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Capitolo 9

Ambiente

di Giampiero di Plinio

In una riunione di fantasmi qual era quella ma-


scherata, bisognava senza dubbio che si trattas-
se di un’apparizione straordinaria per produrre
tanto turbamento.
Edgar Allan Poe

1. L’imbroglio dei beni comuni


Al di là della valutazione politica e del rilievo prati-
co che si voglia attribuire a una categoria dello spirito
come quella dei beni comuni,1 il valore scientifico della
sua costruzione giuridica ha la resistenza di un fiocco di
neve fluttuato in casa dalla porta semiaperta.
Ciò nonostante, in un filmato prodotto dalla Rai, vi-
sibile ancora in rete,2 un insigne civilista – presentato pe-
raltro dai media, alquanto spesso e chissà perché, come
“costituzionalista” – avverte con tono vibrante che da
tempo il tema dei beni comuni è diventato centrale, e
riflette la difficoltà di catalogare entro le categorie clas-
siche dei beni privati o dei beni pubblici certi beni che
esprimono diritti fondamentali, non del soggetto ma
della persona. Se pure manca nel filmato almeno qual-
che cenno all’epistemologia di questi evanescenti ogget-

1. Per la quale mi pare appunto straordinariamente applicabile il sintetico giu-


dizio che secondo un aneddoto (probabilmente falso, ma non per questo meno
divertente) avrebbe dato Benedetto Croce delle elucubrazioni di un filosofo che gli
illustrava le sue tesi. L’aneddoto è riportato in un elzeviro di Eugenio Scalfari, di
cui quel giudizio costituisce il titolo: “La cazzità, categoria dello spirito”, L’Espresso,
n. 29, 27 luglio 2006, p. 174.
2. http://bit.ly/1eQIGcy (accesso del 2 febbraio 2015).

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I beni comuni oltre i luoghi comuni

ti, non manca l’indicazione di esempi (l’acqua, la cono-


scenza, la rete) e di presunte proprietà giuridiche: vista
la loro estraneità alle aree del privato e del pubblico, i
beni comuni non potrebbero essere oggetto né dell’au-
tonomia contrattuale (scambio), né di disposizioni pub-
blicistiche (concessione), in quanto si instaurerebbe un
rapporto “diretto” tra persona e bene.
In più, “beni comuni” viene presentata come un’idea-
forza, un grimaldello carismatico di cambiamento verso
una società più equa, un toolkit giuridico che aprirebbe
la strada a bombe etiche come dignità, diritti, solidarie-
tà.3 Siamo allora dinanzi a uno strumento formidabile
della lotta per un mondo migliore?4 Dobbiamo conclu-
dere, con l’incipit del ben più famoso pamphlet del 1848,
che uno spettro si aggira per l’Europa, lo spettro dei
beni comuni?5
Nemmeno per sogno. A parte che i costruttori del
vero Manifesto si staranno probabilmente rivoltando
nella tomba,6 il teorema dei beni comuni e, nella specie,
dell’ambiente come bene comune, è un costrutto ideo-
logico, privo di fondamento scientifico. Ma è anche una
3. In un recente libro (Solidarietà. Un’utopia necessaria, Roma-Bari, Laterza,
2014), Rodotà divinizza un’antica parola ma la declina implicitamente come
deficit spending e beneficenza sub-keynesiana. Qualcuno dovrebbe spiegargli che
tutta la misericordia possibile è già stata erogata dalla finanza allegra dello Stato
assistenziale, che a lui evidentemente piacerebbe riprodurre all’infinito (si veda ad
esempio Stefano Rodotà, “Col pareggio di bilancio, Keynes è stato reso incosti-
tuzionale”, Keynes blog, 17 aprile 2013) e siamo un paese alla frutta proprio per
quello. Tuttavia è molto probabile che ne sia già pienamente consapevole e metta
le mani avanti, perché la solidarietà, in un contesto di pareggio di bilancio e appli-
cazione del teorema di Haavelmo, significa proprio il contrario, cioè “eguaglianza
sostanziale” e “redistribuzione della ricchezza”, ma anche eliminazione di privilegi,
di pensioni e vitalizi decuplicati e così via. Ma si tratta di sintagmi e soluzioni che,
chissà mai perché, non si trovano in nessun passo di quel libro.
4. Descrive bene questa macro-enfasi e i suoi rischi Alessandra Algostino, “Ri-
flessioni sui beni comuni tra il ‘pubblico’ e la Costituzione”, Costituzionalismo.it,
n. 3, 2013.
5. Puntualmente sono comparsi vari “manifesti” dei beni comuni. Prendo tra
i più noti: Ugo Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Roma-Bari, Laterza 2011;
Alberto Lucarelli, Beni comuni. Dalla teoria all’azione politica, Viareggio, Dissensi,
2011.
6. È più che nota l’ironia con cui Marx si è più volte divertito a bersagliare
formule e teoremi sdolcinati e farisaici quali solidarietà sociale, socialità, socialismo
utopistico ecc.

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Ambiente

ideologia evoluzionisticamente regressiva, e per di più


inutile. Vediamo perché.
L’errore più grave nell’applicazione del metodo com-
parato a qualsiasi disciplina è ricondurre a categorie
unitarie oggetti – modelli di epoche storiche differenti
o modelli di diverse regioni del mondo nello stesso pe-
riodo storico – sulla sola base di caratteri formali o as-
sonanze linguistiche. Si tratta di un giochino frequente,
dagli obiettivi mai trasparenti, che riunifica in “categorie
generali” istituzioni particolari assumendo gli elemen-
ti ritenuti comuni come importanti, gli elementi etero-
genei come trascurabili. Questo genere di operazioni è
una prova empirica di come possa distorcersi l’analisi
comparativa e azzerarne il valore scientifico, partendo
dal risultato che si vuole ottenere e selezionando in fun-
zione di questo i caratteri dei fenomeni particolari da
presentare come universali.
Non solo il territorio della politica, ma anche quelli
dell’economia e del diritto sono costellati da inversioni
argomentative e battute di “caccia alle rassomiglianze”7
per affermare un obiettivo precostituito, utilizzando,
in verticale, in orizzontale o in entrambe le direzioni,
un trucchetto sofistico, un “principio di continuità”.8
Vi sono innumerevoli esempi concreti di questo tipo di
trastullo, applicato a princìpi e istituti,9 ai poteri locali,10
7. Contro la quale tuonava Marc Bloch: «Prima di tutto occorre liberare il terre-
no dalle false somiglianze, che spesso non sono che delle omonimie. E ve ne sono
delle insidiose» (il passo è tratto dal saggio “Per una storia comparata delle società
europee”, compreso nel volume dello stesso Autore, Lavoro e tecnica nel Medioevo,
Bari, Laterza, 1970, p. 49).
8. Contro l’uso del quale si veda Massimo Severo Giannini (Diritto ammini-
strativo, I, Milano, Giuffrè, 1970, p. 4) e la lucida critica all’applicazione di ordini
nozionali del presente a civiltà del passato.
9. Così la Corte dei Conti attuale è spesso intesa come discendente di istituti
feudali o addirittura di istituzioni del mondo greco-romano. Si tratta di uno
“stile” frequente in passato, ma trova richiami anche in lavori recenti (Umberto
Allegretti, “Controllo finanziario e Corte dei Conti: dall’unificazione nazionale alle
attuali prospettive”, Rivista AIC, n. 1, 2013, p. 2). Ho affrontato questi problemi
talmente tanti anni fa che avevo quasi dimenticato di averlo fatto (Giampiero di
Plinio, Contributo alla teoria del controllo amministrativo nell’ordinamento regionale,
Teramo, Collana Università d’Annunzio, 1979).
10. Giuristi, politici e storici del diritto hanno spesso postulato la continuità tra
le città italiane dell’alto medioevo (o addirittura i municipia romani) e il comune

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allo Stato stesso.11 L’obiettivo principale è sempre lo stes-


so: la legittimazione. Se un’istituzione è sempre esistita,
allora nessuno deve toccarla, ed esisterà per sempre. Se
è ricorrente, allora è giusta, corretta, razionale, intangi-
bile. Ciò conduce alla più vistosa delle distorsioni del
metodo comparativo, perché senza la considerazione
comparata delle condizioni oggettive che rendono pos-
sibile l’emersione, l’installazione, lo sviluppo o il decli-
no di istituzioni giuridiche apparentemente simili,12 il
paragone tra istituti di epoche, o di culture e civiltà, di-
verse è destituito di ogni fondamento scientifico e può
avere solo finalizzazioni ideologiche o apologetiche.
È esattamente quanto avviene nel caso della più vi-
stosa fra le recenti applicazioni della “caccia alle ras-
somiglianze”, la teoria giuridica dei beni comuni, così
come formulata da quelle dottrine che ne hanno cercato
l’origine attraverso forzature storiche tese a «funziona-
lizzare determinati eventi del passato a questioni politi-
che del presente».13
Da un lato, infatti, e limitando quanto più possibile
il sondaggio ai giuristi, il mainstream dell’argomentazio-
ne su questo luminoso avvento di un mondo di beni
comuni si fonda su sorprendenti quanto impossibili
moderno (si veda, tra i mille, Francesco Calasso, “Comune (storia)”, in Enciclope-
dia del diritto, vol. VIII, Milano, Giuffrè, 1975, pp. 170 s.). E analoghe tecniche
sono state usate nel dibattito intorno al decentramento e alla riforma regionale (cfr.
Ettore Rotelli - Francesco Traniello, “Il problema delle autonomie come problema
storiografico”, in Ettore Rotelli, a cura di, L’alternativa delle autonomie, Milano,
Giuffrè, 1978, pp. 311 ss.). Ma scientificamente tutto questo vale zero, perché tra
comune feudale “sovrano” ed ente locale “organo” dello Stato liberale c’è il baratro
materiale e culturale della nascita del capitalismo e della creazione dei mercati
nazionali.
11. La voglia di rendere eterna una evenienza storica così volatile come lo Stato
ha portato molti studiosi alla confusione con precedenti forme di potere mediante
appunto l’applicazione del principio di continuità, con l’esito che linguaggi dram-
maticamente destituiti di fondamento scientifico, come “Stato feudale” o “Stato
patrimoniale” e altri ancora, si trovano ancor oggi allegramente sparsi addirittura
nella manualistica.
12. Alludo al “common core” come precondizione di comparabilità, e sia con-
sentito al riguardo il rinvio, anche per riferimenti, al mio Il common core della
deregulation. Dallo Stato regolatore alla costituzione economica sovranazionale, Mi-
lano, Giuffrè, 2005.
13. Antonello Ciervo, I beni comuni, Roma, Ediesse, 2012, pp. 12 ss.

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Ambiente

comparazioni:14 su ricostruzioni del diritto romano in


un meraviglioso quanto inaudito contesto di pace, egua-
glianza e solidarietà giusnaturalistica,15 su immaginari
regimi medievali di appartenenza,16 su inusitate conce-
zioni della sovranità popolare17 e tanto altro ancora, ma
anche su forzature e talora veri e propri travisamenti, se
non mistificazioni, del pensiero in tema di beni pubblici
di maestri del calibro di Cammeo, Guicciardi, Mortati,
Giannini, Sandulli.18
D’altra parte la dottrina dei beni comuni si snoda su
una radice ideologica molto precisa: la ossessiva oppo-
sizione al “mercato” (in tutte le sue declinazioni, dalla
libertà economica alla globalizzazione, dalla moneta
unica al Fiscal Compact) e alle sue presunte conseguen-
ze (in particolare il “saccheggio” di risorse pubbliche
fondamentali). Tutti i suoi sostenitori soffrono di questa
sindrome, in forma più o meno terminale, e presentano
i beni comuni come la cura contro i virus neoliberisti
che infestano il pianeta.19
14. Una lucida critica in Antonio Gambaro, “Note in tema di beni comuni”,
Aedon, n. 1, 2013.
15. «[...] questo rapporto tra popolo e territorio non fu mai concepito come un
rapporto di “dominio” e di sfruttamento, ma come un rapporto di natura quasi
“personale”, poiché il territorio, come si è accennato, fu visto come qualcosa di
strettamente legato alle persone [...]  fin dalle origini [...] si parlò del “rapporto
di appartenenza” del territorio al popolo, e cioè di una “proprietà collettiva”, che
è insita nella “somma dei poteri sovrani” spettanti al popolo [...] E fu in questa
atmosfera di amor di patria, in questo connubio tra popolo e territorio, in questo
riconoscimento in capo al popolo del potere sovrano, che sorse la “comunità poli-
tica”, la “Civitas Quiritium”» (Paolo Maddalena, “Per una teoria dei beni comuni”,
MicroMega, n. 9, 2013, p. 97).
16. Mattei, Beni comuni. Al riguardo si veda la stringente revisione critica di
Ermanno Vitale, Contro i beni comuni. Una critica illuministica, Roma-Bari,
Laterza, 2013.
17. Ad esempio Alberto Lucarelli, “Beni comuni. Contributo per una teoria
giuridica”, Costituzionalismo.it, n. 3, 2014, pp. 10 ss.
18. Esibizioni in questo senso in Lucarelli, Beni comuni, nt. 6 e passim.
19. Riporto qualche passaggio, prendendo quasi a caso tra le centinaia di lavori
che ho sottomano: «[...] sottrarsi alla tirannia [della] “teologia economica”» (Stefa-
no Rodotà, “Il valore dei beni comuni”, la Repubblica, 20 gennaio 2012). «[...] è lo
stesso metodo economico di matrice neo-liberista, basato sulla razionalità egoistica
dell’homo oeconomicus, ad essere messo in discussione» (Ciervo, I beni comuni, p.
29). «Un morbo terribile attanaglia tutti i popoli dopo l’affermazione delle “teorie
neoliberiste”: l’esasperato “individualismo” e la perdita quasi assoluta del senso
della “solidarietà”» (Maddalena, Per una teoria dei beni comuni, pp. 91 ss.).

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I beni comuni oltre i luoghi comuni

Il mix tra intento ideologico “precostituito” e “caccia


alle rassomiglianze” destituisce di fondamento scientifi-
co20 la teoria giuridica dei beni comuni, tutta intera, non
solo il filone per così dire “indignato-antagonista”,21 ma
anche la versione “dottrinaria” che qualcuno ritiene più
“ragionevole”.22
In realtà i punti d’appoggio di quella tra le più
sofisticate versioni del genere franano senza scampo
non solo di fronte alla critica illuminista, ma soprat-
tutto davanti al test di razionalità giuridica e coeren-
za costituzionale. Alludo alla dottrina che: dichiara di
collocarsi nel solco del costituzionalismo dei diritti (o
meglio in quello del “costituzionalismo dei bisogni”),
assume i beni comuni come toolkit per realizzarne le
finalità,23 glissa sulle infinite potenzialità della vigen-
te disciplina costituzionale della proprietà,24 si chiama
fuori da tutte le tentazioni “fondamentaliste” e, al fine
di legittimare una teoria positiva dei beni comuni, pre-
senta l’espansione degli stessi più come «un cambio di
20. Per chiarire in che senso intendo “scientificità” e metodo scientifico sia
consentito il rinvio al mio “Costituzione e scienza economica”, Il Politico, n. 3,
2009, pp. 168 ss. In breve, ritengo che l’analisi giuridica deve essere disinteressata
rispetto al risultato dell’interpretazione/esperimento, ripetibile, non influenzabile
dall’interprete, e dunque falsificabile. Per essere scienziato del diritto, insomma, il
giurista deve, sempre e preventivamente, rinunciare alla soggettività. Mai visto un
teorico dei beni comuni fare questo tipo di ginnastica.
21. «Una reazione in senso stretto [al rischio concreto che quella dei beni comuni
diventi l’ennesima retorica, buona per tutti e per nessuno], una reazione reazionaria,
è il benicomunismo di Ugo Mattei, giurista di Torino, autore di un Manifesto dei
beni comuni (2011) che sembra più un vangelo apocrifo, l’incunabolo di una setta
eretica, che un libro di diritto e/o di politica» (Maurizio Barberis, “Il comunismo
dei beni comuni”, MicroMega. Il rasoio di Occam, 30 aprile 2013).
22. Barberis, “Il comunismo dei beni comuni”.
23. Stefano Rodotà, in varie occasioni, tra le quali richiamo qui la “Postfazione”
a Maria Rosaria Marella (a cura di), Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei
beni comuni, Verona, Ombre Corte, 2012, dal titolo “Beni comuni: una strategia
globale contro lo human divide” (pp. 311 ss.) di cui offre un’ottima lettura critica
(che utilizzo ampiamente nel testo) Vitale, Contro i beni comuni, p. 57.
24. In realtà ai benicomunisti l’art. 42, comma 2, della Costituzione (ma forse la
Costituzione nel suo complesso) sta stretto e non occorre un grande sforzo esege-
tico per capirne la ragione: «Per questa via, però, tutto quanto possiamo ottenere
è un comune di risulta, rilevante e meritevole di tutela giuridica solo quando la
proprietà sia illegittimamente esercitata. Serve invece qualcosa di più» (Maria
Rosaria Marella, “La funzione sociale oltre la proprietà”, Rivista critica del diritto
privato, n. 4, 2013, p. 567).

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Ambiente

paradigma» che ripristino di nostalgie comunitariste


del passato.25 Con queste premesse, la dottrina in que-
stione cataloga i beni comuni in primo luogo in base al
loro rapporto con i diritti fondamentali della persona,
assumendone la prevalenza nel bilanciamento con la costi-
tuzione economica,26 e in secondo luogo in gradazione
con le caratteristiche specifiche di ciascun tipo di bene
da “comunitarizzare” (acqua, rete, servizi ecc.). Ma il
piatto forte sta nella Grundnorm che questa dottrina
mette alla base della sua teoria dei beni comuni: «su
scala globale […] la relazione tra diritti fondamentali
e beni comuni si presenta come una decisiva oppor-
tunità per affrontare la questione essenziale di uno
“human divide”, di una diseguaglianza radicale che
incide sulla stessa umanità delle persone, mettendo in
discussione la dignità e la vita stessa».27
Bellissimo. Ma come fare? È palmare che la dottrina
in esame non possa che affidarne l’attuazione a pubbli-
ci poteri (attenzione, non alla legge e alla democrazia
rappresentativa ma – può sorprendere? – a «regolatori
pubblici»28). Come fa notare una intelligente revisione
critica, c’è da chiedersi perché questa dottrina «ritenga
opportuno insistere con questa formulazione, con l’idea
dei “beni comuni” che lo pone in compagnia di prospet-
tive e posizioni così lontane e diverse, e apertamente
condannate come ideologiche, pericolose, fondamenta-
liste […] certo solo così – con l’aggettivo “comune” –
si rompe la grande dicotomia “pubblico/privato”. Ma
vale la pena, per fare un dispetto a Giustiniano, ingene-
25. Rodotà, “Beni comuni”, p. 324.
26. Rodotà non usa mai questo concetto, ma ha una spiccata preferenza per
immagini alquanto “riduttive” della dimensione “economica” del diritto costituzio-
nale («una dimensione puramente mercantile», Rodotà, “Beni comuni”, p. 318).
Ma qui è necessario entrare nel dettaglio (come non fa Rodotà) dove ci si imbatte
in sorprendenti confutazioni (sia consentito un rinvio al mio “Nuove mappe del
caos. Lo Stato e la costituzione economica della crisi globale”, in Ginevra Cerrina
Feroni - Giuseppe Franco Ferrari, a cura di, Crisi economico-finanziaria e intervento
dello Stato. Modelli comparati e prospettive, Torino, Giappichelli, 2012, ove altri
riferimenti).
27. Rodotà, “Beni comuni”, p. 332.
28. Rodotà, “Beni comuni”, p. 331.

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rare dubbi e confusione? Tanto più che di solito la mo-


neta cattiva scaccia quella buona, e non viceversa».29
Concludendo parzialmente, considero la dottrina
(giuridica) dei beni comuni, al di là del suo contenuto
ideologico, drammaticamente carente di fondamento
scientifico. Applicata all’ambiente,30 la teoria assume
fattezze ancor più bizzarre; infatti, se l’ambiente non è
un bene giuridico e, soprattutto, se un diritto dell’am-
biente non esiste come disciplina scientifica, come si
può immaginarne la sua “comunitarizzazione”?

2. There is not a there, there


L’ambiente è un «complesso di cose materiali».31 Anzi
no, è un «bene di valore assoluto e primario, è un bene
giuridico, in quanto riconosciuto e tutelato da norme.
Infine, è un bene immateriale unitario».32 Ma forse nem-
meno, se è «un bene della vita, materiale e complesso,
la cui disciplina comprende anche la tutela e la salva-
guardia delle qualità e degli equilibri delle sue singole
componenti».33
La tutela dell’ambiente è “materia” di competenza
esclusiva statale.34
Sì, in quanto «a proposito della materia “tutela
dell’ambiente”, è da osservare che essa ha un contenuto
allo stesso tempo oggettivo, in quanto riferito a un bene,
l’ambiente (sentenze n. 367 e n. 378 del 2007; n. 12 del
2009), e finalistico, perché tende alla migliore conserva-
zione del bene stesso (vedi sentenze n. 104 del 2008; n.
10, n. 30 e n. 220 del 2009)».35
29. Vitale, Contro i beni comuni, p. 60.
30. Sebbene macroscopicamente vacua l’idea dell’ambiente come bene comune
è troppo (ideologicamente) allettante per essere tralasciata dalle correnti benico-
muniste. Allude ad esempio alle «res communes omnium, come l’aria, l’ambiente
in cui viviamo e tutti i beni del patrimonio ecologico dell’umanità» (Luigi Ferrajoli,
Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia, 2: Teoria della democrazia,
Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 263).
31. Corte Cost., sent. 210/1987.
32. Corte Cost., sent. 641/1987.
33. Corte Cost., sent. 378/2007.
34. Cost., art. 117, comma 2, lettera s.
35. Corte Cost., sent. 225/2009.

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Ambiente

Ma anche no! Infatti: «non tutti gli ambiti materia-


li specificati nel secondo comma dell’art. 117 possono,
in quanto tali, configurarsi come “materie” in senso
stretto, poiché, in alcuni casi, si tratta più esattamente
di competenze del legislatore statale idonee a investire
una pluralità di materie».36
In questo senso l’evoluzione legislativa e la giuri-
sprudenza costituzionale portano a «escludere che pos-
sa identificarsi una “materia” in senso tecnico, qualifica-
bile come “tutela dell’ambiente”»,37 perché la disciplina
dell’ambiente – ambiguo “oggetto” di tutela, ambigua
“materia”, ambiguo “bene” (unitario / frammentato,
materiale / immateriale...) – è in realtà un «valore costi-
tuzionalmente protetto»,38 inerente a un interesse pub-
blico di valore costituzionale “primario”39 e “assoluto”,40
e deve «garantire (come prescrive il diritto comunitario)
un elevato livello di tutela, come tale inderogabile dalle
altre discipline di settore».41
Tutto chiaro? Forse sì, ma anche no. Vediamo.
In primo luogo scopriamo che ambiente «delinea
una sorta di materia “trasversale”, in ordine alla qua-
le si manifestano competenze diverse, che ben possono
essere regionali, spettando allo Stato le determinazioni
che rispondono a esigenze meritevoli di disciplina uni-
forme sull’intero territorio nazionale».42
In secondo luogo, e di conseguenza, «la tutela e la
conservazione» sono garantite prioritariamente dallo
Stato mediante la fissazione di livelli «adeguati e non
36. Corte Cost., sent. 282/2002.
37. Corte Cost., sent. 407/2002.
38. Corte Cost., sent. 407/2002.
39. Corte Cost., sent. 151/1986.
40. Corte Cost., sent. 641/1987.
41. Corte Cost., sent. 641/1987.
42. Nella stessa sentenza 407/2002, in cui la Corte aveva appena affermato che
tutela dell’ambiente non è materia! Si può cavarsela aggiungendo “una sorta di”?
Comunque ciò significa che la competenza statale sulla tutela dell’ambiente è inva-
siva su tutte le altre materie, nella misura in cui in ognuna di queste sono contenuti
frammenti di competenze che coinvolgono l’ambiente e il cui uso differenziato
può compromettere l’esigenza di uniformità di disciplina su tutto il territorio.
È appena il caso di sottolineare che ciò sbaraglia ogni pretesa di unitarietà del
fantomatico bene ambiente.

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riducibili», mentre spetta alle Regioni, nel rispetto di


quei livelli, «di esercitare le proprie competenze, dirette
essenzialmente a regolare la fruizione dell’ambiente, evi-
tando compromissioni o alterazioni dell’ambiente stes-
so. In questo senso può dirsi che la competenza statale,
quando è espressione della tutela dell’ambiente, costitu-
isce “limite” all’esercizio delle competenze regionali».
E a questo punto compare una sbalorditiva “preci-
sazione”: «se è vero che le Regioni […] non debbono
violare i livelli di tutela dell’ambiente posti dallo Stato,
è altrettanto vero che, una volta che questi ultimi siano
stati fissati dallo Stato medesimo, le stesse, purché re-
stino nell’ambito dell’esercizio delle loro competenze,
possono pervenire a livelli di tutela più elevati».43
Ciò, sia logicamente che come evidenza empirica,
significa che i livelli di tutela posti dallo Stato non deb-
bono necessariamente garantire una tutela integrale del
valore ambiente. Ma allora, se la modulazione dei livelli
può portare a forme di disciplina ben più modeste ri-
spetto a ciò che ci si aspetta dal granitico sintagma co-
stantemente ripetuto di «tutela e conservazione», l’am-
biente che valore costituzionale “primario” è?
Tirando parzialmente le fila, se la Corte costituziona-
le, che è il formante più preciso e accurato (e più poten-
te) dell’ordinamento, è costretta a giocare su impossibili
equilibri delle parole – ma è un game che impatta diret-
tamente la società, l’economia e la vita di tutti noi – è
evidente che ciò che non funziona è il personaggio prin-
cipale del dramma, appunto quel cavaliere inesistente
chiamato ambiente.
E anche la dottrina giuridica non sa esattamente come
inquadrare il diritto dell’ambiente, né se un oggetto del
genere esista davvero: fatta eccezione per i “fondamen-
talisti” ambientali,44 la maggior parte dei giuristi che ci
hanno messo le mani ha la consapevolezza – anche se
43. I richiami sono tratti da Corte Cost., sent. 225/2009.
44. Che dividono la storia del mondo (e della teoria del diritto) in prima e dopo
la comparsa del diritto ambientale (ma si veda l’efficace giudizio di Giampaolo
Rossi, “L’ambiente e il diritto”, Rivista quadrimestrale di Diritto dell’ambiente, n.
0, 2010, p. 11).

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Ambiente

non sempre la esteriorizza − della vacuità scientifica


della nozione giuridica di ambiente.45
Quindi, il diritto (oggettivo) dell’ambiente “non esi-
ste”, né sul piano scientifico, né sul piano sostanziale,
così come non esiste la sua abusatissima estrinsecazio-
ne soggettiva, il diritto “all’ambiente”.46 Ciò che manca,
appunto, è la polpa, cioè l’ambiente. Come il non luogo
di Gertrude Stein (the trouble with Oakland is that when
you get there, there isn’t any there there),47 il diritto dell’ (o
all’) ambiente è un non-diritto, un diritto immaginario,
un riflesso sull’acqua del diritto dell’economia, perché
non esiste, in termini scientifici, il suo oggetto. E come
può un fantasma, un valore puramente immaginario,
essere un bene, e per di più “comune”?
Ma c’è ben altro, come possiamo constatare se per
un attimo volgiamo lo sguardo alla “costituzione
materiale”48 che si cela dietro l’evocativa, e infinitamen-
te politically correct, immagine di “ambiente”.49

3. Mit der Dummheit kämpfen Götter selbst verge-


bens
Ce lo ricorda Friedrich von Schiller dalle pagine de
La Pulzella d’Orléans. Il concetto fu ripreso da Isaac Asi-
mov, nel racconto Neanche gli dei, che ipotizza in un lon-
45. Sia consentito rinviare, anche per riferimenti, al mio Diritto pubblico dell’am-
biente e aree naturali protette, Torino, Utet, 1994.
46. Che non va oltre l’estensione meramente letteraria del diritto fondamentale
alla salute (si veda anche Francesca Minni - Andrea Morrone, “Il diritto alla salute
nella giurisprudenza della Corte Costituzionale italiana”, Rivista AIC, n. 3, 2013,
p. 3).
47. In Autobiografia di tutti. La citazione è stata utilizzata proprio per rappresen-
tare le incertezze del diritto ambientale: A. Dan Tarlock, “Is There a There There
in Environmental Law?”, Journal of Land Use & Environmental Law, n. 19, 2003,
pp. 213 ss.
48. Si veda il mio “Sette miliardi di ragioni”, in Giampiero di Plinio - Pasquale
Fimiani (a cura di), Principi di diritto ambientale, Milano, Giuffrè, 2008, pp. 34
ss.; si vedano anche (sempre miei e mi scuso) “L’insostenibile leggerezza del diritto
dell’ambiente e la fragile forza della protezione integrale della natura”, in Pierfranco
Malizia (a cura di), Le forme dell’ambiente, Roma, Polimata, 2009, pp. 17 ss. e
“La costituzione economica dell’ambiente”, in Amedeo Postiglione (a cura di),
Economia e ambiente, Milano, Franco Angeli, 2009.
49. Una parte del testo che segue è stata esposta nella lectio magistralis dell’inau-
gurazione dell’anno accademico 2014/2015 dell’Università “G. D’Annunzio”.

199
I beni comuni oltre i luoghi comuni

tano futuro l’incrocio tra il nostro universo e un universo


parallelo in cui il plutonio è stabile. La scoperta è subi-
to sfruttata economicamente creando “the Pump”, una
macchina che produce senza limiti e senza costi energia
pulita, appunto “pompando” elettroni tra gli universi.
Un fisico però si accorge che la Pompa ha un “piccolo”
effetto collaterale: cambia le leggi della fisica e avvia il
nostro universo alla distruzione. Porta allarmato le sue
conclusioni a un senatore, il quale, senza scomporsi, gli
risponde: «È uno sbaglio – disse – credere che il pubblico
voglia proteggere l’ambiente o salvare la sua vita e che
sia grato agli idealisti che lottano per raggiungere questi
scopi. Quello che il pubblico vuole è il proprio benesse-
re individuale. L’abbiamo imparato bene nell’esperien-
za fatta durante la crisi per l’inquinamento ambientale,
nel ventesimo secolo. Una volta assodato che le sigarette
favorivano l’insorgere del cancro polmonare, il rimedio
logico sarebbe stato smettere di fumare, mentre il rime-
dio richiesto era una sigaretta che non facesse venire il
cancro. Quando risultò evidente che il motore a combu-
stione interna inquinava pericolosamente l’atmosfera, il
rimedio logico sarebbe stato abbandonare quel tipo di
motori, e invece il rimedio richiesto era un motore che
non inquinasse l’atmosfera. Pertanto […] non chiedetemi
di fermare la Pompa da cui dipendono l’economia e le
comodità di tutto il pianeta. Ditemi invece cosa si può
fare per impedire alla Pompa di far esplodere il Sole».50
Com’era immaginabile, quello che chiede il politico al
fisico è di togliersi radicalmente dalla testa l’idea di spe-
gnere la Pompa, e semmai di studiare il modo per ren-
derla innocua eliminando o comunque addomesticando
gli effetti collaterali.
Primo corollario del “teorema di Asimov”: se “lo scien-
ziato” vuole fare qualcosa, deve passare attraverso “il se-
natore” e altri suoi simili, che faranno (o “non” faranno)
un progetto di legge che trasformerà una semplice teoria
scientifica (o la sua negazione) in una “legge”, cioè una
delle particelle elementari del “diritto” (dell’ambiente).
50. Isaac Asimov, Neanche gli dei, Milano, Mondadori, 1982 (1972), p. 42.

200
Ambiente

Un’altra conseguenza è che le ragioni dell’economia


prevalgono sempre sulle ragioni dell’ambiente, anche
se “la macchina” mette a repentaglio l’esistenza stessa
della vita e del pianeta, o persino dell’intero universo.
Terzo corollario: il mainstream della tutela ambientale
si muove sulla lama della scienza e della tecnica. Non
toccate la macchina, non spegnete la cornucopia del be-
nessere e del progresso; se combina guai, aggiustateli!
Ma è davvero sempre possibile “aggiustare”? Chi
vuol sapere com’è andata a finire nell’universo parallelo
si legga il romanzo di Asimov. Intanto, sappiamo la fine
che ha fatto La Pulzella d’Orléans, e anche a che punto è
la storia dell’automobile non inquinante, dell’amianto,
delle discariche, dell’energia, delle politiche petrolifere
e di mille altre “Pumps”, che il progresso ha sparso cieca-
mente nel sistema produttivo, e anche nella nostra vita
quotidiana, mettendo a rischio il nostro stesso futuro.
Ma anche se sappiamo tutto questo, al proprio “indi-
vidual comfort” nessuno vuole, o può, rinunciare. Contro
la stupidità umana, appunto, persino gli dei combatto-
no invano.

4. Sartana, l’ambiente e l’economia


Una applicazione esemplare del teorema di Asimov
è rappresentata dalla nascita del diritto dell’ambiente in
questo paese.
A 29 anni, fresco di toga, un giovane pretore già tene-
va d’occhio le acque di Fiumicino. E nella primavera del
1971 fece sequestrare gli impianti della Purfina Petroli
per “inquinamento ambientale”. Qualcuno lo chiamò
Sartana (come il giustiziere degli Spaghetti Western).
Gianfranco Amendola fu un capofila: minacciò di tran-
sennare il centro di Roma per smog, sequestrò le anten-
ne di Radio Vaticana, bloccò fabbriche e multinazionali
potenti.51
51. Lo racconta, in toni talmente euristici che non posso resistere dal riportare,
Goffredo Buccini (“Amendola, eterno pretore d’assalto”, Corriere della Sera, 4
gennaio 2015).

201
I beni comuni oltre i luoghi comuni

Con lui una giurisprudenza pretoria “d’assalto”,52 in


assenza di un diritto speciale di tutela delle acque, dell’at-
mosfera e del suolo dalle immissioni delle industrie, co-
struì in via interpretativa un diritto vivente dell’ambiente,
basato sulla valutazione discrezionale del giudice sui
limiti dell’attività d’impresa, incriminando dirigenti e
chiudendo fabbriche giudicate come inquinanti.
Il movimento della giurisprudenza, tuttavia, era de-
stinato a giungere a un vicolo cieco, determinato dalla in-
compatibilità assoluta del suo modo di agire con l’equi-
librio complessivo del sistema socioeconomico. Infatti,
dietro le “bolle cremose” di scarichi nel fiume, c’è una
catena d’acciaio, c’è un industriale che compera materie
prime da altri industriali, sempre più grossi e importanti,
c’è un sindacato, c’è uno spot televisivo, c’è un modo di
vita e di consumi che ineluttabilmen­te presuppone un cer-
to margine di aggressione all’ambiente.
E da questo punto di vista, quando un giudice deci-
de che una impresa sta inquinando, e chiude la fabbrica,
non sta solo esercitando la funzione che gli compete, ma
sta compiendo un vero e proprio atto (nichilista e “nega-
tivo”) di governo dell’economia.
Il sistema politico-economico non poteva accettare
l’esistenza di un dominio assoluto del giudice sull’eco-
nomia.53 Nasceva così, e male, il diritto italiano dell’am-
biente.
Alle radici della legge 319/1976, Norme per la tutela del-
le acque dall’inquinamento, più nota come “legge Merli”, vi
è una doppia ineluttabile urgenza: collegare la questione
ambientale con le esigenze del mercato, della produzio-
ne e dei consumi, e ripristinare il dominio della politica
sulla giurisdizione.
52. All’epoca circolavano mitologie sull’uso alternativo e sovversivo del formante
giurisdizionale attraverso la tutela dell’ambiente. Come racconta lo stesso princi-
pale protagonista di quell’esperienza, la battaglia per l’ambiente era un problema,
«in fondo, né tecnico, né giuridico, né repressivo [ma] esclusivamente problema
politico che si pone in termini rivoluzionari» (Gianfranco Amendola, “Profilo
della legislazione ambientale”, in Stefano Rodotà, a cura di, Il controllo sociale delle
attività private, Bologna, il Mulino, 1977, p. 435).
53. «Non siamo disposti a dare ai pretori il governo del Paese!», tuonava Flaminio
Piccoli alla Camera, come ricorda Buccini (“Amendola, eterno pretore d’assalto”).

202
Ambiente

Non può sorprendere allora che la prima legge orga-


nica sul bene acqua fu in pratica una amnistia larvata,54
un colpo di spugna sui reati, ma non sull’in­quinamento, che
ne risultava, in una certa misura, legalizzato, attraverso
un modello complesso – rovesciato rispetto alla conce-
zione penalistica della tutela – con la doppia funzione
di predeterminare una soglia di aggressione ambientale com-
patibile con il sistema produzione-consu­mo ed esercita-
re un controllo sul rispetto dei livelli predetermi­nati.
L’impresa “in regola” con gli adempimenti previsti
dalla legge viene automaticamente sottratta all’area di
intervento del giudice penale, che si estende solo sulle
fattispecie illegittime di inquinamento, quali ad esempio
emissioni senza autorizzazione, od oltre i limiti dell’au-
torizzazione. Ma questo vuol dire che, entro i limiti, un
“inquinamento” è legittimo e, conseguentemente, ogni
“dinamismo” della magistratura penale si schianta sulla
“grande muraglia” del diritto amministrativo, e quan-
do cerca di forzare e aprirsi un varco, non può evitare di
valicare i propri confini costituzionali, suscitando l’in-
tervento correttivo della Corte costituzionale.55
Il modello (che corrisponde alla tecnica regola-
toria chiamata command and control dalla dottrina
anglosassone)56 fu trasfuso in tutti i settori di interesse
ambientale; si è poi evoluto e trasformato, fino ad essere
affiancato da altre e più raffinate tecniche, volontarie,
certificative, di soft law, ma tutte le strumentazioni fi-
nora utilizzate hanno mostrato, con evidenza empirica,
che un “certo grado” di inquinamento è ineluttabile, e
che l’ambiente è improteggibile in termini assoluti, cioè
senza venire a patti con la matrice economica del siste-
ma sociale e giuridico.57
54. L’efficace immagine è di Giuseppe Morbidelli, “La legge Merli ovverossia una
amnistia larvata per gli inquinatori” (1976), in Mario Almerighi - Guido Alpa (a
cura di), Diritto e ambiente, Padova, Cedam, 1984-1987, vol. I, pp. 76 ss.
55. Si veda ad esempio Corte Cost., sent. 70/1985, Giurisprudenza costituzionale,
1985, I, pp. 498 ss., con nota di Gianfranco Mor.
56. Una discussione analitica del modello (e degli altri esemplari del tipo) nel
mio Il common core della deregulation, passim.
57. Va detto che il modello è stato attuato malissimo e con tempi e modalità che
ne hanno completamente svuotato l’efficacia. Un allucinante sintetico elenco delle

203
I beni comuni oltre i luoghi comuni

Il vero nodo di queste evidenze sono gli standard,


i “valori-soglia”. Chi li deve fissare, e come? I “rego-
latori” dei “beni comuni”? Ma proprio la vicenda di
“Sartana” e i suoi corollari smascherano e smantella-
no le dottrine benicomuniste dell’ambiente. Infatti, se
la decisione ambientale non può costituzionalmente
essere rimessa alla discrezionalità del giudice, come
può pretendersi di ricondurla entro l’ambiguo domi-
nio di quel “regolatore” tanto auspicato dal professor
Rodotà,58 che non è formante giurisprudenziale né
formante legislativo ed è dunque fuori del circuito di
attribuzione della sovranità democratica nello Stato
costituzionale?59

5. Soglia e bilanciamento: una evidenza empirica


La “soglia”, misura materiale del bilanciamento tra
ambiente, democrazia ed economia, è una questione
vitale per l’Europa del mercato unico.
Lo standard infatti, nel fissare il limite consentito
dell’inquinamento e dell’esternalizzazione, fissa anche
i costi d’impresa. L’Europa non può tollerare differen-
ziali di soglia tra Stato e Stato, che di fatto uccidono la
concorrenza, e non può tollerare una race to the bottom,
un dumping ambientale tra gli Stati, ma nemmeno una
race to the top, che attraverso la manipolazione di “mi-
sure tecniche equivalenti a restrizioni quantitative”,
possa, con la scusa dei diritti, amputare il fondamento
principale della costruzione del mercato interno, cioè la
libertà di circolazione delle merci, delle persone, delle
imprese. In questo contesto di nucleo già nel tramonto
degli anni Sessanta nasce (al di fuori delle competenze
di attribuzione, con il ricorso al teorema – “funziona-
pecche della Merli in Franco Giampietro, “Il ruolo della Comunità europea nella
protezione del mediterraneo e la normativa italiana a difesa del mare”, Rivista di
Diritto europeo, 1991, pp. 848 ss.
58. Si veda la nota 28.
59. Si tratterebbe di nuovi, e devastanti, “formanti schmittiani”, nel senso in cui
ne sviluppo la fisionomia in “Teoria del nucleo e costituzione vivente tra costitu-
zionalismo ‘occidentale’ e ‘costituzionalismo islamico’”, Percorsi costituzionali, n.
1, 2015.

204
Ambiente

le” al mercato unico – dei poteri impliciti) una nuova


politica comunitaria, quella ambientale.60
Questo nucleo spiega l’evoluzione degli interventi
europei in materia ambientale, sempre modellati sulla
coordinazione dell’interesse ambientale a quello del
mercato, ma con gradazioni e sfumature differenti, ca-
ratterizzate dalla progressiva attenuazione del modello
autoritativo e dalla emersione della tendenza a ricon-
durre la tutela ambientale dentro i meccanismi di auto-
nomia del mercato stesso.61
L’evidenza empirica più compatta, la prova scienti-
fica definitiva della teoria “bilanciata” del diritto am-
bientale, è in una miriade di case study, di cui il più pa-
radigmatico (ancorché sconvolgente) è il “caso Ilva”.
L’indagine ha finora visto provvedimenti cautelari di
sbalorditiva portata storico-giudiziaria e altrettanto
spettacolari reazioni della collettività e delle istituzioni
politiche.
Il conflitto di attribuzioni sollevato dalla Procura del-
la Repubblica di Taranto ha condotto a un esito esplosivo
quanto scontato: la soluzione legislativa, ha affermato
la Corte costituzionale, non sacrifica irragionevolmente
il bene della salute, ma lo bilancia con altri beni di rango
costituzionale (iniziativa economica, lavoro), nell’ambi-
to di una dialettica rimessa alla discrezionalità politico-
amministrativa, che nel caso di specie «non travalica il
limite della manifesta irragionevolezza».62
60. «Una risposta alle politiche nazionali o una conseguenza di esse», con sincerità
affermava l’allora Presidente della Commissione europea, Roy Jenkins (Commis-
sione CEE, Lo stato dell’ambiente: primo rapporto, Bruxelles, 1977, p. 10).
61. Gli strumenti della tutela ambientale multilivello, dal command and control
alle tutele soft (sviluppi in di Plinio - Fimiani, Principi di diritto ambientale), si
muovono sempre entro una logica coerente con il mercato, ma dimostrano che
un certo margine di aggressione all’ambiente è comunque ineluttabile. Ad esempio,
la internalizzazione nei costi d’impresa mediante il criterio del “pollueur/payeur”
è perfettamente compatibile con l’etica economica, anche quando si sostanzia
in aumento dei prezzi, perché significa che la società nel suo insieme è disposta
ad accettare un certo grado di violazione dell’ambiente, in cambio di benessere
economico. Il teorema di Asimov, insomma.
62. Corte cost., sent. 85/2013. Si veda tra gli altri il commento critico di Roberto
Bin, “Giurisdizione o amministrazione, chi deve prevenire i reati ambientali? Nota
alla sentenza ‘Ilva’”, Giurisprudenza Costituzionale, 2013, pp. 1505 ss.

205
I beni comuni oltre i luoghi comuni

Una delle questioni più dure che il processo si trove-


rà a risolvere è appunto questa: l’eventuale rispetto dei
valori soglia è irrilevante ai fini della configurazione dei
reati contestati a Ilva? È un punto cruciale. Coinvolge
certezza del diritto, concorrenza, mercato, teoria delle
fonti, un intero manuale di diritto pubblico. Il proces-
so dirà la sua verità, che sarà quella vera, per il diritto.
Ma già oggi abbiamo in mano una certezza: il teorema
“bilanciato” del diritto ambientale è puro vangelo, se la
citata sentenza della Corte costituzionale sottolinea che
«l’AIA (autorizzazione integrata ambientale) riesamina-
ta indica un nuovo punto di equilibrio, che consente […]
la prosecuzione dell’attività produttiva a diverse condi-
zioni […] il punto di equilibrio contenuto nell’AIA non
è necessariamente il migliore in assoluto […] ma deve
presumersi ragionevole, avuto riguardo alle garanzie
predisposte dall’ordinamento quanto all’intervento di
organi tecnici e del personale competente; all’indivi-
duazione delle migliori tecnologie disponibili; alla par-
tecipazione di enti e soggetti diversi nel procedimento
preparatorio e alla pubblicità dell’iter formativo […]».
Il diritto ambientale, nell’evidenza empirica dell’azio-
ne “vivente” dei formati ordinamentali, perde il caratte-
re ideologico di assolutezza e viene avviluppato in una
rete di condizioni e di garanzie che riconfigurano l’am-
biente, da valore supremo e non negoziabile, a valore
costituzionale che può e deve essere bilanciato in funzio-
ne di coerenza complessiva dell’ordinamento, dentro di
sé e nel suo impatto con le necessità di conservazione
delle matrici del modo di produzione. Bilanciato con la
costituzione economica, insomma.63
63. Ciò pone seri problemi teorici che ho trattato in altre sedi (sia consentito
il rinvio a miei precedenti lavori, tra cui “Nuove mappe del caos”, pp. 71 ss. e
“Costituzione e scienza economica”, pp. 168 ss.), dei quali qui sintetizzo alcuni
corollari. Le leggi dinamiche e di “moto” dell’economia hanno effetti costituzionali,
cioè impongono un nucleo di valori, custoditi nella fascia alta delle fonti supreme
dell’ordinamento giuridico, che costituisce un dato per l’attività pubblica organiz-
zatrice, finanziaria e/o regolatrice di altri valori e interessi differenziati, compresi
i diritti sociali e le politiche ambientali, i quali vanno necessariamente ponderati
con quel nucleo, in modo da preservare l’integrità della costituzione economica.
Il problema di fondo è a chi spetti stabilire i parametri di ponderazione. Attra-

206
Ambiente

Entro questi confini, credo che i territori abbiano bi-


sogno, invece di una allegra brigata di benicomunisti,
di sensori ambientali che rilevino in tempo reale le de-
viazioni illegali (e anche quelle legali) delle imprese e
delle fonti di inquinamento, e che riescano a misurare e
valutare, con tecniche di rango scientifico, e oggettivo,
i pericoli, il reale stato dei luoghi, i costi e i benefici, le
regole, le precauzioni necessarie, le migliori tecnologie
disponibili a costi sostenibili.
E la maschera del bene comune, in quegli stessi
confini, non ha cittadinanza: le tecniche giuridiche le-
gittimate dalla Corte, che collegano democrazia ed eco-
nomia, tolgono legittimazione costituzionale e fonda-
mento scientifico a pretese “comunarde” – di dominio
sulle risorse ambientali attraverso poteri di blocco di ciò
che esse considerano aggressioni ambientali –, perché il
rovescio della purezza ambientale totale, in questa costi-
tuzione materiale, sarebbe l’arresto del ciclo produttivo.

6. Natura e aree protette: beni senza padrone, ma


non comuni
La fonduta culturale dei mescolatori di istituti giu-
ridici scientificamente differenziati ha prodotto e con-
tinua a produrre la più immane confusione tra nozioni
profondamente diverse tra loro, come quelle di tutela
dell’ambiente, difesa del paesaggio, protezione della na-
tura. Nella confusione i benicomunisti nuotano perfet-
tamente a loro agio, sovrapponendo e miscelando figure
verso l’influenza democratica sulla costruzione delle norme ambientali, dovrebbe
essere lo stesso sistema produttivo ad autodeterminare i propri vincoli sulla base
dell’unità di misura rappresentata dal rapporto tra il grado di sviluppo economico
e il corrispondente grado di protezione sostenibile, considerato il livello della tec-
nologia utilizzabile, ma a costi comunque compatibili con la matrice economica
del sistema. Invece il costo di una pervasiva e crescente mediazione politica è stato
compensato con deficit spending, debito pubblico e incentivazioni a pioggia alle
imprese. Ciò nonostante l’impatto inverso dell’economia sull’ambiente non è stato
ridotto, ma paradossalmente incrementato: l’alta regolazione, con il suo numero
incredibile di poteri di veto, posizioni di diritto e posizioni di fatto di decisori palesi
e occulti, ostacoli e vincoli strutturali e procedimentali, è stato accompagnato da
una prassi senza regole, con l’effetto pratico di agevolare l’espansione delle pratiche
elusive, dei controlli impossibili e, nelle zone oscure, dei black markets e della
criminalità organizzata.

207
I beni comuni oltre i luoghi comuni

e tecnologie giuridiche profondamente diverse, spinti


dalla serena ossessione di allargare all’infinito i confini
del paradiso del bene comune, e contestualmente vio-
lando tutte le regole della metodologia comparativa.64
Chiariamo preliminarmente i termini di quella che
è in questa materia una potente key issue sintetizzabile
in un guscio di noce: il diritto della natura e delle aree
protette ha come destinatario non comunità o individui
umani, ma un bene senza proprietà e senza padrone, il
patrimonio naturale, il quale è sottratto non solo all’ap-
plicazione del diritto dell’ambiente, ma anche ai regimi
proprietari e, salvo caute eccezioni, a diritti di fruizione
individuale e collettiva. In altre parole, parchi, riserve,
zone di protezione speciale non possono essere teorizzati e
venduti come beni comuni. Vediamo perché.
Si è concluso, sopra, che la matrice economica del-
le costituzioni rappresenta un granitico bilanciamento
del valore ambientale, temperando l’incontro tra valori
e mercato mediante meccanismi adeguati di pondera-
zione. Questa necessità strutturale implica che il diritto
ambientale non può che basarsi su un’etica antropocen-
trica.
Il modello giuridico di protezione “integrale” della
natura mediante parchi e riserve ha una fisionomia ra-
dicalmente opposta, fondata su etiche ecocentriche e su
una configurazione alternativa dei rapporti tra i diver-
si valori protetti dall’ordinamento giuridico, ai quali si
64. Si veda il paragrafo 1. Nota che l’elenco usuale «esemplificativo, non tassa-
tivo o teso ad una ricognizione esaustiva dei beni comuni» appare «“sbilanciato”
sull’ambiente naturale», Algostino, “Riflessioni sui beni comuni tra il ‘pubblico’ e
la Costituzione”, p. 7, che richiama con particolare enfasi Salvatore Settis, Paesaggio
costituzione cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Torino,
Einaudi, 2010, il quale snoda un percorso, sicuramente suggestivo e affascinante,
che tuttavia affastella paesaggio, costituzione, diritti, democrazia e sbocca dritto
alle porte del santuario dei beni comuni, “scoprendone” le prove in tutti i tempi
e in tutti i luoghi, dal mondo romano all’Italia preunitaria, fino al Novecento,
quando improvvisamente compaiono saccheggio e “degrado civile”; per inciso, le
informazioni sono utilissime e le innumerevoli denunce sono ben documentate,
ma sulle ragioni per cui va mossa una radicale critica teorica a questo tipo di argo-
mentazione mi pare di essermi già ampiamente espresso. Noto qui che se l’errore
metodologico è veniale per un esteta o un archeologo, diventa abnorme quando
viene più o meno emotivamente commesso da un giurista.

208
Ambiente

applica sempre non già il bilanciamento con interessi


umani ed economia, ma un exclusionary approach,65 in-
tegrato da opportuni strumenti di governance,66 che im-
plica la supremazia assoluta del valore naturalistico su
tutti gli altri valori, comprese le libertà costituzionali,
mediante un ordinamento di settore con caratteri, og-
getti, metodologie e principi suoi propri, ed eccezionali
rispetto alle altre discipline giuridiche. Ciò fonda una
metodologia originale, un sistema giuridico vivente di
principi che esclude appunto il bilanciamento dei valori,
trasfondendosi in regole dettate in via assoluta nell’in-
teresse della conservazione integrale del patrimonio natu-
rale. Sul piano teorico ciò confluisce nel teorema che il
diritto delle aree protette è un ordinamento autonomo
e non una sub-disciplina del diritto dell’ambiente.67 Sul
piano pratico, invece, si ottengono risultati portentosi
nella valutazione del rapporto tra economia, proprietà,
fruizione da un lato e natura protetta, dall’altro. In que-
sta seconda, delicata “zona” del diritto, il regime spe-
ciale di protezione (integrale) prevale sempre sui regimi
generali di diritto pubblico e di diritto privato che con-
fluiscono nella tutela (bilanciata) dell’ambiente.
Ne deriva che il diritto dell’ambiente non si deve né si
può applicare all’interno dei territori in cui vige il diritto
65. Per tutti Aaron G. Brunner et al., “Effectiveness of Parks in Protecting
Tropical Biodiversity”, Science, vol. 291, n. 5501, 2001, pp. 125 ss. Un’analisi nel
contesto italiano e comunitario in Giampiero di Plinio - Pasquale Fimiani (a cura
di), Aree naturali protette. Diritto ed economia, Milano, Giuffrè, 2008.
66. Krystyna Swiderska - Dilys Roe - Linda Siegele - Maryanne Grieg-Gran,
The Governance of Nature and the Nature of Governance: Policy that Works for
Biodiversity and Livelihoods, London, International Institute for Environment and
Development, 2008.
67. Alludo alla legge 394 del 1991, la “legge quadro” sulle aree naturali protette.
Un modello protezionistico tecnicamente ineccepibile e giuridicamente potente,
ma solo a patto che fossero applicate subito, insieme e fino in fondo tutte le sue
componenti, in modo da tenere le stanze dei bottoni tutte all’interno di scelte
tecnico/naturalistiche e tutte al di fuori della portata della discrezionalità della
politica, delle voglie dell’economia e, ovviamente, anche di regimi proprietari e
di qualsiasi forma di diritti prioritari di fruizione, compresa quella che si aggira
nelle sembianze del “beni comuni”. Una descrizione dettagliata di quelle tecniche
giuridiche è in molti miei precedenti lavori fin dall’inizio degli anni Novanta, con
i quali ho tentato di sviluppare una teoria completa della protezione integrale della
natura (si veda, per tutti, Diritto pubblico dell’ambiente e aree naturali protette).

209
I beni comuni oltre i luoghi comuni

delle aree naturali protette, come del resto una magistra-


le dottrina aveva intuito molto tempo prima che questo
diritto speciale trovasse accoglienza in forma organica
nel nostro ordinamento.68 Si tratta di esiti teorici che la
dominante giurisprudenza a tutti i livelli ha ampiamen-
te confermato nel tempo, dimostrando di aver compre-
so le profondità più intime del diritto positivo (non di
ideologie emotive, ma del diritto positivo!) della prote-
zione appunto “integrale” della natura,69 il cui carattere
di specialità estrema implica la supremazia del valore
naturalistico su tutti gli altri interessi umani, compresi i
diritti fondamentali e le libertà economiche.70
68. «Il parco naturale [...] è giuridicamente istituito [...] per la conservazione
della natura [...] i parchi naturali sono in gran parte fuori dell’attenzione del diritto
pubblico dell’economia; lo interessano solo perché nel loro ambito la proprietà
privata dei suoli è anch’essa funzionalizzata, e perché non si ammettono diritti
d’impresa se non con il consenso e sotto la direzione delle autorità del parco»
(Massimo Severo Giannini, Diritto pubblico dell’economia, Bologna, il Mulino,
1977, p. 112).
69. «È stato notato in dottrina, con efficacia, che la protezione della natura
mediante il parco è la forma più alta ed efficace tra i vari possibili modelli di tutela
dell’ambiente, il cui peggior nemico è senza dubbio la produzione economica
moderna. [...] Non può in sostanza porsi in dubbio che la ragione d’essere della
delimitazione dell’area protetta risieda nell’esigenza di protezione integrale del
territorio e dell’eco-sistema e che, conseguentemente, ogni attività umana di tra-
sformazione dell’ambiente all’interno di un’area protetta, vada valutata in relazione
alla primaria esigenza di tutelare l’interesse naturalistico, da intendersi preminente
su qualsiasi indirizzo di politica economica o ambientale di diverso tipo, sicché in
relazione all’utilizzazione economica delle aree protette non dovrebbe parlarsi di
sviluppo sostenibile ossia di sfruttamento economico dell’eco-sistema compatibile
con esigenza di protezione, ma, con prospettiva rovesciata, di protezione sostenibile».
Con queste e altre motivazioni, tratte dalla “dottrina”, il Consiglio di Stato italiano
(Sez. VI, sentenza 16 novembre 2004, n. 7472), ha potuto concludere che un
interesse pubblico di intensità e forza senza precedenti, come l’emergenza rifiuti
a Napoli, deve piegarsi alla tutela di un altro valore, la protezione integrale della
natura, ancora più formidabile, più forte di tutti gli altri valori espressi dall’econo-
mia e dalla politica. Il giudice amministrativo, nel 2004, ha così fornito una prova
scientifica empirica della validità del teorema fondamentale espresso da quella
“dottrina” in una monografia di dieci anni prima (si tratta del mio Diritto pubblico
dell’ambiente e aree naturali protette; è curioso notare che la sentenza ne riporta
lunghi e interi brani soprattutto nelle parti in cui viene enunciata la teoria della
protezione integrale).
70. Ovvio che tale prospettiva è costituzionalmente accettabile solo fino a quando
il regime speciale è circoscritto entro confini territoriali rigidi e razionali, cioè fino
a quando, come ripete con forza il supremo giudice amministrativo, la protezione
“integrale” è sostenibile. Una volta che la democrazia rappresentativa ha stabilito
quei confini, al loro interno qualsiasi azione che non sia quella di pianificazione e

210
Ambiente

Ma ciò significa costruire lo stesso patrimonio natu-


rale come centro autonomo d’imputazione giuridica,
come soggetto non personificato di diritti,71 come valo-
re “inumano” e “post-umano” nel senso che destinata-
ri della tutela giuridica non sono gli esseri umani ma
esclusivamente i componenti dell’ecosistema circoscrit-
to e difeso in quell’area. Si badi, non si tratta di malinco-
nica “utopia istituzionale”, ma di diritto positivo, che, in
conclusione, sostituisce lo speciale regime di protezione
a qualsiasi tipo di diritti proprietari o di fruizione, per
cui una teoria dei beni comuni per i territori e i patrimo-
ni naturali protetti non solo è inutile, ma, nella misura
in cui reintroduce diritti di appartenenza e fruizione, è
empiricamente devastante.72

7. È davvero, oro nero? Pareggio di bilancio e futuro


dei territori
Leggendo diacronicamente l’evoluzione delle isti-
tuzioni di governo e amministrazione della politica
ambientale, si nota che i lineamenti fondamentali della
regolazione degli interessi ambientali, e degli elementi
di “costituzione economica” intimamente connessi, se-
guono una direttrice di sussidiarietà rovesciata, una ten-
denza di centralizzazione delle competenze e dei poteri
dalla dimensione regionale e locale ai livelli nazionali, e
da questi alle sedi sovranazionali. Le ragioni sono com-
plesse; qui è sufficiente rilevare che lo slittamento dalle
Regioni allo Stato della decisione ambientale è fenome-
no non reversibile, legittimato da una giurisprudenza
gestione naturalistica è vietata, nel senso che è subordinata al nullaosta dell’ente di
tutela: sviluppo economico, proprietà, impresa, libertà di circolazione e qualsiasi
altro fondamento di attività umane hanno dunque la natura di eccezioni, consen-
tite solo a seguito di uno stretto scrutinio di conformità agli atti fondamentali del
regime speciale di protezione.
71. Come faceva molti anni fa Paolo Maddalena (“La legge quadro sulle aree
protette”, Rivista trimestrale di Diritto pubblico, 1992, pp. 648 ss.) che è ora (a mio
avviso in contraddizione con quello scritto) uno dei più intensi sostenitori della
teoria dei beni comuni.
72. Una panoramica approfondita di come ciò possa avvenire e sia in parte
purtroppo avvenuto in Giampiero di Plinio, “Aree protette vent’anni dopo.
L’inattuazione ‘profonda’ della legge n. 394/1991”, Rivista quadrimestrale di Diritto
dell’ambiente, n. 3, 2011.

211
I beni comuni oltre i luoghi comuni

pressoché costante – mediante il ricorso argomentativo


alla prevalenza dell’interesse nazionale – della Corte co-
stituzionale, che ne ha condizionata la legittimazione a
forme d’intesa e leale collaborazione nei procedimenti
organizzati­vi e di programmazione.
Se peraltro ciò pare ineluttabile a fronte delle esigenze
di mercato e concorrenza, dubbi emergono in riferimen-
to alle localizzazioni produttive delle (grandi) opere o
industrie suscettibili di creare, al di là della valutazione
ambientale, danni economici alle collettività locali e ai
corrispondenti poteri della costituzione multilivello.
Da questo punto di vista il dubbio è se l’interesse
nazionale prevalga sempre e in ogni caso su quello re-
gionale o locale, oppure se il principio costituzionale di
autonomia territoriale, declinato in termini di costituzio-
ne economica multilivello, introduca garanzie e bilancia-
menti. Insomma, i territori sono proprio del tutto iner-
mi davanti alla volontà e agli interessi nazionali? Anche
quando il principio di precauzione consiglierebbe una
riflessione e una moratoria? Anche qualora la stessa co-
stituzione economica mostrasse che l’impatto dell’ope-
ra sarebbe devastante per la sostenibilità dell’economia
locale?
Porterò qui un ultimo caso, quello della disciplina e
sviluppo delle fonti di energia e della tendenza dei go-
verni nazionali al “produttivismo” in materia di ricerca,
coltivazione e trasformazione degli idrocarburi. Si tratta
di un terreno in cui la tensione tra decisione economica
nazionale e impatto sul territorio locale è devastante.
È ancora in corso il processo alla BP e alle altre com-
pagnie petrolifere coinvolte nell’esplosione, nel 2010,
della piattaforma Deepwater Horizon, che causò il peg-
gior disastro ecologico nella storia degli Stati Uniti, con
milioni di barili di petrolio finiti nel Golfo del Messico,
così come è ancora in corso, e forse lo sarà per sempre,
l’avvelenamento e la distruzione di immensi territori e
aree marine, di innumerevoli ecosistemi, di intere eco-
nomie locali. Come in tutto il mondo, in Italia l’impatto
emotivo dell’evento fu drammatico e il Governo, con il

212
Ambiente

d.lgs. n. 128/2010, bloccò le procedure di tutte le inizia-


tive di “petrolizzazione” in itinere.73
Ma le vicende costituzionali e politiche successive
hanno portato a un esito singolare. Dopo che due mini-
stri del Governo Monti riaprirono in forme non certo tra-
sparenti74 le trattative con le lobby del petrolio, nell’arco
di pochi mesi comparvero: un decreto legge che azzera-
va le precauzioni del decreto del 2010; il SEN (Strategia
Energetica Nazionale, decreto interministeriale Clini-
Passera del 3 marzo 2013), che tra le sette azioni indicate
come prioritarie ne mette due “sorprendenti”, e del tut-
to incoerenti con gli indirizzi europei dell’Agenda 20-
20-20; si tratta delle priorità 5 (ristrutturazione della raf-
finazione e della rete di distribuzione dei carburanti) e 6
(lo sviluppo della produzione nazionale di idrocarburi);
un disegno di legge costituzionale del governo di rifor-
ma del Titolo V della Costituzione, che sottrae la mate-
ria “energia” alla legislazione concorrente delle Regioni
e la porta nell’orbita della legislazione statale esclusiva.
Questo work in progress di sussidiarietà capovolta è stato
ripreso anche dall’attuale esecutivo, sia nel corpus della
riforma costituzionale in itinere, che nel cosiddetto de-
creto “Sblocca Italia”,75 che, intanto, sei regioni hanno
impugnato davanti alla Corte costituzionale. Vedremo
73. Senza peraltro intervenire efficacemente su quelle già avviate e operanti, il cui
impatto è stato e continua ad essere, senza mezzi termini, devastante (si veda Pietro
Dommarco, Trivelle d’Italia, Milano, Altreconomia, 2012).
74. Seri indizi in tal senso, tra i tanti altri, nella «lettera protocollo DIVA -
2012 - 0016011 del 3 luglio 2012 rinvenuta presso il Ministero dell’ambiente e
della tutela del territorio e del mare nel corso di un accesso agli atti; lettera nella
quale la società Medoilgas Italia SpA esprimeva «un doveroso apprezzamento per il
prezioso contributo apportato da Lei [dottor Corrado Clini - che in quel periodo
era Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare] e dai suoi col-
laboratori per l’individuazione della soluzione poi adottata dal Governo al fine di
porre riparo ad una situazione insostenibile oltre che ingiusta per gli operatori del
settore» (dall’Interrogazione dei deputati Castaldi,  Girotto,  Petrocelli  al Ministro
dello sviluppo economico, Leg. 17ª - Aula - Res. Sten. n. 234 del 22/04/2014, in
www.senato.it).
75. Si veda l’accurata analisi di Alessandro Sterpa, “Le riforme costituzionali
e legislative del 2014: quale futuro per la multilevel governance dell’ambiente?”,
Federalismi.it, 19 novembre 2014. Si veda anche la “forte” ricostruzione di Pietro
Dommarco, “Lo #sbloccatrivelle di Matteo Renzi”, Altraeconomia.it, 16 settembre
2014.

213
I beni comuni oltre i luoghi comuni

cosa dirà la Corte, che dovrà valutare alla luce del testo
attuale e non della nuova riforma costituzionale.76
Ma oltre ai piuttosto noti motivi su cui si fondano i
ricorsi, e di cui non mi posso qui occupare, c’è un ulte-
riore profilo, poco o affatto battuto sinora in dottrina e
in giurisprudenza, che attiene agli effetti della politica
(e dell’amministrazione) energetica dei poteri centrali
dello Stato sui nuovi rapporti tra livelli di governo e co-
stituzione finanziaria, federalismo fiscale, equilibrio di
bilancio della pubblica amministrazione e in particolare
delle Regioni.
In sostanza, a fronte dei nuovi obblighi di pareg-
gio di bilancio estesi anche a Regioni e poteri locali,77
emerge il rilievo della crescita economica, che diventa
un valore costituzionale, formalmente riconosciuto in
recenti sentenze della Corte costituzionale,78 anche per
la Regione e gli enti locali, valore di fronte al quale il
potere centrale non può schizofrenicamente imporre il
pareggio del bilancio e contemporaneamente attivare
politiche in grado di abbattere la ricchezza di lungo
periodo dei territori.
Pertanto, la localizzazione delle trivelle, in territori
che hanno ben altra vocazione di sviluppo, dovrebbe
76. Intanto la Corte (con sentenza 11 febbraio 2015, n. 10) un regalino di non
poco conto al mondo dell’oro nero l’ha già fatto, dichiarando incostituzionale per
violazione degli articoli 3 e 53 della Costituzione l’art. 81, commi 16, 17 e 18, del
dl 25 giugno 2008, n. 112, istitutivi della mitica “Robin Tax” (sent. 10/2015). Ma
il taglio del prelievo fiscale sul petrolio (dichiarato non retroattivo proprio, si noti,
per non violare le necessità di equilibrio di bilancio) dovrebbe ora far declinare
l’interesse statale alla petrolizzazione, a fronte del danno all’economia locale (e
nazionale).
77. Su cui l’eccellente indagine di Marcello Salerno, Autonomia finanziaria
regionale e vincoli europei di bilancio, Napoli, Editoriale Scientifica, 2013.
78. Si veda la sent. 8/2013, sulle politiche di premialità per gli enti locali che
assecondano le liberalizzazioni: «è ragionevole ritenere che le politiche economiche
volte ad alleggerire la regolazione, liberandola dagli oneri inutili e sproporzionati,
perseguano lo scopo di sostenere lo sviluppo dell’economia nazionale. Questa
relazione tra liberalizzazione e crescita economica appare ulteriormente rilevante
in quanto, da un lato, la crescita economica è uno dei fattori che può contribuire
all’aumento del gettito tributario, che, a sua volta, concorre alla riduzione del disa-
vanzo della finanza pubblica». Si veda sul punto Marcello Salerno, “Le mitologie
dell’autonomia tra equilibri di bilancio e principio di responsabilità degli enti
territoriali”, Istituzioni del federalismo, n. 1, 2014, pp. 90 ss.

214
Ambiente

essere sottoposta a una ulteriore valutazione d’impat-


to, non più meramente ambientale, ma soprattutto
relativa ai valori macroeconomici della costituzione
finanziaria in relazione al prodotto interno lordo delle
Regioni e dei territori interessati, non solo nel prisma
di precauzione, sussidiarietà, sviluppo sostenibile, ma
soprattutto in termini di vincolo costituzionale di pa-
reggio di bilancio.
In altre parole, ritengo che proprio la (necessaria e
ineliminabile) imposizione alle Regioni e ai poteri locali
del vincolo di equilibrio di bilancio dia oggi ai territori
un interesse costituzionalmente rilevante all’effettua-
zione di un test di impatto economico delle politiche go-
vernative, ancorché strategiche o comunque dichiarate
tali, sull’andamento del Pil di quello stesso territorio
ove le politiche nazionali si materializzano e incidono
sugli assetti urbanistici, paesaggistici, naturalistici, e
sulle derivanti economie locali che proprio dalla valo-
rizzazione economica di quegli assetti traggono i mezzi
per fronteggiare la sfida del pareggio di bilancio, in un
contesto costituzionale79 in cui il finanziamento della
spesa pubblica locale non può che essere appunto inte-
ramente ed esclusivamente coperto con le risorse eco-
nomiche e fiscali del territorio locale stesso.
Il diritto alla conservazione dell’ambiente e della na-
tura dei territori declinato in termini di valorizzazione
economica e sviluppo sostenibile di lungo periodo vie-
ne ad essere così riassorbito nella stessa razionalità della
costituzione economica. Si tratta di un modello teorico
che è scientificamente, giuridicamente, economicamen-
te auspicabile e possibile, e che può dare ai territori raf-
finati strumenti di monitoraggio, controllo e progetto
per tornare a incidere sul loro destino e sul loro futuro.
79. Art. 119, rispetto al quale segnalavo, già subito dopo la riforma costituzionale
del 2001, la necessità di una «intensa interpretazione adeguatrice orbitante intorno
alla valorizzazione del principio di finanziamento integrale delle funzioni pubbli-
che regionali e locali mediante le entrate fiscali derivanti da ricchezza prodotta nei
rispettivi territori» (Audizione del Presidente dell’A.I.C. al Senato sulla revisione del
Titolo V, parte II della Costituzione - Risposte dei soci dell’A.I.C. ai quesiti, in http://
bit.ly/1RsOPb1).

215
I beni comuni oltre i luoghi comuni

Il suo esito però non dipende dalle demenziali ricon-


figurazioni degli assetti proprietari all’interno di quella
categoria dello spirito di cui si è detto all’inizio,80 ma è
legato alla sincerità con cui i formanti dell’ordinamen-
to giuridico, le forze politiche e la comunità scientifica
metteranno la ricchezza economica di lungo periodo dei
territori e delle generazioni future prima e al di sopra di
ogni interesse settoriale dei poteri oscuri e alieni che da
sempre lo insidiano.
Altrimenti, non resterà che definitivamente con-
cludere, con Schiller e Asimov, che, contro la stupidità
umana, gli stessi dei combattono invano.

80. Si veda la nota 1.

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