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centocinquantenario

1857. Conflitto civile e guerra nazionale nel Mezzogiorno


di Carmine Pinto

1. Un conflitto italiano: la spedizione di Pisacane e il Sud nel 1857

Le province dell’Appennino meridionale furono il cuore della rivolu-


zione nazionale italiana tra l’agosto e il settembre del 1860. La campagna
di Garibaldi in Sicilia era terminata. Il generale sbarcò in Calabria e mar-
ciò rapidamente su Napoli, mentre i corpi borbonici schierati nell’estrema
penisola si sfasciarono uno dopo l’altro. I nazionalisti unitari costituirono
nei capoluoghi e nei distretti delle province calabresi e lucane (e in alcune
campane e pugliesi) i governi provvisori, proclamando la decadenza della
dinastia borbonica. Come in tutte le crisi di regime si consumarono ranco-
ri, vendette e violenze. Nella maggioranza dei casi gli scontri tra i nemici
napoletani, tra cittadini del vecchio Regno e dello stesso Stato, si combat-
terono alla frontiera pontificia, negli Abruzzi e sul fronte del Volturno.
Non mancarono episodi simili, anche se limitati, nelle altre province.
I ricordi del conflitto civile iniziato quasi settant’anni prima nel Mezzo-
giorno erano profondi. Le colonne dell’esercito meridionale (e delle guardie
nazionali che si aggregavano) erano composte da veterani della lotta politica
nelle Due Sicilie che volevano farsi giustizia e regolare qualche conto. Fu
per questo motivo che il 6 settembre, lo stesso giorno che Garibaldi entrava
a Napoli, un distaccamento di volontari garibaldini occupò Sanza, il paese
dove era stato ucciso Pisacane con molti dei suoi seguaci solo tre anni pri-
ma. La colonna, interamente formata da cilentani, aveva tra i suoi ufficia-
li dirigenti storici delle cospirazioni meridionali: Teodosio De Dominicis,
Cristofero Ferrara, Salvatore Magnone e tanti altri, tutti figli di condannati
politici, a loro volta reduci da galere e persecuzioni. Il paese fu occupato e
messo in stato d’assedio. I principali attori dell’eccidio del 2 luglio 1857,
«Meridiana», n. 69

l’ex capo urbano Laveglia e il cancelliere comunale Greco Quintana, furono


arrestati con alcuni loro gregari, massacrati di botte e poi giustiziati.
Pisacane era stato vendicato: Francois Lenormant, un archeologo fran-
cese che viaggiò per quei posti, scrisse «c’était répondre au meurtre par le

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meurtre». Le stesse formazioni garibaldine locali e la guardia nazionale ra-


strellarono le abitazioni dei capi e dei militi della disciolta guardia urbana
borbonica che avevano partecipato agli eventi di tre anni prima. Erano vi-
cini di casa e, molto spesso, nemici da generazioni. Molti furono arrestati e
tutti disarmati. Qualcuno (come il delatore Grezzuti che pure doveva essere
giustiziato) riuscì a fuggire e a sparire in America. I rivoluzionari si fecero
consegnare dagli ex-urbani i «medaglioni che furono ricompensa dei suoi
uccisori», le decorazioni distribuite copiosamente e con gran pompa da Fer-
dinando II. Un comitato di notabili liberali locali organizzò una grande ma-
nifestazione per annunciare la fusione delle medaglie nei luoghi del dramma
di Pisacane, mentre era ancora in corso la campagna del Volturno1.
La storia si era rovesciata. Il governatore della provincia nominato da
Garibaldi era Giovanni Matina. Si trattava del mazziniano che aveva ide-
ato il piano adottato da Pisacane. Ora sedeva sulla poltrona che tre anni
prima era stata occupata dall’ex-intendente ed ex-ministro di polizia Lu-
igi Ajossa, l’uomo che con pugno di ferro aveva guidato l’annientamento
della Spedizione. Questo capovolgimento politico, simbolico e nell’uso
stesso della violenza, non era nuovo nella storia della politica napoletana.
Tante volte si erano visti cambi di regime, a volte effimeri, in altri casi più
seri e duraturi nel terribile conflitto che da generazioni aveva radicalmente
diviso il Mezzogiorno.
Uno scontro iniziato alla fine degli anni novanta del Settecento, tra i
sostenitori delle novità diffuse dalla Rivoluzione e i difensori dei vecchi
Stati e dei loro valori. Motivazioni ideologiche, aspirazioni individuali,
lacerazioni sociali avevano prodotto una dura contrapposizione, che era
continuata nel decennio dei napoleonidi. Fino a Waterloo questa lotta fu
condizionata dalla presenza francese e da quella degli alleati. Il 1815 non
pose fine a questa frattura, solo ne cambiò il segno. Liberalismo e legit-
timismo diventarono i due volti della contesa meridionale. Il brigantag-
gio politico filo-carbonaro in Puglia, le cospirazioni salernitane e cala-
bresi precedettero la rivoluzione costituzionale. Il principe di Canosa, i
calderai, la mobilitazione del clero continuarono sul fronte opposto una

1 Recentemente sono stati recuperati diversi documenti, tra cui il diario privato dell’arciprete
locale che seguì gli avvenimenti, si veda F. Fusco, Carlo Pisacane e la Spedizione di Sapri, Galze-
rano editore, Casalvelino 2007. Per la distribuzione delle medaglie alla Guardia Urbana nel 1857
si veda Ministro e Real segreteria di Stato della Presidenza del consiglio dei ministri all’Intendente
di Principato Citeriore Luigi Ajossa, in ASS, disbarco sedizioso effettuato in Sapri, B. 98, f. 5. I
documenti originali sulla rivoluzione nel distretto di Sala furono pubblicati in originale qualche
mese dopo, si veda A. Alfieri D’Evandro, Della insurrezione nazionale nel salernitano. Pensieri e
documenti, Del Vaglio, Napoli 1861, pp. 46-54. Per le abbreviazioni successive: ASN (Archivio di
Stato di Napoli), ASS (Archivio di Stato di Salerno), MSMN (Museo nazionale di San Martino);
FS (fondo Sapri).

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Pinto, Conflitto civile e guerra nazionale

battaglia anti rivoluzionaria con altrettanta determinazione degli avversari


liberali. Il 1821 non chiuse definitivamente la partita. Rivolte e congiure
proseguirono fino agli anni trenta, mentre una parte importante della clas-
se dirigente locale finì ancora una volta in esilio2.
La monarchia amministrativa di Ferdinando II tentò di stabilizzare
le Due Sicilie. Dalla metà degli anni quaranta, invece, ripresero rivolte
e cospirazioni, da Cosenza (1844) a Reggio e Messina (1847). L’ultimo
tentativo di conciliazione fu la breve stagione costituzionale iniziata nel
gennaio del 1848. Ancora una volta fu un accordo effimero, interrotto
dalle barricate del 15 maggio e poi dalla rivolte in Calabria e nel Cilento,
concluso dal deciso intervento militare in Sicilia e nelle province insorte,
seguito dalla intransigente repressione borbonica del 1849. La contrappo-
sizione ricominciò con la lotta clandestina, con la fondazione della «setta
per l’Unità italiana» e poi del «comitato segreto napoletano», esplose nella
crisi del ’59-’61, per terminare con la sconfitta del brigantaggio e il disim-
pegno del governo borbonico in esilio a Roma3.
La Spedizione di Pisacane si collocò nel momento di passaggio tra
la reazione borbonica e la crisi finale del Regno. La storiografica ha in-
dagato le azioni dei due principali protagonisti, Mazzini e Pisacane. In
seguito si è guardato al complesso reticolo geopolitico e diplomatico
in cui l’impresa di Sapri era stata un tassello cruciale nella dialettica tra
moderati e democratici, determinando il declino di Mazzini, l’ascesa del-
la Società nazionale, lo sviluppo della politica di Cavour e la crescente
delegittimazione del Regno delle Due Sicilie4. Solo alcune ricerche locali
hanno guardato lo scenario in cui si collocò l’impresa di Pisacane5. Tutti

2  A.M. Rao, Esuli. L’emigrazione politica italiana in Francia (1799-1802), Guida, Napoli
1992; M. Isabella, Risorgimento in esilio. L’internazionale liberale e l’età delle rivoluzioni, Later-
za, Roma-Bari 2011; Id., Exile and Nationalism: the case of Risorgimento, in «European History
Quarterly», 4, 2006; F. Sofia, Esilio e Risorgimento, in «Contemporanea», 3, 2011, pp. 557-64.
3 G. Galasso, Il Mezzogiorno borbonico e risorgimentale (1815-1860), Utet, Torino 2006; M.
Meriggi, Gli stati italiani prima dell’Unità. Una storia istituzionale, il Mulino, Bologna 2002; H.
Acton, I Borboni di Napoli (1734-1825), Martello, Milano 1960; G. De Sivo, Storia delle Due Sicilie
dal 1847 al 1861, (1863), Berisio, Napoli 1962-1966; G. Galasso, I Borboni delle Due Sicilie, Edita-
lia, Roma 1992; R. Moscati, I Borboni d’Italia, ESI, Napoli 1970; M. Petrusewicz, Come il Meri-
dione divenne una Questione. Rappresentazioni del Sud prima e dopo il Quarantotto, Rubbettino,
Catanzaro 1998; A. Spagnoletti, Storia del Regno delle Due Sicilie, il Mulino, Bologna 1997.
4 G. Berti, I democratici e l’iniziativa meridionale nel Risorgimento, Feltrinelli, Milano 1962;
B. Croce, Storia d’Europa nel secolo XIX, Laterza, Bari 1943; G. Salvemini, Mazzini, Catania 1915.
Per la Spedizione: S. Russo, La storiografia sul Mezzogiorno nell’ultimo quarantennio, in La sto-
riografia sull’Italia contemporanea, a cura di G. Cassina, Giardini, Pisa 1991; Tra pensiero e azione:
una biografia politica di Carlo Pisacane, a cura di C. Pinto e L. Rossi, Plectica, Salerno 2010.
5 L. De Monte, Cronaca del Comitato Segreto di Napoli sulla Spedizione di Sapri, Stamperia
del Fibreno, Napoli 1877; P. Bilotti, La Spedizione di Sapri. Da Genova a Sanza, Salerno 1907; L.
Cassese, La Spedizione di Sapri, Laterza, Bari 1968.

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lavori inseriti nella lunga tradizione che, hanno ricordato Roman Schnur
e di recente Gabriele Ranzato, ha collocato gli studi sulle rivoluzioni
e sulle guerre civili sempre all’interno della prospettiva rivoluzionaria,
anche a prescindere dalla appartenenze ideologiche e culturali degli stu-
diosi6. Il conflitto civile non è una inevitabile e ripugnante conseguenza
di una frattura storica (la guerra fratricida), o una categoria subordinata
a un movimento lineare e progressivo qual è quello rivoluzionario, ma
una lotta per il potere o per un’ideologia, all’interno di un paese e tra
cittadini dello stesso Stato. Pertanto è un elemento necessario per com-
prendere la formazione della nazione nell’epoca risorgimentale7.
Nel 1857, ancora una volta, emersero due opposte scelte rispetto
all’appartenenza allo stesso Stato. Norberto Bobbio ha definito le guer-
re civili come «lotta tra parti, partiti, fazioni costituite da cittadini dello
stesso Stato o della stessa città»8. Nel Mezzogiorno borbonico c’era que-
sta condizione: c’era chi preparava e tentava un atto di guerra contro le
forze al potere e chi reagiva per difendere il proprio ruolo e la titolarità.
Nel Sud degli anni cinquanta c’erano almeno quattro differenti correnti
politiche, con varianti al loro interno: radicali e moderati tra i liberali,
costituzionali e assolutisti tra i legittimisti.
Alla base, due visioni opposte e nemiche: quelli che sostenevano la
casa di Borbone e la sua tradizione più che secolare, e quelli che avevano
abbracciato il liberalismo o la democrazia, con il mito della unificazione
italiana. I termini della questione erano chiari ai contendenti. Anche il
capo urbano realista di un piccolo paese del Regno capiva che gli avver-
sari volevano «distruggere il real governo»9. Quando iniziò lo scontro a
fuoco tra gli uomini di Pisacane (quasi tutti meridionali) e la gendarme-
ria e la guardia urbana borbonica (tra l’altro quasi tutti civili), raccontò

6 Si veda G. Ranzato, Un evento antico e un nuovo oggetto di riflessione, in Guerre fratri-
cide. Le guerre civili in età contemporanea, a cura di G. Ranzato, Bollati Boringhieri, Torino
1994, pp. IX-XVI. Per un inquadramento del dibattito: Nazione e controrivoluzione nell’Europa
contemporanea 1799-1848, a cura di E. di Rienzo, Guerini e associati, Milano 2004; R. Schnur,
Rivoluzione e guerra civile, Giuffré, Milano 1986; R. Cobb, Reazioni alla rivoluzione francese,
Franco Angeli, Milano 1990. Per un confronto: E. Labrousse, 1848-1830-1789: comment naissent
les révolution, Presses Univérsitaires de France, Paris 1948; M. Mollat e P. Wolff, Les révolutions
populaires en Europe aux XIV e XV siècles, Calmann-Levy, Paris 1993; P. Viola, Il crollo dell’an-
tico regime. Politica e antipolitica nella Francia della rivoluzione, Donzelli, Roma 1993; C. Tilly,
Le rivoluzioni europee 1492-1992, Laterza, Roma-Bari 1993: D. M. G. Sutherland, Rivoluzione e
controrivoluzione. La Francia dal 1789 al 1815, il Mulino, Bologna 1985.
7 S. Lupo, L’unificazione italiana. Mezzogiorno, rivoluzione, guerra civile, Donzelli, Roma
2011, pp. 6-12.
8 N. Bobbio, Guerra civile, in «Teoria politica», 1992, 1-2, p. 299.
9 Relazione del capo urbano di Sapri Vincenzo Peluso, luglio 1857, in ASS, Processi politici,
B. 197, ff. 3-4.

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Pinto, Conflitto civile e guerra nazionale

un funzionario, la seconda «ruppe nel grido di Viva il Re e quegli sciagu-


rati risposero con una scarica di fucilate gridando Viva l’Italia»10.
All’interno della crisi italiana, era in corso nel Sud uno scontro pro-
fondamente diverso (anche rispetto alla Sicilia autonomista e antibor-
bonica). Non c’era un esercito di occupazione, né – come a Roma – una
missione militare francese, né – come nel Lombardo Veneto – un siste-
ma integrato in un impero autoritario e multinazionale. Solo nel 1860 il
conflitto civile si intrecciò con una guerra tra Stati, con la formazione
di opposti governi presenti sul territorio nazionale (liberale a Napoli,
legittimista a Gaeta). Negli anni cinquanta la battaglia politica, pur stret-
tamente vincolata alle dinamiche internazionali e alla rete liberale, fu
quasi esclusivamente locale. Anzi, proprio la forza politica e l’autono-
mia militare della casa napoletana presentano efficacemente la lettura di
una prospettiva interna al conflitto civile meridionale. Nel napoletano
Ferdinando II si era sbarazzato da solo dei liberali. Eppure, proprio nel
passaggio tra il ’48 e il sessanta avvenne quella progressiva disarticola-
zione delle strutture del Regno, che non c’era stata nell’anno della rivo-
luzione europea e che fu tra i fattori decisivi del crollo. Il conflitto degli
anni cinquanta è pertanto un passaggio importante anche per compren-
dere le radici della crisi dell’estate 1860, da qualche tempo al centro di
nuove analisi della storiografia italiana11.
La spedizione fu l’ultimo importante evento di quel decennio. Im-
posta e decisa da Mazzini e Pisacane, contro il parere di dirigenti de-
mocratici come Garibaldi, Medici e Cosenz, si risolse in meno di una
settimana. Pisacane partì con il suo commando di meno di trenta uomini
alla fine del giugno 1857, s’impadroní di un piroscafo civile piemontese,
il Cagliari, e si diresse al Sud. Con un rapido blitz si sbarazzò della guar-
nigione borbonica dell’isola di Ponza e arruolò poco più di trecento tra
relegati e militari in punizione. Giunto a Sapri, si diresse verso Napoli
senza trovare appoggi e consensi. I suoi amici erano quasi tutti in carcere
o, con poche eccezioni, completamente ignari dello sbarco. La reazione
delle forze di sicurezza invece fu rapida ed efficace. L’intendente di Sa-
lerno, Ajossa, fece convergere sul luogo della crisi nel giro di tre giorni
due formazioni di regolari, insieme alle forze di polizia e ai distaccamen-

10 Relazione del giudice regio del circondario di Sanza Vincenzo Leoncavallo al Procuratore
Generale del Re Francesco Pacifico, in ASS, Processi politici, B. 205, ff. 6-8.
11 Lupo, L’unificazione italiana cit.; M. Marmo, Il coltello e il mercato. La camorra prima
e dopo l’Unità, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2011; N. Perrone, L’inventore del trasfor-
mismo. Liborio Romano, strumento di Cavour per la conquista di Napoli, Rubbettino, Soveria
Mannelli 2009; Quando crolla lo Stato. Studi sull’Italia pre-unitaria, a cura di P. Macry, Liguori,
Napoli 2003; R. Martucci, L’invenzione dell’Italia unita. 1855-1864, Sansoni, Milano 1999.

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ti di paramilitari. La colonna venne sbaragliata il 1 luglio a Padula dalla


guardia urbana, dalla gendarmeria e dalla fanteria leggera del colonnello
Ghio. Il giorno dopo Pisacane e molti dei suoi furono massacrati a Sanza
dagli urbani e dai civili del paese. I superstiti furono processati a Salerno,
con grande eco sulla stampa nazionale e internazionale.
La reazione borbonica fu quindi un modello di efficienza repressiva.
La rapida conclusione dell’impresa finì per mascherare, soprattutto nelle
ricostruzioni successive, un conflitto di intelligence e congiure, orga-
nizzazioni segrete e azioni di polizia, rivalità paesane e odi personali,
fratture familiari e solidarietà antiche. Oggetto di questa analisi sono
le migliaia di meridionali coinvolti (tra cui i capi) in questa tragica vi-
cenda. La narrazione interna al movimento risorgimentale e le vicende
diplomatiche restano sullo sfondo di questo studio, che si concentra sui
personaggi i quali continuarono nelle province napoletane la decennale
lotta tra liberalismo e legittimismo, con l’obiettivo di approfondire tre
aspetti: il profilo politico e sociale dei protagonisti; l’esperienza concre-
ta, operativa ed organizzativa delle forze di sicurezza borboniche e della
rete clandestina liberale; lo sviluppo di una opposta idea di nazione, di
fedeltà a una patria e di definizione del nemico dello stesso Stato. Dai
giorni immediatamente successivi al massacro di Sanza, fino al famo-
so processo di Firenze del 1876, furono le letture prodotte a posteriori
dai superstiti o dai dirigenti del movimento liberale a condizionare una
interpretazione tutta interna alla dialettica tra democratici e moderati.
Le due fonti principali di questo lavoro sono la vasta corrispondenza
tenuta da intendenti e funzionari sui fatti politici del Regno e la vasta
corrispondenza del comitato segreto (l’unica documentazione superstite
dell’azione clandestina meridionale, che continua a offrire innumerevo-
li spunti e notizie). Del resto, la stessa storia di quei documenti è una
conferma della complicata storia del conflitto meridionale. I documenti
furono salvati miracolosamente da Rosa Morici, moglie di Luigi Dra-
gone, uno dei dirigenti operativi del comitato segreto. Dopo l’Unità fu-
rono consegnati alle nuove istituzioni e poi al Museo di San Martino.
La Morici era sorella di un altro militante democratico, fuggito a Malta
e figlia di un vecchio carbonaro, Domenico, protagonista di quella che
diventò famosa come la congiura del monaco, poi morto nelle carceri
borboniche12.

12  Lettera di Rosa Morici al direttore del Museo di San Martino, Napoli 9 luglio 1900, in
MNSM, FS, s. 9, cass. XXIX.

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Pinto, Conflitto civile e guerra nazionale

2. Un conflitto antico: gli uomini del re e gli uomini della rivoluzione

I protagonisti dell’estate del 1857 continuavano le lotte del lungo ’48.


Erano però una minoranza. Negli anni cinquanta quella vasta area che
aveva simpatizzato prima per le potenziali riforme del Borbone, poi per il
liberalismo moderato e costituzionale, era prudentemente disimpegnata o,
se in sintonia con l’opposizione, riponeva poca speranza in un ennesimo
tentativo rivoluzionario. In tutte le guerre civili esiste un ambiente molto
vasto che tende a non schierarsi, o comunque a non partecipare a eventi
violenti o bellici, ma condiziona i combattenti. Sono le grandi forze che
entrano in campo per brevi momenti e spesso decidono l’esito delle crisi
(il Sud del 1820, del 1848 e soprattutto del 1860). Il decennio aperto dal
ritiro della Costituzione e chiuso con la morte di Ferdinando II invece co-
nobbe solo un conflitto a bassa intensità, limitato a funzionari e militanti
borbonici da un lato, agli esponenti più decisi del nazionalismo unitario
dall’altro. Il livello di esposizione politica, dopo la violenta repressione
del movimento liberale meridionale, era basso e speculare al formale o
convinto ossequio alla dinastia (settori decisivi dell’opposizione erano poi
in carcere o in esilio). Nonostante questo gli elenchi degli attendibili (gli
oppositori privi di diritti politici formalmente registrati dopo il ’48) erano
talmente vasti, da offrire comunque un’ampia massa di manovra per i libe-
rali e altrettanti potenziali nemici per i borbonici.
I termini dello scontro degli anni cinquanta erano facilmente identifica-
bili: all’interno dello Stato, una parte degli attori politici (i liberali radicali)
negava la prosecuzione del sistema degli avversari (i legittimisti borbonici)
e provocava una dura reazione e repressione. Le élites che si combatte-
vano provenivano da una lunga militanza, a volte plurigenerazionale, un
elemento importante per individuarne i caratteri. Infine, uno sguardo, pur
breve, non può limitarsi ai combattenti di professione, ai dirigenti dell’una
o dell’altra parte. Una situazione di conflitto civile, infatti, contiene linee
di frattura che si propagano all’interno della società, raggiungendo paesi e
villaggi, incamerando spesso le lotte tra fazioni richiamate da Jean Martin
o da Paolo Pezzino, fondamentali per il quadro generale13.
Nell’ambiente legittimista, i vincitori del 1849 erano i dirigenti che
avevano fatto carriera, senza aver interrotto il proprio percorso politico
o militare, anzi consolidando le proprie fortune con la vittoria di Fer-

13 J.C. Martin, Rivoluzione francese e guerra civile e P. Pezzino, Risorgimento e guerra civile.
Alcune considerazioni preliminari, in Ranzato, Guerre fratricide cit. Per un confronto interpreta-
tivo, Ch. Tilly, La Vandea, Rosenberg & Sellier, Torino 1976; J.C. Martin, I bianchi e i blu. Realtà
e mito della Vandea nella Francia rivoluzionaria, SEI, Torino 1989.

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Centocinquantenario

dinando II. Nel mondo liberale, invece, si trattava della generazione più
giovane del 1848 o addirittura di giovanissimi. I parlamentari, i dirigenti
più in vista erano in esilio o in carcere, comunque fuori gioco in questa
fase (torneranno in campo nel sessanta). Gli uomini del decennio e della
rivoluzione costituzionale erano molto anziani, spesso morti o fuorigioco
(in qualche caso riassorbiti dalla politica del re, come Filangieri). Il taglio
scelto in questo saggio ci porta invece ai quadri direttamente impegnati nel
Mezzogiorno nello scontro tra rivoluzione e controrivoluzione.
Una premessa sui due napoletani più in vista nei fronti del 1857 può
offrire un primo profilo della frattura meridionale: Ferdinando Troya, al
vertice borbonico, e Carlo Pisacane, il leader rivoluzionario. Troya era dal
1852 segretario di Stato e presidente del consiglio dei ministri. Uomo duro
e puro della dinastia (De Cesare lo ricordava ai limiti della superstizione re-
ligiosa), aveva sostituito Giustino Fortunato (altro parente di futuri illustri
meridionali), caduto in disgrazia dopo il fallito tentativo di evitare la pubbli-
cazione delle lettere di Gladstone. Suo fratello, Carlo, storico del medioevo
ed esponente del neoguelfismo napoletano, era invece stato l’unico capo del
governo costituzionale di tendenza unitaria, dimessosi a causa gli scontri del
15 maggio, dopo aver cercato di portare il Regno nell’alleanza italiana e di
spostare l’equilibrio politico delle Due Sicilie a favore di un liberalismo co-
stituzionale e modernizzante. Entrambi provenivano dalla classe dirigente
del Regno, ma finirono per rappresentare due simboli opposti dello svilup-
po della monarchia amministrativa. Tutti e due i fratelli, in epoche diverse e
per motivi contrari, moriranno isolati e sconfitti.
Altrettanto valido è l’esempio dei Pisacane. La biografia di Carlo, uomo
di punta della democrazia nazionalista (e socialista), è conosciuta (sono re-
centi alcuni studi sulla compagna Enrichetta)14. Dopo la fuga d’amore e le
varie peripezie dell’esilio (con la parentesi della Legione straniera) fu tra i
volontari del 1848 e, soprattutto, capo di stato maggiore della Repubblica
romana. Nel decennio successivo fu uno dei più originali e combattivi
intellettuali della sinistra democratica, figura di spicco nei dibattiti ide-
ologici tra gli esuli e i militanti nazionalisti15. Quasi ignota è la storia del
fratello Filippo, fedelissimo ufficiale borbonico. Seguì il re nella campagna

14 E. Doni, C. Galimberti, L. Levi, D. Maraini, M.S. Palieri, L. Rotondo, F. Sancin, M. Serri,
F. Tagliaventi, C. Valentini, Donne del Risorgimento, il Mulino, Bologna 2011.
15 C. Pisacane, La rivoluzione, Einaudi, Torino 1976; Id., La guerra del 1848-49 in Italia,
Rossi, Napoli 1970; Id., Vita e scritti scelti, Dalai, Milano 2011; Id., Eguaglianza, Mimesis, Milano
2011; L. Russi, Carlo Pisacane: vita e pensiero di un rivoluzionario senza rivoluzione, Esi, Napoli
2007; A. Bojano, Briganti e senatori: Garibaldi, Pisacane e Nicotera nel destino di un senatore
del Regno, Guida, Napoli 1997; L. La Puma, Il pensiero politico di Carlo Pisacane, Giappichelli,
Torino 1995; C. Vetter, Carlo Pisacane e il socialismo risorgimentale, Franco Angeli, Milano 1984;
N. Rosselli, Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano, Einaudi, Torino 1958.

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Pinto, Conflitto civile e guerra nazionale

contro la Repubblica romana, rischiando di battersi contro Carlo (con cui


mantenne una drammatica corrispondenza). Fu con Ferdinando II nelle
repressioni seguite al 1849 e restò fedele alla dinastia anche nel tragico
momento della Spedizione di Sapri. Nel sessanta fu tra gli eroi borbonici
del Volturno e tra gli estremi difensori del Regno delle Due Sicilie nel-
la fortezza di Gaeta. Abbandonò la famiglia e morì in esilio, sognando
un’impossibile conquista del Regno16.
I Pisacane e i Troya sono esempi importanti per comprendere la rottu-
ra che aveva diviso il Mezzogiorno. Però il profilo dei quadri del conflitto
degli anni cinquanta mostra ambienti molto compatti nelle tradizioni e
nelle appartenenze politiche. Tra i borbonici, oltre a Troya, i principali at-
tori del 1857 furono Luigi dei Marchesi di Ajossa (intendente di Salerno),
Giuseppe Ghio (comandante delle forze regolari) e Lodovico Bianchini
(ministro dell’Interno), a un livello inferiore c’erano Giuseppe Calvosa
(sottintendente di Sala) e Girolamo de Liguoro (comandante della Gen-
darmeria). Ajossa proveniva da una famiglia da sempre devota ai Borbo-
ne, scalò i vertici amministrativi nella stagione della reazione successiva al
1849, diventando intendente di Bari. Era un uomo ambizioso, religioso
e tradizionalista, rigido e intransigente nelle persecuzioni ai liberali, effi-
ciente nella direzione della provincia. Nell’aprile del 1855 fu posto a capo
dell’intendenza di Salerno, al vertice della gerarchia amministrativa del
Regno17. Fu il regista della liquidazione della spedizione di Sapri e diventò
poi direttore dei Lavori pubblici e ministro di polizia18.
Anche il comandante delle truppe regolari, il colonnello Ghio, veniva
da una famiglia di antiche tradizioni borboniche (da parte materna di-
scendeva dai Baccher della famosa congiura antirepubblicana del 1799).
Aveva fatto il tradizionale cursus honorum dell’esercito: l’accademia della
Nunziatella, l’arruolamento, la carriera da ufficiale nel corpo d’élite dei
Cacciatori. Nel 1848 era stato a fianco del re e nel 1857 ebbe la responsa-
bilità di affrontare militarmente Pisacane19. Il ministro di polizia, Ludovi-

16 Su Filippo Pisacane è in corso di stampa un saggio scritto dal suo discendente dott. Ernesto
Pisacane. L’archivio dei Pisacane è ancora conservato, in parte dalla famiglia, in parte depositato
presso la Biblioteca nazioanle di Napoli. Un caso analogo a quello di Rosolino Pilo e del fratello
borbonico, si veda Pezzino, Risorgimento e guerra civile cit., p. 66.
17 ASS, Gabinetto Intendenza, B. 274, f. 38.
18 P. Villani, Luigi Ajossa, in Dizionario Biografico degli Italiani; Necrologio, in «La Illustra-
zione italiana», V (1878), I sem., p. 9; Bilotti, La spedizione di Sapri cit.; R. De Cesare, La fine di
un Regno, I, Città di Castello 1908, pp. 8, 280-282; L. Cassese., Luci ed ombre nel Processo per
la spedizione di Sapri, in L’attività del centro culturale dell’Archivio di Stato di Salerno, Salerno
1958, pp. 72, 75, 80.
19  Esercito delle Due Sicilie, Ruoli de’ generali ed uffiziali attivi e sedicenti di tutte le armi del
real esercito di s.m. il re del Regno delle Due Sicilie, Reale tipografia militare, Napoli1846.

179
Centocinquantenario

co Bianchini, era un tecnocrate tra i più prestigiosi esponenti della classe


dirigente di Ferdinando II e del dibattito sul rinnovamento economico del
Regno. Nel ’48 dovette fuggire dalla Sicilia, dove era segretario agli Inter-
ni, quando dilagò la rivoluzione. Con la nuova restaurazione fu conferma-
to ai vertici dell’apparato pubblico e da ministro degli Interni coordinò la
lotta alla cospirazione liberale20.
I due sottoposti Giuseppe Calvosa e Girolamo De Liguoro avevano un
identico percorso. Il primo veniva dalla burocrazia, anche lui con un passato
familiare e politico borbonico, era stato con il re nel ’48-’49, e come funzio-
nario in Calabria si era dimostrato un efficace avversario del ribellismo lo-
cale21. Fu lui ad affrontare per primo la crisi del 1857. A De Liguoro, invece,
uno dei più temibili avversari del liberalismo nel ’48 e negli anni successivi,
era stato dato l’ordine (eseguito con efficienza) di ripulire l’odiato Cilento
dalla piaga liberale22. Nel ’57 fu il primo a scontrarsi con Pisacane.
Questa rapida panoramica ci mostra un gruppo di dirigenti pienamente
inseriti in una lunga tradizione di fedeltà alle istituzioni della patria napole-
tana (esercito e burocrazia), nei momenti cruciali (1848) e attraverso mec-
canismi familiari e di carriera (promozione politica e sociale). Uomini che
dimostrarono il massimo della coesione nel successo del ’49 e dell’efficienza
nella repressioni degli anni cinquanta, testimoniando il consolidamento di
un settore della società napoletana nelle istituzioni di Ferdinando II e la pre-
senza di una solidarietà politica e ideologica emersa nell’estrema resistenza
del Regno. Furono quasi tutti travolti dall’azione dell’erede Francesco II:
Bianchini lasciò il governo, tornando alla prestigiosa cattedra di economia
dell’università; Ajossa e Calvosa dovettero abbandonare i loro incarichi.
Attraverso la loro corrispondenza e negli interventi pubblici giudicarono
un grave errore la scelta costituzionale: avrebbe paralizzato quelle strutture
operative e repressive che avevano dimostrato di sapere usare bene23. Resta-

20  F. Minolfi, Contemporaneità. Biografia del cav. Ludovico Bianchini [Biogr. del cav. L.
B.], Capolago 1840; B. Cely Colaianni, Intorno la vita e le opere del comm. Ludovico Bianchini,
Napoli 1856; G. Ricca Salerno, Storia delle dottrine finanziarie in Italia, A. Reber, Palermo 1896;
E. De Vincentiis, La caduta della monarchia borbonica in un’opera inedita di Ludovico Bianchini,
in Archivio storico italiano, LXXXIII (1925); B. Croce, Francesco De Sanctis e lo scioglimento e
la ricomposizione della Società Reale di Napoli nel 1861, in Id., Aneddoti di varia letteratura, IV,
Laterza, Bari 1954; G. Raffiotta, Della vita e delle opere di Ludovico Bianchini, in L. Bianchini,
Storia delle finanze del Regno di Napoli, Cedam, Padova 1960; R. Villari, Problemi dell’economia
napoletana alla vigilia dell’unificazione, in Id., Mezzogiorno e contadini nell’età moderna, Later-
za, Bari 1961; G. Cingari, Il dibattito sullo sviluppo economico del Mezzogiorno dal 1825 al 1840,
in Id., Problemi del Risorgimento meridionale, D’Anna, Messina–Firenze 1965.
21 Nomina del cav. G. Calvosa, in ASS, Gabinetto Iintendenza, B. 275, f. 9.
22 Incartamento sulla vita del maggiore di Gendarmeria reale sign. De Liguoro nel Distretto
di Vallo, in ASS, Gabinetto Intendenza, B. 123.
23 De Cesare, La fine di un regno cit., pp. 241-8.

180
Pinto, Conflitto civile e guerra nazionale

rono fedeli però alla dinastia. Nel 1860, ad esempio, la famiglia di Ajossa fu
accusata di promuovere i violenti tumulti che nel suo circondario accompa-
gnarono il plebiscito, repressi dai garibaldini calabresi di Agostino Plutino.
Anche De Liguoro (con gran parte della gendarmeria) combattè fino alla
fine per l’estrema difesa della dinastia. L’eccezione fu Ghio, testimonianza
dello sbandamento di una parte della classe dirigente borbonica. Si arrese a
Garibaldi con i suoi uomini a Soveria Mannelli e fu nominato dal dittatore
comandante della fortezza di Sant’Elmo, ma subito destituito per le proteste
dei mazziniani. Fu ucciso, in forme misteriose e mai chiarite, in una zona
collinare di Napoli, i Ponti rossi.
Se la classe dirigente borbonica del 1857 era convinta della propria ap-
partenenza politica e funzione nazionale, dall’altro lato del conflitto me-
ridionale troviamo un’altrettanto solida determinazione negli ambienti
liberali che avevano invece scelto definitivamente la possibile patria ita-
liana. I dirigenti erano tutti (o quasi) professionisti e borghesi, estranei
alle istituzioni del Regno. Le figure più rappresentative, nel Mezzogior-
no, erano Giuseppe Fanelli (segretario del Comitato segreto, ingegnere
e architetto), Nicola Mignogna (avvocato e dirigente pugliese), Giacinto
Albini (avvocato, insegnante e capo dei liberali lucani), Giuseppe Libertini
(massone di Lecce) e Giovanni Matina (medico e leader dei democratici
salernitani). Fanelli nel 1848 andò volontario in Lombardia e nella Repub-
blica Romana. Mazziniano convinto, diventò il segretario del comitato
segreto del Partito d’azione nel napoletano e il principale coordinatore
della rete democratica clandestina24. Mignogna proveniva da una famiglia
antiborbonica dal 1799. Dirigente radicale dagli anni trenta-quaranta fino
al ’48, diventò un punto di riferimento della resistenza antiborbonica e
il principale animatore del comitato segreto, fino all’arresto e all’esilio25.
Albini era il più popolare e radicato tra i dirigenti territoriali del comitato
segreto. Aveva un retroterra territoriale liberale e radicale. Era stato tra i
dirigenti del circolo costituzionale del 1848 e poi tra i fondatori della rete
clandestina in Basilicata (unificando moderati e radicali)26. Matina veniva
da uno storico nucleo carbonaro. Il suo ambiente, il Cilento e il Vallo

24 A. Lucarelli, Giuseppe Fanelli nella storia del Risorgimento e del socialismo italiano, Vec-
chi, Trani 1952.
25 G. Pupino Carbonelli, Nicola Mignogna nella storia dell’Unità d’Italia, A. Morano, Napo-
li 1880; A. Criscuolo, Ricordi di Nicola Mignogna, Taranto 1888; T. Pedio, Dizionario dei patrioti
lucani: artefici e oppositori, (1700-1870), Vecchi, Bari 1969-90; V. Lisi, L’Unità e il Meridione.
Nicola Mignogna (1808-1870), Lupo, Copertino 2011.
26 Per Giacinto Albini: ricordi biografici e storici, Potenza 1883; D. Albini, A Giacinto Albini:
pubbliche onoranze della Basilicata, Potenza 1893; Pedio, Dizionario dei patrioti lucani cit.; L. Pre-
dome, La Basilicata (Lucania), Bari 1964; G. Racioppi, Storia dei moti di Basilicata e delle provincie
contermini nel 1860, A. Morelli, Napoli, 1867.

181
Centocinquantenario

di Diano, aveva conosciuto praticamente tutte le cospirazioni e le rivolte


dei sessant’anni precedenti. Ferito il 15 maggio a Napoli, giunto poi ai
vertici della cospirazione meridionale aveva disegnato il piano operativo
della spedizione, ma fu incarcerato prima dell’arrivo di Pisacane; la stessa
fine fecero tutti i suoi collaboratori27. Giuseppe Libertini, figura di spicco
del ’48 pugliese, esponente di primo piano della massoneria, fu costretto
all’esilio a Londra, dopo i continui colpi sferrati dall’intelligence borboni-
ca al comitato segreto costituito dai liberali radicali28. Anche questo rapido
sguardo ci mostra un gruppo coeso nelle radici politiche e familiari, nelle
esperienze associative e formative (università di Napoli, massoneria) e nel
percorso di vita (militanza liberale, 1848, cospirazione clandestina, carce-
re o condanne, latitanza ed esilio, radicalismo politico e repubblicanesi-
mo). E anche nei percorsi successivi: furono tutti protagonisti del Sessanta
come prodittatori e governatori garibaldini (Matina, Albini e Mignogna),
comandanti di volontari (Fanelli), funzionari (Libertini). Negli anni suc-
cessivi fecero parte del gruppo dirigente della sinistra meridionale come
parlamentari, amministratori e militanti politici.
In conclusione, il confronto tra i due gruppi, anche se limitato ai due
segmenti scelti all’inizio di questo studio, conferma la formazione nel
Mezzogiorno continentale di autonome tradizioni politiche, impostazioni
ideologiche, memorie sociali, territoriali e familiari, esperienze individuali
e collettive sostanzialmente opposte. Erano due forme di appartenenza,
lealtà e identità, foriere di una continua frammentazione della società me-
ridionale, capaci di alimentare un perenne scontro civile tra due mondi in
competizione. Queste linee di conflitto non si limitarono ai livelli centrali
ma coinvolgevano i funzionari come gli attori politici locali, intercettarono
odi o rivalità familiari, lotte di paese e li inserirono in più vaste dinamiche
ideologiche (quelle che Jan Martin ha definito guerre civili di villaggio). La
privatizzazione del conflitto, infatti, amalgama fattori di ogni tipo dietro
l’etichetta dei principi politici. Spesso segmenti di società locale si con-
tendevano la leadership sui territori, favorendo una situazione di fragilità
delle istituzioni, in realtà già abituate a una micro violenza diffusa. Era una
lotta che si combatteva con le armi della propaganda, palese od occulta,
alimentando le rivalità locali, le lusinghe del potere, le ambizioni, ma an-
che le convinzioni morali ed ideologiche. Due fronti che si presentavano
con chiare scelte di appartenenza. Se uno dei principali dirigenti del co-

27 Una vasta e interessante documentazione (privata e pubblica) su Giovanni Matina è in


corso di riordino per mano del pronipote Enzo Matina.
28  M. De Marco, Giuseppe Libertini. Patriota e fondatore delle logge massoniche in terra
d’Otranto, Edizioni del Grifo, Lecce 2009.

182
Pinto, Conflitto civile e guerra nazionale

mitato segreto scriveva che nel suo territorio «il partito reazionario molto
è nei principali paesi disposto ad armarsi e combattervi nell’insorgere», il
funzionario borbonico della stessa area utilizzava parametri esattamente
identici nel definire l’esistenz29. Un rapido sguardo può offrire un quadro
di queste divisioni, ma un’intensa ricerca di archivio e di fonti locali (nu-
merose, anche a livello di archivi privati) consentirebbe in altre sedi uno
studio più organico. Nei centri interessati direttamente dalla spedizione,
si vede con chiarezza che c’erano i due partiti, quello dichiarato, realista, e
quello non dichiarato dei liberali (ma formalizzati come tali perché inse-
riti negli elenchi degli attendibili privi di diritti politici). A Sapri c’erano i
Peluso alla guida del partito borbonico (famosi per aver ucciso il deputato
cilentano Carducci, leader dei moti del ’48). I loro nemici erano i Gallotti,
da generazioni invece gli animatori dell’opposizione. A Padula erano due
religiosi, l’arciprete Santomauro e il prete Vincenzo Padula, capi rispetti-
vamente del partito borbonico e di quello liberale. A Sanza il capo urbano
Laveglia era osteggiato dai Barzelloni. Il capo dei liberali del distretto di
Torchiara, Magnoni, invece aveva i suoi nemici nel capoluogo. Da una
parte e dall’altra c’erano obiettivi e memorie, i realisti avevano la Guardia
urbana, i liberali avevano comandato nel ’48 la Guardia nazionale. Tut-
ti avevano familiari sanfedisti o calderari, oppure liberali e carbonari. Le
linee di frattura si propagavano a ogni livello almeno attraverso due seg-
menti: la formazione di tradizioni, culture e memorie politiche contrap-
poste, oramai consolidate anche a livello locale, e la crescente divisione
della società meridionale tra opinioni e gruppi sempre più distanti.

3. Un conflitto asimmetrico:
Stato e antistato nel Mezzogiorno borbonico

I due segmenti della società meridionale che lottarono negli anni cin-
quanta ereditarono un’esperienza di sessant’anni di scontro politico. I
funzionari e i militari borbonici utilizzavano le strutture del decennio,
consolidate dalla monarchia amministrativa e infine dalla reazione del
post-’48. I nemici della Dinastia riproponevano il tentativo di istituzio-
nalizzare uno Stato parallelo clandestino, creando le condizioni per una
competizione asimmetrica. C’era un paese con istituzioni moderne (in
cui solo un settore, per quanto importante, era preposto all’azione po-

29 Il comitato a Michele Magnone, 13 ottobre 1856, in MSMN, FS, s. 9, c. XXXIX; Il direttore
Bianchini all’Intendente della provincia di Principato Citeriore L. Ajossa, Napoli 16 maggio 1856,
in ASS, Spirito pubblico, B. 157, f. 26.

183
Centocinquantenario

litica e repressiva), che contrastava un’organizzazione clandestina in cui


ogni sforzo era esclusivamente diretto all’opera rivoluzionaria.
Negli anni cinquanta, dopo tre grandi sollevazioni (e tante piccole ri-
volte) le istituzioni erano state attrezzate per garantire la sicurezza dello
Stato e consolidare il consenso politico. Nel 1857 era il ministro Bianchini
a coordinare i vari settori dell’ordine pubblico. Erano però gli intendenti,
una figura a metà tra il governatore e il prefetto, a dover garantire, oltre ai
compiti normali di governo, la coesione tra le forze di sicurezza e i simpa-
tizzanti della causa legittimista. Gli intendenti di Salerno, Cosenza, Lecce
e Potenza erano il fulcro dell’azione repressiva nell’area politicamente più
instabile del Mezzogiorno. I sottintendenti in queste province erano dodi-
ci, vigilavano distretti e comuni ed erano in rapporto diretto con la base le-
alista. I loro interlocutori erano i sindaci e i capi della guardia urbana, scel-
ti tra le famiglie più importanti fedeli al regime. Gli altri amministratori e
i militi urbani provenivano normalmente dai ceti popolari maggiormente
affidabili. Nel loro passato c’era il massismo, la mobilitazione realizzata
sotto la bandiera della Santa fede, e il movimento dei calderari, che, con
minore fortuna e radicamento dei carbonari, aveva conteso a questi ultimi
il controllo dei territori nell’età della Restaurazione. Guardia urbana (fon-
data nel 1827) e squadriglie erano il braccio armato del partito borbonico,
una compagine ideologicamente alternativa alla guardia nazionale liberale
e borghese (la guardia urbana infatti fu sciolta e sostituita dai nazionali nel
’48 e nel sessanta).
Lo Stato utilizzò gli urbani, e molto, ma non intendeva sovradimen-
sionare il potere. Il ricordo del novantanove non era fonte di orgoglio per
molti borbonici. Il cardinale Ruffo, invitato a ripetere l’impresa contro i
francesi, rispose com’è noto che «certe follie si fanno una volta sola»30.
Queste istituzioni negli anni cinquanta si muovevano in un’area geografi-
ca e politica condizionata dalla memorie di decenni di rivolte e di scontri,
dal perenne confronto con il nemico interno. Era questo problema al cen-
tro delle azioni degli attori politici dell’estate del ’57. Bianchini, un mese
prima della Spedizione, tempestava di circolari Ajossa, scrivendo che
non potendosi mettere in dubbio la esistenza di numerose corrispondenze e la cir-
colazione di scritti sovversivi nelle diverse province, io…la interesso nuovamente
a far raddoppiare sempre più la vigilanza […] di ogni minima omissione in questo
importantissimo ramo di servizio, saranno responsabili le autorità rispettive31.

30 B. Croce, Uomini e cose della vecchia Italia, II, Laterza, Bari 1943, p. 318.
31 Il direttore Bianchini all’Intendente Ajossa, Napoli 20 maggio 1857, in ASS, Spirito pub-
blico, B. 157, f. 26.

184
Pinto, Conflitto civile e guerra nazionale

Gli intendenti erano al vertice della piramide, i loro sottoposti (militari


e civili) dovevano sorvegliare le migliaia e migliaia di attendibili (che spes-
so entravano e uscivano dalle galere o erano mandati a domicilio forzo-
so). L’intendente Ajossa pretendeva dai sottoposti la massima attenzione
su costoro: «la sorveglianza su tale classe di persone sarà energicamente
ed accuratamente continuata, por colpire chiunque con misura in caso di
obliquità»32. Dopo il ’48 i liberali erano stati cacciati anche da tutti i posti
di governo nei comuni. Ma nei territori dell’Appennino meridionale pieni
di ribelli non bastava. Bianchini chiedeva ai suoi dipendenti «un elenco
di tutti gli individui di questa provincia, che per la loro cattiva condot-
ta politica serbata nel 1848, vennero destituiti dalle cariche municipali»33.
Soprattutto, la linea di demarcazione doveva essere netta, garantire la di-
nastia ma anche tutelare il senso di appartenenza dei sostenitori dello Sta-
to. Ajossa su questo punto aveva le idee chiare, imponeva ai funzionari
la massima severità visto che nelle liste degli attendibili poteva mancare
«qualcuno il quale dopo essersi compromesso nelle politiche vicende avrà
avuto tant’astuzia e destrezza da schivare che vi fosse compreso, mentre
nell’interesse del vero e delle vedute di Alta Polizia meriti di figurarvi»34.
Questa pressione spaccava la società meridionale tra amici e nemici. Il
risultato era la formazione di una specifica e dividente doppia memoria,
e doppia appartenenza, che tracciavano una linea chiara nelle istituzioni
tra chi poteva partecipare alla vita pubblica e chi, invece, doveva restare
al di fuori. Era una demarcazione tra Stato e antistato che non riguardava
solo i singoli attendibili. C’erano territori, comuni, paesi, pieni di poten-
ziali nemici. I siciliani erano fonte di eterne preoccupazioni anche fuori
dall’isola, fino alla paranoia. Calvosa, mentre indagava sui sovversivi del
suo distretto, si trovò sul litorale di Sapri, dove «osservando ivi ancorate
de’ barche siciliane consimili ed intente a smaltire vino, io spingevo le mie
indagini sugli equipaggi di esse»35. Nel continente c’era una geografia poli-
tica delle rivolte meridionali. I nemici dello Stato non erano solo famiglie,
si concentravano particolarmente in alcuni territori. Per il sottintendente
di Sala il distretto era pericoloso proprio perché funzionale ai percorsi del
«viaggiatore attendibile che poteva passare «al Cilento [...] fiancheggiato

32 Comunicazioni sullo spirito pubblico, in ASS, Gabinetto Intendenza, B. 157, f. 26.


33 Dalla real segreteria di Stato della polizia generale al signor intendente di Salerno,Napoli
2 dicembre 1854, in ASS, Gabinetto Intendenza, B. 94, f. 4.
34  Dall’Intendente di Principato Citeriore al giudice regio del primo distretto, Ispettore di
polizia di Nocera e commissario di polizia di Salerno, Salerno 7 dicembre 1855, in ASS, Gabinetto
Intendenza, B. 13, f. 40.
35 Il Sottintendente del distretto di Sala, G. Calvosa all’Intendente di Principato Citeriore, L.
Ajossa, Sala 30 maggio 1857, in ASS, B. 97, f. 22.

185
Centocinquantenario

dalla Basilicata e [...] mezzo di corrispondenza con la Calabria»36: posto al


centro della mappa delle principali rivolte continentali.
Il Cilento aveva costruito una propria identità rivoluzionaria in mezzo
secolo di rivolte. Un problema presente nell’immaginario dei funzionari
del re. Il sottintendente di Vallo scriveva ad Ajossa che, nonostante centi-
naia di carcerazioni e innumerevoli fughe, «siccome nel Cilento non vi è
attenzione che basti, vado a prescrivere a quei Giudici che spandano più
attenta vigilanza e cerchino di penetrare i discorsi che si fanno specialmen-
te degli attendibili politici»37. Calvosa e gli altri funzionari, pertanto, sotto
la patina dello «spirito pubblico sì tranquillo», dovevano fare i conti con
un ambiente diviso, carico di risentimenti e di tensioni per il potere locale
(anche nella base del regime). A Sapri, scriveva il sottintendente proprio
pochi giorni prima dell’arrivo della spedizione di Pisacane, «quella mag-
gioranza di realisti che una volta rimaneva compatta, amica e forte, ora
si osserva divisa e divergente, se non nelle opinioni nelle tendenze mosse
dall’ambizione»38. Le lacerazioni della società si riflettevano nell’ambiente
legittimista. Lo stesso Calvosa ricordava che «non ho mancato di esortare
tutti perché le gare municipali terminassero una volta, perché le inimicizie,
gli odi e le dissezioni private cessassero e perché sempre costante si serbas-
se la fedeltà al Real Trono»39.
Lo Stato borbonico affrontò il conflitto civile stabilendo una netta de-
marcazione tra amici e nemici, assegnando, in quest’ottica, una precisa
funzione alle istituzioni e ai loro sostenitori. Erano gli esclusi a cercare
un’alternativa che spesso sfociava nella creazione di un vero e proprio an-
tistato. Il comitato segreto era solo l’ultima espressione in ordine di tempo
della più longeva manifestazione della politica meridionale: l’azione clan-
destina aveva sessant’anni di storia, era emersa alla luce del sole per brevi
periodi, nel ’20-21 e nel ’48, occupando le istituzioni del Regno. Aveva
dato vita a una propria tradizione operativa e a una originale mentalità,
pur nella complessità delle correnti, delle visioni ideologiche e delle dif-
ferenti fasi, con un interminabile corollario di cospirazioni, insurrezioni,
esilii, condanne, processi, creando una cultura dell’antistato. Fu l’esperien-
za della carboneria a rivestire un valore cruciale, per intensità e dimensioni

36 Dal Sottintendente del distretto di Sala all’Intendente di Salerno, Sala 4 luglio 1855, in ASS,
Gabinetto Intendenza, B. 95, F. 6.
37 Dal Sottointendente di Vallo all’Intendente della Provincia di Salerno, Vallo 11 dicembre
1856, in ASS, Gabinetto Intendenza, Spirito pubblico, B. 156, f. 20.
38 Il Sottintendente G. Calvosa all’Intendente della provincia di Principato Citeriore L. Ajos-
sa, Sala 30 maggio 1857, in ASS, Spirito pubblico, B. 98, f. 2.
39 Il Sottintendente del distretto di Sala, G. Calvosa all’Intendente di Principato Citeriore, L.
Ajossa, Sala 30 maggio 1857, in ASS, B. 97, f. 22.

186
Pinto, Conflitto civile e guerra nazionale

della sua penetrazione: la turba carbonarica, lo ammise anche Mazzini, fu


la prima organizzazione politica radicata su tutto il territorio meridiona-
le40. La rivolta del 1820, infatti, lasciò esterrefatto anche Bonaparte nella
sua prigionia dell’Atlantico.
I principi politico-organizzativi della carboneria restarono validi fino
agli anni cinquanta, furono presenti in tutte le sette segrete, combinandosi
con un insieme di tradizioni familiari, sociali e territoriali. Le insurrezio-
ni, oltre che in Sicilia, si concentrarono infatti nel triangolo tra la Lucania
(1822, 1837), il Cilento (1825, 1828, 1837 e 1848) e la Calabria (1837-9,
1844, 1847, 1848)41. Il passato suggestionava discussioni operative. Pisacane
scriveva che serviva conquistare i castelli della capitale perché i liberali «in
un modo quasi simile, nel ’99 si impadronirono di S. Elmo»42. Soprattutto,
questo passato fu la premessa di quel mito dell’iniziativa meridionale così
importante nella storia del patriottismo italiano. La convinzione comune
era che un cambio di regime poteva riuscire solo coordinando la Sicilia e
queste aree del napoletano (con il sostegno della capitale), e in quest’ottica
si mossero Pisacane e Mazzini43. A preparare l’ennesima insurrezione era
il comitato segreto. Fondato tra il 1853 e il 1854, raccolse l’ala radicale del
’48 napoletano, spesso in dura polemica con il settore moderato: «l’op-
posizione dei costituzionali è così forte che diremmo scandalosa: per ciò
questi tenteranno con ogni mezzo per rivolgere la nostra insurrezione a
loro pro»44. In qualche altro caso, invece, come in Basilicata, il comitato
operò in accordo con le altre correnti45. La base era contigua, per motivi
ideologici e, soprattutto, perché nei diversi paesi il partito liberale era uni-
ficato dal sentimento di esclusione che uniformava migliaia di attendibili:
il più delle volte si era liberali o realisti, prima che moderati o radicali.
I democratici meridionali avevano un concreto rapporto con la realtà.
Non nascondevano entusiasmo ai roboanti messaggi che giungevano da

40 G. Mazzini, Note autobiografiche, Centro napoletano di studi mazziniani, Firenze 1944, pp.
106-8.
41 A. Ottolini, La carboneria dalle origini ai primi tentativi insurrezionali, Società tipogra-
fica modenese, Modena 1936; R. F. Esposito, La massoneria e l’Italia dal 1800 ai giorni nostri,
Edizioni paoline, Roma 1969; G. Leti, Carboneria e massoneria nel Risorgimento italiano. Saggio
di critica storica, Genova 1925; A. Luzio, La massoneria e il Risorgimento italiano, A. Forni,
Bologna 1866.
42 Avvertenze di Carlo Pisacane al comitato, 1856, in C. Pisacane, Epistolario, a cura di A.
Romano, Società Dante Alighieri, Milano 1937, pp. 298-302.
43 Berti, I democratici e l’iniziativa meridionale nel Risorgimento cit., pp. 539-90; O. Dito,
Massoneria, carboneria e altre società segrete nella storia del Risorgimento italiano, A. Forni,
Bologna 1866; A. De Stefano, Lettere di Nicola Fabrizi a Rosolino Pilo, Società di storia patria,
Palermo 1968.
44  Luigi Dragone per il comitato a Nicola Fabrizi, 6 novembre 1856, in MSMS, FS, s. 9, c.
XXXV.
45 Giacinto Albini al comitato, 3 novembre 1856, in MSMN, s. 9. C. XL.

187
Centocinquantenario

Mazzini e Pisacane, ma finirono per esprimere perplessità e diffidenza ver-


so i loro piani: se non c’è una rivoluzione nazionale e una grande alleanza
del liberalismo l’insurrezione non esiste, dicevano. Anche se sottoposti a
impennate, agli alti e bassi emotivi tipici delle reti clandestine, spiegavano
ai dirigenti che vivevano fuori dal regno che non si poteva «utopizzare su
un numero ideale di elementi che dovrebbero esservi» e non c’erano46.
In una guerra asimmetrica i problemi erano opposti rispetto a quelli
dei funzionari o dei sostenitori del re. I documenti testimoniano la con-
sapevolezza dei limiti dell’organizzazione segreta, come l’assenza di veri
quadri militari: l’esercito era fedele al re, non c’erano più i soldati napole-
onici del 1820 e i pochi militari esperti (i Pepe o, per la nuova generazione,
i Cosenz, Mezzacapo, Carrano) erano oramai tutti in esilio.
Nella corrispondenza emerge la consapevolezza di una irrisolta conti-
nuità operativa, dell’insufficiente reperimento di risorse e quadri. In Ca-
labria, scriveva Mauro, «è follia sperar qui un’iniziativa, si può attendere
solo un lungo seguito»47. Che la politica si fa con le risorse lo sapeva-
no bene i cospiratori di quegli anni, che invidiavano i possenti mezzi dei
notabili moderati. Un’organizzazione parallela alle istituzioni pubbliche
senza soldi non si poteva fare, con un partito d’azione povero e dissangua-
to sprovvisto dei mezzi necessari48. Nelle province si cercava di coinvolge-
re personalità influenti e, soprattutto, abbienti49. Spiegava un importante
dirigente locale, Michele Magnoni, che «le cose importanti incamminate
dipendono da denaro»50.
L’altro grave problema dell’antistato sognato dai cospiratori era la pe-
renne condizione di illegalità e di segretezza. In poco più due anni, oltre a
tanti gregari, furono arrestati quasi tutti i dirigenti provinciali: Mignogna
(1855), Mauro, Matina e Magnoni (1856), Padula (1857). La corrisponden-
za segreta mostra l’ossessione di ricostruire ogni volta un’affidabile rete di
comunicazione, fino alla disperazione («siamo privi dei migliori, che sono
agli arresti»)51. Il punto di arrivo, l’obiettivo del comitato, era quello di ri-
produrre le istituzioni del Regno per competere con queste. Non bastava
coinvolgere vecchi quadri della cospirazione, attendibili e giovani studenti

46 G. Berti, I democratici e l’iniziativa meridionale nel Risorgimento cit., pp. 691-5; C. Pinto,
Progettare la nazione. Il movimento democratico meridionale tra il 1857 e il 1860, in Pinto, Rossi,
Tra pensiero e azione: una biografia politica di Carlo Pisacane cit.
47 Alessandro Mauro a Giuseppe Fanelli, 26 giugno 1856, in MSMN, FS, s. 9, c. XXXVI.
48 Il comitato a Nicola Fabrizi, 15 maggio 1856, in MSMN, FS, s. 9, c. XXXII.
49 Il comitato a Giacinto Albini, 24 dicembre 1856, in MSMS, FS, s. 9, c. XL.
50 Michele Magnone al comitato, 3 febbraio 1857, in MSMN, s. 9, c. XXXIX.
51 Il comitato a Michele Magnone, 19 dicembre 1856, in MNSN, FS, s. 9, c. XXXIX; Giuseppe
Fanelli a Nicola Fabrizi, 16 gennaio 1857, in MSMN, FS, s. 9, c. XXXIV.

188
Pinto, Conflitto civile e guerra nazionale

nei luoghi di più solida tradizione liberale52, si voleva una rete radicata e
presente sul territorio.
La struttura era divisa per sezione (i comuni), zone (i distretti) e poi per
riferimenti comprensoriali e provinciali (quasi un alter ego di sottointen-
denti e intendenti borbonici). Gli uomini del comitato aspiravano a costru-
ire un apparato dotato di corrieri, magazzini, responsabili dei diversi settori
e di averne un controllo burocratico («urgenti i tempi [...] ci è di somma
necessità conoscere a che stato si trova la vostra organizzazione»)53. Anche
i moderati, di fatto, cercarono di fare lo stesso con un proprio programma
ideologico («concorrere tutti ad un punto convergenza il Piemonte»)54. Il
comitato segreto, in ogni caso, seguendo l’esperienza della carboneria, sa-
peva che un’organizzazione molto radicata doveva avere caratteri ideolo-
gicamente poco definiti e al contrario molto includenti. «Se volete trovare
tutti d’elemento repubblicano siamo sicuri che possiamo smettere», scrive-
va Fanelli ai suoi referenti esteri55. La pressione continua sui riferimenti lo-
cali è un indice dei tentativi di ricostruire il possente antistato fondato dalla
carboneria nella generazione precedente: «Attendo comunicazioni interes-
santi che mi rivelino il più precisamente possibile lo stato organizzativo ed
organico», scriveva lo stesso Fanelli al suo interlocutore calabrese, Mauro56;
«Desideriamo nuove di voi, e delle cose nostre della provincia», chiedeva al
riferimento salernitano, Magnoni; «Vi ridomandiamo dello stato della pro-
vincia, dell’organamento da voi fatto», insisteva il comitato centrale con i
dirigenti locali57. Il mondo della cospirazione, diverso e opposto a quello
legittimista, viveva, comunque e allo stesso modo, in funzione dell’altro,
finendo per fotografare non solo uno storico conflitto, ma anche una delle
radici della peculiare frammentazione della società meridionale.

4. Un conflitto civile: criminalizzazione, nemico interno e area grigia

Gli uomini che lavoravano nelle istituzioni dello Stato o che militavano
nelle sette segrete avevano nei connazionali i nemici del proprio progetto
ideologico e morale. La lotta politica generò pertanto i fenomeni propri

52  Giuseppe Fanelli a Nicola Fabrizi, 10 gennaio 1856, in MSMN, FS, s. 9, C. XXXIV; Il
comitato a Nicola Fabrizi, 22 novembre 1855, in MSMN, S. 9, c. XXXII; C. Pinto, Progettare la
nazione. Il movimento democratico meridionale tra il 1857 e il 1860 cit.
53 Il comitato a Michele Magnone, 25 dicembre 1856, in MSMN, FS, s. 9, c. XXXIX.
54 Il comitato a Nicola Fabrizi, 22 maggio 1856, in MSMN, FS, s. 9, c. XXXII.
55 Ibid.
56 Giuseppe Fanelli ad Alessandro Mauro, 29 gennaio 1856, in MSMN, FS, s. 9, c. XXXVI;
Giuseppe Fanelli a Giacinto Albini, s.d., in MSMN, FS, s. 9, c. XL.
57 Il comitato a Michele Magnone, 7 aprile 1856, in MSMN, s. 9, c. XXXIX.

189
Centocinquantenario

dei conflitti civili: la criminalizzazione o la paura del nemico; il contro-


verso rapporto con l’area grigia, con chi non era schierato; le dinamiche
del tradimento o del nemico interno. Questi elementi finirono per condi-
zionare le mentalità e gli atteggiamenti dei due schieramenti meridionali.
L’ideologizzazione degli obiettivi politici, ad esempio, portò alla riven-
dicazione della necessità della violenza. Pisacane, nelle Avvertenze per il
comitato napoletano, si premurò di sottolineare che il primo atto della
rivoluzione doveva avvenire nella capitale, nel seguente modo: «I congiu-
rati assalgono le case di tutte le autorità politiche e dei capi militari che vi
dimorano e li ammazzino. È impossibile che il terrore e la confusione non
si sparga in tal modo fra le file nemiche»58.
Nelle istruzioni del capo della futura spedizione non c’era nessuna pie-
tà per gli avversari: era una continua e ininterrotta richiesta di «spargere
tale terrore [...] di tali proporzioni che la città sarà nostra». Solo con un ra-
pido e feroce blitz si poteva scardinare l’apparato borbonico, non doveva-
no esserci tentennamenti, i rivoltosi «assalirebbero e scannerebbero, anche
incendiando, tutti i posti di polizia, altri farebbero un vespero di tutti gli
sbirri, svizzeri e gendarmi che troverebbero per le strade, le bettole». Pi-
sacane chiedeva un vero e proprio massacro dei suoi conterranei. Finita la
polizia, si doveva passare all’esercito, aggredendo le caserme e «uccidendo
tutti i soldati e gli ufficiali che vi si recherebbero». Nella stessa imperativa
missiva, Pisacane spiegava ai napoletani, a proposito della rivolta di Ben-
tivegna di qualche settimana prima: «Quando io seppi che in Sicilia si era
cominciato senza sangue, presagii male in me medesimo»59.
Anche i militanti meridionali, però, erano tutt’altro che disponibili a ri-
conoscere l’avversario. Uno dei capi del comitato di Padula, il prete Giu-
seppe Cardillo, voleva vedere le campagne «ricoverte di sangue». In tut-
ta la corrispondenza si alterna la preoccupazione per la violenza (e spesso
l’efficienza) delle forze sicurezza borboniche, all’assoluto disprezzo per la
parte avversa ovvero per le ragioni del nemico. Non c’è nessuna mediazione
possibile. Il proclama letto da Pisacane dopo lo sbarco a Sapri nei confronti
del re era netto, occorreva farla finita con il tiranno Ferdinando II, visto che
«l’odio contro di lui è universalmente inteso»60. L’avversario era considerato
feroce, ovunque spargeva paura e «sospetto [...] che il nemico avea con accu-
ratezza prodotto e che il terrorismo e le delusioni corroboravano»61. Dalla
Calabria Mauro descriveva a Fanelli il timore per le continue irruzioni della

58 Avvertenze di Carlo Pisacane al Comitato, 185, in Pisacane, Epistolario cit., pp. 298-302.
59 Carlo Pisacane a Giuseppe Fanelli, 8 gennaio 1857, ivi, pp. 304-416.
60 Proclama di Carlo Pisacane alle popolazioni del Salernitano, in ASS, Processi politici, Do-
cumenti, B. 210, f. 99.
61 Giuseppe Fanelli a Nicola Fabrizi, 23 gennaio 1857, in MSMN, FS, c. XXXII, s. 9. 224.

190
Pinto, Conflitto civile e guerra nazionale

polizia che «tutto spaventa»62. Dragone, segretario del comitato, esponeva


l’azione repressiva delle forze di sicurezza borbonica:
Ad ogni passi vi sono tre o sei gendarmi in uniforme: tutta la polizia e nel più
gran moto, in abiti propri, da cittadini, da frati, da preti, da stupidi, da lazzaroni. Le
poste sono fermate da tratto in tratto [...] e visitati i corrieri fin nelle scarpe63.
Nonostante questo la determinazione dei militanti del comitato era alta,
provava l’ideologizzazione del movimento, una forte componente morale e un
intenso senso di appartenenza. Il procuratore generale, dopo il processo, non
sapeva come sbarazzarsi del gruppo di militanti locali incarcerati prima dell’ar-
rivo di Pisacane, ma ammise, in una nota riservata che, anche se in galera da tem-
po, «essi non cessano di macchinare, e non desisteranno di farlo in qualunque
luogo di pena, e sia pur attentissima la vigilanza, come finora han fatto»64.
I funzionari del re erano altrettanto duri e spietati. Era un determina-
zione riconosciuta innanzitutto dagli avversari, che vedevano ovunque la
presenza dell’apparato dello Stato, con la forza di sicurezza che apre «le
lettere alla posta [...] perquisisce i corrieri [...] arresta strada per strada i
patrioti»65. Tutta la classe dirigente borbonica sapeva di aver a che fare
con avversari che mettevano in discussione le fondamenta dello Stato e
della propria funzione politica. Pertanto i termini della sua azione erano
speculari a quelli dei liberali.
Nei mesi precedenti la spedizione il ministro Bianchini, brillante intel-
lettuale, voleva una piccola deportazione: «Ogni paese del Cilento ha i suoi
tristi. Arrestarne uno o due per comune tra i più pericolosi e spedirli imme-
diatamente in una isola sarebbe una misura da valutare». Il suo sottoposto
definiva la generale e inaffidabile «indole collettiva dei cilentani» quasi come
una pericolosa malattia politico-razziale66. La fermezza verso i nemici emer-
ge ovunque. Anche verso i meno pericolosi militanti liberali, come quando
«due miserabili ed abietti individui del comune di Padula si facevano a spar-
gere delle notizie, perché accennavano a Costituzione, che il Re, l’Augusto
Sovrano nostro, sarebbe stato obbligato a dare». Calvosa, il sottintendente
che così si era espresso, li mise immediatamente in carcere67.

62 Alessandro Mauro a Giuseppe Fanelli, 18 maggio 1855, in MSMN, FS, s. 9, c. XXXVI.


63  Luigi Dragone per il Comitato a Nicola Fabrizi, 14 agosto 1856, in MSMN, FS, s. 9, c.
XXXIV.
64 Lettera del procuratore generale Francesco Pacifico al Ministro di Polizia, in ASN, Causa
del Cagliari, F. 5271, f. 5.
65  Il Comitato a Carlo Pisacane e a Nicola Fabrizi, 16 aprile 1857, in MNSM, FS, s. 9, c.
XXXIV.
66 Il direttore Bianchini all’Intendente della provincia di Principato Citeriore L. Ajossa, Na-
poli 16 maggio 1856, in ASS, Spirito pubblico, B. 157, f. 26.
67 Il Sottintendente di Sala G. Calvosa all’Intendente della provincia di Principato Citeriore
L. Ajossa, Sala 6 giugno 1856, in ASS, Spirito pubblico, B. 157, f. 26.

191
Centocinquantenario

In questo lungo conflitto, i nemici spesso venivano da lontano e que-


sto li rendeva più pericolosi. Ajossa intimò ai suoi dipendenti che per «i
supremi interessi delle vedute di ordine pubblico» i potenziali criminali
politici andavano identificati senza dimenticare il passato: «Non si debbo-
no perdere di vista i precedenti di ciascuno, ponendo mente soprattutto
alla condotta serbata nel 1820, ed in altre epoche di politiche rivolture
anteriori a quella del 1848»68. Questa criminalizzazione giunse a livelli
quasi comici, di definizione fisica del nemico, con i famigerati attendibili
che, scriveva un funzionario all’intendente di Salerno, volevano imporre
all’opinione pubblica delle mode «con la testa all’Italiana, mustacchi, mo-
sche ecc. [...] nonostante il divieto ordinato da Lei»69. In realtà, era eviden-
te il disprezzo verso gli antagonisti: i rivoltosi del ’57 erano «menti malate
o menti inferme, al massimo una masnada di ribelli»70. Per Calvosa le idee
che muovevano i liberali erano «maneggi della disperata demogogia». Gli
uomini di Pisacane solo un’«orda facinorosa»71, ad avviso del colto nota-
bile e capo urbano di Buonabitacolo, il barone Leopardi. L’ufficiale che
prese in consegna i superstiti del massacro di Sanza interrogò Nicotera e
poi, nella relazione, lo definì semplicemente «un’anima nera»72. Nell’atto
di accusa del processo ai superstiti di Sapri il procuratore così descris-
se i capi liberali dei vigliacchi di lungo corso: «La storia e le processure
sulle insurrezioni Calabrese e Cilentana del 1848 non lasciano dubitare
che i promotori dei disordini sono i primi a fuggire, abbandonando la
massa nel conflitto»73. Il capitano della Gendarmeria, da Sala, scrisse un
ben informato rapporto ad Ajossa, dopo l’annientamento della colonna di
Pisacane. Le sue parole mostravano disprezzo verso i rivoltosi sconfitti:
«Essi si dichiararono iniziatori della libertà italiana e che qualora i popoli
non avessero risposto alle loro chiamate erano pronti a morire da forti. Il
signore li ha esauditi»74.

68  Dall’Intendente di Principato Citeriore al giudice regio del primo distretto, Ispettore di
polizia di Nocera e commissario polizia di Salerno, Salerno 7 dicembre 1855, in ASS, Gabinetto
Intendenza, B. 13, f. 40.
69 Dal Sottintendente del distretto di Sala all’Intendente di Salerno, Sala 4 luglio 1855, in ASS,
Gabinetto Intendenza, B. 95, F. 6.
70 Il Sottintendente di Sala G. Calvosa ell’Intendente della provincia di Principato Citeriore
L. Ajossa, Sala 1 luglio 1857, in ASS, Disbarco di sediziosi in Sapri, B. 98, f. 2
71  Relazione del Capo Urbano Leopardi, Buonabitacolo, 29 agosto 1857, in ASS, Processi
politici, B. 205, f. 7.
72  Rapporto del tenente Giovanni De Merich al maggiore comandante dell’11 battaglione
Cacciatori, conte d. Gennaro Marulli, in ASS, Documenti, B. 224, f. 40.
73 Cassese, La Spedizione di Sapri cit., p. 69.
74 La Gendarmeria reale all’Intendente della provincia di Principato Citeriore, Sala 12 luglio
1857, in ASS, Disbarco di sediziosi in Sapri, B. 98; f. 3.

192
Pinto, Conflitto civile e guerra nazionale

Questo scontro era limitato ai militanti più impegnati. Ma tutti, in


ogni caso, dovevano fare i conti con una vasta zona grigia disimpegnata
o perplessa. Per i radicali del comitato l’unico modo di penetrare questa
massa, composta da moderati o da costituzionali, era annacquare il mas-
simalismo repubblicano, anzi bisognava parlare di «bandiera neutra», di
realizzare «una rivoluzione senza spiegar bandiera»75. I moderati però
raffreddavano gli entusiasmi del comitato napoletano. Questi, dicevano,
non comprendevano la vasta maggioranza silenziosa che «vede le sue
convenienze», che occorreva «non urtare»76. Immaginare una rivoluzio-
ne nel Sud degli anni cinquanta, dicevano sempre i moderati, significava
non aver «senso pratico», non intendere che c’era nella società meridio-
nale una vasta «accettazione dell’idea legale»77. Fanelli raccontò che i
dirigenti moderati dicevano che Mazzini era da impiccare. Nonostante
questo, Fabrizi si premurò di suggerire al comitato che occorreva spie-
gare che non si era troppo mazziniani78.
Insomma, il problema di tutti i contendenti era conquistarne i cuori e
le menti, anche a livello locale79, e cercare di accordarsi con «i trattenito-
ri», i cauti esponenti moderati (più influenti nella capitale), per ampliare
consenso e organizzazione80. Per questo serviva una propaganda in senso
«nazionale e non repubblicano». Era da evitare, scriveva Fabrizi da Mal-
ta, «quell’apparenza ansiosa, poco concreta, che appartiene alle tendenze
faziose e palpitanti»81. Fanelli elogiò con il leader calabrese, Mauro, il con-
cetto dell’«idea conciliativa» per scardinare il muro dell’opinione pubblica
meridionale82. Si doveva parlare con tutti, escludendo solo chi «rinneghi il
concetto della Nazione»83. Anche Pisacane, da Genova, aveva chiaro che
«siamo in concorrenza» per conquistare il consenso della società più li-
berale84. Allo stesso tempo, però, molto spesso erano gli stessi potenzia-
li alleati a suscitare critiche e biasimo. Giacinto Lazzaro, qualche anno
dopo queste vicende, ricordò che «i moderati, credendo i rivoluzionari
pericolosi, attraversavano tutte le loro operazioni [...] di ciò questi erano
indignatissimi e qualificavano i primi tra i peggiori nomi che possa trovare

75  G. Lazzaro, Memorie sulla rivoluzione dell’Italia meridionale dal 1848 al 7 settembre
1860, Tip. dei Classici Italiani, Napoli 1867.
76 Luigi Dragone a Nicola Fabrizi, 15 novembre 1855, in MSMS, FS, s. 9, c. XLII.
77 Giuseppe Fanelli a Nicola Fabrizi, 3 gennaio 1856, in MSMN, FS, s. 9, c. XXXII.
78 Nicola Fabrizi al comitato, 6 novembre 1855, in MSMN, FS, s. 9, c. XLI.
79 Il comitato a Giacinto Albini, 18 novembre 1856, in MSMN, FS, s. 9, c. XL.
80 Il comitato a Nicola Fabrizi, 24 luglio 1856, in MSMN, FS, s. 9, c. XXXIV.
81 Nicola Fabrizi al comitato, 27 novembre 1855, in MSMS; FS, s. 9, c. XXXII.
82 Giuseppe Fanelli ad Alessandro Mauro, aprile 1855, in MSMN; FS, s. 9, c. XXXVI.
83 Antonio Morici per Nicola Fabrizi al comitato, 25 novembre 1855, in MSMN, s. 9, c. XXXII..
84 Carlo Pisacane al comitato, agosto 1855, in Pisacane, Epistolario cit., pp. 205-9.

193
Centocinquantenario

l’esasperazione politica [...]»85. Fabrizi e Fanelli definivano inaffidabili co-


loro che accettavano l’esistenza di una componente borbonico-costituzio-
nale. Erano veri e propri traditori, poi, o nostalgici del decennio francese,
«la deviazione del murattismo», contro cui non si contavano i feroci strali
dei democratici86. Come succede in tutti i conflitti che dividono profon-
damente uno Stato e una società, la massa non impegnata condizionava,
a lungo andare, i rapporti di forza tra i contendenti. Tutti si impegnavano
a contattare i ceti più abbienti e, contemporaneamente, i capi popolari,
indirizzandosi spesso alle stesse persone.
I borbonici, dal loro versante, misuravano il consenso della propria
parte dalla capacità di riscuotere consenso verso le istituzioni e difenderne
credibilità e autorevolezza: un dato non scontato dopo decenni di rivolu-
zione e lotte civili. Il primo problema era rassicurare l’opinione pubblica
e mostrarsi determinati. Nelle aree interne non era facile, anche per la pre-
sunta contiguità degli attendibili politici con le aree di malvivenza. Scri-
veva Bianchini ad Ajossa: «Per raggiungersi lo scopo di rialzare lo spirito
dei buoni e sottomettere i malvagi occorrono misure straordinarie, attività
ed energia della forza pubblica come nella massima parte si è accennato
nei passati rapporti mensili»87. I continui arresti di attendibili, «colpiti da
generale disprezzo», scriveva Calvosa, erano anche utili per comprende-
re l’atteggiamento dell’opinione pubblica88. A quella massa che osservava
inerte ma era in realtà capace di misurare i cambiamenti, occorreva dare
segnali netti. Il maggiore della gendarmeria De Liguoro, dopo un efficace
rastrellamento di importanti settori liberali, aveva subito quasi un contro
agguato da parte di bande locali. Nella sua relazione scrisse che le sue
operazioni non erano sufficienti, occorreva che «un esempio radicale si
emettesse dal Real governo, senza di che, lungi dallo interpretarsi come
l’effetto della solita Sovrana bontà, si attribuirebbe ad impotenza, ed ani-
merebbe i correi de’ Magnoni a promuovere maggiori attentati»89.
I dirigenti borbonici più intelligenti capivano che in quella maggioran-
za silenziosa si muovevano forze profonde, poco esposte, ma interessate
a comprendere dove andava il vento (spesso simpatizzando per il liberali-
smo). Dopo una lunga serie di indagini e interrogatori, Calvosa dipinse un

85 Lazzaro, La Spedizione di Sapri cit., p. 122.


86 Nicola Fabrizi al comitato, 18 marzo 1857, in MSMN; FS, s. 9, c. XXXIII.
87 Il Direttore Bianchini all’Intendente della provincia di Principato Citeriore L. Ajossa, Na-
poli 16 maggio 1856, in ASS, Spirito pubblico, B. 157, f. 26.
88 Il Sottintendente di Sala G. Calvosa all’Intendente della provincia di Principato Citeriore
L. Ajossa, Sala 6 giugno 1856, in ASS. Spirito pubblico, B. 157, f. 26.
89 Incartamento sulla vita del maggiore di Gendarmeria reale sign. De Liguoro nel Distretto
di Vallo, in ASS, Gabinetto Intendenza, B. 123.

194
Pinto, Conflitto civile e guerra nazionale

ambiente dove, a favore dei nemici della dinastia, c’erano «elementi di un


tal qual compiacimento, di aderenza, di promessa, insomma movimenti e
realtà rispetto ai quali erano le mezze misure inefficaci»90. I funzionari del
re esprimevano preoccupazioni, guardando sotto la coltre dei formalismi
e percependo nella società la richiesta di quelle «novità che si attendono
con ansia indicibile»91. Un paio d’anni prima della spedizione, il sottinten-
dente segnalò che nei piccoli paesi dell’Appennino era forte «la licenza che
qui si avverte nel profferire voci contra del Real Governo, le speranze si
vampano né loro petti, e le popolazioni di esse ne’ trivi e nelle bettole» in-
terpretano «le traduzione dei fatti più innocenti nel senso delle novità»92.
I due avversari dovevano fare i conti con il problema del consenso, della
credibilità verso la larga maggioranza della società fredda o disimpegnata.
Per i liberali e i radicali il problema era convincere questo mondo che si
era in grado di offrire un progetto modernizzante e, soprattutto, vincente,
dopo tante delusioni e sconfitte. Per i realisti, al contrario, si trattava di
affermare la credibilità di istituzioni che, con qualche recente eccezione
(l’esercito nel ’48-’49), non avevano dato buona impressione ed erano già
almeno tre volte crollate sotto il peso delle rivoluzioni.
C’erano però anche altre dinamiche tipiche delle lotte civili, come
l’ostinata paura del traditore, della quinta colonna. Ma anche quelle ten-
sioni proprie di una lotta tra legalità ed illegalità: la diminuzione dell’en-
tusiasmo, l’allontanamento dei militanti, la scelta di ripiegare nel priva-
to, le rivalità e i sospetti93. Il tema del nemico interno era costante. Per
i liberali si ripropose in forme differenti. Un caso era quello dei murat-
tiani, coloro che per una fase pensarono alla restaurazione della dinastia
francese (e agli occhi di Mazzini e Pisacane giustificarono l’urgenza della
Spedizione). Per i dirigenti democratici erano «lezzoso fango», poteva-
no frantumare l’unità del movimento liberale o, addirittura, prevalere
sulle altre componenti conquistando la leadership della rivoluzione.
C’erano poi gli infiltrati, i traditori veri, quelli temuti da ogni rivoluzio-
ne e denunciati a ogni passo dai cospiratori napoletani. Con cognizione di
causa, a dire il vero, perché alcuni casi sono documentati. Il più clamoroso
fu quello di un ex barricadiero del ’48, Grezzuti, un quadro liberale di li-
vello locale che rivelò informazioni importanti sulla struttura del comitato

90 Il Sottintendente di Sala G. Calvosa all’Intendente della provincia di Principato Citeriore


L. Ajossa, Sala 6 luglio 1857, in ASS, Disbarco di sediziosi a Sapri, B. 98, f. 4.
91 Dal Sottintendente del distretto di Sala all’Intendente di Salerno, Sala 4 luglio 1855; in ASS,
Gabinetto Intendenza, B. 95, F. 6.
92 Ibid.
93 A. Arisi Rota, I piccoli cospiratori. Politica ed emozioni nei primi mazziniani, il Mulino,
Bologna 2010.

195
Centocinquantenario

segreto e, probabilmente, il cifrario per interpretare i documenti rinvenuti


sul corpo di Pisacane (ne fu ben ricompensato, come si evince dai notamenti
di spesa dell’intendente Ajossa)94. Dopo la retata che decapitò i vertici del
comitato (compreso Mignogna), l’esiliato napoletano Carbonelli chiese a
Fanelli se qualcuno aveva ceduto e rivelato i segreti del comitato95. Sospetti e
intolleranza erano all’ordine del giorno, tra militanti e tra territori. Magnoni
riportò i dubbi dei suoi amici sui colleghi delle altre province, ricordando
che «avendo iniziato questo nostro distretto le due mosse del ’48 venne tut-
te e due le volte deluso nelle promesse di appoggio»96.
C’erano poi i dubbi e le paure della vita cospirativa, con i cedimenti
immancabili. In una lettera a Fabrizi, Fanelli raccontava che un vecchio
militante gli aveva detto a chiare lettere «che fossero usciti degli uomini
nuovi a compromettersi, perché lui voleva riposarsi»97. Uno dei princi-
pali dirigenti, il calabrese Mauro, crollò. Scrisse al comitato: «da questo
momento lascio la direzione»98. In qualche altro caso non si mancava di
sottolineare che più serie perplessità politiche mostravano «dubbi di op-
poste tendenze»99. Erano anche più concrete le incertezze di chi conosce-
va i termini reali della lotta sul territorio. Magnoni fulminò il Comitato:
«Veggo malevole questa impresa [...] che il popolo per generoso che fosse
perde ben breve il suo entusiasmo [...] e non vorrei la inutile distruzione
di questi pochi altri generosi nostri»100.
Non erano, questi, problemi esclusivi dei rivoluzionari. Divisioni o in-
filtrazioni potevano danneggiare l’autorevolezza dello Stato o la efficienza
delle forze di sicurezza. Le continue rivalità tra i sottoposti, soprattutto tra
urbani e giudici regi, scriveva Calvosa, incrinavano a livello locale il con-
senso allo Stato, perché dietro il «nome augusto di realista si spingono a
mille eccessi, mille intrighi e commettono angherie, soprusi e vendette. Ciò
produce del malcontento e fa perdere alle autorità quella forza morale che
cotanto necessaria al regime di un distretto»101. Anche tra i borbonici non
mancavano dubbi e perplessità. La guardia urbana era stata fedele ed effi-
ciente nel combattere la colonna di Pisacane. Ma a un uomo come Calvosa
non sfuggiva che era necessario «un severo scrutinio per smascherare degli

94 Notamenti di spesa, in ASS, Gabinetto dell’Intendenza, B. 77, f. 90.


95 Vincenzo Carbonelli a Giuseppe Fanelli, 6 luglio 1855, in MSMN, FS, s. 9, c. XLI.
96 Michele Magnone al comitato, 2 agosto 1856, in MSMN, FS, s. 9, c. XXXIX.
97 Giuseppe Fanelli a Nicola Fabrizi, 30 novembre 1855, in MSN, FS, s. 9, c. XXXII.
98 Alessandro Mauro al comitato, 11 ottobre 1856, in MSMN, s. 9, c. XXXVI.
99 Il comitato a Nicola Fabrizi, 28 dicembre 1855, in MSMN, FS, s. 9, c. XXXII.
100 Michele Magnone al comitato, 20 ottobre 1856, in MSMN, FS, s. 9, c. XXXIX.
101 Il Sottintendente di Sala G. Calvosa all’Intendente della provincia di Principato Citeriore
L. Ajossa, Sala 6 giugno 1856, in ASS. Spirito pubblico, B. 157, f. 26.

196
Pinto, Conflitto civile e guerra nazionale

esseri eterogenei che debbono essere subito allontanati da quell’arma»102.


Il problema del nemico interno ricorreva ininterrottamente anche sulla
sponda borbonica. Il predecessore di Calvosa, infatti, aveva sostenuto che la
«Guardia Urbana de’ paesi è piena di tutte le influenze demagogiche [...] per
elementi infedeli postigli da singoli funzionari presenta un ruolo di liberali
ed efferrati partigiani del disordine e delle novità»103.
Il corollario di queste lacerazioni era una lunga catena di vendette che
spesso si snodavano per decenni. Assassinii, scontri e azioni feroci anti-
ciparono i termini della guerriglia e della criminalità del decennio succes-
sivo. Appena giunti a Sapri, gli uomini di Pisacane assaltarono la casa del
capo urbano, Peluso, perché, si legge nella relazione locale, «lo volevano
fucilare per [...] vendicare la morte di Costabile Carducci»104. Gli ordini
erano severi, a volte brutali. Pisacane fece fucilare un poveraccio (Euge-
nio Bucci), uno dei relegati che lo aveva seguito da Ponza, solo perché
aveva rubato un po’ di soldi a una donna. Dall’altro lato, il capo urbano
di un piccolo centro, Tortorella, raccontò come un suo sottoposto avesse
freddato uno degli sbandati della colonna di Pisacane, nonostante la sua
resa, visto che «non si ebbero da quelli nessuna resistenza». Almeno, non
si preoccupò di negare che il malcapitato prima di essere colpito «avesse
impugnato il fucile all’uccisore gridando viva l’Italia»105.
Una violenza che, dietro le passioni politiche, faceva emergere rancori
sociali e linee di fratture profonde della società meridionale. Le relazioni
sul massacro di Sanza sono uno specchio di quel mondo. Il capo urbano e
molti dei suoi collaboratori cercarono di trasformare l’eccidio in una pic-
cola battaglia, ma anche le sue parole tradiscono la ferocia di quel mondo.
Laveglia raccontò che i superstiti della colonna di Pisacane tentarono una
sparuta difesa «gridando viva l’Italia e viva la Libertà», quindi, continua il
capo urbano,
io scaricai contro di loro co’ i miei urbani i fucili, da’ quali alcuni rivoltosi morirono:
a questa scarica si trovarono già pronti gli altri urbani [...] poi nel vivo del fuoco ac-
corse tutto il popolo armato chi di scure, chi di ronche, e chi di altri strumenti106.

102 Il Sottintendente di Sala G. Calvosa all’Intendente della provincia di Principato Citeriore


L. Ajossa, Sala 20 luglio 1857, in ASS, Disbarco di sediziosi a Sapri, B. 98, f. 4.
103 Dal Sottintendente del distretto di Sala all’Intendente di Salerno, Sala 4 luglio 1855; in
ASS, Gabinetto Intendenza, B. 95, F. 6.
104 Relazione dell’urbano Domenico Menta, Luglio 1857, in ASS, Processi politici, B. 197, f.
13 e f. 1.
105 Relazione sulla resistenza contro la Guardia Urbana di Tortorella, Sapri, ASS, Processi
politici, B. 197, f. 25.
106 Rapporto del sotto capo urbano Sabino Laveglia, comando urbano di Sanza, ASS, Processi
politici, B. 206, ff. 104-107.

197
Centocinquantenario

Insomma un terribile massacro, visto che furono uccisi 27 rivoltosi e nes-


suno dei realisti o dei popolani riportò ferite. Nello stesso modo i garibaldi-
ni locali tre anni dopo massacrarono lo stesso Laveglia e i suoi gregari.
Quello degli anni cinquanta fu dunque un conflitto civile a bassa inten-
sità, ma conteneva tutte le premesse della violenza che, esplosa nel sessanta,
avrebbe coinvolto parte del Mezzogiorno per il decennio successivo. Il 1857
dimostrò una discreta solidità delle istituzioni, la crisi del Regno non era
giunta a maturazione, ma confermò allo stesso tempo che settori importan-
ti della società meridionale avevano aderito a un principio politico e ideo-
logico decisamente superiore a quello di cittadinanza. La conclusione era
l’assoluto non riconoscimento dell’avversario, quindi il consolidarsi di forti
lealtà e appartenenze collettive radicalmente opposte, che moltiplicarono le
divisioni nel Regno e, di conseguenza, i termini del conflitto finale.

5. Una guerra civile e una rivoluzione nazionale?

La Spedizione di Sapri fu a lungo al centro delle divisioni della sinistra


storica. Le polemiche iniziarono subito dopo l’Unità, per i sospetti lan-
ciati da Nicotera e dalla vedova di Pisacane sulle presunte fandonie rac-
contate da Fanelli e dai meridionali (accuse smentite da un giurì costituito
dai capi della sinistra meridionale)107. Negli anni successivi fu al centro
di confronti storici, politici ed ideologici, sempre condizionati da letture
interne al movimento risorgimentale (oltre che dalle diverse tappe della
storiografia italiana).
La costruzione della nazione, in ogni caso, fu complessa, piena di con-
traddizioni, di passioni, di capovolgimenti, ricca di fenomeni culturali ed
intellettuali. La storia di Sapri ne è la conferma. Anche per questo motivo
molte domande sul crollo del Regno delle Due Sicilie sono ancora aperte.
La sua fine era scritta? Esisteva un moto autonomo permanente che lo
avrebbe deciso? Le vicende del 1857 rendono difficile e complicata ogni
risposta: innanzitutto mostrano una realtà dove erano presenti élites pro-
fondamente ideologizzate e ambienti politici ostili e alternativi. Gli scon-
fitti del 1848, i liberali e in questo caso il loro settore più radicale, erano
convinti di interpretare una visione nazionale unitaria, modernizzante e
vincente, condivisa da larghi settori della penisola. Inoltre il sentimento
di esclusione di più vasti settori della società dallo Stato e dalle istituzioni,
finiti nelle liste degli attendibili, offriva loro la possibilità di alimentare

107 N. Fabrizi, La spedizione di Sapri e il Comitato di Napoli, relazione al generale Garibaldi,


Napoli 1864.

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Pinto, Conflitto civile e guerra nazionale

l’ininterrotta riproduzione delle strutture dell’antistato, sui modelli porta-


ti al massimo livello di espansione, a suo tempo, dalla carboneria.
Sul versante opposto emerse invece la volontà di difendere e rendere
efficienti le strutture del Regno. Era un analogo senso di patria e di ap-
partenenza, in questo caso rafforzato dal successo riscosso sui liberali
nel ’48-’49, oltre che dalla tradizione dell’età della restaurazione. Inoltre,
proprio attraverso questa lotta un settore della società meridionale si
legittimava come classe dirigente nazionale, interpretando un’autonoma
visione politica e ideologica dello sviluppo del Regno borbonico. Que-
sto conflitto lasciò per una stagione sullo sfondo ampi settori che, pur
liberaleggianti, erano ancora dubbiosi sulla possibilità di andare oltre il
Regno o comunque di esercitare una rottura con la sua lunga storia. In
ogni caso, la lotta politica del decennio continuò ad ampliare i termini
ideologici del conflitto meridionale, rendendo i contenuti delle tensioni
territoriali o sociali pezzi di una più ampia battaglia per la trasforma-
zione (o la conservazione) del vecchio Stato, inserendoli in un grande
scacchiere internazionale, come si vide nella crisi finale del 1860108.
Non si può sottovalutare, in questa direzione, la profonda continuità
di comportamento di gruppi politici, famiglie, territori, sottoregioni del
delineare i caratteri dei partiti rivoluzionario e controrivoluzionario e,
soprattutto, la trasformazione delle loro identità, capace di adattarsi ai
nuovi modelli e a diversi obiettivi politici ed ideologici109. Nel 1857 que-
ste linee mostrarono due diverse realtà: c’era un conflitto civile limitato,
gestito con successo dalle strutture di sicurezza borboniche e con un
discreto consenso alla dinastia, ma anche uno Stato incapace di superare
lo scollamento di élites importanti, soprattutto di frenare la crescente
convinzione della possibilità di un superamento degli antichi Stati italia-
ni110. Inoltre negli anni cinquanta il Regno conosceva anche un violento
quanto radicale scontro ideologico, che aveva una dimensione politica
predominante, segnata da un’intensa appartenenza morale e di gruppo.
Tutte queste componenti consolidarono un fenomeno antico del napo-
letano, la frammentazione del campo di battaglia sul territorio sociale e
politico meridionale, mostrando l’incapacità dello Stato di centrare la
sintesi, riuscita ai concorrenti piemontesi.
La compresenza di questi diversi fattori amplia i problemi sulla ri-
voluzione meridionale del 1860: fu un’occasione per riscrivere le regole

108 J.A. Davis, Legge e ordine. Autorità e conflitti nell’Italia dell’800, Franco Angeli, Milano
1989; P. Pezzino, Il Paradiso abitato da diavoli. Società, élites, istituzioni nel Mezzogiorno con-
temporaneo, Franco Angeli, Milano 1992.
109 Cobb, Reazioni alla rivoluzione francese cit., pp. 1994-5.
110 Spagnoletti, Storia del Regno delle Due Sicilie cit., p. 304.

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Centocinquantenario

e rifondare lo Stato dopo la lunga crisi disgregatrice che da sessant’anni


attraversava le Due Sicilie, magari cercando di gestire o di impedire il
crollo dell’autorità statale? La rivoluzione fu soluzione o creazione della
guerra civile? Queste domande implicano certo la realizzazione di vaste
ricerche e rafforzano la necessità di superare visioni prefabbricate che
ancora oggi (forse più che negli anni passati) sono accreditate, come ha
recentemente scritto Lupo, da una posizione o dall’altra, patriottica o
neo borbonica, al Nord come al Sud111. Piuttosto, questi quesiti servono
soprattutto a ridefinire interrogativi storici tradizionali.

111 Lupo, L’unificazione italiana cit., pp. 5-6.

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