistico non si presenta qui come chiave
di sovradeterminazione, non produce la sensazione che la totalità possa
inquinare e contaminare il mondo, - che quindi si tratti di sottile ma efficace
mistificazione e della dimostrazione di un’interiorizzazione inerte del
totalitarismo nei soggetti. Quel che è proposto è un attivo senso morale, scettico
e insieme fiducioso. Alla Montaigne (24).
Questa conclusione non sembra tuttavia sufficiente ad escludere qualche
surrettizia forma di ottimismo della volontà né a garantire che nuovamente non
si imponga il coestensivo sofisma del relativismo e del totalitarismo. E’ una
metodologia di prudenza ontologica quella che qui è proposta - piuttosto che

170
una esatta percezione dell’impatto dell’essere astratto.
D’altra parte - lo ripetiamo - rifiutare l’impatto dell’autoastrazione della
realtà sociale è impossibile. Non è possibile dimenticarne o trascurarne le
dimensioni oggettive, presenti. E allora tanto vale affrontare di petto,
direttamente, con forza, questo mondo. Ed accettare di muoversi su questa
superficie della totalità. Accettare la sfida ontologica. Percorrere questi spazi in
termini non formati significherà allora accedere ad una serie di atti di
discriminazione, di rottura, di separazione. Di antagonismo - quindi di
individuazione, dal di dentro, di quel tessuto astratto nel quale solo esistiamo.
Intendo dire che il processo di individuazione, di autoidentificazione dei
soggetti collettivi si offre solo attraverso una riflessione di separazione, di
autodefinizione corporale, di autodeterminazione materiale (25). L’atto di
autoriconoscimento non è quindi rivolto alla totalità dell’autoastrazione - certo,
si scontra con la mistificazione ideologica di questa e mostra a totalità come
tessuto nel quale siamo e nel quale dobbiamo separarci [separarsi ?] per esistere
- ma è l’intensità della separazione, la forza di riconoscimento dell’antagonismo
che ci costruiscono come singolarità - come soggetti.
Ora, se operiamo una sezione sincronica del tessuto dell’autoastrazione reale,
o di un suo tratto (per essere più realisti), noi scorgiamo punti di
autoimputazione, potenze di autovalorizzazione, dimensioni di libertà. Se
operiamo la sezione su un tratto diacronico noi scorgiamo percorsi di conflitto
da parte dei soggetti che si sono liberati da ogni relazione dialettica con la
totalità - che della totalità esigono tuttavia di essere coestensivi perché il loro
sviluppo è etico e politico assieme. Queste strategie ontologiche soggettive
sono collettive - presuppongono l’autoastrazione come ambito di produzione,
riproduzione, circolazione e in essa fondano eticamente il loro riconoscimento
politico e il loro costituire nuovi margini, nuovi spazi dell’essere. Su quella
superficie dell’essere che l’autoastrazione ha determinato - ivi si scontrano
soggetti che hanno una corporeità determinata. Il conflitto non è di valori - il
conflitto è di soggetti. Solo l’ideologia e la mistificazione continuano (e, se lo
possono, forzosamente) a imporre conflitti di valori, - l’etico e il morale, il
morale e il politico, scene di fantasmi - e, a fronte del continuo riemergere di
corposi soggetti e di forze collettive, a rotolarsi nel sudiciume della privatezza e
nei residui del foro interno, - nei patemi del privato e dell’individualistico.
Una sola osservazione, in aggiunta a quanto fin qui detto. Noi siamo abituati
ad una serie di contraddizioni che qualificano la nostra esistenza
nell’immediato: coercizione e libertà, comando e obbligazione, capitale e
lavoro, ecc. Ora ci troviamo nuovamente davanti a queste contraddizioni (che
nessuna rivoluzione è riuscita a strappare alla realtà) - ma esse sono

171
profondamente mutate - perché sono state dislocate sul terreno astratto
dell’essere sociale. Come appaiono dunque? Esse appaiono solo quando la
soggettività le ha riqualificate a questo livello. Queste contraddizioni non sono
superate ma solo dislocate. Trasformate, - in una dislocazione che rischia di
farle divenire ambigue ed insensate - postmoderne? No, qui la soggettività (essa
stessa dislocata) le recupera al significato dell’esistenza, al senso dell’essere,
all’etico (26). L’etico - hegelianamente il morale e insieme il politico - è vivere
nella totalità del mondo e conoscerlo, è vivere conoscitivamente gli
antagonismi fra soggetti che qui si pongono. Vi sono tante etiche e tante
politiche quante sono le emergenze soggettive - attraverso l’esperienza del
quotidiano scontro fra questi soggetti la realtà si costituisce e nuova realtà viene
creata. Il pessimismo della ragione non ha più senso - a questo punto - poiché
questo emergere di realtà soggettive è costituito di essere - un essere che cresce.
L’ottimismo della volontà è altrettanto insensato perché la volontà non può
costituire essere, cogliendo se stessa come elemento di compensazione della
mancanza di razionalità. Al contrario, la ragione piantata nell’essere dei soggetti
collettivi è chiamata ad esprimere valori assoluti nel conflitto. Il conflitto è fra
valori assoluti, collettivi, produttivi, e che pretendono di essere forze costitutive
- (se ci è qualche pessimismo possibile, questo può essere attribuito solo alla
volontà, poiché essa scontra l’assolutezza del conflitto e conosce l’ampiezza, la
trasversalità e l’asprezza del conflitto e dei percorsi del conflitto). Vince chi ha
più contenuti di razionalità sui quali formare la comunicazione, - l’antagonismo
si prova su assi che mostrano (poiché l’autoastrazione è determinata) la più alla
concretezza corporea. Il rifiuto della totalità ideologica, della fluidità delle
posizioni, delle mediazioni, giunge così a rappresentarsi l’assunzione della
comunicazione come unico orizzonte reale. E solo la verità può dominare,
sovradeterminare la comunicazione.
Ma ogni affermazione di verità è un conflitto ed ogni conflitto è un crescere
dell’essere, un suo nuovo, ulteriore costituirsi. Sapere aude! Ottimismo della
ragione quindi in quanto costruzione continua dell’essere; pessimismo della
volontà, perché questo costituirsi - attraverso la molteplicità etica - filtra
antagonismo e deve sempre riplasmarsi sulla continua e diversa multiforme
emergenza del mondo e del soggetti. Prodotto e produzione, produzione e
riproduzione e circolazione. Ogni cinismo è tolto. La forza della ragione è tanto
più luminosa quanto più si dà altezza nel conflitto. La ragione è reale perché
attraverso. Il conflitto dei soggetti costruisce realtà. L’errore, la falsità sono
elementi della volontà, debolezza e falsi percorsi. Il realismo della ragione
attraversa discontinuità e dialogo: nessuno potrà mai subordinare la qualità
della verità alle modalità delle sue espressioni. Realistica è la ragione quando
costituisce essere - in quanto attraversa la posizione di nuova vera, allarga la

172
dimensione della comunicazione e del conflitto. E disloca continuamente in
avanti l’intelletto collettivo. Non semplicemente a scoprire l’esistente ma a
creare nuovi spazi di esistenza. Nuova materia, nuova realtà comunicativa,
comunità razionale. Così la ragione procede.
Non vale certo la pena di parlare di illuminismo o di neoilluminismo - poiché
la forza che si muove non trascende il mondo come illuminazione - il mondo
non è trascendibile - il mondo è creazione continua dell’intelligenza collettiva,
attraverso gli antagonismi dei soggetti che dell’intelligenza collettiva sono i
portatori. Né questo processo ha caratteristiche teleologiche - solo casualità
materiali, produttive - e l’assolutezza della ragione non viene meno né muta
nello scambiare l’obiettivo o finalità. Perché la ragione e l’essere sono lì - e
l’essere è razionale solo nella misura nella quale la ragione lo costituisce - i
soggetti, l’antagonismo, la comunicazione: questo mondo è quello che
possediamo e con infinita pazienza e con infinito realismo continuiamo
nazionalmente ottimisti a trasformarlo, a costruirlo (27).
6. Ottimismo della potenza.
Il rovesciamento del paradigma aforistico fin qui considerato non ci introduce
in un mondo ideale né sfiora l’utopia. Al contrario, ci inserisce realisticamente
nel territorio etico dell’assoluta contingenza. L’uomo ha costruito la possibilità
della distruzione dell’essere, la potenza umana si è ingigantita fino a
confrontarsi assolutamente con il non essere: come porre il problema etico,
quello politico e quello della produzione su questo orizzonte?
Il conflitto si presenta dunque, nel mondo della comunicazione, come
conflitto fra diversi soggetti etico politici. E si presenta laddove, nel ricostruire
in ogni momento il mondo, pratiche determinate oppongono l’un l’altra scenari
di valore - le pratiche oppongono assolutezza e richiedono essere. Verità,
valorizzazione, legittimazione si danno nell’esperienza che è prodotta dai
soggetti collettivi. Se il passato ha il segno della necessità perché l’azione dei
soggetti si è compiuta, l’avvenire ha il segno della potenza. Diverse dimensioni,
paradigmi globali del sapere e della vita si oppongono su questa scena - e si
dislocano e continuamente ridefiniscono orizzonti di totalità. Ma questa totalità
null’altro è che l’universale della comunicazione, la sua possibilità in atto (28).
Cerchiamo di vedere qua li siano i punti attorno ai quali i soggetti collettivi,
in questa fase dell’astrazione dell’essere sociale, su questo bordo dell’essere
determinato, soprattutto si scontrano. Punti fondamentali, cifre, scadenze
dell’essere. Ora, a me sembra che - nella compatta sfera della comunicazione,
laddove il mondo per acquistare senso si svolge nella vita - si presenti un
enorme contesto di tendenze e di antagonismi, un tempestoso orizzonte di forze

173
costitutive. Noi possiamo solo indicare, come se si trattasse di descrivere uno
spettro ottico, le fasce fondamentali di opposizione - quando le fonti luminose
che dai molti soggetti collettivi promanano, si incrociano nella sfera della
comunicazione. Nell’ordine logico, che dalla parzialità del mio punto di vista
riesco a determinare, mi sembra che attorno a tre punti, fondamentalmente,
valga la pena di soffermarsi - il conflitto sul terreno della sopravvivenza del
genere umano, il conflitto sul terreno della convivenza dei soggetti, e infine il
conflitto che investe le forme della produzione e della riproduzione del mondo.
Ognuno di questi conflitti è determinato dalle potenze dell’essere esistente, su
un piano di radicale innovazione della problematica filosofica. Il dislocamento,
l’autoastrazione del mondo non è un processo di essenze ideali ma una
determinazione di potenze materiali. La distruzione del mondo è solo oggi
divenuta possibile: è fuori di dubbio quindi che la soppressione del mondo e
della vita, l’attualità dell’essere stesso, rappresentano un problema qualificato in
termini specifici da quella possibilità. Il problema della convivenza dei soggetti
e delle norme costituzionali del loro rapporto è - in secondo luogo -
completamente innovato dalle condizioni astratte nelle quali il rapporto
formalmente si costituisce e dalla caduta di ogni possibilità di gerarchia e
subordinazione che ripeta la tradizione del dominio.
E’ necessario allora identificare una nuova sovradeterminazione globale? E’
cosa possibile? E, se no, come tutto induce a ritenere, qual’è la forma della
libertà e della comunità fuori da ogni orizzonte e determinazione
dell’obbligazione? << Legitimation durch Verfahren >> - in queste condizioni
irreversibili di eguaglianza, o di equipollenza, di trasversalità, di potenza dei
soggetti collettivi che cos’è? (29) E infine in terzo luogo, il terreno della
produzione e della riproduzione materiali - delle libertà soggettive e dei nuovi
diritti soggettivi che competono ai soggetti a questo livello di astrazione
produttiva e di composizione materiale (30). Questo ordine di problemi è
proprio della ragione: in essa le alternative si presentano nettamente e i diversi
sensi delle opzioni, fra distruzione e desiderio di sopravvivenza, fra desiderio di
sopravvivenza e creatività sociale e collettiva, fra creatività collettiva e norme
di comunità - e fra quest’ultime e la formazione e la riproduzione dei soggetti -
trovano chiarezza e le trafile delle opzioni coerenza. Qui il soggetto collettivo
assume l’assoluto come presupposto - in ciò consiste l’ottimismo della ragione.
Il mondo è attraversato da molte di queste potenze ed il problema della ragione
è quello di investirle e di misurare la propria potenza e quella altrui. Di
avvicinare il proprio corpo all’altrui.
Di contro, qui la volontà riconquistata, in questo ruolo di servizio alla ragione
ed alla sua universalità, un luogo specifico. Che è quello di esprimere la

174
moderata violenza dell’assoluto nella costituzione dell’universo umano.
Cupiditas, dolcezza della trasformazione è quindi pessimismo della volontà.
Ovvero l’assoluto va controllato sull’arco dei desisderi che si stendono fra
assolutezze. Questo controllo la volontà lo esercita dal di dentro dei soggetti
collettivi, - finalmente l’autoastrazione del reale ha appiattito l’orizzonte della
società, rendendolo disponibile solo a matrici di comunicazione lineare.
L’astrazione reale toglie la possibilità di astrazioni funzionali, simboliche,
rappresentative, amministrative. Il terribile imbroglio della volontà generale è
demistificato. L’astrazione reale toglie la possibilità della mediazione. E,
assieme alla mediazione, toglie la possibilità del comando, che solo la
mediazione può costruire. Se si dà comando, esso è solo usurpazione - non
alienazione, in senso tradizionale (poiché alienazione è comunque rapporto
dialettico), bensì violenza e ferocia, perché l’alienazione non è più possibile a
fronte di questi soggetti collettivi e l’ultima possibilità della mediazione è con
ciò caduta. Il pessimismo della volontà è prudenza e realismo - ma non come
ultima variante dell’arte del comando (sicché alla scienza segue il maquillage
estetico della << volontà astuta >>) - bensì lettura scientifica delle potenze dei
soggetti e ricerca continua delle compatibilità delle assolutezze. Il pessimismo
della volontà è distruzione di ogni robinsonata neocontrattualista. Esso dice: not
contract but compact - non affidamento o trasferimento di sovranità, bensì
insistenza istituzionale su corpi collettivi e accordo solo a partire
dall’irriducibilità strutturale dei soggetti (31).
La scienza politica si svolge così fra un polo ontologico ed un polo cognitivo
- e dunque come semiotica del sociale e identificazione ontologica dei soggetti
politici, da un lato, nella dimensione globale del mondo della comunicazione,
dentro l’astratta materialità di cui è composto ciascun soggetto e la concreta
dinamica della sua autovalorizzazione - e questo è il polo ontologico. D’altro
lato la scienza politica è una pratica della volontà, una conoscenza che, a
tastoni, cammina sul tessuto delle interferenze, delle interdipendenze, delle
interruzioni, delle asimmetrie aperte fra i soggetti. La razionalità è dei soggetti.
Alla scienza politica sfugge, quando voglia porsi fra i soggetti, ogni possibilità
di fondazione - e con tanta maggior ragione ad essa sfugge anche ogni capacità
di comprensione, perché la scienza non si dà, essa stessa, come punto di vista
che non sia soggettivo. Solo i soggetti producono attività ed essere. La crisi
delle scienze umane - dalla scienza dello Stato alla scienza economica - nel
nostro tempo è rappresentativa della assoluta estraneità, della vanità della
posizione nella quale esse si collocano nei confronti dei soggetti. Solo la
teologia, in gloriosi periodi di innovazione scientifica, conobbe altrettanti
momenti di sterilità (e di conseguente ferocia). Le scienze umane sono a questo
punto pure e semplici ideologie - ideologie tratte a piena insignificanza dal fatto

175
di instaurarsi come mediazione folle, non radicata e non radicabile, come
tradizione particolare, in un ambito di generale astrazione nel quale la
consistenza e la forza dell’astrazione dei soggetti (e l’impermeabilità del
rapporto fra soggetti) è totale. Solo la ragione, questa corporea potenza di
ciascun soggetto che trasforma l’interesse in identificazione, l’identità in
produzione, la produzione in autovalorizzazione e in autodeterminazione - solo
la ragione, dunque, si presenta al mondo come potenza scientifico-pratica. Il
campo di influenza e l’interferenza che si stende fra vari soggetti è solo un
terreno lasciato all’opportunità ed alla moderazione dell’intervento
trasformativo - conoscitivamente solo l’inchiesta vi si pone come registrazione
del reale (32).
Ecco dunque perché a me sembra che l’aforisma tradizionale << pessimismo
della ragione-ottimismo della volontà >> vada semplicemente rovesciato (33).
NOTE
1) Cfr. Paolo Spriano, Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà. Come quella <<
massima >> arrivò fino a Gramsci, in: << Il Corriere della Sera >>. lu nedì 29 ottobre 1984, p.3.
2) Cfr. Antonio Negri, Alle origini del formalismo giuridico, Studio sul problema della forma in
Kant e nei giuristi kantiani fra il 1789 e il 1802, Padova, CEDAM, 1962.
3) cfr. Antonio Negri, Saggi sullo storicismo tedesco. Dilthey e Meinecke, Feltrinelli, Milano,
1959.
4) Se la relazione fra determinismo e volontarismo etico si sia mostrata sotto il segno della
generosità o sotto quello del cinismo, solo il giudizio dei posteri potrà dirci: certamente, tuttavia, la
sofferenza degli uomini non è riuscita a distinguere fra utopia e fanatismo! E se nessuno potrà mai
filologicamente indurre ascendenze kantiane dello stalinismo o di altre pratiche liberticide, troppo
hanno vissuto la tragedia dell’ambiguo rapporto determinismo-volontarismo Di nuovo, sugli effetti
teorici del dualismo kantiano e della tradizione neo-kantiana. cfr Antonio Negri La filosofia tedesca
del Novecento, in: << Storia della filosofia >>, diretta da Mario Dal Prà, vol. << La filosofia
contemporanea: II Novecento >>, Vallardi, Milano, 1978.
5) Per quanto riguarda la scuola weberiana, e la sua decisiva importanza nel definire questi
parametri del giudizio filosofico-politico, cfr Antonio Negri, Studi su Max Weber (1956-1966), in:
<< Annuario bibliografico della filosofia del diritto >>, Giuffrè, Milano, 1967, - ma, soprattutto,
Antonio Negri. La forma Stato. Per una critica dell’economia politica della costituzione, Feltrinelli,
Milano, 1977.
6) Nella discussione sviluppatasi nell’ambito delle correnti neo-marxiste italiane soprattutto
negli anni `70, l’insistenza sull’irriducibilità del politico all’analisi delle lotte sociali è stata spesso
così importante da trasformare quest’insistenza in apologia dell’irrazionalittà e dell’autonomia del
politico. Contro la conclusione irrazionalista si veda, oltre al mio La forma Stato, gli scritti
contenuti in Operai e Stato, Feltrinelli, Milano, 1972; Crisi e organizzazione operaia, Feltrinelli,
Milano, 1974; dove si sono raggruppati. con l’autore di questo scritto. tutti coloro che hanno
rifiutato la tesi dell’autonomia e dell’irrazionalittà del politico. Vede inoltre gli articoli raccolti in
Scienze politiche 1 (Stato e politica), << Enciclopedia Feltrinelli Fischer >>, n. 27, a cura di
Antonio Negri. Feltrinelli, Milano 1970, e Dizionario critico del diritto, a cura di Cesare Donati,
Savelli ed., Roma 1980.

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7) Cfr. Peter Sloterdijk, Kritik der zynischen Vernunft, 2 voll., Suhrkamp, Frankfurt am Mein,
1983.
8) N. Luhmann, Gesellschaftsstruktur und Semantik. Studien zur Wissensoziologie der moderner
Gesellschaft, 2 voll., Suhrkamp, Frankfurt 1980-1981: cito questo volume come punto di
riferimento della critica. Per quanto riguarda la bibliografia di Luhmann, basti ricordare che in Italia
tredici suo volumi (o raccolte di articoli) sono stati editi.
9) Con ovvio riferimento allo sviluppo della filosofia linguistica fra Frege e Wittgenstein. Su
questo sviluppo confronta Michael Dummett, Frege, Oxford, 1973 e Roberta De Monticelli.
Dottrine dell’intelligenza. Saggio su Frege e Wittgenstein, Bari, De Donato, 1981.
10) Mi riferisco qui essenzialmente alla critica sviluppata dal prof. Gustavo Gozzi, che ha
seguito lungamente ed attentamente lo sviluppo del pensiero di Luhmann nella rivista italiana Aut
aut. Ma si veda ancora: R. De Giorgi, Scienza del diritto e legittimazione, De Donato, Bari, 1979 e
soprattutto Jürgen Habermas, Legitimationsprobleme im Spätkapitalismus, Suhrkamp. Frankfurt,
1973.
11) Paradossale è, ad esempio, l’utilizzo che del pensiero di Luhmann si è fatto e si fà
nell’ambito del dibattito interno al Partito comunista italiano. Cfr. in particolare gli scritti di
Massimo Cacciari, e fra questi soprattutto Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo,
Feltrinelli, Milano, 1975. In proposito cfr. comunque il mio Macchina tempo, Rompicapi
costituzione liberazione, Milano, Feltrinelli, 1982.
12) Per lo sviluppo del concetto di << sussunzione capitalistica della società >> cfr, Antonio
Negri, Marx oltre Marx, Quaderno di lavoro sui Grundrisse, Milano, Feltrinelli, 1980.
13) Tutto ciò è completamente sviluppato ne La condition postmoderne di Lyotard.
14) Cfr, Antonio Negri. L’istituzione logica del collettivo e le fatiche dell’estetica, in Aut aut,
197-198, settembre dicembre 1983. Firenze. la Nuova Italia ed., pp. 133-142.
15) Tale è il senso dell’apologia del postmoderno, dello scambio simbolico e dell’indifferenza in
Baudrillard.
16) Di Jürgen Habermas, oltre al già citato Legitimationsprobleme, cfr, il recente Theorie des
kommunikativen Handelns.
17) Vedi in proposito i contributi della scuola habermassiana che sono stati pubblicati nel numero
speciale di Critique, << Vingt ans de pensée allemande >>, 413, octobre 1981, Paris. In particolare
sono interessantissimi gli interventi di K.O. Apel (di cui vanno inoltre visti i due volumi
Transformation der Philosophie) e di E. Tugendhat (di cui è da vedere anche Selbstbewusstsein und
Selbstbestimmung).
18) Da questo punto di vista l’insegnamento di Theodor Wiesegrund Adorno e di Max
Horkheimer resta fondamentale, soprattutto nell’opera comune Dialektik der Aufklärung.
Philosophische Fragmente.
19) George Lukacs, Die Zerstörung der Vernunft, Aufbau Verlag, Berlin, 1953.
20) Il cosiddetto << trilemma di Münchausen >> è stato formulato da K. O. Apel.
21) Com’è noto, al rovesciamento di quest’affermazione è completamente dedicato lo sviluppo
del pensiero di Gilles Deleuze.
22) I Mille Plateaux di Deleuze-Guattari vanno a questo proposito tenuti n massima
considerazione. Il processo di pensiero che nell’opera citata è sviluppato va nel senso della mia
considerazione della crisis e del suo possibile superamento.

177
23) Un simile atteggiamento è soprattutto presente in quello che si chiama << contrattualismo >>
o << neo-contrattualismo >> nelle teorie etiche e del diritto. Il testo fondamentale è naturalmente
John Rawls, A Theory of Justice, Oxford, 1972. Ma sulle recenti fortune di questo rinnovo tematico
cfr, Philip Pettit, Judging Justice. An Introduction to Contemporary Political Philosophy, Routledge
& Kegan. London, 1980. In Italia questa linea ha avuto particolare fortuna nel lavoro di alcuni
filosofi legati al PCI, come Veca, ecc. In generale si tratta, nel dibattito Italiano, di definire una
prospettiva di risposta liberate all’impatto del sistemismo tedesco.
24) In parallelo alle teorie neocontrattualistiche si sviluppa in Italia quella che dal titolo della
recente fortunata collezione di saggi a cura di Rovatti e Vattimo si chiama corrente del Pensiero
debole (Feltrinelli, Milano, 1984).
25) Ho sostenuto questa definizione della soggettività nei saggi politici degli anni ‘70: cfr, in
particolare Crisi dello Stato-piano (1974), Proletari e Stato (1976), Il dominio e il sabotaggio
(1978), tutti pubblicati nella collezione << Opuscoli marxisti >> dell’ed Feltrinelli, Milano.
26) Ho sviluppato questa posizione nel saggio Il comunismo e la guerra, Milano, Feltrinelli,
1980, oltre che nel già citato La macchina tempo.
27) E’ evidente che su questo snodo il mio lavoro teorico si incrocia con quello di storico della
filosofia: cfr Antonio Negri. L’anomalia selvaggia. Potenza e potere nella filosofia politica di
Spinoza, Milano, Feltrinelli, 1981.
28) In questo capitolo seguo l’ordine del ragionamenti e dei problemi sviluppati ne La Macchina
tempo, cit., e soprattutto nel saggio di apertura di questo volume (<< Prassi e paradigma >>) e in
quello di chiusura (<< La costituzione del tempo Prolegomeni >>).
29) La questione è posta essenzialmente da Luhmann. Ma il problema di una teoria della
legittimazione che attraversi e si provi nell’esperienza è ormai assolutamente generale: si potrebbe
dire che nel conflitto tradizionale fra teorie normative e teorie processuali del diritto, solo queste
ultime hanno ormai diritto di cittadinanza. D’altro lato è proprio a questa paradossale conclusione
che giunge il più coerente del normativisti, Hans Kelsen, nel suo ultimo, postumo, formidabile
lavoro Allgemeine Theorie der Normen, Wien, 1979.
30) Che la libertà mantenga un riferimento materiale, che sia impossibile definirla sul terreno
dello stretto diritto, che essa competa alla vita intera dell’uomo, ed alla sua fisicità, - bon, questo mi
sembra il presupposto di quest’approccio e quindi di una polemica continua ed irriducibile contro
qualsiasi filosofia idealistica.
31) Altrove ho cercato di sviluppare una concezione del diritto anticontrattuale ed istituzionale.
In ciò sono stato molto influenzato dalle teorie del federalismo, ed in particolare dal pensiero di
Calhoun. Con quanta antipatia io concepisca la tradizione rousseauiana (con il suo antecedente
hobbesiano e il suo conseguente hegeliano) non starò qui a ripeterlo. Di molto mi ero comunque
avvicinato ad una concezione antagonista del processo costituzionale, oltre che nel mio la Forma
stato, che in parte raccoglie saggi degli anni ‘60, - in La fabbrica della strategia. 33 lezioni su Lenin,
Area, Milano, 1976 (ma si tratta di scritti degli anni `60).
32) In Habermas tutto ciò è chiarissimo. Spesso in lui il trascendentale si diluisce in questa forza
de << fare inchiesta >>, del fare << scoperta di verità >>: la << scuola critica >> in proposito è
fondamentale. Il mio riferimento ad essa, ad Adorno, ad Horkheimer, e soprattutto ai più giovani
autori, da Hans Jürgen Krahl, a Offe, è stato continuo.
33) Intendo dire che il cogito Cartesian deve accompagnarsi alla pietas spinoziana. Cfr. In
proposito A. Negri, Descartes politico, o della ragionevole ideologia, Feltrinelli, Milano, 1970; e <<
Reliqua desiderantur >> Congettura per la definizione del concetto di democrazia nell’ultimo
Spinoza, in: << Studia spinozana >>, à paraitre.

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7. Lenin a New York. Progetto di lavoro.
La lettera zero da Montreal contiene due indiscutibili affermazioni: il vecchio
operaismo era completamente inadatto a cogliere i meccanismi dello
sfruttamento capitalistico del Terzo Mondo; in secondo luogo, esso era incapace
di dare ragione del lo sfruttamento familiare - di quello della donna in
particolare. Si potrebbe forse attenuare il tono della polemica, ricordando che
talora si ebbero momenti di più acuta riflessione sulla vicenda del Terzo
Mondo, soprattutto fra il 1971 e il 1974 in riferimento alla prima crisi del
dollaro e del petrolio: in quel caso la funzione non solo destabilizzatrice bensì
destrutturante del movimenti di liberazione del Terzo Mondo fu adeguatamente
descritta sul livello teorico. Parimenti, si potrebbe ricordare che, oltre la
contribuzione teorica del << movimento per il salario al lavoro domestico >>, si
ebbero (nell’ambito dell’operaismo autonomo negli ultimi anni `70) importanti
analisi sulla funzione del lavoro femminile di riproduzione nell’accumulazione
capitalistica e nella costruzione del valore sociale medio. Ma attenuare il tono
della polemica non significa mettere in dubbio la sua sostanziale correttezza per
quanto riguarda questi argomenti.
Diversa mi sembra la situazione quando la lettera zero affronta, per liquidarlo
definitivamente sia pure ambiguamente, il discorso sul rapporto fra lavoro e
comando. A me sembra che l’analisi della crisi della legge del valore (e di
quella della relazione fra valore e comando) debba condurre non ad
un’eliminazione bensì ad una riqualificazione del rapporto di valore fra lavoro e
comando. Le ragioni per cui non accetto l’eliminazione pura e semplice della
problematica allusa dalla legge del valore sono molteplici. Per dire subito quelle
di carattere politico, eccole. In primo luogo mi sembra che, dal punto di vista
capitalistico, la scienza economica (e quella della gestione) siano attentissime al
pieno utilizzo della legge del valore nelle sue più tradizionali funzioni. Questo
significa che il vecchio materialismo economico continua a funzionare come
scienza settoriale dello sfruttamento. E’ quindi altamente probabile che la critica
di questo comportamento capitalistico continui ad essere politicamente
rilevante. In secondo luogo, quando, dal punto di vista operaio, si scarta la
presunzione classica di conoscenza del mondo di lavoro e, con l’acqua sporca
(legge del valore), si getta anche il bambino (e cioè il tessuto problematico del
rapporto fra lavoro e comando), si conclude normalmente a posizioni
politicamente inaccettabili: di << autonomia del politico >>, e ciò significa di
tradimento socialdemocratico sul lato destro oppure di estremismo terroristico
sul lato sinistro dello schieramento di classe.
Bisogna, di contro, mantenere la centralità dell’analisi del rapporto fra lavoro
e comando. E’ certo che la legge del valore è limitata: essa definisce e fissa la

179
forma del rapporto fra lavoro e comando unicamente per il periodo di egemonia
del lavoro industriale di fabbrica. Storicamente, la validità della legge del valore
si afferma, con difficoltà crescente, nella serie dei cicli dello sfruttamento che
conduce dai primordi della produzione capitalistica al modo di produzione <<
grande industria >>. I meccanismi della << sussunzione formale >> della
società nel capitale permettono, nel medesimo periodo, il funzionamento della
legge per l’intera società. Oggi, invece, come già - nota bene - nel periodo
dell’accumulazione primitiva, la legge del valore non funziona come legge
generale. Può, come abbiamo accennato, costituire una scienza settoriale dello
sfruttamento ma, come già nel periodo dell’accumulazione primitiva, essa non
spiega il modo di produzione né la forma egemonica dello sfruttamento. La
dimensione sociale dello sfruttamento nell’epoca della << sussunzione reale >>
della società al capitale (così come la qualificazione sociale delle condizioni
della accumulazione primitiva) sfuggono infatti alla legge del valore. Ora, se il
fatto che la legge del valore non funziona nel periodo dell’accumulazione
primitiva non ci ha in alcun modo impedito di andare a vedere come e con
quale quantità di terrore e di sangue, l’originario soggetto capitalistico abbia
costruito un nuovo modo di produzione, abbia cioè stabilito un rapporto fra
lavoro e comando che stravolgeva l’antico nesso, esaltando una straordinaria
nuova capacità di estrarre valore, - così oggi, il fatto che la legge del valore non
funzioni a fronte della << sussunzione reale >> non significa dimenticare che al
centro dell’analisi deve restare il rapporto fra valore e comando, cioè il modo in
cui, attraverso sfruttamento, si estrae valore, quail che siano le sue attuali
dimensioni.
E’ chiaro che le questioni da porre sono oggi molto diverse da quelle di un
tempo. Eccone alcune: qual’è la dimensione << americana > o << postmoderna
>> dello sfruttamento? Qual’è la dimensione << americana >> o <<
antimperialista >> della liberazione? Che senso ha parlare di << rifiuto del
lavoro >> nella << sussunzione reale >>? Ecc, ecc. Ma queste domande, pur
spostando completamente l’analisi al di fuori dell’improduttivo formalismo del
valore, implicano tuttavia che il rapporto fra lavoro e comando sia mantenuto
come tema centrale. Siamo probabilmente maturi per sostituire al vecchio
disegno di << Lenin in Inghilterra >> (disegno rivelatosi utile per seguire
dall’interno l’epocale trasformazione che ci ha qui condotti) un nuovo progetto
di ricerca e di pratica sociali << Lenin a New York >>.
Nell’affrontare queste tematiche noi partiamo dal possesso di un ricchissimo
materiale grezzo che riguarda entrambi i poli del rapporto di sfruttamento, sia
cioè il lavoro che il comando. Questi materiali sono grezzi, - ed è bene che
restino grezzi, almeno fino a quando non avremo costruito un’idea direttiva

180
forte per la loro ricomposizione. Ma il fatto che siano grezzi, non toglie la
possibilità, meglio l’opportunità di un iniziale lavoro di riordino. Così, ad
esempio, i temi (a) spaziali della mobilità della forza lavoro, (b) temporali della
flessibilità della giornata lavorativa, (c) qualitativi, e cioè della natura del lavoro
(per esempio, problemi, di definizione della forza invenzione, << general
intellect >>, qualità dell’astrazione, del bisogno, del piacere, ecc.) - tutti questi
temi possono divenire centrali nella definizione strutturale del << rifiuto del
lavoro >> a livello di << sussunzione reale >>. Sia sul piano interno che sul
piano internazionale, sia ad alto che a basso livello dello sviluppo capitalistico,
e nell’integrazione e nella trasversalità di questi piani e livelli. Dicevamo:
definizione << strutturale >> e non soluzione << soggettiva >>, perché non
siamo in grado di proporre quest’ultima, - se fossimo capaci di questo, di
riproporre cioè la tematica del soggetto sulle dimensioni oggi richieste dai
processi di << sussunzione reale >>, significherebbe che il problema della
rivoluzione è ridiventato attuale - il che non è vero. Eppure, il dirompersi
spaziale e temporale del lavoro e del rifiuto del lavoro, l’esaltazione astratta
della loro natura, aprono enormi possibilità e vie di improvvisa maturazione.
Seguiamole, queste possibilità. E nel seguirle, ad esempio, affrontiamo il
problema anche da altri punti di vista. Nella fattispecie, cominciando a guardare
con attenzione pienamente dispiegata, non più intimidita dal feticismo della
fabbrica, la forma capitalistica della costituzione sociale della produzione, oggi.
Temi come (d) la natura del capitale fisso sociale, oggi, ovvero la composizione
organica sociale di capitale; come (e) il nuovo rapporto (e le sue nuove
tecnologie) fra produzione, riproduzione, circolazione, ecc. ecc. - bene, temi del
genere non sono per nulla scontati. Anzi: ed è con tutta probabilità proprio a
partire dalle risposte a questi problemi che si tratta infine di percorrere (f) la
fenomenologia di quel vuoto di conoscenza e di valore che, nel mondo
produttivo, si accompagna oggi ad un pieno di controllo, di repressione e di
minaccia di distruzione - sicché il cervello capitalistico rappresenta oggi
emblematicamente (nel diritto, nella gestione dell’orizzonte monetario, nella
continua riaffermazione dell’autonomia del comando, nel caos dei processi
amministrativi, bancari, ecc.) la crisi di tutte le relazioni fra lavoro e comando,
insomma, di nuovo la crisi della legge del valore, il realizzarsi critico della
tendenza negativa della produzione capitalistica...
Con ciò torniamo alla premessa, e cioè a definire il rapporto fra capitale e
lavoro, fra comando e forza lavoro, in quanto stabilito al di là di ogni relazione
possibile. E si comprende ora perché abbiamo chiesto di non concedere nulla
immediatamente alla teoria della crisi: non vogliamo infatti dimenticare la
figura strutturale della crisi, le dimensioni materiali dei soggetti e delle funzioni

181
che in essa si muovono, perché soltanto questa mediazione conoscitiva ci
permette di assumere l’intera originalità della situazione. Questo è infatti
momento di rivendicazione della logica - nel senso che la crisi non cancella la
logica - cancella le vecchie relazioni che la logica recepiva e santificava. La
crisi cancella quella legge del valore che conoscevamo, non cancella i termini
materiali dello sfruttamento. C’è ancora chi comanda e chi è comandato, chi
soffre il lavoro e chi di quel lavoro gode e si arricchisce. Dunque, fermi i
termini logici del problema, l’originalità della crisi attuale consiste nel mostrare
l’impossibilità di comprenderla comunque in termini dialettici. La dialettica
implica una fenomenologia di rapporti strutturali e simmetrici, qui i rapporti
sono in ogni caso asimmetrici, quando non siano catastrofici. Il sistema dei
rapporti di produzione e quello dei rapporti di potere non si ricoprono
positivamente - quanto a ricoprirsi in << ultima istanza >>, questo può darsi
solo nella figura del ricalco negativo. La negazione dialettica implica un criterio
di omogeneità nel costituire l’opposizione, qui l’opposizione è alternativa. Il
processo dialettico è lineare, qui ogni processo è per definizione discontinuo.
Ecc. ecc. Detto questo, avendo doe nuovamente insistito sulla qualità
ontologica di ogni definizione, possiamo ora concludere che se la crisi appare
come distruzione di ogni relazione, la teoria quindi si presenta come possibilità
di andar oltre ogni dialettica e come necessità di distruggere anche gli ultimi
residui di un linguaggio mistificato che s’insinuava nel nostro desiderio e nel
nostro pensiero.
Nel vecchio operaismo c’era un’idea centrale: quella della composizione
tecnica e politica della classe operaia - e in genere in tutte le classi. V’era poi
un’idea forte, che coronava la funzione dell’idea centrale: ed era quella della <<
libertà >> di funzionamento della forza-lavoro globale, della classe, e della sua
forza di anticipazione dello sviluppo capitalistico. Lo sviluppo capitalistico
andava letto attraverso l’anticipazione operaia. << La macchina corre dove
scoppia lo sciopero >>. Le lotte operaie erano il disegno dello sviluppo
capitalistico e nello stesso tempo erano, di questo, il martello distruttivo. Ora,
quest’idea di composizione e di anticipazione è, nella crisi, pretérita. La crisi
rompe ogni relazione. L’idea di composizione e un’idea ancora dialettica.
Bisogna quindi andar oltre l’idea di composizione. Bisogna rompere la cattiva
dialettica dell’anticipazione (operaia) e dello sviluppo (capitalistico). Bisogna
rompere questa cattiva dialettica stando dentro l’ontologia dello sviluppo.
Quello che è venuto meno è il rapporto, meglio, un certo rapporto fra lavoro e
comando - non i termini che costituiscono questo rapporto. I termini si
ritrovano, reali, indipendenti da qualsiasi relazione dialettica. Contro ogni
dialettica resiste il dolore dell’umanità. E’ su questi termini che si tratta quindi
di lavorare, anzi, su uno solo di essi, sul termine lavoro, forza lavoro, rifiuto del

182
lavoro, - perché questo è il solo che possa essere concepito razionalmente. La
scienza capitalistica, infatti, non essendo per sé produttiva ma solo dialettica e
sistematica, non può essere razionale. Come la crisi dimostra in figura
eccezionale.
Andar oltre ogni dialettica e porre il concetto di costituzione. Vale a dire che
se i concetti di composizione e di anticipazione erano ancora dialettici, quello di
costituzione non lo è più: esso è posto contro la dialettica e la sua fondazione è
alternativa. La costituzione è un processo di composizione e ricomposizione
soggettiva, lotto ad ogni relazione dialettica con l’insieme delle condizioni
oggettive della produzione. Questo non significa negare ogni relazione - ma è
evidente che la separazione del concetto è radicale - e che la separazione è
condizione di ogni costituzione. L’idea della costituzione è quindi l’idea di una
pratica sociale alternativa che ricompone soggettivamente gli sfruttati. Non solo
in quanto tali ma soprattutto in quanto ricostruiscono valori, vita, potere, -
separatamente, indipendentemente, alternativamente.
Per cominciare a chiarire, diciamo subito che l’idea di costituzione non è idea
etica né utopica. E’ invece idea scientifica. Lo è perché presuppone uno
specifico meccanismo conoscitivo che possiamo così indicare: oggi è
impossibile spiegare non solo lo sviluppo capitalistico (che spesso non c’è) ma
nemmeno la semplice riproduzione della ricchezza sociale, senza ricorrere al
concetto di pratica sociale. Vale a dire che, senza la pratica sociale, senza
l’enorme quantità di lavoro gratuito, di lavoro libero che la società capitalistica
raccoglie ed utilizza a glorificazione del suo proprio comando, la società
capitalistica non esisterebbe. La società capitalistica, la società della <<
sussunzione reale >>, vive del dono gratuito di lavoro che i cittadini lavoratori
le fanno. Che tutti i lavoratori, da tutti i settori, le fanno. L’enorme capitale fisso
socialmente accumulato è da tutti curato, ma solo per pochi tutto ciò,
quest’enorme quota di lavoro sociale, risulta fonte di profitto - e di comando. Se
si assumono e si analizzano le quantità di lavoro estorto nel meccanismo <<
normale >> dello sfruttamento industriale e le quantità che invece sono regalate,
dentro informali o semplicemente consuetudinarie regole di organizzazione, alla
società capitalistica ed alla riproduzione del capitale fisso che l’organizza, -
ben, si può vedere di quanto le seconde quantità siano maggiori delle prime. Per
il capitale esse sono semplice << rendita sociale >>. Per tutti i cittadini sono un
surplus di sfruttamento. Questo specifico processo di sfruttamento si allarga
tanto più quanto più i meccanismi della produzione vengono informatizzati e la
forza-invenzione intellettuale diviene << energia >> per lo sviluppo della
produzione.
Da questo punto di vista, e tenendo conto delle quantità che sono in gioco, si

183
può quindi concludere che oggi il lavoro sociale, le pratiche sociali costitutive,
ed anche tutto il lavoro che non è immediatamente soggetto al comando,
rappresentano una norma valorifica produttiva, una norma per la produzione di
valore, che ha, nella società della << sussunzione reale >>, il significato di <<
legge di valore >>. Assistiamo quindi ad una non irrilevante trasfigurazione
della legge, che comporta molte conseguenze. Ad esempio, si potrebbe parlare,
sempre sul terreno generale, di << sussunzione formale >> sotto questa
dimensione per le altre forme di valorizzazione, comunque persistenti nella
nostra società. E’ chiaro, nella fattispecie, che il lavoro industriale è <<
formalmente >> sussunto nel lavoro sociale - esso mantiene infatti le sue
caratteristiche ma non avrebbe valore se non fosse anticipatamente
predeterminato entro condizioni sociali adeguate - e non pagate (grado di
istruzione e di astrazione della forza lavoro, condizioni spazio-temporali della
riproduzione, livello sociale di informatizzazione, ecc.), - quindi, è la pratica
sociale costitutiva che oggi valorizza anche il lavoro della << grande industria
>>.
Ma il concetto di costituzione non conclude la sua azione sul terreno
conoscitivo, fissando cioè solamente la norma fondatrice di una nuova figura
del valore (e della sua legge). Se così fosse ci troveremmo [troveremo ?] ancora
dentro la confusione dialettica nell’epistemologia della liberazione. No, non è
così: il concetto di costituzione è altro - vale a dire che esso è
fondamentalmente pratico, insieme concetto di egemonia e di alternativa.
Chiediamoci allora: quali sono le condizioni di una pratica alternativa sociale
come forma rivoluzionaria nella quale la nuova legge del valore possa
esprimersi nella fase della sussunzione reale della società sotto il capitale?
Ovvero: se il concetto di costituzione è quello di una pratica sociale,
ontologicamente fondata, che costituisce le condizioni di conoscenza
dell’attuale meccanismo dello sfruttamento, - come può esso istituire la
possibilità di una soggettività alternativa e rivoluzionaria?
Vi sono almeno tre linee di ricerca da seguire per dare risposta a questi
interrogativi. Molte di queste ricerche, occorre ricordarlo, sono ad un grado
avanzato di elaborazione - il periodo della repressione non ha impedito il lavoro
di analisi di molti compagni - si tratta ora di raccogliere, centralizzare e
comunicare i risultati.
Dunque: la prima linea di ricerca (A) riguarda i temi che sempre sono stati
propri della lotta di classe: ossia i temi del salario, della divisione della
ricchezza sociale, e soprattutto oggi dell’organizzazione temporale della
giornata lavorativa - insomma, i temi dell’appropriazione. Quale sia, soprattutto
nei periodi di crisi economica, di aumento del dispotismo, di mistificazione e di

184
tradimento da parte delle organizzazioni ex-proletarie, la storia clandestina
dell’appropriazione operaia e proletaria, - ecco, per esempio, un tema di enorme
interesse. Esso apre alla seconda dimensione della ricerca (B): ricerca
sull’alternativa organizzativa in senso proprio, sulla << pratica >> della pratica
sociale, sulla << coscienza sociale >> dell’alternativa. Un più forte grado
ontologico caratterizza questa dimensione di vita collettiva proletaria, che è
forse decisiva per definire una pratica sociale completamente emancipata dalla
dialettica capitalistica. La << pratica >> della pratica sociale prende in conto
una diversa mobilità della forza lavoro, la flessibilità completa della giornata
lavorativa, la modificazione della natura e della qualità del lavoro - le prende in
conto come materiali di un progetto alternativo di costituzione sociale. Non so
se il comunismo sia attuale - certo vive nella coscienza, nei desideri e
nell’azione di tanta gente. Un soggetto rivoluzionario postmoderno non è poi
così lontano da una soglia di definizione. Terza linea di ricerca (C): gli
strumenti della rottura politica dell’irrazionale, dell’unità capitalistica del
sociale, cioè della società capitalistica postmoderna. E’ chiaro che qualsiasi
momento di rottura è, in questa linea, immaginabile solo come momento di
destrutturazione profonda del potere del nemico, come riappropriazione
continua di spazi propri, di ricchezza e di lotta, come approfondimento
sistematico delle asimmetrie della produzione e del potere capitalistici - un uso
cosciente e continuo della crisi. E’ evidente anche che della semplice
destabilizzazione del nemico non occorre parlare - essa è nei fatti, ma proprio
per questo essa è anche controllabile, riassumibile nelle tecniche di
sistematizzazione che il nemico ha messo in atto per la riproduzione
dell’irrazionalità del proprio dominio.
<< Lenin a New York >> non è l’attualità della rivoluzione. Paradossalmente
si dovrebbe dire che la rivoluzione c’è già stata perché movimenti di lotta degli
anni `60 e `70 hanno tolto al capitale ogni capacità innovativa, nel produrre la
ricchezza sociale, e lo hanno condannato all’irrazionalità. La fine dell’Impero è
cominciata. Al di là del paradosso diciamo che la rivoluzione oggi consiste nel
radicare ontologicamente, a livello di massa, egemonicamente un contropotere
che sia alternativa di vita. Non è vero che il possesso del potere sia indifferente
rispetto a questo fine: ma non vi può essere presa del potere se non sulla base di
una destrutturazione profondissima dell’organizzazione sociale del nemico, di
una riappropriazione di massa di spazi e di costituzione alternativa di valori.
Non è d’altra parte vero che il potere lo si possa distruggere solo possedendolo:
è vero piuttosto che per possederlo bisogna cominciare a distruggerlo. Quanto
alla rivoluzione, come esercizio del tutto dispiegato di una << pratica della
pratica sociale >>, essa è più vicina di quanto si possa pensare. Nessuno di noi
ha certezze in proposito - ma è ben vero che l’ubriacatura reaganiana ha

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mostrato a tutti quanto puzzi il potere reazionario e che l’accumulo spontaneo e
profondo del momenti di rottura dell’ordine capitalistico si è nuovamente
avviato - almeno nelle coscienze. E’ al terreno della rivoluzione che ci richiama
direttamente l’analisi del funzionamento dello sfruttamento e della sua crisi nel
Terzo mondo, - un’analisi fondamentale anche per l’identificazione dei temi
della nostra ricerca sulle forme della lotta di liberazione. Su questo terreno (D)
è essenziale una concentrazione ed un approfondimento specifico della ricerca.
Il politico oggi precostituisce il sociale. Lo slogan capitalistico << meno
Stato >> è un idiota << flatus vocis >>, tanto più mistificato quanto più
progressivamente la società è sussunta nel capitale e nel suo Stato. Un’orrenda
falsificazione è, d’altro lato, il concetto di << autonomia del politico >> - questa
quasi nazionalsocialista autodifesa di ceti reazionari o storicamente sconfitti e
superati. Di contro, oggi il politico raggiunge l’apogeo della sua significatività
precostituendo il sociale. Il politico è una dimensione produttiva, una potenza
ontologica. Noi vi siamo dentro, la possediamo e di questa potenza siamo
tuttavia alienati. Dobbiamo forzare la situazione. Dobbiamo considerare il
politico come arma adeguata, dobbiamo costruirlo come contropotere, per
liberare la società. La rivoluzione dei soggetti postmoderni è certo inattuale -
come lo è la primavera nei mesi invernali.
Propongo a me stesso e agli altri amid di lavorare congiuntamente sui temi (a,
b, c, d, e, f) e sui progetti (A, B, C, D).
Molto del lavoro qui indicato è stato iniziato, ed ha raggiunto un certo grado
di formalizzazione, nell’ambito della discussione e delle analisi politiche dei
Grünen tedeschi, - e di alcuni dei più attivi ed intelligenti gruppi ecologisti.

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