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Pietro Cataldi

Dante e la nascita dell’allegoria


Il canto I dell’Inferno
e le nuove strategie del significato

Palumbo
© Copyright by G.B. Palumbo & C. Editore S.p.A. - 2008
Proprietà letteraria dell’Editore
Stampato in Italia
Indice

Presentazione. Due scopi e tre presupposti 9

1 Il compito del traduttore 11

Inferno, canto I 15

2 Particolare e universale 19

3 L’enigma dell’inizio 23

4 Rendersi degni di morire 25

5 Verso la buona morte 27

6 Il cammino e la via 31

7 Parallelismi e contrapposizioni: le leggi di un racconto nuovo 35

8 Il sole e la chiave dell’allegoria 39

9 Strade sbarrate e nuove procedure 43

10 Proclamare il lutto 47

11 Risorse e limiti dell’allegoria 51

12 La cima del Calvario 55

13 Dove il sole tace 57


Indice

14 Una nuova parola 61

15 Il rimedio del dialogo 65

16 Una salvezza che nasce dalla rovina 69

17 Completare il senso 77

18 Fondo oro e affresco realistico 81

19 Il realismo e l’individuo 87

20 Narrazioni dell’io e incontri reali 91

21 Parlare del colle 97

22 Il momento dei lupi 105

Nota 109
Was sich sonst dem Blick empfohlen,
Mit Jahrhunderten ist hin!

Vorbei und reines Nicht: vollkommnes Einerlei!

Alles Vergängliche
Ist nur ein Gleichnis.

Ciò che in passato fu gradevole allo sguardo


è scomparso con i secoli!

Passato e puro nulla: identità completa!

Tutto ciò che passa
è solo una figura.
J. W. GOETHE, Faust, II, 5
Presentazione.
Due scopi e tre presupposti

Il saggio che segue non è stato scritto per aggiungere conoscenze filo-
logiche o intertestuali alla critica dantesca. Chi scrive, contemporanei-
sta, non avrebbe le competenze adeguate e non ne ravvisa la necessi-
tà: su quel versante, al contrario, la bibliografia è sovrabbondante e
in continua espansione. Un primo scopo è piuttosto di indagare le ra-
gioni che hanno imposto a Dante di inventare un modo nuovo di rac-
contare e di definire il significato dell’esperienza umana e del mondo.
In questo senso la parola “allegoria” è usata in questo saggio, e già nel
suo titolo, in un’accezione alquanto diversa da quella solitamente im-
piegata negli studi danteschi, soprattutto in Italia: non è qui una fi-
gura retorica o un grado della scrittura ma una strategia di organizza-
zione del discorso e una modalità di rappresentazione della conoscen-
za. Il presupposto è che il salto esistente fra la Commedia e le opere
precedenti derivi da una catastrofe di civiltà, intuita e affrontata dal
poeta negli anni dell’esilio. Il tentativo, come si vede, è di collegare
gli elementi specifici del poema e la storia in cui prendono corpo, non
senza azzardare un cortocircuito che di certo apparirà discutibile a
molti. Ma piuttosto che onorare di correttezza procedurale un testo
inerte, chi scrive ha preferito scuoterlo e tormentarlo in modo perfi-
no brutale. La sua paura più grande infatti è che la Commedia diven-
ga un oggetto specialistico, di scarso interesse per i lettori comuni e in
particolare per i giovani; un documento archeologico. Ed ecco il secon-
do scopo: mettere il capolavoro di Dante a contatto con il nostro mon-
do e la nostra sensibilità. Un secondo presupposto è che al presente si
vada determinando, e si sia già in gran parte determinata, una cata-
strofe di civiltà paragonabile a quella diagnosticata da Dante sette se-
10 Dante e la nascita dell’allegoria

coli fa; e che egli abbia qualcosa da dirci. La forza della voce lontana
di Dante sta però nella sua alterità, e per questo nel contatto fra il suo
mondo e il nostro non si è puntato all’omologazione ma alla distinzio-
ne. Non abbiamo bisogno di un contemporaneo, magari da addome-
sticare con le nostre cure critiche, ma di un diverso da noi; e di un
modello di significato capace di sopravvivere alla catastrofe. Il terzo
presupposto, dunque, è che Dante abbia da dire oggi a noi una cosa
diversa da quella finora comunicata ai lettori, e che in questa novità
stia la sua vita. Sforzarci di ascoltarla è il nostro compito.
1.
Il compito del traduttore

I nuovi lettori della Commedia patiscono oggi la fine della tradizione


antropologica e culturale per la quale erano dati intuitivi l’idea della
vita come percorso, i concetti di Giubileo e di smarrimento morale,
la certezza di un significato soggiacente all’ordinato procedere dei ri-
volgimenti celesti e delle stagioni. Una parte cospicua della nostra
identità storico-culturale ha dunque subìto un collasso che la rende
muta per i nuovi giovani. Fra l’altro va crescendo il numero di quel-
li provenienti da paesi diversi, di passato diverso dal nostro e di diver-
sa mentalità, per i quali il contatto con Dante costituisce un parados-
sale dovere scolastico e non certo più l’introibo iniziatico ai privilegi
culturali un tempo derivabili. Ai casuali estremi detentori di una ta-
le eredità spetta l’arduo compito di gestire il valore contraddittorio di
ogni lascito inattuale. Docenti di scuola media o studiosi dell’accade-
mia, umili commentatori di servizio o innovativi critici letterari, es-
si possono azzerare la contraddizione, allineandosi a uno dei due po-
li che ne determinano la carica: rinunciare a Dante o ipostatizzarne la
gestione, accettare cioè nel primo caso il nuovo mandato storico di
questa Italia trista ma non umile oppure convertirsi a una sorta di ni-
codemismo intellettuale, praticando ossequiosamente un credo ma sen-
za poterci credere. E non si pensi che la prima opzione, certo assai te-
meraria – se Dante sta al docente d’italiano come il terzo principio
della termodinamica sta a quello di fisica –, sia poi così rara. Tutt’al-
tro. Essa si affaccia nella scuola con la riduzione del periodo di studio
dedicato a Dante (tre anni per tradizione, ma oggi spesso due e a vol-
te uno), nella pervasiva riduzione del numero dei canti da leggere per
ogni cantica (quindici l’altroieri, dieci ieri, cinque o tre o meno oggi;
12 Dante e la nascita dell’allegoria

e sappiamo quanto la frattura della diegesi comprometta la com-


prensibilità del poema), nello schiacciamento antologico sull’Inferno a
scapito soprattutto del Paradiso, nella riduzione conseguente della ric-
chezza problematica del testo in termini di plot esistenziale (Paolo e
Francesca) o di “pulp” ante litteram (Ugolino). Mentre all’Università
si vede in molti casi scemare o eclissarsi l’obbligo di un confronto con
Dante per gli studenti di Lettere. E tuttavia la seconda opzione – cioè
la gestione ipostatizzata del Dante ereditato – è ancora la prevalente,
nella professata convinzione della importanza o insostituibilità dell’og-
getto. Ma in questo caso sono coinvolti il ruolo e l’identità degli ese-
cutori testamentari, troppo poco consapevoli di come un ruolo senza
funzione sia, oltre che goffo, destinato a vita breve e brevissima, e di
come nessuna identità culturale sopravviva più di un sospiro senza
identificazione sociale. Si vedono già perciò – e più si vedranno – gli
studiosi di Dante passare dalla gestione di un nucleo decisivo del sa-
pere comune e del comune sentire alla cura di una nicchia specialisti-
ca simile alla numismatica o alla sfragistica, non importa se comunque
persuasi, come avviene anche ai cultori di un hobby con velleità di
scienza, di trattare la pietra filosofale.
In una condizione tanto difficile e minacciata, può venire in soc-
corso la proposta benjaminiana di tradurre la storia della tradizione in
modo da configurarne l’intero (cioè il significato) mostrandone la fram-
mentazione; ovvero di ristabilire un legame con quella tradizione, e
perfino una continuità, mostrando innanzitutto i segni della frattura
e la discontinuità. Applicato a Dante, come ad altri oggetti esempla-
ri e canonici della tradizione letteraria, il principio implica che l’inter-
prete mediatore non debba contare sul riconoscimento da parte del de-
stinatario, per altro quasi sempre e ogni giorno di più limitato ai co-
scritti istituzionali cioè agli studenti, ma piuttosto debba partire
dalla estraneità radicale fra quei destinatari e il significato/valore del-
l’esperienza dantesca e dei codici – linguistici e culturali – cui essa è
affidata. Applicato a Dante, cioè, il benjaminiano «compito del tra-
duttore» dovrebbe puntare appunto sulla frattura e sulla discontinui-
tà comunicativa; dunque proprio sul momento della traduzione. Ora,
la traduzione di un testo letterario nella sua stessa lingua – comune-
mente chiamata parafrasi – permette, ove non si voglia eludere la ten-
sione insita nel processo di ricodificazione, di puntare proprio sulla
frattura e sulla discontinuità: la parole dantesca, risuonando riconno-
tata nella nostra langue, assume i contorni perturbanti e mostruosi di
un messaggio al tempo stesso familiare e sconosciuto, comprensibile
e misterioso. La parafrasi ci mostra, sovrapposti e non coincidenti, il
Il compito del traduttore 13

volto di Dante e il nostro, quale intero arcanamente dissociato. Sta poi


naturalmente al processo interpretativo nella sua interezza di defini-
re le rispettive pertinenze culturali. Ma l’essenziale è che innanzitut-
to per mezzo della parafrasi esse siano state rilevate, ostacolandoci il
transito. Il successivo processo ermeneutico disegnerà un sistema di
relazioni, cioè una reciprocità semantica: non potrà cioè accrescere la
conoscenza di Dante senza accrescere anche quella di noi stessi.
Nella traduzione di parole dantesche come «pare», «donna» e «salu-
ta» – per riferirci al sonetto interpretato da Contini – non sarà pos-
sibile pensare il significato del testo senza affiancargli il nostro, né pen-
sare il Medioevo senza fissare la modernità. Dietro la diversa perce-
zione del primo dei tre termini («pare»=‘si mostra con certezza’ vs
‘sembra’), per esempio, sta evidentemente un sistema di paradigmi cul-
turali che non si limitano a dialogare con l’ideologia ma sprofondano
nell’immaginario collettivo e determinano la psicologia individuale.
Quanto più lo sguardo doppio, e spesso strabico, che la parafra-
si ci impone è oggi doloroso e arduo, tanto più proficuo può risultar-
ne l’esercizio: per salvare Dante dal nostro oblio, e soprattutto per sal-
vare i nostri posteri e noi stessi da quell’oblio.
Inferno, canto I*

Nel mezzo del cammin di nostra vita


mi ritrovai per una selva oscura,
3 ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
6 che nel pensier rinova la paura!
Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
9 dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.
Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
12 che la verace via abbandonai.
Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
15 che m’avea di paura il cor compunto,
guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
18 che mena dritto altrui per ogne calle.
Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m’era durata
21 la notte ch’i’ passai con tanta pieta.
E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,

* Testo secondo l’edizione Petrocchi.


16 Dante e la nascita dell’allegoria

24 si volge a l’acqua perigliosa e guata,


così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
27 che non lasciò già mai persona viva.
Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
30 sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso.
Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una lonza leggiera e presta molto,
33 che di pel macolato era coverta;
e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi ’mpediva tanto il mio cammino,
36 ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.
Temp’era dal principio del mattino,
e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle
39 ch’eran con lui quando l’amor divino
mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
42 di quella fiera a la gaetta pelle
l’ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
45 la vista che m’apparve d’un leone.
Questi parea che contra me venisse
con la test’alta e con rabbiosa fame,
48 sì che parea che l’aere ne tremesse.
Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
51 e molte genti fé già viver grame,
questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
54 ch’io perdei la speranza de l’altezza.
E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne ’l tempo che perder lo face,
57 che ’n tutti suoi pensier piange e s’attrista;
tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi ’ncontro, a poco a poco
60 mi ripigneva là dove ’l sol tace.
Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
63 chi per lungo silenzio parea fioco.
Quando vidi costui nel gran diserto,
Inferno, canto I 17

«Miserere di me», gridai a lui,


66 «qual che tu sii, od ombra od omo certo!».
Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
69 mantoani per patrïa ambedui.
Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto
72 nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.
Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d’Anchise che venne di Troia,
75 poi che ’l superbo Ilïón fu combusto.
Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
78 ch’è principio e cagion di tutta gioia?».
«Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?»,
81 rispuos’io lui con vergognosa fronte.
«O de li altri poeti onore e lume,
vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore
84 che m’ha fatto cercar lo tuo volume.
Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
87 lo bello stilo che m’ha fatto onore.
Vedi la bestia per cu’ io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio,
90 ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi».
«A te convien tenere altro vïaggio»,
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
93 «se vuo’ campar d’esto loco selvaggio;
ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
96 ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide;
e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
99 e dopo ’l pasto ha più fame che pria.
Molti son li animali a cui s’ammoglia,
e più saranno ancora, infin che ’l veltro
102 verrà, che la farà morir con doglia.
Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapïenza, amore e virtute,
105 e sua nazion sarà tra feltro e feltro.
18 Dante e la nascita dell’allegoria

Di quella umile Italia fia salute


per cui morì la vergine Cammilla,
108 Eurialo e Turno e Niso di ferute.
Questi la caccerà per ogne villa,
fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno,
111 là onde ’nvidia prima dipartilla.
Ond’ io per lo tuo me’ penso e discerno
che tu mi segui, e io sarò tua guida,
114 e trarrotti di qui per loco etterno;
ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
117 ch’a la seconda morte ciascun grida;
e vederai color che son contenti
nel foco, perché speran di venire
120 quando che sia a le beate genti.
A le quai poi se tu vorrai salire,
anima fia a ciò più di me degna:
123 con lei ti lascerò nel mio partire;
ché quello imperador che là sù regna,
perch’i’ fu’ ribellante a la sua legge,
126 non vuol che ’n sua città per me si vegna.
In tutte parti impera e quivi regge;
quivi è la sua città e l’alto seggio:
129 oh felice colui cu’ ivi elegge!».
E io a lui: «Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
132 a ciò ch’io fugga questo male e peggio,
che tu mi meni là dov’or dicesti,
sì ch’io veggia la porta di san Pietro
135 e color cui tu fai cotanto mesti».
Allor si mosse, e io li tenni dietro.
2.
Particolare e universale

Il primo canto dell’Inferno, e con esso il poema, prende avvio con


apparenza piana e familiare: abbiamo un soggetto calato nel bel
mezzo di un’avventura, la quale si configura fra l’altro nel più ovvio
dei modi, lo smarrimento in un bosco buio. Ma l’apparente trasparen-
za del dettato – oltre che la rilevanza strutturale del luogo testuale –
impone la massima cautela, e l’esercizio di una parafrasi millimetrica.

Nel mezzo del cammin di nostra vita


mi ritrovai per una selva oscura,
3 che la diritta via era smarrita.

Il primo verso è il più problematico. Come ricordano tutti i com-


menti, esso fissa un tempo dell’esperienza individuale del protagoni-
sta testimone, e fissa un tempo storico: i trentacinque anni di Dante,
il 1300 del Giubileo. Allude anche a un tempo metafisico, il centro
nevralgico della storia umana, dal passaggio del quale potranno dipen-
dere, per l’umanità smarrita ma tuttavia non abbandonata dalla Gra-
zia, la perdizione o la salvezza.
C’è dunque subito una sovrapposizione di piano individuale
specifico e di piano storico – ed extrastorico – generalizzante, una so-
vrapposizione senza necessità qui di mediazioni argomentative, secon-
do un processo di pensiero, dunque, che fonde fulmineamente parti-
colare e universale. Si registra in questo avvio del poema un’eredità
del grande simbolismo medievale, del quale Dante era d’altra parte
stato, con la stagione stilnovistica della sua produzione e la parte più
ampia della Vita nuova, interprete illustre. Tale eredità implica d’al-
20 Dante e la nascita dell’allegoria

tra parte una filosofia della storia capace di fissare ogni particolare en-
tro la logica provvidenzialistica universalizzante. È la filosofia della
storia che legge nella personale vicenda di Dante la universale vicen-
da dell’umanità, e può collocare entro un’eguale intenzione divina di
soccorso tanto l’agire dei protoromani Eurialo e Niso quanto quello
dei loro antagonisti Camilla e Turno (vv. 107-108).
È tuttavia un’eredità inaridita, che proprio la Commedia si inca-
rica di liquidare, sostituendo al cortocircuito simbolistico fra partico-
lare e universale il processo allegorico della ricostruzione intellettua-
le. A questo rinnovamento dei modi di costruire il significato bisogne-
rà dedicare, riflettendo sul primo canto del poema, una speciale atten-
zione: il canto proemiale, infatti, più ancora che introdurre alla vicen-
da narrativa, ha la funzione di definirne le modalità organizzative; sta
lì, insomma, per educare il lettore a una tecnica di rappresentazione
fantastica in gran parte inedita e innovativa, almeno per un poeta,
quella che abdica dal modo simbolistico e abbraccia appunto l’allego-
ria. Intanto, però, quel Dante che presto renderà impossibile attribui-
re un significato alle parole-chiave «cammino» o «selva oscura» o «di-
ritta via» senza collocarle all’interno di un sistema di relazioni concet-
tuali e di convenzioni antropologico-culturali, cioè senza imporne la
decifrazione secondo la tecnica allegorica, quello stesso Dante chiede
di leggere «nostra vita» come ‘vita degli uomini in generale’ e al tem-
po stesso come ‘vita di un soggetto unico’, dunque come universale e
come particolare insieme; chiede, cioè, di applicare un principio di de-
cifrazione simbolica. Così Verdi, nell’estremo Te Deum, apre con una
pagina di gregoriano il successivo sviluppo audacemente polifonico,
imponendo all’ascoltatore di registrare le radici della costruzione
contrappuntistica, ovvero di fissare contemporaneamente l’antico e il
nuovo, soffrendo l’esperienza straniante che ne deriva; una modalità
che l’arte moderna ripeterà molte volte, e, per restare alla musica, per
esempio, da Stravinski a Hindemith.
Dante, dunque, vuole che il lettore riconosca subito un modo ben
familiare di descrivere la realtà attribuendole senso, cioè di descrive-
re il particolare attribuendogli universalità. Lo vuole con tanto mag-
gior forza quanto più è sul punto di proclamare la perdita di tale tra-
sparenza conoscitiva e la fine del sistema di valori che a essa era im-
plicita. Lo smarrimento nella selva, anzi, è anche e innanzitutto lo
smarrimento di questa corrispondenza simbolistica fra particolare e
universale, il procedere sul mondo di un velo che copre la trasparen-
za delle relazioni di senso, l’oscurarsi del brillare fenomenico quale im-
mediatezza semantica.
Particolare e universale 21

La novità che sta per essere proclamata sul piano della tecnica
rappresentativa non è infine meno audace di quella che segna la
materia della rappresentazione: un aldilà realisticamente caratterizza-
to. Questa novità era tale per il lettore del tempo di Dante e lo è per
quello di oggi: il lettore del Medioevo era abituato a forme di rappre-
sentazione che cogliessero l’universale nel particolare; il lettore di og-
gi ha perso la fiducia nella possibilità di una relazione affidabile fra i
due piani. Per il lettore suo contemporaneo l’audacia di Dante consi-
steva nel revocare in dubbio la trasparenza magica tra contingenza e
trascendenza, tra cosa e significato, imponendo un processo ricogni-
tivo fondato sull’allegoria del viaggio, dunque del dispiegamento
mondano di descrizione, di conoscenza, di ragionamento. Per il letto-
re nostro contemporaneo l’audacia della Commedia risiede innanzitut-
to, ben diversamente, nella dantesca certezza tuttavia perdurante che
fra particolare e universale, fra esistenza individuale e destino ultimo,
fra fenomeno e significato persista un nesso, per quanto bisognoso di
essere rintracciato in un complesso sistema di mediazioni e rico-
struito in un processo. Ammettiamo pure che il fascino di Dante agli
occhi moderni consista in buona misura nella sua percezione precoce,
e perfino profetica, della rottura dell’equilibrio antico tra dato e
senso; ma d’altra parte non meno nella intatta fiducia nella possibili-
tà di reintegrare il vuoto precipitato fra cosa e significato.
Fascino a parte, tuttavia, non possiamo nasconderci che il lavo-
ro critico richiesto al lettore moderno è particolarmente arduo, se egli
dovrà da una parte, per correttezza storico-filologica, ricostruire il si-
gnificato che il gesto di Dante assume rispetto ai codici preesistenti,
in particolare valutando appieno il peso rivoluzionario dello strumen-
tario allegorico chiamato a rimpiazzare i vecchi procedimenti simbo-
listici; e però anche, dall’altra, per essere filosoficamente adeguato al-
la propria attualità, illuminare il significato che la soluzione dantesca
sprigiona al cospetto del nostro tempo.
Ancora una volta, il momento della parafrasi è quello decisivo per
valorizzare entrambi gli aspetti della questione, purché la parafrasi evi-
ti di ridursi a mero supporto filologico del testo, limitandosi a una fun-
zione di archeologia semantica, e non di meno eviti di gettare disin-
volti ponti di senso fra il testo e il lettore, ovvero fra l’antico e l’at-
tuale. Infatti né il nostro presente può essere pensato come orizzon-
te pacificato di significato alla luce del quale (cioè secondo i protocol-
li semantici del quale) spiegare l’antichità del dato testuale, ricondu-
cendo il lontano (misterioso) al prossimo (noto), né dunque esiste già
una lingua – inspiegabilmente esente da opacità – che parli con noi di
22 Dante e la nascita dell’allegoria

Dante. Per questo sia le traduzioni filologiche sia quelle disinvoltamen-


te di servizio patiscono un rischio di mistificazione, risultando spes-
so o tautologiche o contraffatte. Alla parafrasi spetta di cercare con la
nostra lingua quella di Dante, ovvero di tentare per mezzo della
lingua di Dante la nostra; perseguendo così un ibrido segretamente
perturbante che accresca la conoscenza della Commedia e la nostra.
3.
L’enigma dell’inizio

«Nel mezzo del cammin di nostra vita». I più autorevoli commenta-


tori danteschi parafrasano il primo verso così: «a trentacinque anni»
(Sapegno), «all’età di trentacinque anni» (Bosco-Reggio). È natural-
mente scontata la perdita di complessità che questa traduzione com-
porta, non solo alla luce delle osservazioni fatte sopra, ma nella pro-
spettiva almeno dell’allargamento generalizzante imposto dal riman-
do alla «nostra vita» presente nel testo dantesco: tuttavia ogni sensa-
to commento del poema – ed egregiamente i due sopra citati – ne dà
adeguato conto nel seguito dell’annotazione. Riflettiamo però sul ti-
po di paradigma culturale che le parafrasi sopra riportate postulano,
e sul tipo di lettore che presuppongono. “Quando avevo trentacinque
anni mi smarrii in un bosco buio”, o anche semplicemente “Quando
avevo trentacinque anni ecc.” costituisce un incipit del tutto familia-
re alle orecchie del lettore moderno, che potrà riconoscervi i segnali
di un eroe problematico pronto a intraprendere la lotta per l’afferma-
zione; o, anche, la lotta per la salvezza, purché si ammetta la declina-
zione perfettamente laica e secolare qui assunta dalla parola “salvez-
za”: si vede bene, anche così, quanto fulmineamente la tonalità inizia-
le condizioni il successivo centro di gravità semantico e ideologico. E
si ammetterà d’altra parte che l’avventuroso viaggio di Dante potreb-
be per più aspetti legittimare una lettura in termini di moderno Bil-
dungsroman: ma è li che vogliamo portare il lettore, e soprattutto quel-
lo alle prime armi? “A trentacinque anni” è dunque incipit da roman-
zo moderno; perfino, se si vuole, incipit mondano plausibile per un te-
lefilm. Il lettore capisce. La parafrasi funziona. Tuttavia, nel rende-
re comprensibile l’inquietante attacco del poema – e vedremo quan-
24 Dante e la nascita dell’allegoria

to esso sia inquietante –, i commentatori ne sacrificano parte della ve-


rità: una parte sostanziale. In effetti «a trentacinque anni» non è per
nulla la parafrasi di «Nel mezzo del cammin di nostra vita»: ne è piut-
tosto una interpretazione parziale. Un commento accurato come
quello di Bosco-Reggio non manca di specificare: «il significato più ov-
vio […] è che il verso significhi “all’età di trentacinque anni”». Eb-
bene, no. Il verso significherà, fra l’altro, ‘all’età di trentacinque
anni’; ma il significato più ovvio è ‘a metà del cammino della vita
umana’. E chi mai non sarà in grado di capire una proposizione
tanto elementare? Quale mai serissimo argomento potrebbe spingere
– e ha spinto infatti – i commentatori a relegarne le importanti con-
seguenze nel seguito dell’annotazione, eleggendo un particolare secon-
dario, o parziale almeno, alla dignità dell’intero? Quale inquietudine,
diciamo pure, ha provocato un’usurpazione tanto flagrante e in appa-
renza immotivata?
I commenti, e i commenti ai classici con particolare forza, rispon-
dono a due princìpi ispiratori: di tipo filologico-specialistico, l’uno; di
tipo pragmatico-comunicativo, l’altro. Ove il primo può momentanea-
mente passare in secondo piano, ecco che il secondo si impone con for-
za. E il vantaggio della presunta parafrasi «a trentacinque anni» è
quello di essere interamente comprensibile; e comprensibile immedia-
tamente e senza sforzo. La parafrasi alternativa sopra ipotizzata (“a
metà del cammino della vita umana”), pure tanto più fedele, non è in-
vece comprensibile se non con un grande sforzo. Anzi, ammettiamo
pure che sia comprensibile anch’essa in modo immediato; ma certo
non per intero. Di più, la frase “a metà del cammino della vita
umana” provoca una confusa inquietudine, tanto più acuta per l’am-
biguità di una proposizione che risulta, al tempo stesso, del tutto com-
prensibile dal punto di vista lessicale e sintattico e però sostanzialmen-
te misteriosa dal punto di vista concettuale. Si può ben dire, al dun-
que, che essa si presenta con i caratteri dell’enigma. L’enigma è il tem-
po trascorso fra Dante e noi, cancellando ogni consuetudine con
l’idea di vita quale “cammino”. Tanto il lettore moderno può vera-
mente concepire il significato della vita come cammino quanto, digiu-
no di studi classici, potrà ricordarsi dei fichi nominando il fegato.
L’espressione “cammino della vita” costituisce ai nostri orecchi una
metafora morta nel senso più disperato del termine (anche ove ne so-
pravviva il guscio, del tutto mondanizzato). Per questa ragione si po-
trà pure pronunciarla a cuor leggero. Ma solo che la sua profondità
riverberi agli occhi del lettore, ecco che l’enigma gli si poserà accan-
to, chiedendo il sollievo della decifrazione.
4.
Rendersi degni di morire

Se la vita costituisce un «cammino», allora la vita ha una meta. Il da-


to semantico centrale del primo verso sta in questa equivalenza subi-
to stabilita fra «cammino» e «vita», tanto più decisiva – e illuminan-
te – in un poema costruito sul cammino, appunto, di un protagonista-
testimone. Il lettore è informato subito del carattere allegorico del
viaggio, che rende possibile un processo di redenzione e la testimo-
nianza in quanto simulazione della vita. Il viaggio di Dante non è
un’avventura, non è cioè un’iniziazione alla vita o una situazione del-
la vita: è la vita stessa. Certo, il modello avventuroso della quête ca-
valleresca agisce sulla costruzione del poema, ma si tratta di un model-
lo letterario che Dante, nel momento in cui lo utilizza e, per dir co-
sì, cita, intende contraddire e negare. Secondo il paradigma di quel
modello, l’eroe vive l’avventura per rendersi degno di vivere (per con-
quistare gloria a corte o l’amore di una donna); secondo il ben diver-
so paradigma dantesco, invece, l’eroe vive l’avventura per rendersi de-
gno di morire.
Ammetteremo senza sforzo che ai nostri occhi il modello dei ro-
manzi cortesi è assai più comprensibile del modello dantesco. Da quel-
lo, infatti, discende la vicissitudine profana dei racconti borghesi d’av-
ventura, con la storia del romanzo moderno e l’eroe problematico del
Bildungsroman. Dal modello dantesco – non a caso pressoché muto fi-
no alla riscoperta romantica, robustamente attualizzante – non è
disceso che il fascino della distanza.
Ebbene, parafrasare l’incipit della Commedia “Quando avevo tren-
tacinque anni” significa ricondurre il poema al modello dei romanzi
cortesi d’avventura, tralasciando l’evidente intenzione dell’autore
26 Dante e la nascita dell’allegoria

di citarne alcuni decisivi elementi strutturali per rovesciarne, come si


è detto, il paradigma culturale. Si potrebbe perfino sostenere, forzan-
do appena la mano, che Dante voglia competere con quei fortunati
modelli letterari per contraddire l’ideologia che è implicita in essi: par-
lando dunque agli stessi lettori ma con il fine di problematizzare, e di-
ciamo pure di convertire e di redimere, la loro fruizione mondana.
D’altra parte basterà l’imminente canto V dell’Inferno – con l’eroe ca-
valleresco Tristano additato da Virgilio e gli effetti perniciosi di
Lancillotto e Ginevra sui due cognati – per definire senza margini di
dubbio l’atteggiamento di Dante verso quel mondo fascinoso tanto alla
moda.
Ora, se noi parafrasiamo “Quando avevo trentacinque anni” po-
stuliamo una maggiore opportunità di comprensione, e anzi di fami-
liarità, per il lettore moderno sulla base della continuità culturale e
ideologica fra la concezione moderna dell’avventura e la concezione
medievale cavalleresca. Con un unico travisamento semantico alteria-
mo tanto la posizione di Dante rispetto ai suoi contemporanei quan-
to quella del poema rispetto ai nostri; in entrambi i casi annulliamo o
riduciamo le differenze e la distanza. Una leggerezza nella parafrasi
comporta un danno storico-filologico e comporta un danno critico, cioè
un danno al rapporto fra Dante e il suo tempo e un danno a quello fra
Dante e noi.
5.
Verso la buona morte

L’eroe dantesco, abbiamo detto, vive dunque la sua avventura per ren-
dersi degno di morire. Infatti, se la vita costituisce un cammino, la me-
ta coincide con la morte. Anche da questo punto di vista, la distanza
dal modello cavalleresco e soprattutto da quello moderno non potreb-
be essere maggiore. Per i moderni la vita non è un cammino, non è un
viaggio; ma se pure tale si volesse considerare – per l’inerzia di una
metafora morta –, sarebbe un cammino o un viaggio che ha il proprio
fine in se stesso, o nell’autoaffermazione individuale. Nel poema, in-
vece, se si esclude il fine, il viaggio non ha più né significato né ragion
d’essere. La differenza fra noi e Dante è all’incirca quella che distin-
gue un viaggio turistico da un pellegrinaggio alla volta di una rilevan-
te meta religiosa. Il viaggio di Dante assomiglia al secondo perché
prende valore dall’arrivo. Solo la funzione di testimone destinato do-
po il ritorno sulla Terra a riferire del proprio viaggio introduce nel
complesso paradigma del poema una complicazione, traendo dal mo-
dello religioso un compito secolarizzato. Ma è evidentemente un
aspetto diverso della questione.
La centralità dell’equivalenza allegorica vita-cammino per la
possibilità di leggere correttamente il significato del viaggio dantesco
è sancita anche dalla collocazione della parola «cammin» al culmine del
primo verso del poema, e della parola «vita» alla fine di esso, quale
prima parola-rima (da legare, non senza surplus semantico, al succes-
sivo «smarrita» e magari a «via»). Poco meno rapida è la comparsa
sulla scena dell’antagonista «morte» (v. 7), in un verso forse più tor-
mentato del dovuto dagli interpreti e tuttavia egualmente ambiguo:
«Tant’è amara che poco è più morte». Alcuni hanno riferito l’amarez-
28 Dante e la nascita dell’allegoria

za alla paura, ultimo sostantivo femminile a precedere; altri e più nu-


merosi la hanno invece riferita alla selva. Non è mancata infine, fra i
moderni, l’ipotesi che l’amarezza consista nel dover riferire della
selva; ma risulterebbe invero sproporzionata la comparazione. A es-
sere «amara» non può che essere la «selva», nominata già due volte
(vv. 2 e 5) e onorata di ben quattro dei sei aggettivi qualificativi fino-
ra spesi dal poeta (uno dei quali è «aspra»); tanto più che i due ver-
si e la terzina seguenti replicano tre volte un locativo («vi») indubita-
bilmente riferito alla selva che mal si giustificherebbe se a essere «ama-
ra» non fosse appunto questa.
Tuttavia, la questione più grave suscitata dal v. 7 consiste proprio
nel significato da attribuire al sostantivo «morte». L’oscillazione
presente nei commentatori propone ora un significato comune appli-
cato con una qualche tensione iperbolica (‘morire è poco peggio che
smarrirsi in una selva così amara’), ora invece una comune decifrazio-
ne in chiave oltremondana («morte»=‘morte dell’anima’: la «morte
seconda» di Francesco d’Assisi). Quale che sia l’opinione più convin-
cente, o meglio calzante al luogo in questione, non si può sottovalu-
tare questo riferimento alla morte: per il contrasto morte vs vita che
si è detto e per la ripresa del medesimo vocabolo, nel canto seguente,
fra le parole che Beatrice rivolge a Virgilio per definire la difficile si-
tuazione di Dante («non vedi tu la morte che ’l combatte / su la fiu-
mana ove ’l mar non ha vanto»: vv. 107-108). E se in quel caso non
ci sarà traccia di selva, tuttavia la «fiumana» evocata stabilisce una re-
lazione di grande interesse con la prima similitudine del poema (e del
canto):

E come quei che con lena affannata,


uscito fuor del pelago a la riva,
24 si volge a l’acqua perigliosa e guata […]

In questo modo il piano di realtà evocato nelle similitudini ces-


sa di avere puro valore retorico e si propone quale possibile svelamen-
to dei referenti, con rovesciamento del rapporto fra dato e paragone.
In particolare, i lettori curiosi possono contare, per il legame fra la si-
militudine del «pelago» nel primo canto e la metafora della «fiumana»
impiegata da Beatrice nel secondo, sulle splendide pagine di Charles
Singleton.
In ogni caso Dante – testimoni Beatrice e lui stesso –, benché sia
solo a metà del cammino della vita, sta per morire, è in rischio di mor-
te. La vita, dunque, potrebbe restare a metà. Questa considerazione,
Verso la buona morte 29

ricavabile dal mero significato letterale dei versi e da elementari de-


duzioni logiche, rende possibile una sovrapposizione dei due signifi-
cati alternativi della parola «morte»: una vita interrotta a metà, un
cammino bloccato prima di giungere alla meta costituiscono la nega-
zione della vita come significato: sparisce infatti la meta e resta solo
il viaggio, inutilmente troncato prima di raggiungere il suo fine.
Morire prima di essere pronti per la morte vuol dire morire dannati.
Per chi è a metà del cammino la morte biologica e quella spirituale
coincidono. Dante, in quanto cristiano, non potrebbe temere la mor-
te biologica, o almeno non esibirebbe qui tale paura; né tanto meno
una simile preoccupazione avrebbe senso nella beata Beatrice. Ma leg-
gere la «morte» del v. 7 tout court quale ‘morte dell’anima’ implica un
cortocircuito fra lettera e senso ultimo non giustificato dal contesto.
In realtà, la morte biologica diviene la morte dell’anima perché viene
a negare il compimento del cammino della vita, escludendolo dalla me-
ta della salvezza. Dante è a metà del cammino della vita umana
perché ha trentacinque anni non meno di quanto vi stia perché lonta-
no ancora dalla meta del significato.
La selva è quasi come la morte, secondo le parole del v. 7, perché
costituisce uno dei modi in cui la morte può colpire (un altro è la mor-
te per acqua evocata dalla prima similitudine e da Beatrice: quella, po-
niamo, che colpisce l’alter ego del protagonista, Ulisse). Nel sistema
allegorico, dunque, la selva è promossa a una generalizzante funzione
mortifera. La selva e la morte, cioè, coincidono poco meno che il cam-
mino e la vita: la selva blocca il cammino così come la morte interrom-
pe la vita. Questa selva in particolare potrebbe fermare il cammino di
Dante negandogli la meta, cioè la buona morte, e imponendogli,
con la morte cattiva, cioè non adeguatamente conseguita ma patita, la
perdizione spirituale.
La sostanza è quella mille volte ribadita dagli interpreti del
poema, e ben nota a ogni attento lettore di Dante, ma almeno in par-
te diverso è il modo in cui è qui stata ricostruita sul testo dantesco:
riconoscendo a ogni termine innanzitutto il significato letterale, e ri-
salendo al soprasenso allegorico indagando la procedura organizzati-
va del racconto, che disponendo i vari elementi della narrazione secon-
do un calcolato disegno di forze li risemantizza.
In questo caso, come evidentemente in molti altri, la riconnota-
zione allegorica è condotta sulla scia di ben definiti codici culturali e
convenzioni sociali. È per esempio ovvio che la «valle» o la «selva»
(come più avanti il sole) costituiscono entità culturali fortemente con-
venzionali, topoi e, in qualche modo, archetipi; e che questo valore
30 Dante e la nascita dell’allegoria

convenzionale è un ingrediente importante della ricostruzione allego-


rica. Né serve dire quanto l’idea della vita come cammino (con il co-
rollario decisivo della meta nella vera patria celeste, cioè nella salvez-
za) e l’auspicio della buona morte fossero familiari alla mentalità me-
dievale.
In particolare, l’importanza del movimento quale figura del-
l’esistenza è sottolineata nel poema in molti modi, non ultimo la ca-
ratterizzazione dinamica – secondo un energico climax ascendente e
universalizzante – dei versi liminari delle tre cantiche: si va dal tenue
suggerimento di «Nel mezzo del cammin di nostra vita» e di «e
quindi uscimmo a riveder le stelle» dell’Inferno, al più vigoroso slan-
cio cinetico di incipit ed explicit purgatoriali («Per correr migliori ac-
que alza le vele» e «puro e disposto a salire alle stelle»), all’imponen-
te raffigurazione dell’ordinato moto cosmico nei confini testuali del
Paradiso («La gloria di colui che tutto move» e «l’amor che move il so-
le e l’altre stelle»), dove la circolarità della ripresa del verbo “move-
re” è affiancata alla circolarità trinitaria mascherata per il variare dal-
la Potenza del Padre («la gloria») alla Carità del Figlio («l’amor»).
6.
Il cammino e la via

Si è cominciato dunque a vedere come il racconto dantesco si serva di


elementi concreti, di dati materiali anche molto comuni (il cammino,
la vita, la selva, la morte) e come tenda a negare al lettore la possibi-
lità di una decifrazione immediata, secondo un rapporto di verticali-
tà realizzato, per così dire, uno a uno (a ogni dato cioè facendo cor-
rispondere un significato), nella prospettiva epifanica del cortocircui-
to simbolistico. E si è dunque cominciato a vedere come sul lettore
venga esercitata dal testo una pressione a costruire sistemi di relazio-
ne, cioè a ricostruire modelli strutturali, così da farne sprigionare un
significato complessivo alla luce del quale, infine, illuminare di senso
anche i singoli dati particolari. È questa la nuova strategia allegorica
postulata dal poema, che il lettore deve acquisire in questo primo can-
to, esemplarmente costruito in tale prospettiva. Solo per un fine
pratico, e non senza rischi di fraintendimento, i commenti della
Commedia si ostinano invece ad attribuire un significato ulteriore a
ogni dato o fenomeno puntuale introdotto nel testo.
In effetti, in questo decisivo incipit non si registra soltanto un
coerente definirsi di un sistema rigorosamente strutturato e semanti-
camente lineare. Al contrario, il lettore è anche coinvolto in un
complesso processo interpretativo. Proprio dalla prima delle parole
chiave che formano la struttura concettuale costruita dal poeta, dal-
la parola “cammino”, origina una serie problematica, che da una
parte conferma l’importanza del tema del cammino e la plausibilità del-
l’equivalenza cammino-vita, ma dall’altra entra significativamente in
contraddizione con il modo in cui tale tema e tale equivalenza vengo-
no raffigurati in questo canto.
32 Dante e la nascita dell’allegoria

La serie, ovviamente, è quella che collega la parola “cammino” del


v. 1 alle parole «via» del v. 3 e «calle» del v. 18; tanto “cammino”
quanto «via» sono peraltro replicati, l’uno al v. 35, l’altra ai vv. 12 e
29 («via», infine, sarà ripreso ancora al v. 95, poco dopo il decisivo
richiamo al «viaggio» predestinato di Dante; mentre «cammino» si
troverà, nella medesima posizione rilevata del verso di attacco del pri-
mo canto, nel verso conclusivo del secondo). Ma “cammino” e “via”
sono e non sono la stessa cosa. Sono la stessa cosa in quanto alludo-
no comunque alla prospettiva della vita come percorso e come viaggio
(come pellegrinaggio, secondo la metafora convenzionale). Non sono
la stessa cosa proprio rispetto alla vita, con la quale il “cammino” coin-
cide e per la quale, invece, la “via” costituisce solamente una oppor-
tunità: e mentre il cammino presuppone comunque la presenza uma-
na, la via no. Ora, l’opportunità, o la variante, di via contemplata in
questa parte del canto è qualificata per mezzo di due fondamentali ag-
gettivi: «dritta» e «verace» (vv. 3 e 12). Tra i due luoghi testuali è
d’altra parte stabilito un solido parallelismo, tanto in forza della repli-
cazione del medesimo sostantivo sotto diverso aggettivo («diritta
via», «verace via»), quanto per l’impiego di una forma verbale evocan-
te l’area semantica della perdita («era smarrita», «abbandonai»);
anche se dovrà essere contestualmente rilevato il carattere generaliz-
zante del primo caso e quello invece puntualmente individualizzante
del secondo: come a ribadire la duplice valenza, storico-collettiva e per-
sonale, del poema, già invocata affiancando «nostra vita» e «mi ritro-
vai» (e il valore generalizzante di «era smarrita», in rima con «nostra
vita», suggerisce come la selva corrisponda al mondo contemporaneo
del poeta, un mondo-selva nel quale, proprio come il protagonista di
questa avventura, tutti hanno necessariamente smarrito la via vera).
La via dritta è dunque anche la via vera. Essa non tollera attua-
lizzazioni individualizzanti, ma coincide con una traccia ideale che
conduce i passi verso la buona morte stabilendo una continuità posi-
tiva fra vita e aldilà. Il cammino, invece, può seguire ogni direzione,
dilungando più o meno dalla via dritta (e diretta); può anche smarri-
re del tutto la via vera e incontrare sbarramenti che ostacolino per
sempre il raggiungimento della meta: il cammino può incontrare la sel-
va, può interrompersi a metà, non dare compimento – e dunque sen-
so – alla vita di cui è figura. È appunto quanto vediamo accadere al
protagonista di questo racconto. Il cammino infatti è individuale e cor-
risponde al libero arbitrio: può seguire la via dritta e vera o può smar-
rirla e confondersi nella selva. La via dritta e vera, invece, è la trac-
cia segnata dalla Rivelazione, illuminata dal sole-Dio: non incontra la
Il cammino e la via 33

selva ma le si contrappone; conduce alla realizzazione della vita indi-


viduale quando questa le si adegui e la scelga, cioè dà compimento al
cammino garantendogli la meta ed escludendo ogni minaccia di sua in-
terruzione precoce. Per ora la definizione del significato teologico del-
la via si appoggia prevalentemente al codice culturale dell’immagina-
rio cristiano e dei suoi testi sacri («io sono la via, la verità e la vita»
si legge per esempio in Giov. 14, 6); ma vedremo più avanti come al-
l’interno dei primi decisivi diciotto versi del canto tale valenza teolo-
gica sia fondata anche in forza della tecnica allegorica impiegata dal
poeta.
7.
Parallelismi e contrapposizioni:
le leggi di un racconto nuovo

Studiando in particolare il canto di Ulisse, Lotman ha mostrato come


l’universo dantesco, anche dal punto di vista concretamente spaziale,
si costruisca valorizzando elementari ed efficacissimi principi di assia-
lità, ora svolgendo dunque allargamenti per mezzo del parallelismo, ora
invece fondando sistemi binari alternativi per via di contrapposizio-
ne. Uno dei vantaggi di tale procedura immaginativa consiste nella rea-
lizzabilità di complesse simbologie impiegando mezzi relativamente
economici. Infatti dove l’alto, per stare a un esempio che interessa par-
ticolarmente il primo canto, assuma un significato positivo, ecco
che il basso, di necessità, ne assumerà uno negativo; con la conseguen-
za che per ogni attributo assegnato a uno dei due poli, ecco che l’al-
tro riceverà a sua volta, implicitamente, l’attributo contrapposto: se
all’alto viene attribuita la facoltà di conferire la salvezza, al basso, di
converso, resterà di fatto attribuita quella di minacciare la dannazio-
ne; e se al basso spetteranno le tenebre, all’alto, necessariamente, la
luce. Di più, ciascun incremento contrappositivo viene anche ogni vol-
ta a costituire un’aggiunta sinonimica, cioè un vantaggio di qualità pa-
rallele per ciascuno dei due poli: nell’esempio appena proposto abbia-
mo infatti un insieme costituito da alto-positivo-salvezza-luce, e un al-
tro costituito da basso-negativo-dannazione-tenebre. L’economia e l’ef-
ficacia dello strumentario rappresentativo impiegato da Dante debbo-
no molto a questa tecnica, della quale proprio il primo canto dell’In-
ferno costituisce uno degli esempi più convincenti.
D’altra parte i vantaggi della costruzione per parallelismi e per
contrapposizioni non si limitano al piano narrativo ma coinvolgono in
profondità l’impianto allegorico della Commedia. Infatti dalla co-
36 Dante e la nascita dell’allegoria

struzione per parallelismi e per contrapposizioni deriva la necessità di


leggere ogni dato o fenomeno particolare all’interno di un sistema com-
plessivo dal quale soltanto può discendere il significato. Diciamo
pure anzi che il significato coincide, per gli individui particolari, con
la collocazione specifica all’interno di un sistema generale, e cioè con
i parallelismi e le contrapposizioni di volta in volta suscitate e conse-
guite. E mentre nella lunga stagione del simbolismo medievale ogni da-
to o fenomeno poteva vivere – quanto alla dimensione mondana – in
una sorta di individualità monadica, tanto il significato era poi dipen-
dente dal legame (verticale e immediato) con l’universalità teologica,
nel poema dantesco gli individui particolari, perduta o velata la rela-
zione di trasparenza con il valore universale, si riconoscono fra loro
per analogia o per contrasto, si incatenano in virtù di somiglianze e in-
compatibilità, si conferiscono cioè, in ultima analisi, significato e va-
lore a vicenda.
Prendendo a comporre la Commedia, Dante aveva certo consape-
volezza della novità cui stava dando luogo, e in questo primo canto
una delle sue maggiori preoccupazioni è di renderne consapevole
anche il lettore. In nessun altro canto del poema, infatti, la costruzio-
ne per parallelismi e per contrapposizioni è altrettanto decisiva per la
comprensione del senso, né altrettanto insistita. Si direbbe anzi che
vi sia qui una ridondanza di segnali di orientamento, un vero retico-
lo di riprese e contrapposizioni che impongano al lettore di riconosce-
re le coordinate fondamentali dell’avventura, certo, ma non meno di
apprendere i principi costruttivi del racconto: un apprendistato reto-
rico che vale quale ingresso in un nuovo modo di concettualizzare il
rapporto con la realtà e di definirne il significato.
In particolare, non può passare inosservata l’insistenza con la qua-
le l’autore ha disposto in questo canto (e nei primi diciotto versi in
particolare) segnali atti a costruire la contrapposizione fondamenta-
le “alto” vs “basso”. La caratterizzazione negativa del basso origina
dal parallelismo sùbito stabilito con la selva, il primo e assiomatico
negativo del racconto. Il rapporto di equivalenza selva-basso è veico-
lato dall’attribuzione del medesimo sostantivo «paura» all’una e al-
l’altro: «Ah quanto a dir qual era è cosa dura / esta selva selvaggia e
aspra e forte / che nel penser rinova la paura» (vv. 4-6) e «quella val-
le / che m’avea di paura il cor compunto» (vv. 14-15). Lunga è poi la
serie di rimandi all’alto (sempre positivi) e al basso (sempre negativi);
ma il valore esemplare della contrapposizione spaziale può ben rias-
sumersi in due azioni di particolare intensità compiute dal protagoni-
sta: guardare «in alto» verso la vetta del colle (v. 16) e rovinare «in
Parallelismi e contrapposizioni: le leggi di un racconto nuovo 37

basso loco» (v. 61), cioè verso la selva e la valle, incalzato dalle tre fie-
re e dalla lupa in particolare, dopo aver, non certo casualmente, con-
fessato: «io perdei la speranza de l’altezza» (v. 54). D’altra parte, e
per citare solo alcuni fra i tanti elementi di supporto, il leone incute
al protagonista «paura» (v. 44), condizione connessa, come si è visto,
alla valle e alla selva; la lupa gli trasmette «gravezza» (v. 52), il cui si-
gnificato – benché i commentatori insistano a decifrarlo (addomesti-
carlo) nel senso di ‘affanno, angoscia ecc.’ – sarà in primo luogo lo
stesso dell’unico altro passo in cui compare entro il poema (Inf.
XXXII, 73), e cioè ‘pesantezza’; e la pesantezza fa scendere verso il
basso. Ancora, Dante, intravisto il colle assolato, trasforma subito la
riconquistata serenità in un cammino verso l’alto, e resta fermo il pie-
de che è più in basso (v. 30). E si noti come, anche in questo caso, al
sostantivo «paura» (v. 19) tocchi di segnalare la relazione con lo spa-
zio, se il quietarsi della paura consente quell’innalzamento che la sua
presenza invece impedisce (ai vv. 6, 15 e 44). D’altra parte, nel can-
to seguente sarà ancora una crisi di paura – subito denunciata e rin-
tuzzata da Virgilio – a ripresentare per il protagonista il rischio di do-
ver rinunciare al viaggio e di riprecipitare, di conseguenza, nella sel-
va (cfr. Inf. II, 45 e 122, dove tuttavia è usato il sostantivo «vilta-
de»/«viltà», dovendosi evidentemente il meno nobile e più radicale
«paura» restare confinato alla solitudine dell’esordio; né, usato ben
quattro volte nel primo canto dell’Inferno, il sostantivo tornerà più pri-
ma del Paradiso, dove compare due sole volte). Infine, a dare fiducia
al protagonista concorre il fatto che «il sol montava ’n sù con quelle
stelle / ch’eran con lui quando l’amor divino / mosse di prima quel-
le cose belle» (vv. 38-40).
Quest’ultimo riferimento al sole che va verso l’alto ha un’impor-
tanza particolare, anche perché viene esplicitamente nominata qui, a
questo proposito, la partecipazione di Dio all’ordine universale (e il let-
tore scoprirà che lo stesso richiamo all’amore divino quale motore del-
l’universale armonia degli astri è collocato a concludere, cento canti
più tardi, il poema). Il collegamento sole-alto-Dio-movimento che i vv.
38-40 postulano costituisce la conferma e il suggello della complessa
costruzione compiuta dal poeta nei versi che precedono, e in partico-
lare nei primi diciotto del canto. Anche le rime cooperano peraltro,
anche in questo caso, a definire una sorta di surplus semantico, o di
scorciatoia narrativa, legando – con la serie «cammino: mattino: divi-
no» – il tema della vita/viaggio alla meta teologica per il mezzo pre-
gnante della luce (e una serie proprio opposta è invece «oscura: dura:
paura»).
38 Dante e la nascita dell’allegoria

Nella parte iniziale del canto, il sistema dei parallelismi e delle


contrapposizioni allinea le qualità alternative e inconciliabili dei due
poli spaziali, fino a definire l’insieme negativo del basso quale oscu-
ro (v. 2), pauroso (vv. 6 e 15), mortifero (vv. 26-27) e quello del po-
sitivo quale diritto (v. 3), vero (v. 12), speranzoso (v. 41). Ora, in vir-
tù del criterio di reciprocità sopra considerato, ecco che dal rovescia-
mento delle qualità dell’insieme negativo del basso derivano a quello
positivo dell’alto le qualità di essere luminoso, rassicurante e vivifican-
te; mentre il negativo del basso, rovesciando le qualità dell’insieme
positivo alto, sarà torto, falso e disperante.
8.
Il sole e la chiave dell’allegoria

Si tratta di un sistema che può essere allargato e complicato indefini-


tamente, ma il cui valore consiste innanzitutto nella strategia struttu-
rante, che salva ogni particolare dal rischio dell’insensatezza, collocan-
dolo in un luogo spaziale che è anche – secondo il criterio della figu-
ralità indagato da Auerbach – un luogo di verità ultima. Vedremo più
avanti le conseguenze generali di questo processo, e in particolare il
nesso che viene a stabilirsi fra realismo e figuralità, e cioè la inevita-
bile tendenza realistica della strategia allegorica. Si tratta ora, preli-
minarmente, di valutare la necessità di un luogo testuale capace di far
scattare il processo di riconoscibilità allegorica, un luogo dal quale ri-
costruire la decifrabilità dell’insieme.
Dal punto di vista della strategia retorica, questo luogo coincide
con la cosiddetta chiave dell’allegoria, cioè una sorta di nesso fra livel-
lo del discorso e livello del significato ulteriore ed estremo, quale il col-
lo di una clessidra che divida i granelli del racconto (e della storia uma-
na di cui il racconto è metafora) da quelli della sua verità teologica, e
quasi la lama impercettibile che separa, nello specchio, l’immagine ri-
flessa dal suo referente specchiato. Ebbene, l’allegoria medievale, in
quanto costruita sul postulato della decifrabilità, non può fare a me-
no di indicare, per mezzo di uno strumento efficiente, la direzione ver-
so cui attuare lo svelamento; non può fare dunque a meno di una chia-
ve. Ben diversamente, l’allegoria moderna assumerà la forma dell’enig-
ma, costruendo (a partire dal pastore leopardiano e dal cigno di
Baudelaire) interrogativi senza soluzione, o almeno senza garanzia di
risposta: il bisogno di significato che muove la riscoperta della tecni-
ca allegorica non potrà più appoggiarsi ai sostegni teologici che carat-
40 Dante e la nascita dell’allegoria

terizzano il procedimento dantesco. Quella moderna sarà un’allegoria


di cui si è perduta la chiave.
Definire quale chiave dell’allegoria, nella Commedia, questo luogo
risolutivo rende tuttavia ragione solamente dell’aspetto retorico; e nul-
la è più riduttivo, nel confronto con la figuralità dantesca, che limitar-
si all’orizzonte retorico del suo impiego. C’è in realtà, anche nel ricorso
alla cosiddetta chiave dell’allegoria, un sottinteso teologico molto forte:
e d’altra parte come potrebbe essere diversamente? Per coerenza con la
concezione complessiva di Dante, anzi, la chiave dell’allegoria dovrà con-
tenere, al tempo stesso, sia gli attributi della realtà sensibile sia quelli del-
la verità soprasensibile; dovrà essere un luogo abitato contemporaneamen-
te dal fenomeno e dalla sua legge, dalla creatura e dal Creatore. Non po-
trà, in ultima analisi, che alludere, tanto per la materia di cui è fatto
quanto per la tecnica costruttiva, al momento capitale dell’Incarnazione.
Per il cristiano, infatti, è quello il luogo – insieme storico e trascenden-
te – nel quale si trova depositata la chiave dei tempi.
Ebbene, quale è nel primo canto del poema questo luogo nel qua-
le il sistema dei parallelismi e delle contrapposizioni si presenta nel-
la sua interezza, quasi compendiato e semplificato al massimo, e al
tempo stesso si rivela nelle sue facoltà teologiche, additando la prospet-
tiva trascendente della decifrazione? Senza dubbio questo luogo «a cui
tutti li tempi son presenti» (Par. XVII, 18) è da riconoscere nelle due
terzine che occupano i vv. 13-18:

Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,


là dove terminava quella valle
15 che m’avea di paura il cor compunto,
guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
18 che mena dritto altrui per ogne calle.

In questi versi troviamo compendiato il sistema dei parallelismi


e delle contrapposizioni: abbiamo la «valle» a raffigurare il polo
basso e tenebroso del sistema, abbiamo il «pianeta» sole a raffigurar-
ne il polo supremo e luminoso; ed ecco i segni di una perlustrabilità
umana dello scenario sconfinato che si spalanca fra le due dimensio-
ni, con il concreto procedere verso il basso (giungere ai piedi di un col-
le, nel luogo in cui termina la valle) e l’auspicato puntare verso l’alto,
per ora solo con lo sguardo (con il guardare «in alto»).
Proporre una spiegazione della perifrasi introdotta ai vv. 17-18
secondo una considerazione dell’allegoria in termini esclusivi di pro-
Il sole e la chiave dell’allegoria 41

cedimento retorico comporta la riduzione della parafrasi a uno scio-


glimento quale ‘sole’ (così gli esemplari Sapegno e Bosco-Reggio). Na-
turalmente i commentatori si sentono poi giustamente in dovere di
chiarire come il sole sia un «pianeta» secondo il sistema tolemaico, ri-
ducendo in sostanza a questo la distanza culturale che l’affermazione
dantesca postula nei confronti del nostro tempo. Quanto al rapporto
fra dato realistico e significato figurale, è unanime presso i commen-
tatori l’invocazione del valore simbolico del sole quale allusione a Dio.
Interminabili, d’altra parte, e non senza curiosità e bizzarrie, i tenta-
tivi di decifrare il valore del colle. Ma ha davvero senso voler spiega-
re direttamente ogni singolo dato della realtà qui configurata dal poe-
ta? Siamo certi che la strategia di costruzione del significato messa in
opera in questo primo canto tolleri e premi un elenco di equivalenze
uno a uno, secondo il quale “sole=Dio; colle=vita virtuosa (o vita
assistita dalla Grazia, o Purgatorio, o Parnaso ecc.)”? Non sarà di gran
lunga più fertile e più adeguato al modo dantesco di costruire la sua
finzione un tentativo di far interagire complessivamente i vari elemen-
ti che formano il sistema, non limitandosi alle occasionali e parziali
intersezioni più o meno ovvie?
Partiamo proprio dalla perifrasi del «pianeta». Se un poeta soli-
tamente tutt’altro che ridondante dedica ben un verso e mezzo a de-
finire un ente tanto semplice e noto pare doveroso sospettare l’esigen-
za di ragioni adeguate. E infatti ciò che viene predicato del sole per
distinguerlo dagli altri pianeti e bloccarlo nella sua peculiarità unica
riprende con evidenza un tema chiave dell’incipit narrativo: «che me-
na dritto altrui per ogne calle» rilancia con minime varianti morfolo-
giche o sinonimiche la «diritta via» del v. 3, il cui parallelismo con la
«verace via» del v. 12 abbiamo già valutato. Dunque le qualità anto-
nomastiche del sole coincidono con la capacità di guidare gli uomini,
tutti gli uomini («altrui» ha appunto questo valore indefinito univer-
salizzante), sulla via dritta e perciò vera. È all’interno di questo
principio che si costruisce quale fondamento dotato di senso teologi-
co l’equivalenza fra via dritta e vera e luce (il sole è la fonte prima se
non unica di luce) e fra via dritta e vera e alto (il sole sta in alto, al
vertice di questa costruzione spaziale); ed è all’interno di questo
principio, ancora, che si esprime la necessità di collocare nel fondo di
una «valle» la «selva oscura». Dire che il sole è simbolo di Dio, cioè
stabilire un’equivalenza “sole=Dio”, affidandosi alla tramontata
strategia simbolistica dell’immediatezza (o del cortocircuito), vuol di-
re rigettare Dante e la sua svolta rivoluzionaria indietro verso una di-
versa stagione culturale e storica. Riconoscere che il sole abbia per gli
42 Dante e la nascita dell’allegoria

uomini in quanto attori immanenti la stessa funzione di guida e di


orientamento che Dio ha per gli uomini in quanto attori trascenden-
ti vuol dire aprirsi alla novità del procedimento figurale su cui la Com-
media è fondata. E infatti il sole non potrebbe qui in alcun modo al-
ludere efficacemente alla divinità se esso non avesse nell’esperienza
pratica dei naviganti, dei viaggiatori e degli agricoltori (per fare sola-
mente gli esempi più evidenti) appunto una funzione di orienta-
mento e di guida, e se d’altra parte sul tema del cammino (dritto o tor-
to, vero o falso, smarrito o guidato) questo incipit del poema non aves-
se puntato con tanta insistenza.
9.
Strade sbarrate e nuove procedure

Perché il sole possa alludere a Dio, perché possa cioè offrirsi valida-
mente (in modo riconoscibile e convenzionalmente fondato) quale fi-
gura di Dio, è necessario che esso venga accolto nel poema così come
viene effettivamente vissuto e inteso fra gli uomini e nella storia. An-
che questo fatto costituisce una rivoluzione radicale, le cui conseguen-
ze sull’arte e sulla civiltà occidentali diverranno valutabili solo più tar-
di; ed è una rivoluzione connessa alla costituzione del procedimento
allegorico.
Per capire l’importanza di questa rivoluzione è necessario consi-
derare come nella prospettiva del simbolismo medievale il principio di
realtà avesse un valore molto relativo, e perfino negativo. L’universo
postulato dalla cultura del simbolismo – abitato da bestiari, erbari, la-
pidari e in genere costruito in una prospettiva che ai nostri occhi può
apparire per molti versi magica – non considerava la descrizione
della realtà un vincolo al meccanismo della sua interpretazione, né un
valore ai fini del rinvenimento del significato delle cose. La differen-
za fra l’animale effettivamente noto e quello favoleggiato – la diffe-
renza, s’intende, ai fini della conoscenza profonda delle cose – era va-
lutata in termini di efficienza culturale e sociale. Per meglio dire, la
corretta valutazione della realtà nota, cioè della realtà materiale, ripo-
sava sulla capacità da parte di una interpretazione di trascendere la re-
altà stessa, almeno quale essa si presenta agli occhi del mondo. Il sot-
tinteso del simbolismo medievale è infatti duplice: da una parte esso
considera i dati e i fenomeni quali segnali di una dimensione ulterio-
re coincidente con la sola verità che conta, quella trascendente, né al-
cun evento sensibile è pensabile al di fuori di questo cortocircuito at-
44 Dante e la nascita dell’allegoria

tuabile, senza mediazione, con il trascendente; ma d’altra parte nel-


la prospettiva del simbolismo medievale, proprio perché il significato
dei dati sensibili risiede in un al di là da essi, la realtà è intesa quale
velo che si frappone alla conoscenza, sempre rischiando di sviarla. Da
questo punto di vista, dunque, il significato delle cose prescinde in so-
stanza dal loro aspetto e dalle loro qualità reali, quando pure non si
configuri in antitesi con essi. D’altra parte il mondo delle apparenze
è il mondo di Satana, e l’interpretazione simbolica sta lì appunto a
smascherare le sue falsità. Infine, in quanto creazione divina la real-
tà rimanda alla mano del Creatore; ma in quanto territorio segnato
dalla caduta mostra comunque i segni di Lucifero. All’interpretazio-
ne simbolica compete appunto di attraversare la superficie corrotta
senza farsene deviare, così da raggiungere il nocciolo originario di ve-
rità perfetto e immutabile (l’attraversamento delle cose si configura
peraltro quale valorizzazione della verticalità).
La conoscenza simbolica della realtà non mira a interpretare le co-
se ma a redimerle: a restituirle al Creatore; e non di rado la realtà, per
essere redenta, deve essere sottratta proprio alla sua apparenza.
Quanto una simile concezione abbia inciso sulla cultura, cooperando
potentemente anche alla costruzione di un sistema cosmologico tan-
to perfetto in sé quanto scarsamente confacente ai dati osservabili, lo
sperimenterà, ancora tre secoli dopo, Galileo, allorché tanta fatica du-
rerà a indurre i suoi interlocutori ortodossi a fidarsi delle dissezioni
anatomiche per giudicare del corpo umano e del cannocchiale per giu-
dicare degli spazi stellari.
La rivoluzione dantesca consiste nel riavvicinamento alla realtà
quale dimensione sulla quale fondare il significato. Già la prospetti-
va francescana aveva riaperto il rapporto fiducioso con la realtà
quale oggetto della creazione; e le Laudes creaturarum avevano potu-
to provocatoriamente sostenere, contro il rigorismo cataro (lo ha ben
mostrato Pasero), la felice elogiabilità del mondo reale, e di Dio stes-
so in quel mondo. Tuttavia, Francesco non aveva smentito l’episte-
mologia del simbolismo, dato che il rapporto con ogni brano della re-
altà aveva valore in quanto risultava possibile vedervi direttamente
la presenza divina; solo che il simbolismo medievale veniva in certo
modo emendato da Francesco della sua dimensione oscura e valoriz-
zato in quella epifanica: l’aspetto delle cose non risultava più segna-
to e come stravolto dalla corruzione, ma interamente garantito dal ge-
sto della creazione.
La Commedia fa un altro passo, ben più radicale. Ora a essere in
dubbio è il rapporto che le cose – dati e fenomeni – hanno con la sfe-
Strade sbarrate e nuove procedure 45

ra trascendente. Si è incrinata la trasparenza epifanica. I singoli indi-


vidui sono opachi. Aspettano un gesto che li interpreti, cioè che rico-
nosca nel disegno delle loro relazioni il tocco della Grazia. La realtà
è un intrico di verità e di falso, che va ricostruito al fine di raggiun-
gere ancora una volta il valore ultimo, cioè Dio. C’è una via dritta che
permette di aggirarsi in questo intrico senza smarrirsi. Ma questa via
dritta non può più giovarsi dell’immediatezza, del cortocircuito,
cioè della verticalità. La traccia che congiungeva secondo il simboli-
smo medievale il dato e la mano divina ora è interrotta. Come il let-
tore scopre ben presto, il pellegrino può confidare solo per un attimo
di poter salire direttamente sul colle, dirigendosi verso il sole. Questa
è stata la strada di una lunga stagione storica; ma risulta ora sbarra-
ta. Comunque le si voglia interpretare, le tre fiere testimoniano, a giu-
dizio pressoché unanime, gli impedimenti attuali della società terre-
na al raggiungimento della Grazia. Ebbene, proviamo per una volta a
puntare proprio su questo loro carattere di attualità: esse sbarrano ora
un accesso che fino a poco tempo prima il pellegrino avrebbe trovato
aperto e percorribile. E lo sbarrano in nome di una perversa so-
pravvalutazione di attributi mondani (nel dominio dell’apparenza, del-
l’arroganza e della cupidigia) che ha tutti i segni della recente secola-
rizzazione della società umana. D’altra parte Dante non si stancherà
di accusarla quale causa di tutte le peggiori sventure, per sé e per il
mondo. Ebbene, il fatto che l’accesso al colle sia impedito dalla
svolta profana avvenuta sulla Terra dimostra come la fine del rappor-
to verticale fra dato e significato dipenda dalla secolarizzazione del
mondo, cioè dal carattere profano sceso recentemente su di esso. An-
cora una volta, potrà essere discusso il significato specifico del colle,
ma decisivo sarà in ogni caso il fatto che il pellegrino tenti dapprima
la scalata diretta, verticale, e debba poi desistere incalzato da figure
dell’attualità, infine decidendosi, nella parte finale del canto e sull’esor-
tazione di Virgilio, a perseguire il proprio obiettivo ascensionale attra-
verso un itinerario che si annuncia già nelle parole della guida tutt’al-
tro che diretto e agevole.
Diremo allora che il colle luminoso è intanto, posto su questa so-
glia strategica del poema, un segno della nostalgia di Dante per il mon-
do della verticalità epifanica, cioè per il mondo del simbolismo. E che
l’accesso a quel mondo, fino a poco tempo prima possibile, è ora im-
pedito dalle figure della trasformazione profana, cioè affaristico-im-
prenditoriale, della civitas hominum. Sono queste a rigettare il pelle-
grino sempre più in basso, non genericamente ostacolando il suo
procedere o minacciandone la vita, ma in specifico impedendogli
46 Dante e la nascita dell’allegoria

l’accesso al colle, ovvero alla immediata illuminazione verticale, e co-


stringendolo verso una valle tenebrosa. Le tre fiere stanno dunque lì
a impedire il lieto fine dell’avventura, la redenzione del suo significa-
to; e hanno perciò un valore anche riguardo alla svolta nelle strategie
di attribuzione del senso. Dietro la disavventura dell’episodio si affac-
cia una svolta storica: alle sue spalle c’era il mondo della verticalità
simbolistica; di fronte a essa sta un’inquietante bassura senza luce. Pre-
maturo il giudizio storico, in questo episodio incipitario (maturerà in
future occasioni), ma netto lo scatto dell’ispirazione poematica, ben
calato dentro una inquieta consapevolezza sociale. Tanto la svolta sto-
rica quanto la consapevolezza delle sue conseguenze sociali si esprimo-
no qui intanto come impossibilità a procedere, nel racconto della vi-
ta cioè nell’assegnazione di un significato all’esperienza e infine
dunque nella sua redenzione trascendente, secondo le modalità soli-
damente sperimentate nei secoli precedenti; e come necessità di co-
struire nuove strategie discorsive.
Dante non ha un’intelligenza che si appaghi di nostalgia: lo
strazio di fronte al chiudersi dell’antico rapporto – rassicurante e fer-
tile – fra cosa e senso non impedisce di sfidare l’ostacolo inventando
una strategia nuova in grado di aggirarlo, cioè di conseguire il mede-
simo risultato del simbolismo impiegando una tecnica radicalmente
nuova.
10.
Proclamare il lutto

Non possiamo dimenticare quanto profondamente la formazione


culturale di Dante e la sua giovinezza artistica affondino nella stagio-
ne del simbolismo medievale. Congedandosene con la Commedia, Dan-
te non poteva ignorare il danno che la fine di quella stagione stava ap-
portando al rapporto fra uomo e Dio, complicandolo perdutamente;
né poteva sfuggirgli la specifica difficoltà in cui si stava venendo a tro-
vare chi, come i poeti, doveva gestire l’attribuzione del significato.
Il poeta che scopre l’inutilità della rivelazione epifanica, come ri-
sulta quella del colle, è pur sempre lo stesso che pochi anni prima ha
scritto un sonetto come «Tanto gentile e tanto onesta pare», nel quale
il rapporto fra fenomeno e valore trascendente è caratterizzato dalla
verticalità, dalla immediatezza e dalla trasparenza. Beatrice appare,
cioè si svela, nelle sue doti magiche, miracolo sceso dal cielo sulla Ter-
ra; il miracolo, anzi, è proprio il fatto che una cosa terrena si riveli di
natura celeste («e par che sia una cosa venuta / di cielo in terra a mi-
racol mostrare»). Il saluto terreno di Beatrice è perciò, contempora-
neamente, anche un gesto ultraterreno di salvezza.

Tanto gentile e tanto onesta pare


la donna mia quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua divien tremando muta
e gli occhi non l’ardiscon di guardare.
5 Ella se·n va, sentendosi laudare,
benignamente d’umiltà vestuta:
credo che sia una cosa venuta
di cielo in terra a miracol mostrare.
48 Dante e la nascita dell’allegoria

Mostrasi sì piacente a chi la mira,


10 che fier per gli occhi una dolcezza al core
che ’ntender no·lla può chi no·lla prova;
e par che della suo labbia si mova
un spirito soave pien d’amore
che va dicendo a l’anima: «Sospira».*

Ciò che colpisce nel sonetto stilnovistico è la radicale rinuncia a


ogni elemento accessorio: l’apparizione vive isolata nella sua perfetta
immobilità, senza sfondo e senza tempo. È la linea non mensurale e
rigorosamente monodica di un canto gregoriano, ritmicamente e armo-
nicamente autosufficiente, senza collocazione dentro un tempo o
uno spazio altri da sé, icona compiuta della trascendenza; ed è l’imma-
gine di una Madonna o di una santa in una tavola fondo oro (ripren-
deremo nel § 18 questo confronto illuminante con la pittura). La for-
za del fenomeno è tale da rendere inutili e fuorvianti gli elementi ac-
cessori: il soggetto non ha bisogno di paesaggio perché la sua colloca-
zione realistica appartiene al regno dell’apparenza, e alla poesia spet-
ta di rivelarne la collocazione spirituale, cioè la natura al tempo
stesso umana e celeste. Quello che secondo il principio di realtà è fal-
so viene dichiarato vero dalla logica del simbolismo; e viceversa. È
un’arte che rigetta il realismo su solide basi, oltre che di poetica, di
teologia.
La Commedia – opera configurata dallo stesso autore quale apo-
teosi di Beatrice, tanto nella sua struttura medesima quanto nella con-
clusione di quella Vita nuova che contiene il sonetto appena riporta-
to – si apre secondo una modalità che non potrebbe essere più lonta-
na. Se i riferimenti temporali erano costitutivamente inconcepibili nel
sonetto del saluto, segnato da un unico presente cui corrisponde la sta-
bilità del divino, il primo canto del poema prende avvio con un deci-
so riferimento temporale; di più, la dimensione della temporalità è te-
matizzata proprio nella costruzione di due tempi diversi, quello del-
l’azione (definito al passato remoto) e quello della narrazione (affida-
to al presente già nella seconda terzina), fino a configurare una sorta
di sdoppiamento del soggetto protagonista al v. 10 («Io non so ben ri-
dir com’i’ v’intrai») sulla base esclusiva della diversa collocazione tem-
porale dell’io che narra e di quello che è narrato. E se non meno in-
concepibile era nel sonetto stilnovistico l’introduzione di coordinate

* Testo secondo l’edizione De Robertis.


Proclamare il lutto 49

spaziali che contestualizzassero l’apparizione miracolosa (indefiniti re-


stano lì perfino i destinatari dell’epifania: «altrui», «ogne lingua»), nel
canto proemiale della Commedia, al contrario, non meno importante
del centro risulta lo sfondo; e anzi mal si potrebbe indovinare, nelle
terzine d’avvio, se il centro sia il soggetto smarrito o il paesaggio che
lo circonda, tanto quest’ultimo risulta meritevole di attenzione e di de-
scrizione.
Come l’apparizione di Beatrice nella Vita nuova non tollerava una
contestualizzazione spazio-temporale, così l’avventura della Com-
media non appare narrabile senza di essa. Raccontare l’esperienza di-
rettamente non è più possibile. L’esperienza, per meglio dire, ha per-
so la sua trasparenza. Ora gli uomini sono destinati a vivere episodi
in se stessi opachi ed enigmatici; sono costretti a tentarne il salvatag-
gio ricostruendo il loro contesto. La civiltà ha patito un lutto che ne
ha gelato la fiducia metafisica. Ora l’eroe si aggira in una foresta mi-
nacciosa, dalla quale risulta velleitario tentar di sortire confidando nel-
la antica ricetta epifanica: la via di ascensione al colle luminoso è in-
terrotta. Ora andrà tentata una topografia dell’errore, l’Inferno andrà
schernito con l’Inferno. La Commedia nasce anche quale risposta al
collasso del simbolismo medievale e della civiltà che lo esprimeva. Le
tenebre della selva che aprono il poema sono quelle scese sulla possi-
bilità dell’epifania stilnovistica. La fitta tramatura paesaggistica e l’au-
dace costruzione su due tempi suonano il canto funebre a quella
stagione passata, proclamandone il lutto. La strategia figurale, prima
ancora di essere un tentativo di risarcire la perdita, è un segno di es-
sa e la sua denuncia.
11.
Risorse e limiti dell’allegoria

Scrivendo questo primo canto, Dante si mostra ben consapevole, ol-


tre che di questo lutto, della difficoltà di raffigurarlo e soprattutto di
ricostruire davvero un’alternativa efficacie alla civiltà perduta. È
per questo che l’avventura della narrazione è subito collocata accan-
to a quella dello smarrimento, perché è lo smarrimento stesso a esse-
re doppio, riguardando per un verso la condizione di Dante in quan-
to individuo costretto a vivere in un mondo che ha perduto le proprie
coordinate di senso, in un mondo che appare ormai senza significato,
e per un altro verso Dante in quanto cantore rimasto senza i riferimen-
ti adeguati a rappresentare una realtà dotata di senso, quale interpre-
te di una poesia senza significato.
L’avventura è davvero doppia, dunque, se smarrirsi nella selva
oscura dell’allegoria, inutilmente animati dal rimpianto per la lumino-
sità del colle, è lo stesso che doverne narrare. Quale sarà mai, infat-
ti, il senso della vita dal momento in cui Beatrice non appare più a
proclamarlo con la lucentezza del dato tangibile, e, ammesso che un
significato sia ancora perseguibile, esso sarà da ricercare e ricostruire,
affannosamente, in un lungo viaggio? Quale potrà ora essere la fun-
zione del poeta, se Beatrice non parla più direttamente all’anima per
dirle di sospirare ma piuttosto i sensi sono invasi dai segni di un uni-
verso complesso e tutto da decifrare, e l’anima può solo essere inva-
sa dalla paura e dal desiderio di fuggire?
Il lettore del poema sa bene quante volte l’avventura del narra-
re venga spostata in primo piano, chiamata a dialogare con l’avventu-
ra del viaggio, secondo una dialettica che costituisce una parte impor-
tante del procedimento allegorico (sugli appelli al lettore si è non sen-
52 Dante e la nascita dell’allegoria

za una ragione soffermato il più grande interprete dell’allegoria dan-


tesca, Auerbach). Nella dimensione dell’allegoria, infatti, l’avventu-
ra del viaggio non è più rappresentabile senza il filtro di una ricostru-
zione intellettuale: avendo il mondo perso la sua trasparenza simbo-
lica, l’ordo rerum non è più pensabile senza l’ordo idearum. Dialogan-
do con il lettore, e più ancora problematizzando gli snodi capitali del-
la narrazione fino a farne il racconto di un’avventura parallela, Dan-
te ha fatto della novità allegorica una strategia di ricostruzione del sen-
so costitutivamente fondata sull’interpretazione della realtà e non sul-
la descrizione. Diciamo anzi pure che a partire dalla Commedia la re-
altà non è più descrivibile senza interpretazione; né d’altra parte è più
interpretabile senza una descrizione realistica. Descrizione e interpre-
tazione non sono più fuse ma separate, e dialettizzate. Ecco dunque
una ragione in più di quel binomio realismo-allegoria (e realismo-figu-
ralità) che costituisce un carattere costante dell’arte dantesca.
Un luogo del poema nel quale la tensione narrativa appare equa-
mente distribuita fra l’avventura del pellegrino e quella dello scriven-
te, proprio come nella parte iniziale di questo primo canto dell’Infer-
no e anzi con durata e insistenza anche maggiori, è il XXXIII del Pa-
radiso. In questo modo, una volta di più, all’imponente arco gettato
dal poema è garantita solidità e coerenza. Certo, non può sfuggire la
profonda diversità intercorrente fra i due casi. Nel canto proemiale la
“durezza” del dire coincide, oltre che con l’inquietudine del ricordo
e con la consapevolezza del rischio patito, con l’inaugurazione di una
sfida nell’ordine dei significati: al poeta sta di sperimentare la possi-
bilità di narrare un universo del quale pare smarrito il bandolo, che
sembra naufragare – proprio come la vita del soggetto – nel caos. Nel
canto conclusivo, ben diversamente, la difficoltà d’espressione e la dif-
ficoltà della testimonianza derivano dal successo conseguito: una
volta riuscito a raggiungere il vertice della trascendenza proprio come
nella tramontata stagione del simbolismo e nonostante l’impiego di
strumenti, per dir così, terreni e secolarizzati, ecco che le modalità al-
legoriche di conoscenza si rivelano non più adeguate, o almeno insuf-
ficienti. Quella tecnica si è mostrata in grado di costringere la realtà
a parlare ancora una volta, a svelarsi mostrando il significato della vi-
ta individuale, della storia umana, della realtà universale, aprendo in-
fine alla visio Dei. Ma quest’ultima non ammette conoscenza allego-
rica, non si offre con lo strumentario profano e secolarizzato. Il miste-
ro più alto dell’universo, il suo significato ultimo, non tollera che la
descrizione e l’interpretazione agiscano dialetticamente, cioè siano se-
parate. Così l’ultima similitudine del poema ci mostra il «geomètra»
Risorse e limiti dell’allegoria 53

inutilmente affannato nel voler ricavare il principio concettuale che


spieghi quel che d’altra parte risulta invece chiarissimo alla vista, la mi-
sura del cerchio.

Qual è ’l geomètra che tutto s’affige


per misurar lo cerchio, e non ritrova,
135 pensando, quel principio ond’elli indige,
tal era io a quella vista nova […]
(Par. XXXIII, 133-136).

Esiste dunque una realtà, nell’Universo e nella comune esperien-


za degli uomini (come l’immagine famigliare della «rota» sta a ricorda-
re al penultimo verso del poema), che è possibile vedere e toccare sen-
za poterla veramente comprendere. Il cerchio è lì: lo vedi ma non lo
puoi misurare. C’è dunque una realtà che il procedimento allegorico –
così simile a una dimostrazione geometrica – è in grado di assediare ma
non di cogliere nella sua essenza (e nella sua semplicità). Dunque la dif-
ficoltà a narrare deriva nell’ultimo canto del Paradiso dall’inadeguatez-
za della tecnica allegorica, che è una tecnica incapace, ovviamente, di
rappresentare l’assoluto, visto che è fondata su relazioni; e deriva, d’al-
tra parte, dalla coraggiosa fedeltà di Dante a quella tecnica. Il poeta non
fa che lamentare la pochezza di quel dire, ma subito, ogni volta, torna
a dire: senza cambiare metodo, coerente con la strategia dei parallelismi
e delle contrapposizioni. Finché l’aiuto decisivo arriva da fuori, da un
«fulgore» che adempie ogni desiderio, rendendo per un attimo il pelle-
grino parte di quella perfezione che egli vorrebbe capire.

140 se non che la mia mente fu percossa


da un fulgore in che sua voglia venne.
A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ’l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
145 l’amor che move il sole e l’altre stelle.
(Par. XXXIII, 140-145).

Nel lampo, di nuovo, fenomeno e significato sono uniti. Il viaggio ha


ottenuto il suo scopo: la frattura (storica ed esistenziale) fra cosa e idea si
è colmata; la forza dell’allegoria è tale da aver ritrovato quel che pareva
irrimediabilmente perduto. Dante non è più il geometra che vuol misu-
rare il cerchio, ma è la ruota, è il cerchio. Non solo Beatrice lampeggia
come nella giovinezza, ma si è svelata la luce che sosteneva quel sorriso.
12.
La cima del Calvario

Se Dante voglia con il finale della Commedia profetizzare la possibi-


lità di un recupero, nel futuro utopico del mondo, della perfezione
simbolistica, o piuttosto ammettere come solo al di là del tempo
storico tale ricomposizione possa ancora sussistere non è forse lecito
stabilire. Ma certo l’ultimo sforzo del pellegrino-testimone è di capi-
re il mistero dell’Incarnazione, cioè il legame fra la divinità quale im-
manenza e la divinità quale trascendenza. Il dogma dell’Incarnazione
ha un’importanza capitale nel sistema teologico cristiano; ma ponen-
dolo quale culmine del proprio viaggio, Dante ne riconosceva proba-
bilmente anche lo speciale significato nella nuova prospettiva della rap-
presentazione allegorica. D’altra parte l’Incarnazione può essere con-
siderata quale caso di perfetta coincidenza fra materia e significato, ma
anche quale momento di tensione fra i due termini. Una vasta casisti-
ca di eresie monofisite attesta la difficoltà di esperire la compresenza
di corpo ed essenza. E il percorso della Passione, teologicamente ne-
cessario a dare compimento all’Incarnazione, ha troppo strazio uma-
no per non offrirsi anche quale testimonianza di una sofferenza insi-
ta nella consustanzialità di umano e divino. La crisi della trasparenza
epifanica trascina con sé una più problematica rappresentazione del-
la figura, comunque centrale, di Cristo. Se l’Incarnazione appariva un
evento plausibile nell’ottica fusionale e non disgiuntiva del simbolismo,
ora, nella nuova prospettiva allegorica, costituisce inevitabilmente un
problema.
Il modello cristologico agisce già ovviamente nella Vita nuova, nel-
la quale Charles Singleton ha potuto ricostruirne l’azione sulla vicen-
da di Beatrice. Ma in quel caso a prevalere è il fascino del paradosso
56 Dante e la nascita dell’allegoria

miracoloso che congiunge in un’unica creatura realtà fenomenica e ve-


rità trascendente. Nella Commedia, invece, è l’immagine del Christus
patiens ad agire più in profondità. Gorni ha addirittura visto nel pel-
legrino smarrito dell’incipit, accanto a una figura del peccato, una fi-
gura della Passione; e quanto peccato umano e Passione di Cristo-uo-
mo siano congiunti non occorre ricordare. Certo, un verso come
«la notte ch’i’ passai con tanta pieta» (v. 21) pare evocare un perso-
nale Getsemani. E pertanto, in mezzo alle molte letture del significa-
to del colle, quella che vi ha riconosciuto un’eco del Calvario non sa-
rà la meno plausibile, purché si ricordi che, se doppia è ogni immagi-
ne allegorica, questa lo sarà con particolare evidenza: il colle della Pas-
sione, proprio come la croce che ne costituisce l’icona, è anche
un’immagine della resurrezione e della salvezza, e sulla cima del
Calvario non sta la morte ma la vita eterna.
13.
Dove il sole tace

Abbiamo ricordato l’alone indefinito che accompagnava nel sonetto


del saluto (e altrove) l’apparizione di Beatrice; ma l’indefinitezza ap-
partiene allo sfondo, laddove nettissimo è invece – stagliato su un fon-
do oro, si è detto – il contorno magico della donna. Anzi, quanto più
irrilevante è lo sfondo, tanto più carica di valore è la figura solitaria
che vi campeggia. In ogni caso, i tratti che caratterizzano l’apparizio-
ne di Beatrice sono la lucentezza e l’evidenza; le due qualità sono an-
zi goticamente coincidenti. Non diversamente Beatrice entrerà nel
poema, nel canto II, sulla scorta delle parole di Virgilio («lucevan li oc-
chi suoi più che la stella», v. 55), ma sarà l’estremo omaggio a una sta-
gione perduta, quasi un cammeo stilnovistico in un’opera duramente
realistica.
L’apparizione di Beatrice nel II dell’Inferno non è infatti per nul-
la caratteristica del modo di entrare in scena dei personaggi nel poe-
ma; neppure in paragone del modo, interamente rinnovato, nel qua-
le la beata si presenta – con solenne schieramento araldico – nel Pa-
radiso terrestre. E non senza una ragione, dunque, la rievocazione no-
stalgica ambientata nel Limbo è affidata alla mediazione virgiliana, così
che si è in presenza di un racconto nel racconto. Quanto l’inserto del-
l’incontro fra Virgilio e Beatrice costituisca l’estremo riepilogo di una
stagione perduta è testimoniato anche dal brusco passaggio dal canto
II al canto III, che si apre ex abrupto con l’agghiacciante iscrizione sul-
la porta dell’Inferno.
A recitare un ingresso esemplare sulla scena è invece proprio la
guida profana del pellegrino, quel Virgilio che costituisce la decisiva
acquisizione positiva del primo canto:
58 Dante e la nascita dell’allegoria

Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,


dinanzi a li occhi mi si fu offerto
63 chi per lungo silenzio parea fioco.

La condizione di Dante è di massimo pericolo: egli sta “rovinan-


do” sia nel senso di un precipitoso procedere verso il basso («in
basso loco») – con quanto di negativo questo dato spaziale trascina con
sé a quel punto del canto –, sia nel senso di una catastrofe morale.
Che questo momento costituisca il culmine del pericolo è annunciato
già dal terzo rimando del canto al sole («mi ripigneva là dove ’l sol ta-
ce», v. 60), questa volta in negativo; e verrà confermato dalle parole
di san Bernardo nel XXXII del Paradiso (v. 138), che sintetizzerà la
condizione critica di Dante al momento dell’intervento di soccorso ri-
prendendo appunto il verbo “rovinare” del v. 62 («quando chinavi, a
rovinar, le ciglia», dove sono possibili due letture: ‘quando, mentre
precipitavi, guardavi verso il basso’ o ‘quando guardavi verso il bas-
so, determinando il tuo rovinoso discendere’; nel secondo caso si al-
luderebbe, ormai nell’Empireo, a una origine prevalentemente interio-
re della disavventura nella selva).
Ci si aspetterebbe che l’apparizione del soccorso, clamoroso ro-
vesciamento della catabasi in corso (o almeno della sua rovinosa mo-
dalità), sia accompagnata da segnali miracolosi (come sarà per l’inter-
vento del Messo celeste nel canto IX dell’Inferno); tanto più che l’in-
gresso in scena di Virgilio è il frutto di un intervento salvifico della
Vergine e che dunque la guida potrebbe fregiarsi, come un tempo Bea-
trice, dei caratteri del miracolo: non sceso dal cielo sulla Terra, certo,
e però dal cielo inviato in un luogo ancor meno agevole che la Terra.
E invece Virgilio si mostra con i segni della labilità. Forse nessun al-
tro trapassato apparirà nel poema così provato dalla morte, così
spettrale ed evanescente. Il pellegrino ne intuisce subito la natura di
«ombra», cioè di larva o fantasma, e la guida stessa dedica alla propria
condizione di defunto le prime parole («“Non omo, omo già fui…”»,
v. 67). Eppure due importanti segnali richiamano le apparizioni di
Beatrice proprio in quel che avevano di miracoloso: l’allusione a un do-
no ricevuto dal pellegrino, espressione della Grazia («dinanzi a li oc-
chi mi si fu offerto»), secondo una valorizzazione dell’esperienza qua-
le dato passivo di cui parleremo in seguito, e l’impiego del verbo epi-
fanico “parere” («chi per lungo silenzio parea fioco»). Il paradosso di
questo passaggio, se si vuole, è che ad apparire, a manifestarsi, è una
difficoltà a essere veduti. Alcuni interpreti hanno acutamente valuta-
to questa fragilità di Virgilio nei primi momenti quale espressione di
Dove il sole tace 59

una difficoltà da parte del pellegrino a recuperare quelle funzioni del-


le quali la guida è figura, assegnando all’aggettivo «fioco» la stessa va-
lenza sinestetica che attraversa, soli tre versi prima, l’espressione – de-
cisiva – «’l sol tace»: Virgilio è fioco sia perché evanescente alla vista
sia perché afono, e pazienza che all’iperrealismo del primo dato (esse-
re evanescenti in quanto privi di corporeità tangibile) si affianchi il for-
zoso ýsteron pròteron del secondo (Virgilio infatti non ha ancora
aperto bocca). Ma vale forse la pena di insistere anche sul modo del-
la rappresentazione in se stessa, dato il carattere per dir così propedeu-
tico del canto proemiale da questo punto di vista. E i modi della rap-
presentazione attestano qui una difficoltà del soggetto a fruire della
realtà in termini di rivelazione. Sembra addirittura che il pellegrino
stenti a vedere il soccorso pure apparso di fronte a lui con tanto au-
torevole mandato: «Quando vidi costui…» (v. 64) suona quasi come
il «Quando rispuosi» nel canto di Paolo e Francesca (Inf. V, 112). Al-
le spalle della proposizione temporale si sente una sospensione, uno
spazio: il soccorso si è offerto davanti agli occhi del pellegrino in dif-
ficoltà, ma questi non è appunto più in grado di vedere con immedia-
tezza ciò che gli viene inviato; non è in grado di vedere i segni della
Grazia più di quanto sia in condizione di salire direttamente al colle.
La stagione in cui gli oggetti godevano della qualità dell’evidenza è tra-
montata, e solo l’accurata biografia della guida ne renderà credibile il
soccorso: un’apparizione, dunque, che non può più balenare con
l’immediatezza del simbolo ma deve legittimarsi nei termini storico-
culturali dell’allegoria.
Sperimentando la difficoltà nel vedere i fenomeni, cioè a ricono-
scere il significato che essi esprimono, una volta di più il pellegrino
testimonia sulla propria pelle la fine della modalità simbolica di deci-
frazione. Il sole tace perché le cose, Virgilio incluso, hanno perduto
la lucentezza del simbolo.
14.
Una nuova parola

Di fronte alla manifestazione epifanica di Beatrice non c’era né pos-


sibilità né necessità di parola: ogni lingua diveniva muta, e la lode che
ella sentiva rivolgersi era da intendersi quale lode tacita, o meglio qua-
le lode che non ha bisogno di verbalizzarsi grazie all’esistenza di una
compiuta circolazione felice fra apparizione miracolosa, suo legame con
la divinità e sua destinazione per dir così sociale, con effetti e reazio-
ni connessi. Allo stesso modo d’altra parte l’apparente contraddizio-
ne fra il fatto che gli occhi non ardiscano di guardarla e il fatto che la
donna si mostri «sì piacente a chi la mira / che dà per gli occhi una
dolcezza al core» andrà risolta ammettendo che fra “guardare” e “mi-
rare” non intercorra sinonimia, e che guardare implichi un’intenzio-
ne e una deliberazione del soggetto mentre il mirare è il risultato di
una ricezione anch’essa miracolosa, di un’immagine ricevuta e non cer-
cata, cioè di una conoscenza appunto epifanica e non realistica.
Come dunque non era oggetto di conoscenza attiva ma soggetto
di grazia, così Beatrice non era oggetto di parola ma origine di reazio-
ni dirette dell’anima («e va dicendo a l’anima: Sospira»). La perdita
della conoscenza epifanica lascia un vuoto che sta invece alla parola di
colmare: non più la parola piena della Rivelazione, il verbum incarna-
to della tradizione giovannea dal quale la realtà origina e che con la re-
altà deve considerarsi fuso, ma una parola minacciata nella sua pienez-
za semantica, e comunque espressione di una frattura fra ordo rerum
e ordo idearum. Non a caso, nel momento più acuto di difficoltà si leg-
ge che «’l sol tace» (v. 60). Si tratta di una sinestesia, appianabile, in
sede di parafrasi, riportando il verbo dalla sfera dell’udito a quella più
pertinente della vista: ‘il sole non brilla, è oscurato’. Ma quale impo-
62 Dante e la nascita dell’allegoria

verimento! In realtà, se nel sole (qui ricordato per la terza volta in me-
no di mezzo canto) è stata riconosciuta una figura della divinità, co-
me non assegnare al traslato sensoriale un significato anche pienamen-
te proprio, stante la centralità del rapporto fra Dio e parola nella mi-
tologia cristiana? Se si applica anche a questo caso – e si deve appli-
care – il sistema allegorico dei parallelismi e delle contrapposizioni, ne
consegue, stabilito il rapporto con i vv. 17-18 (che alludono alla
guida diretta del sole), che il modo in cui il sole di cui qui si parla gui-
da gli uomini è servendosi della parola: una conferma ulteriore del si-
gnificato trascendente (e cristiano) del sole.
L’espressione «’l sol tace» indica in modo pregnante come il ti-
po di parola che emana dal sole sia una parola-luce: le grandi vetrate
delle cattedrali gotiche davano in quegli anni una manifestazione tan-
gibile di questa concezione, cui anche Dante aveva contribuito con la
stagione stilnovistica della sua arte. Tuttavia, ancora una volta, è giun-
ta una svolta storica che ha opacizzato la lucentezza del verbum
cristiano; e come non è più possibile arrampicarsi direttamente ver-
so la sommità del colle, così è negata la presenza di una parola-luce.
Per tornare in condizione di fruirne, il pellegrino dovrà conquistare
i cieli extrastorici del Paradiso.
Dove la parola-luce sia negata e impossibile, cioè nell’inferno del-
la nuova civiltà affaristico-imprenditoriale che si affaccia dietro il pro-
cesso di secolarizzazione in corso nella società comunale, l’alternativa
al silenzio è un genere nuovo di parola, che persegua sul piano della
ricostruzione argomentativa quel significato che non balugina più
nella luminosità del verbum. Di questa parola nuova, audacemente ter-
rena e realistica, la Commedia darà innumerevoli esempi, prima che
«ciò che per l’Universo si squaderna» si mostri nuovamente, con la vi-
sio Dei, «legato con amore in un volume» (Par. XXXIII, vv. 86-87).
E intanto il colloquio con Virgilio ne dà una prima audacissima prova:
maestro anche nei dialoghi, Dante inaugura la serie con un attacco ric-
co di pathos, una fra le ragioni che garantiscono, oltre che l’importan-
za, la riuscita artistica di questo canto, a torto più studiato che ama-
to. Abbiamo letto «tace» (v. 60), abbiamo letto «lungo silenzio» e
«fioco» (v. 63); e di schianto – acuito dal rimando al «gran diserto»
– ecco questo «gridai a lui», il vero atto di nascita del personaggio pro-
tagonista. Finora lo si è visto smarrito, assonnato, spaventato, solo bre-
vemente rincuorato e subito vinto dalle difficoltà, infine rovinosamen-
te volto verso l’abisso. Certo, per un attimo ha guardato in alto, spe-
rando di poter scalare il colle verso la luce e la salvezza; ma si è trat-
tato quasi di un peccato di hybris, o almeno di una velleitaria illusio-
Una nuova parola 63

ne: se quel gesto fosse davvero bastato a riaprire la partita, allora la sel-
va non sarebbe più stata terribile quanto la dichiara la sfilza di agget-
tivi al v. 5. E invece è ora, gridando nel deserto come il profeta, che
il protagonista esce veramente dallo stato di passività, prende coscien-
za della propria condizione, inizia a battersi per tentare un rimedio.
Molti lettori hanno colto l’importanza delle prime parole pronun-
ciate dal pellegrino, le prime, fra l’altro, che risuonino sulla scena del-
la Commedia: una richiesta di aiuto affidata a un salmo (il L di David)
e a una parola latina, quasi un modo per congiungere subito i vertici
della propria formazione sincretistica, la Bibbia e la classicità pagana
(Virgilio in testa). Non meno importante è però forse quel «gridai a
lui», e quella toccante specificazione «qual che tu sii, od ombra od
omo certo» (v. 66): in un poema irto di incontri e fondato su colloqui
– e spesso colloqui a due –, questo erompere della comunicazione e
della richiesta di comunicazione sembra alludere a un livello non tra-
scurabile della novità dantesca. Dante, certo, chiede all’apparizione
misteriosa un soccorso concreto; ma si direbbe che non meno chieda
di essere udito e di ricevere risposta. È un «grido» non meno «affet-
tuoso» di quello che il protagonista rivolgerà ai due cognati cinque
canti dopo, capace di vincere l’inerzia della memoria storica e di richia-
mare in vita lo stramorto Virgilio, costringendolo a passare dal «lun-
go silenzio» alla autopresentazione dei vv. 67-75. E dopo le sferzan-
ti domande (retoriche) dei vv. 76-78, Dante suggellerà il riconoscimen-
to del suo modello letterario esaltandone innanzitutto la facoltà dia-
lettica:

«Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte


che spandi di parlar sì largo fiume?»

La facoltà della parola è classicamente recuperata quale fusione


di doti etico-civili e di doti retoriche (il ciceroniano «vir bonus dicen-
di peritus»), in linea con la valorizzazione delle capacità argomenta-
tive all’interno del complesso mondo comunale, delle sue partite
politiche e dei suoi processi protoimprenditoriali. E d’altra parte è la
qualità della parola ad aver garantito allo stesso Dante, nella sua gio-
vinezza, l’«onore» che può derivare dalla scrittura in stile elevato («lo
bello stilo», v. 87); anche se ora quello stile illustre, costruito sul-
l’esempio classico, sembra divenuto incapace di rappresentare il nuo-
vo mondo – comico, cioè profano – incarnato dalla selva, così che pa-
re da leggere anche quale riferimento alla sua preclusione la recisa svol-
ta dettata dalle parole della guida: «“A te convien tenere altro viag-
64 Dante e la nascita dell’allegoria

gio”» (v. 91). Come è ormai negata la possibilità della via diretta al
colle, dell’ascensione epifanica, così è impraticabile la poetica che ne
costituiva l’espressione stilisticamente omologa. La Commedia non po-
trà più puntare sul «bello stilo», né sull’«onore» che da esso era de-
rivato. L’altro viaggio da tenere è anche una parola nuova, dialogica
e realistica; una parola che dica la frattura del legame epifanico fra co-
sa e senso e si incarichi di risarcirlo: una parola nuova per una poesia
nuova.
15.
Il rimedio del dialogo

Per valutare il modo nuovo di concepire la parola, gioverà intanto mi-


surare la tensione implicita fra il dialogo propedeutico del pellegrino
con la sua guida – quasi un accorto tirocinio alla forma dialogica nel
poema, intesa quale possibilità autenticamente dialettica – e la stiliz-
zazione invece adialettica che impronta il colloquio fra Virgilio e Bea-
trice, nonché quello fra la beata e Lucia e fra questa e la Vergine nel
secondo canto: una vera matrioska del discorso diretto, con implici-
to rimando alla stabilità metafisica della parola come origine e come
purezza trascendente, cioè come Rivelazione. Ma se nel racconto di
Virgilio del secondo canto – immaginato in un antecedente cronolo-
gico quanto al tempo del racconto – è assente la tensione fra parola e
cosa, questa penetra invece nei due dialoghi fra guida e maestro, nel
primo e nel secondo canto, dove, in entrambi i casi, il maestro deve
vincere una resistenza del discepolo, ora per convincerlo alla necessi-
tà del viaggio, nel primo canto, ora, nel secondo, per scuoterne la vil-
tà. Mentre non potevano certo ribellarsi Virgilio alla richiesta di
Beatrice, né Beatrice a quella di Lucia e questa alla raccomandazione
di Maria, provenendo in questi casi la parola da una fonte di verità
extrastorica e dunque da una coincidenza di parola e verità, potreb-
be invece Dante non cedere alla proposta della guida, che gli nega la
salvezza intravista sul colle luminoso per offrirgli un’alternativa dif-
ficile e inquietante, così come potrebbe non cedere alle sue pressioni
tranquillizzanti o non credere alla affidabilità del prologo oltremon-
dano. L’umanità di Dante, il suo essere sottoposto al libero arbitrio,
concorre a fare della parola uno strumento pragmatico sempre in ten-
sione con la realtà e comunque passibile di conseguenze impregiudi-
66 Dante e la nascita dell’allegoria

cate. Si affaccia così una dimensione laica e mondana della parola che
sembra perfino anticipare – nei modi, non nei fini – la prospettiva del
Decameron: solo che nel mondo di Boccaccio gli effetti dinamici
della parola e la sua costitutiva problematicità andranno misurati sul
successo terreno e sull’efficacia immanente, laddove nella Commedia
il valore della parola sarà sempre riferito a un fine trascendente che
coincide con il successo ultraterreno, cioè con la salvezza. Anche in
questo caso la dimensione allegorica dantesca è costituita quale neces-
sità di misurare su parametri laici scopi religiosi, cioè di seguire un per-
corso problematico e aperto al fine di raggiungere una meta che ricom-
ponga in unità il molteplice. Come l’autorità imperiale è un rimedio
alla caduta sociale dell’umanità, così il processo allegorico, con tutte
le sue dipendenze (inclusa la relativizzazione dialettica della parola),
è un rimedio alla caduta epistemologica.
La necessità di riconnotare la parola in una prospettiva di costru-
zione del senso produrrà ora i grandi conflitti più o meno espliciti, co-
me quello esemplare con Farinata, ora le progressive acquisizioni di
esperienza fruite dal protagonista; e in ogni caso getterà in una dimen-
sione processuale la sfera della verbalità. È un tirocinio che il pellegri-
no deve scontare, fino a sentirsi dichiarare da Beatrice l’opportunità
di dire la sete per avere da bere (Par. XVII, 7-12), cioè la necessità di
comunicare anche in Paradiso, verbalmente, le proprie curiosità,
nonostante la facoltà dei beati di leggergli nel pensiero, in vista di una
dimensione terrena priva di ogni immediatezza comunicativa. In
questo modo, perfino l’esperienza della perfetta identità di parola e co-
sa che qualifica la tappa paradisiaca del viaggio si propone quale op-
portunità propedeutica alla vita sociale segnata dalla caduta, dalla con-
fusione babelica e infine dalla intermissione della continuità fra ver-
bum e res. La raccomandazione di Beatrice sembra peraltro offrirsi an-
che quale implicita risposta alla meraviglia sottintesa nelle parole di
Dante, allorché Virgilio – il «savio gentil che tutto seppe» (Inf. VII,
3) – gli chiede «“Ma tu perché ritorni a tanta noia? / Perché non sa-
li il dilettoso monte / ch’è principio e cagion di tutta gioia?”» (vv. 76-
78): «“Vedi la bestia per cui io mi volsi ecc.”» (v. 88). È come se lo
sventurato protagonista dicesse: perché mi chiedi ragione della mia ri-
nuncia a salire sul colle e della mia fuga verso il basso? Non vedi for-
se da solo, anche senza che io ne parli, la causa del mio comportamen-
to? Dante, cioè, non ha ancora capito che il viaggio a lui destinato non
avrà i caratteri della “visione” ma caratteri nuovi, in cui la dichiara-
zione verbale del proprio mondo interiore costituirà un passaggio ine-
vitabile della conoscenza e della crescita spirituale; benché lui stesso,
Il rimedio del dialogo 67

sospinto dall’emergenza, abbia già inaugurato il nuovo metodo narra-


tivo e la nuova gnoseologia che ne consegue con l’impetuoso «Mise-
rere» di pochi versi sopra. Dante è ormai entrato nel mondo in cui per
essere compresi bisogna dare spiegazioni e per essere aiutati bisogna
chiedere aiuto: «“Aiutami da lei…”» (v. 89).
Se l’adeguamento a questa ulteriore novità è ancora incerto e dif-
ficile per il protagonista, lo stesso non può dirsi per l’auctor. Quest’ul-
timo infatti, se per un verso si mostra problematicamente connesso al
punto di vista del pellegrino e proteso a crescere insieme a lui, per un
altro aspetto vive una dimensione postuma rispetto alle esperienze
puntuali di quello, e postuma anzi rispetto al viaggio nella sua interez-
za; in una complessa dialettica fra narrazione in presa diretta e rico-
struzione dal punto di vista dell’adempimento (non bisogna infatti di-
menticare che la rappresentazione figurale del viaggio è continuamen-
te affiancata dall’ombra dell’adempimento). L’auctor, dunque, prati-
ca già, in questo canto proemiale, una parola problematica, attraver-
sata dalla tensione allegorica, come testimonia la tematizzazione che
si è già considerata della difficoltà del racconto nelle prime terzine,
nonché l’insistenza stessa sul verbo “dire” e derivati nei versi di esor-
dio: «dir», «dirò», «ridir» (vv. 4, 9, 10). La difficoltà scesa sulla pa-
rola del poeta consiste tutta nella necessità di adeguarla alla realtà, di
“ridire” per verba dati e fenomeni non verbali, e sfuggiti alla identifi-
cazione con la parola. La strategia allegorica dei parallelismi e delle
contrapposizioni sancisce la opacità del rapporto fra parola e cosa,
scontando l’impossibilità di nominare quest’ultima se non indiretta-
mente e dentro un sistema. Perduta la sua lucentezza epifanica, anche
la parola, come la realtà sensibile, si carica di una valenza allegorica.
Ovvero l’allegoria, quale strategia di decifrazione del mondo, prende
dimora nella parola, dialettizzandola. Il mondo terreno della poesia
dantesca si nutre anche di questo incontro, ancora una volta segnato
da una difficoltà storica e da una crisi di civiltà, e tuttavia aperto in
modo fertile al futuro, carico di promesse.
16.
Una salvezza che nasce dalla rovina

Il tirocinio che il pellegrino è chiamato a svolgere nel corso del viag-


gio, e segnatamente in questa prima tappa, consiste dunque fra l’altro,
come si è visto, nella responsabilità di gestire il proprio comportamen-
to in modo attivo, cioè di fare scelte. La necessità di scegliere è impo-
sta dalla natura non più epifanica dei fenomeni, e dalla connessa esi-
genza interpretativa che essi dunque postulano. Si affaccia una con-
dizione problematica. Per l’uomo medievale la scelta consisteva nel-
la decisione di aderire o meno alla verità balenante davanti ai suoi oc-
chi. Ma la verità non era in questione. Dove invece i fenomeni abbia-
no perduto il dono della trasparenza, la scelta dipende innanzitutto
dalla prospettiva interpretativa adottata, dal significato imposto alle
cose: si annuncia la coscienza moderna.
L’oscurità della selva rende illeggibili – cioè non interpretabili in
modo immediato – i fenomeni che vi compaiono, e risulta altamente
problematico fare la scelta giusta. Tanto più che il soggetto si trova in
una situazione paradossale: per tentare la salvezza deve scegliere, ma
attorno a lui si svolge una maligna fantasmagoria di apparizioni mal
controllabili per forza di scelta. In particolare, avviatosi a salire sul-
le pendici del colle, Dante è fatto oggetto di manifestazioni improv-
vise e misteriose, tali da porlo decisamente in stato di passività:
lonza, leone, lupa e infine lo stesso Virgilio sono come frammenti di
luce, più o meno violenta, che si staglino sullo sfondo nero dell’inde-
cifrabilità tenebrosa.
Per cogliere meglio la difficoltà del pellegrino è utile ricordare che
la concezione medievale della conoscenza è profondamente lontana da
quella moderna e nostra. La concezione moderna è il risultato di una
70 Dante e la nascita dell’allegoria

lunga elaborazione filosofica, dal pensiero rinascimentale e cartesiano


a Kant e Hegel, e d’altra parte è la conseguenza di una valorizzazio-
ne dell’intraprendenza soggettiva individuale (borghese e imprendito-
riale). Nella prospettiva moderna la conoscenza è il frutto di un’atti-
vità, per lo più volontaria e finalizzata, del soggetto (“io conosco qual-
cosa, cioè compio l’azione di conoscerla”). La concezione medievale
invece sottolinea piuttosto l’attività intrinseca dell’oggetto, rispetto
alla quale il soggetto è passivamente posto nella condizione di riceven-
te (“qualcosa si mostra a me, cioè mi si fa conoscere”). Questa conce-
zione, che certamente condizionava il sentire comune e non solo il
pensiero dei filosofi, si incontra estremizzata nella tradizione agosti-
niana – tutt’altro che priva di profonde influenze sulla formazione
dantesca –, sostenitrice della tesi platonica dell’illuminazione, secon-
do la quale la conoscenza intellettiva avviene per grazia divina, sen-
za mediazioni “naturali”. È una posizione che ben si addice alle
prerogative del simbolismo, per il quale dall’oggetto promana ogni vol-
ta un significato generale, che – dirà Goethe molti secoli dopo, genial-
mente riepilogando – permette di trovare (e non di dover cercare) nel
particolare l’universale. San Tommaso – ancora più decisivo per le idee
di Dante – prende le distanze dall’estremismo agostiniano, dovendo-
si d’altra parte tutelare dal minaccioso averroismo (e Dante aveva orec-
chie, come è noto, anche per quello), che negando l’individualità del-
l’anima e del pensiero si rifiutava di concepire una conoscenza di cui
il soggetto potesse disporre in vista del libero arbitrio. E quest’ultimo
è proprio quel che la concezione tomistica vuol tutelare, utilizzando
la lezione aristotelica (contro il platonismo agostiniano) per fare del-
la conoscenza un caso specifico di passaggio dalla potenza all’atto: at-
traverso la sensazione, la fantasia interna del soggetto ricostruisce l’im-
magine dell’oggetto; sta poi all’intelletto (cioè al pensiero indivi-
duale) superare la particolarità del dato, raggiungendo la comprensio-
ne razionale attraverso un processo di smaterializzazione e di univer-
salizzazione. Lo spazio riservato al libero arbitrio è dunque interno alla
reazione astraente del soggetto, come facoltà riflessiva: la libertà
dell’io è successiva al momento gnoseologico strettamente inteso. In
ogni caso l’oggetto conosciuto determina anche secondo Tommaso
un’impronta sul soggetto, libero nel successivo dirigersi dell’azione ma
condizionato nell’esperienza (secondo il consueto equilibrio fra libe-
ro arbitrio e logica provvidenzialistica).
L’incontro con gli oggetti da conoscere (personaggi inclusi) è nel-
la Commedia fortemente segnato da questo contesto, nel quale conver-
gono elaborazione filosofica e immaginario comune. Né questo primo
Una salvezza che nasce dalla rovina 71

canto fa eccezione; tutt’altro. È importante non tralasciare questi ele-


menti, soprattutto nei commenti per la scuola, destinati a lettori so-
litamente privi degli strumenti storico-filosofici necessari a capire per-
ché Dante scriva «la vista che m’apparve d’un leone» (v. 45) o «dinan-
zi a li occhi mi si fu offerto» (v. 62). Eppure sono proprio queste le
spie più preziose della distanza storica e culturale del poema, capaci
di rivelarci la concreta esistenza di un mondo che anche nei processi
logici più elementari poteva assumere strategie e vivere emozioni per-
dutamente lontane dalle nostre. Tanto più una simile percezione
della distanza può risultare decisiva oggi, nel momento in cui all’inter-
no di una stessa classe a scuola o di una stessa aula universitaria sie-
dono l’uno accanto all’altro studenti di origine nazionale diversa e lon-
tana. Potrà per esempio accadere che dinanzi al modo medievale e
dantesco di configurarsi la conoscenza, quale esperienza prevalente-
mente passiva, studenti provenienti da culture non occidentali ricono-
scano modalità vicine alle proprie attuali, misurando dunque – e te-
stimoniando – i differenti modi possibili per rapportarsi oggi alla Com-
media, per vivere la dialettica con la sua specificità storico-culturale.
E d’altra parte verrà poi dalla registrazione comune della distanza da
Dante e dal suo mondo un invito al rispetto – e magari, dove se ne dia
il caso, all’ammirazione – per ciò che è diverso e lontano, anche quan-
do, anziché riposare fra le pagine di un testo venerando, la diversità
sieda semplicemente nel banco accanto.
È dunque ovvio che ogni forma di spiegazione attualizzante
del testo dantesco (e non solo dantesco), e in particolare la banalizza-
zione attualizzante della parafrasi, sancisce la superiorità del punto di
vista da cui è data: è una forma occulta ma autoritaria di egemonia,
che negando o dissimulando la differenza fra Dante e noi implicita-
mente nega o dissimula quella fra ogni alterità culturale e il nostro
orizzonte. E se un’operazione simile poteva avere una qualche legit-
timità se non altro pragmatica nella scuola monoculturale fino a un pa-
io di decenni fa, orientando sul lettore lo strumentario della mediazio-
ne retorico-culturale, oggi ben diversamente, nella scuola e nell’uni-
versità vissute da lettori fra loro anche culturalmente tanto diversi,
ogni legittimazione è venuta meno.
Se si rilegge il canto proemiale prestando attenzione al punto di
vista dal quale è raffigurata l’esperienza, si dovrà ammettere che i se-
gnali della passività prevalgono largamente, a partire dal primo verbo
del poema («mi ritrovai»). Particolarmente subìta è per il soggetto l’ap-
parizione delle tre fiere: introdotta la prima da quell’«ed ecco» (v. 31),
con ellissi del verbo principale, che sarà non a caso uno stilema nar-
72 Dante e la nascita dell’allegoria

rativo della Commedia; veicolato il secondo da quel verbo “parere” che


ben conosciamo quale spia della manifestazione epifanica (ma qui di-
remo magari antiepifanica): «la vista che m’apparve d’un leone. / Que-
sti parea… / … / sì che parea» (vv. 45-48); il terzo infine capace di tra-
smettere «gravezza» e «paura» per mezzo della «sua vista» (vv. 52-
53). Solitamente parafrasato con ‘aspetto’ il sostantivo «vista» sareb-
be forse meglio reso – secondo la prospettiva che qui stiamo indagan-
do – da ‘visibilità’, nel senso di ‘facoltà di essere veduti’. E si noti che
ben due volte, con significativo parallelismo, Dante affida all’ogget-
to perfino il potere di trasmettere al soggetto, cioè a lui stesso quale
personaggio, la reazione emotiva connessa all’apparizione: «ma non sì
che paura non mi desse / la vista che m’apparve d’un leone» (vv. 44-45)
e «questa mi porse tanto di gravezza / con la paura ch’uscìa di sua vi-
sta» (vv. 52-53). Il parallelismo è sottolineato dalla replicazione di
«paura» e di «vista» e dalla variazione sinonimica «mi desse»/«mi por-
se». In entrambi i casi non ci si limita a definire l’apparizione dell’ani-
male quale manifestazione dell’oggetto, ma le stesse reazioni – emo-
tive se non addirittura intellettuali – del soggetto sono attributi che
l’oggetto gli consegna. Sarebbe dunque sbagliato dire che il pellegri-
no ha paura del leone o della lupa; sarebbe cioè una semplificazione
attualizzante e autoritaria. Non dice infatti così il testo dantesco. So-
no piuttosto il leone e la lupa – ovvero il loro speciale modo di mani-
festarsi – a trasmettere la qualità della paura. È una condizione ben
nota agli studiosi dell’animismo primitivo, dalla quale dipenderà an-
che il tremore dell’aria felicemente assicurato dalla lectio difficilior del
v. 48.
Il fatto che Dante abbia qui – e altrove nel poema – fatto ricor-
so a un punto di vista così arcaico, che applica estremizzandolo un ri-
trovato del simbolismo medievale, riducendo fra l’altro significativa-
mente lo spazio a fatica garantito da san Tommaso al libero arbitrio,
sarà da valutare di volta in volta. Intanto, nel caso delle tre fiere non
sfuggiremo alla suggestione appunto latamente arcaica della loro pre-
senza, né alla carica perturbante di un potere siffatto degli oggetti sul-
le emozioni del soggetto (tale da farne veri e propri oggetti persecu-
tori). Fra l’altro, questo legame fra interno ed esterno acuisce la va-
lenza doppia tanto spesso riconosciuta nelle tre fiere: abitudini perni-
ciose di una società e vizi specifici del pellegrino.
Si direbbe che lo smarrimento nella selva si configuri anche
quale rovesciamento – e perfino parodia – della conoscenza epifanica.
Si è detto che Virgilio appare secondo modalità opposte a quelle del-
la Beatrice stilnovistica, quale fragilità evanescente contrapposta al-
Una salvezza che nasce dalla rovina 73

la luminosità dispiegata, quale visione incapace di sussistere per se stes-


sa, e bisognosa invece di essere interrogata e voluta. Ma è pur vero
che l’epifania di Virgilio, depotenziata e minacciata, ha qualcosa
dell’epifania della donna. E d’altra parte questo legame risulta anco-
ra più robusto per le tre fiere, che in qualche modo si manifestano pro-
prio come Beatrice, trasmettendo cioè al soggetto, con il proprio aspet-
to, le emozioni connesse: come dalle fiere si trasmette al protagonista
la paura, così da Beatrice si muoveva nella Vita nuova uno spirito che
diceva all’anima “Sospira”. L’analogia si spinge, per il leone, fino al-
l’impiego del verbo “parere”, che richiama molto da vicino il sonet-
to del saluto sopra ricordato: quasi il senhal di una gnoseologia. Solo
che Beatrice costituisce una rivelazione di verità, un’intensificazione
della luce; laddove le tre fiere accrescono il buio della selva, negando
ogni significato (e perciò obbligando il protagonista verso le tenebre
e verso la paura). Diremo dunque che la felice Firenze idealizzata nel-
la giovinezza quale teatro del saluto luminoso di Beatrice si è conver-
tita in questa selva paurosa, percorsa da apparizioni tenebrose? Di cer-
to la crisi di civiltà è tale che ormai solo l’orrore è in grado di rivelar-
si per mezzo del miracolo epifanico, e che ad ascoltare quel che il mon-
do ha da dire direttamente, senza mediazioni concettuali, si ricevono
solo disperate manifestazioni di insensatezza. Quella del simboli-
smo medievale non è solo una via sbarrata; è anche una strada insidio-
sa. Se il mondo ha perduto la sua lucentezza, l’unica cosa in grado di
trasparire dai fenomeni sarà l’orrore. La selva infernale è il rovescia-
mento parodico dello scenario che produceva il mostrarsi dell’amata.
Il mondo è giunto all’epifania della lupa.
Per sottrarsi a questo incubo che sta facendo naufragare verso le
tenebre le speranze del protagonista può valere solo il modo nuovo di
dialogare con la realtà proposto dall’apparizione della guida, la quale
avvia la sua funzione, prima ancora che con le parole di esortazione
rivolte al pellegrino, con il tipo stesso di relazione cui lo costringe. Sa-
premo nel canto successivo come egli sia inviato da mandanti celesti,
e dunque non meraviglia che egli “si offra” a Dante: «mi si fu offer-
to» (v. 62) è da questo punto di vista in discontinuità con «m’appar-
ve» (v. 45) e «mi porse» (v. 52). Più netta è tuttavia la discontinuità
– se la parola non è troppo pretenziosa – gnoseologica: a differenza
degli animali, Virgilio non trasmette emozioni, non impone reazioni
al soggetto. Al contrario, sembra quasi, con la sua evanescenza, offrir-
si quale opportunità che stia al pellegrino di attivare o meno: l’ombra
sembra in condizione di consolidarsi o di dissolversi a seconda che
Dante la interroghi e la scelga oppure la ignori e rifiuti. Se le fiere co-
74 Dante e la nascita dell’allegoria

stituivano un rovesciamento parodico del mondo di Beatrice, Virgilio,


apparendo, ne serba un’eco leggera e soprattutto, però, consegna un
modo nuovo di rappresentarsi della realtà: ora il soggetto deve sceglie-
re, e per scegliere deve essere in grado anche di superare il modo pas-
sivo di vivere la conoscenza; e come deve subito gridare per chiede-
re soccorso, pena la dissoluzione di quella fioca opportunità, così do-
vrà presto scegliere di credere alle parole della guida, di seguirla, di la-
sciarsene persuadere e rassicurare. E se Virgilio diverrà presto una gui-
da forte e affidabile è anche perché tale lo rendono la forza della scel-
ta e la fiducia di Dante.
Il passaggio da una condizione passiva a una attiva di conoscen-
za è d’altra parte ben tematizzato in due versi posti proprio nella par-
te iniziale del canto, due versi la cui necessità, in un luogo così rilevan-
te, non risulterebbe altrettanto stringente senza questa ragione: «ma
per trattar del ben ch’i’ vi trovai, / dirò dell’altre cose ch’i’ v’ho scor-
te» (vv. 8-9). Non dovrebbe sfuggire la differenza fra «vi trovai» e
«v’ho scorte», così ben messi in parallelo dalla collocazione in fine di
verso e dall’eguale presenza dell’avverbio di luogo. Come «v’ho
scorte» rievoca il capitolo delle esperienze passive, le cose viste e non
guardate, così «vi trovai» delimita invece il campo di quelle attivamen-
te cercate e volute. Se «vi trovai» regge il “bene”, allora le «altre co-
se», inevitabilmente, sono il male. Dunque nella selva Dante ha
“scorto”, cioè passivamente ricevuto, le tre fiere; e “trovato”, cioè at-
tivamente perseguito, il colle luminoso («guardai in alto», v. 16) e so-
prattutto la guida di Virgilio.
L’auctor sa dunque già dall’inizio, anche in questo caso, quel che
il viator dovrà scoprire a poco a poco, che la realtà quale manifestazio-
ne epifanica è ormai stata stravolta dalla corruzione del mondo, e che
non basta più vedere (o scorgere) le cose per trovare la strada giusta,
quella che congiunge a Dio la smarrita esperienza umana, ma bisogna
assumere la responsabilità di guardare, di agire attivamente, di trova-
re un Virgilio che medii fra la selva del mondo e le pendici celesti. Per
questa ragione, nella selva Beatrice non può offrirsi che nella forma
mediata della guida secolarizzata.
Nella selva, abbandonarsi passivamente all’esperienza partorisce
apparizioni paurose, tenebra e rovina. Ancora una volta, la grande sta-
gione del simbolismo medievale si mostra incrinata, anzi perduta; a
questo mondo nuovo e terribile, abitato da mostri e afflitto dal terro-
re, si addice un rimedio nuovo, la strategia allegorica.
Una vecchia tradizione esegetica e scolastica banalizza il signifi-
cato di Virgilio quale figura della ragione. Se questa semplificazione
Una salvezza che nasce dalla rovina 75

ha una parte di verità è anche perché Virgilio si presenta subito


quale alternativa alla conoscenza come immediatezza, perché impone
a Dante un ragionamento, perché non trasmette reazioni salvifiche o
terribili (come la Beatrice stilnovistica e le tre fiere) ma chiede scel-
te e impone responsabilità. In lui descrizione e interpretazione dei fe-
nomeni, cioè datità e valore, non coincidono più, come nel simboli-
smo, ma procedono disgiunti. La salvezza che la nuova procedura al-
legorica potrà, forse, assicurare al pellegrino comporta la fine di una
stagione luminosa della civiltà; è una salvezza che nasce dalla rovina.
17.
Completare il senso

Indagare il modo in cui la stagione luminosa del simbolismo medieva-


le è entrata in crisi è certo più difficile e complesso che ricostruire sui
testi danteschi questo processo. D’altra parte non solo dalla storia pro-
viene sapere utile alla letteratura, ma spesso è proprio da quest’ulti-
ma che la conoscenza storica può ricevere proficue illuminazioni. Do-
v’è dunque che l’opera dantesca rivela i segni di questa catastrofe di
civiltà? Dove è possibile riscontrare gli indizi della frattura che divi-
de il mondo stilnovistico esemplificato nel sonetto del saluto dalla sel-
va allegorica dell’incipit poematico? D’altra parte, l’esistenza di una
frattura profondamente significativa fra un prima e un dopo risulta ben
tematizzata proprio nella Commedia in numerose occasioni. Ricostrui-
re i termini nei quali Dante la rappresenta sarebbe di certo utile, ma
forse infine deludente: come l’incontro con Cacciaguida nei canti cen-
trali del Paradiso dimostra, la frattura è riconnotata nel poema secon-
do modalità fortemente stilizzate: il prima è generato piuttosto dalla
mitopoiesi utopica dell’autore che non dalla sua concretezza di stori-
co; e il dopo coincide con l’orrore diffuso che ha partorito la diagno-
si dell’Inferno. Certo, la responsabilità della frattura è additata lucida-
mente in quella «gente nova» e in quei «sùbiti guadagni» (Inf. XVI,
73) che costituiscono i segni della dinamizzazione sociale ed economi-
ca, cioè della nuova società affaristico-imprenditoriale, con i suoi va-
lori preborghesi e protocapitalistici. E tuttavia resta implicito il rap-
porto fra novità socio-economica e crisi delle antiche facoltà rappre-
sentative e magari della tradizionale funzione della poesia: Dante in-
somma non lamenta, come farà Leopardi, che ormai si ascolti il
computare più dei carmi; né denuncerà lo statuto di lingua per i mor-
78 Dante e la nascita dell’allegoria

ti residuato alla poesia. Eppure dalla giovinezza stilnovistica alla


maturità del viaggio nei tre regni funebri scorgiamo i segni di una no-
vità che pare proprio poggiare su una catastrofe.
Non ci è noto quanto tempo trascorra fra il sonetto del saluto e
il primo canto dell’Inferno, ma non si va molto lontani dal vero
ipotizzando un quindicennio circa. Si tratta, certo, di un quindicen-
nio decisivo nella vita di Dante, con il culmine del successo politico
e il priorato e poi la rovinosa esperienza dell’esilio, difficile soprattut-
to nei primi anni. Tuttavia, per duro che voglia essere stato il salto
dalla gloria in patria (conquistata anche per ragioni letterarie) alle pe-
regrinazioni «per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si sten-
de […], quasi mendicando» (Convivio I, 3), ridurre al dato biografi-
co di questo evento traumatico le ragioni di una svolta così sostanzia-
le risulta azzardato. Sarà semmai da rivendicare – come spesso si è fat-
to – la accresciuta conoscenza della realtà del proprio tempo, che con
l’esilio ha opportunità di allargarsi e approfondirsi generosamente, mu-
tando il punto di vista (anche sociale) e imponendo una nuova visio-
ne del mondo. Fra l’altro, tanto la Firenze idealizzata che trapela qua-
le sfondo della Vita nuova quanto il tipo di relazioni umane e soprat-
tutto i meccanismi di produzione del senso testimoniano una sorta di
retrodatazione prospettica, quasi un aristocratico passatismo; come se
la vicenda dell’amore per Beatrice fosse collocata nella città di Cac-
ciaguida e non in quella di Filippo Argenti. Si dovrà pur ammettere,
infatti, che gran parte di quanto il poeta ci rappresenta di Firenze nel
poema proviene da un sapere già accertato prima dell’esilio (durante
il quale egli non rivide mai la propria città), e in certa misura perfi-
no già negli anni del giovanile prosimetro. Solo che prima della
Commedia la visione del mondo di Dante espunge questo repertorio
“comico” dal territorio della letteratura, ritagliandole uno spazio au-
dacemente litotico. Mutato, con l’esilio, il punto di vista, Dante non
è autore da fermarsi a metà, e quel vasto rimosso irrompe nella sua
scrittura, imponendole materia e modi nuovi. Se retrodatata può ap-
parire dunque la Vita nuova, la Commedia risulta per molti aspetti una
diagnosi estremizzata: in quindici anni non è cambiato il mondo – an-
che se Carlo di Valois ha dato armi ai Neri più facinorosi e Bonifacio
sembra trionfare con il suo estremismo teocratico –, ma è cambiato
soprattutto il modo in cui Dante ha deciso di tentare il salvataggio dei
valori per lui irrinunciabili.
Fra la Vita nuova e la Commedia si collocano il grande laborato-
rio del Convivio e il breve ciclo delle canzoni petrose. Entrambi offro-
no l’opportunità di scorgere un rovesciamento del paradigma di civil-
Completare il senso 79

tà attivo nel prosimetro: per il genere letterario e il tipo di interessi,


il trattato; per il punto di vista stilistico e il realismo, il ciclo per don-
na Petra. Ma la Commedia, se riprenderà dal Convivio molti temi teo-
rici e dalle petrose alcune decisive acquisizioni formali, esibirà sempre
nei confronti di queste esperienze una esplicita discontinuità: territo-
rio della donna gentile e del sapere filosofico, l’uno; teste a carico del-
le «vanità» erotiche seguite alla morte di Beatrice, l’altro; ed entram-
bi dunque colpiti dall’ostracismo della beata sul carro nell’Eden.
Laddove il poema rivendicherà una continuità ideale proprio con la più
lontana – in tutti i sensi – Vita nuova, a partire dalla promozione del-
l’amata a deuteragonista nella tappa più impegnativa del grande
viaggio nell’aldilà. Questa continuità ideale non può dipendere solo
dall’intenzione di allegorizzare il dato biografico, creando quindi
una sorta di personale mitologia; intenzione dalla quale il Convivio non
poteva che restare escluso, e per la quale le petrose costituivano, do-
ve puntualmente rivendicate, un ostacolo. Piuttosto, parrebbero
proprio l’estremismo e la radicalità del libro giovanile a salvarlo
quale precedente della Commedia: anche lì, cioè, come nel poema, è
in gioco il valore della vita – la propria e quella di una civiltà. La Com-
media poteva dunque, nonostante il radicale rovesciamento di prospet-
tiva che si è detto, proporsi quale ripresa e continuazione della Vita
nuova, della quale infatti ereditava l’intenzione di salvare il significa-
to ultimo dell’esistenza: diversissime nei modi, le due opere condivi-
dono al dunque le finalità (e una continuità figurale fra le varie ope-
re dantesche, un rapporto infratestuale fra «prefazio» e adempi-
mento, ha ricostruito Emilio Pasquini con solidi argomenti).
Ma c’è qualcosa di più. A ben guardare, la Vita nuova si presen-
ta quale scommessa di senso audace – idealizzata e passatista, si è det-
to, ma anche utopica ed estrema –, ma in fondo solo assai parzialmen-
te riuscita. L’equilibrio provvisoriamente raggiunto nella zona centra-
le – con la dialettica fra saluto e lode, cui appartiene anche il sonet-
to più volte considerato – non dura a lungo. Beatrice è una figura at-
traversata dalla contraddizione: porta in sé la pienezza epifanica ma
è al tempo stesso minacciata dalla fine. Ha un fascino per così dire as-
soluto e caduco insieme: in lei il lettore moderno potrà riconoscere una
sorta di Madame de Guermantes della Firenze comunale. La Vita nuo-
va, insomma, è segnata e sconvolta da un lutto: la perdita di Beatri-
ce travolge il felice equilibrio del fondo oro, gettandovi un fascio di
luce maligna che scopre il protagonista in una condizione di abbando-
no, di solitudine e di smarrimento non poi lontanissima da quella che
apre il poema. La reazione del soggetto oscilla fra la disperazione e il
80 Dante e la nascita dell’allegoria

tradimento, con l’episodio della donna gentile. Come è noto, quest’ul-


timo verrà reinterpretato da Dante stesso in termini figurali: la don-
na gentile è proclamata nel Convivio un’allegoria del sapere filosofico,
con inevitabile contrapposizione al sapere teologico (rivelato, non con-
quistato con la ragione) rappresentato da Beatrice. È forte la tentazio-
ne di collegare l’episodio allegorico della donna gentile al lutto per la
morte dell’amata: la perdita dell’epifania simbolistica sollecita la ricer-
ca non tanto di una sostituta erotica quanto di una procedura alterna-
tiva nell’orientamento del soggetto. Abbiamo definito l’allegoria
dantesca quale audace rimedio storico a una perdita catastrofica: la
donna gentile appare in veste di consolatrice. Dunque la Vita nuova,
benché fondata su una visione del mondo e su strategie discorsive tan-
to diverse da quelle del poema, in qualche modo ne anticipa già la so-
luzione allegorica. Solo che la orienta in una direzione errata, come nel
poema verrà rinfacciato a Dante dall’amata, in una direzione cioè im-
manente anziché trascendente, come se il poeta non avesse ritenuto
possibile, morta Beatrice, proseguire più nella direzione che la donna
rendeva tanto facilmente percorribile. La Commedia riparte da quel-
la sfiducia, e scommette audacemente sulla possibilità di raggiungere
ancora la Beatrice accolta fra i beati, ma servendosi di uno strumen-
tario in apparenza mondano e profano, quello appunto dell’allegoria.
La Commedia si propone di risolvere, con audace paradosso, l’incom-
piutezza del libro giovanile.
18.
Fondo oro e affresco realistico

La morte di Beatrice è dunque, anche, l’equivalente di una catastro-


fe di civiltà e il tramonto delle procedure di significazione a essa con-
nesse. Con l’amata, muore la Firenze «sobria e pudica» (Par. XV, 99),
e muore la conoscenza epifanica del mondo. Ed è infatti nel gruppo
di capitoli della Vita nuova dedicati alla rielaborazione del lutto
(capp. XXVIII-XXXIV) che si vede per la prima volta la crisi della
strategia simbolistica così felicemente applicata nella stagione degli in-
contri con la donna, e l’affacciarsi di una nuova modalità rappresen-
tativa, ascrivibile al regime dell’allegoria. Significativamente, dopo i
capitoli dedicati alla rielaborazione del lutto trova spazio l’episodio
della «donna gentile» (capp. XXXV-XXXVIII), poi reinterpretato ap-
punto in chiave allegorica, come si è detto, nel secondo trattato del
Convivio. In particolare significativo risulta in questa prospettiva il ca-
pitolo XXXIV, che conclude la parte dedicata alla rielaborazione del
lutto. Nel giorno del primo anniversario della morte di Beatrice (e
dunque l’8 giugno 1291, stando alle notizie fornite dall’autore),
Dante, assorto nel ricordo dell’amata, sta disegnando un angelo su al-
cune tavolette; interrotto dall’arrivo di persone di riguardo, decide di
scrivere un sonetto («Era venuta ne la mente mia»), rivolgendosi a es-
se, per l’anniversario luttuoso.
Il sonetto ha due inizi diversi, entrambi riportati dall’autore al-
l’interno dell’opera e pertanto da considerare non in alternativa ma in
via complementare, come se si trattasse di una composizione con tre
quartine al posto di due e in cui le prime due siano da leggere sinot-
ticamente (cioè contemporaneamente e parallelamente) anziché in suc-
cessione. Si tratta di una soluzione originale, che dà un significato
82 Dante e la nascita dell’allegoria

strutturalmente narrativo al momento della scrittura, affiancandolo alla


materia biografica che è oggetto esplicito della narrazione.
Il capitolo XXXIV ha all’interno della Vita Nuova, e dell’intera
opera di Dante, un’importanza eccezionale. Esso costituisce in qual-
che modo la pietra di volta di un’esperienza artistica e ideologica pro-
fondamente segnata dallo sconvolgimento delle categorie culturali ve-
rificatosi nel corso della “rivoluzione” comunale. Se la morte di
Beatrice esprime anche la crisi di una cultura e di una società, nelle
quali vigeva fra l’altro la trasparenza fra mondo terreno e mondo tra-
scendente, allora la morte di Beatrice è un segno tra i tanti della lai-
cizzazione della cultura e della affermazione di forme “borghesi” e pre-
capitalistiche di produzione economica e di modi di vita profani. Il lut-
to per la morte di Beatrice contiene anche il lutto per la perdita di una
forma di conoscenza concepita in termini di illuminazione e di imme-
diatezza.
La rielaborazione del lutto culmina nella stesura del sonetto
«Era venuta ne la mente mia», la diversità tra i due inizi del quale, in-
trodotti eccezionalmente entrambi nell’opera, rappresenta appunto il
passaggio dalla dimensione simbolica, ormai non più possibile, alla nuo-
va dimensione allegorica. Quest’ultima si definisce per una maggiore
necessità di razionalizzazione, tant’è vero che il sonetto è spiegato da
Dante in modo assai più particolareggiato del consueto: la sfera dei va-
lori, prima raggiungibile senza mediazioni grazie alle apparizioni
beatificanti di Beatrice, deve ora essere conquistata attraverso una ri-
cerca complessa da compiersi attraverso le apparenze terrene; non è
più ogni singolo fenomeno a essere potenzialmente portatore di veri-
tà, ma la ricostruzione dell’ordine e delle procedure (anche tempora-
li, cioè storiche) secondo cui i fenomeni si mostrano e si combinano.
È opportuno leggere l’intero capitolo.

XXXIV. In quello giorno nel quale si compiea l’anno che questa


donna era fatta de li cittadini di vita eterna, io mi sedea in par-
te ne la quale, ricordandomi di lei, disegnava uno angelo sopra
certe tavolette; e mentre io lo disegnava, volsi li occhi, e vidi lun-
go me uomini a li quali si convenia di fare onore. E’ riguardava-
no quello che io facea; e secondo che me fu detto poi, elli erano
stati già alquanto anzi che io me ne accorgesse. Quando li vidi,
mi levai, e salutando loro dissi: «Altri era testé meco, però pen-
sava». Onde partiti costoro, ritornaimi a la mia opera, cioè del di-
segnare figure d’angeli: e faccendo ciò, mi venne uno pensero di
dire parole, quasi per annovale, e scrivere a costoro li quali era-
Fondo oro e affresco realistico 83

no venuti a me; e dissi allora questo sonetto, lo quale comincia:


Era venuta; lo quale ha due cominciamenti, e però lo dividerò se-
condo l’uno e secondo l’altro.
Dico che secondo lo primo questo sonetto ha tre parti: ne la
prima dico che questa donna era già nella mia memoria; ne la se-
conda dico quello che Amore però mi facea fare; ne la terza di-
co de gli effetti d’Amore. La seconda comincia quivi: Amor, che;
la terza quivi: Piangendo uscivan for. Questa parte si divide in due:
ne l’una dico che tutti li miei sospiri uscivano parlando; ne la se-
conda dico che alquanti diceano certe parole diverse da gli altri.
La seconda comincia quivi: Ma quei. Per questo medesimo modo
si divide secondo l’altro cominciamento, salvo che ne la prima
parte dico quando questa donna era così venuta ne la mia memo-
ria, e ciò non dico ne l’altro.

Primo cominciamento
Era venuta ne la mente mia
la gentil donna che per suo valore
fu posta da l’altissimo signore
nel ciel de l’umiltate, ov’è Maria.

Secondo cominciamento
Era venuta ne la mente mia
quella donna gentil cui piange Amore,
entro ’n quel punto che lo suo valore
vi trasse a riguardar quel ch’eo facia.
5 Amor, che ne la mente la sentia,
s’era svegliato nel destrutto core,
e diceva a’ sospiri: «Andate fore»;
per che ciascun dolente si partia.
Piangendo uscivan for de lo mio petto
10 con una voce che sovente mena
le lagrime dogliose a li occhi tristi.
Ma quei che n’uscian for con maggior pena,
venian dicendo: «Oi nobile intelletto,
oggi fa l’anno che nel ciel salisti».*

* Edizione secondo Barbi-De Robertis.


84 Dante e la nascita dell’allegoria

La necessità di leggere questo sonetto tenendo conto, contestual-


mente, di entrambe le redazioni della prima quartina è confermata da
una decisiva conseguenza interpretativa: la presenza di riferimenti re-
ligiosi (Dio e la Madonna) nella prima versione e la loro assenza nel-
la seconda (dove si parla di «Amore») assume un significato valutabi-
le solo nel rapporto e nella differenza tra i due “cominciamenti”. An-
zi: proprio in tale rapporto sta forse il senso più profondo del testo
all’interno della Vita Nuova e della “carriera” artistica di Dante.
Si potrebbe dire che il Secondo cominciamento rappresenta una
traduzione profana del primo. Ma ciò sarebbe fuorviante: basti pen-
sare alla conclusione del sonetto (comune a entrambe le soluzioni), con-
tenente un rimando alla gloria celeste di Beatrice posto nel massimo
risalto dell’explicit. Si potrebbe anche dire che la prima versione
determina un rapporto più coerente e diretto con il seguito, presentan-
do una armoniosa circolarità tematica (con ripresa anche terminologi-
ca di «ciel»); mentre la seconda versione è in apparenza tutta interna
alla dimensione teatralizzata e profana dell’esperienza erotica quale si
trova per esempio in Cavalcanti, così da rendere improvviso e ingiu-
stificato, o meglio generico, il riferimento conclusivo al cielo: come se
si trattasse di un normale eufemismo per dire “sei morta”. Questa let-
tura sarebbe a sua volta fuorviante, anche se potrebbe risultare plau-
sibile qualora mancasse l’altra versione della prima quartina, invece qui
organicamente presente.
In effetti il Primo cominciamento indica in modo esplicito che il
riferimento a Beatrice, destinata da Dio al luogo stesso riservato a Ma-
ria, è a questo punto un riferimento intimamente religioso, e cioè che
la storia d’amore di Dante è la forma di un rapporto con la divinità.
L’Amore introdotto in scena (secondo la prima versione) a partire dal
v. 5 è l’espressione umana di una apertura alla sfera della trascenden-
za. Ma tra la dimensione di Beatrice assunta in cielo e la dimensione
di Dante sofferente sulla Terra non è stabilito, nel caso del Primo co-
minciamento, nessun rapporto, cioè i due momenti sono soltanto
giustapposti. Nella memoria di Dante riappare un’assente, ora accol-
ta in Paradiso e perciò amata diversamente da prima, come cosa sacra
e perduta. Siamo cioè in presenza di una manifestazione del simboli-
smo medievale: tra cielo e Terra (tra valori e referenti storico-materia-
li) non c’è nessuna relazione. Nei fenomeni terreni si manifesta la ve-
rità: questa appartiene per intero alla dimensione trascendente, anche
se può rivelarsi, epifanicamente, nei fatti della Terra. In questo caso:
dietro l’assenza di Beatrice dalla scena terrena e dietro il lutto per la
sua morte si manifesta il vero significato, consistente nel destino pa-
Fondo oro e affresco realistico 85

radisiaco della donna; tale manifestazione è tutta affidata alla appa-


rizione della sua immagine nella memoria di Dante. Come è ben mes-
so in evidenza nel commento dello stesso autore che precede, essa non
si svolge in termini temporali ma al di fuori del tempo: è un significa-
to dato alla Terra (che sta nel tempo) dall’esterno, cioè sceso sulla Ter-
ra dalla dimensione trascendente dei valori.
Ma con la morte di Beatrice e con la crisi di civiltà che balugina
dietro di essa, questa modalità – simbolistica – è divenuta impossibi-
le, e il vuoto lasciato dalla perdita chiede una giustificazione nel tem-
po e sulla Terra, salvo minacciare (come nel contemporaneo Cavalcan-
ti) lo smarrimento nell’angoscia e nell’insensatezza.
Il Secondo cominciamento rappresenta una solida forma di com-
promesso tra la fedeltà ai valori trascendenti che sono alla base del
simbolismo e il bisogno di fondare i significati nella storia e sulla Ter-
ra; anzi rappresenta il tentativo di soddisfare entrambe le dimensio-
ni indicando il collegamento tra di esse. Il Secondo cominciamento co-
stituisce insomma uno dei momenti fondativi della allegoria dantesca.
Diviene decisiva la dimensione temporale (il «quando»), all’interno
della quale (cioè all’interno dei suoi valori culturali, e per esempio del-
la civiltà cortese e della sua elaborazione del tema amoroso) si svolge
una ricerca intorno a significati e a valori, i cui risultati pervengono
alla sfera trascendente (cfr. la conclusione) ma al termine e come con-
seguenza di un itinerario e di relazioni che esistono e sono recepite
sulla Terra: in questo caso, è la coincidenza del ricordo di Beatrice in
Dante e dell’arrivo dei visitatori a suggerire che gli avvenimenti
terreni hanno un significato interpretabile in chiave allegorica. In tal
modo l’esperienza del soggetto si colloca dentro la dimensione stori-
ca, benché sia anche in condizione di muoversi, a partire da questa,
verso dimensioni più alte di significato. Come d’altra parte la proce-
dura allegorica sia intimamente segnata dalla temporalità (e dunque dal
sentimento della perdita e dell’assenza) hanno rilevato i maggiori stu-
diosi moderni dell’allegoria, da Benjamin e Lukács a Jauss, de Man e
Lewis.
La fondazione di una dimensione allegorica consente, a questo
punto della Vita Nuova, l’apertura di una fase figurale, comprenden-
te i capitoli dedicati alla «donna gentile» e quelli conclusivi su Beatri-
ce, annuncio della Commedia non tanto nel tema e nella forma,
quanto appunto nella tecnica (allegorica) della rappresentazione.
Si è accennato a un’equivalenza rappresentativa fra la sezione cen-
trale della Vita nuova e i fondi oro dei grandi pittori duecenteschi, da
Cimabue a Simone Martini a Duccio da Boninsegna. In effetti nei
86 Dante e la nascita dell’allegoria

grandi dipinti del Duecento in luogo del realismo prospettico e pae-


saggistico si trova una rappresentazione immediata del legame fra il
soggetto (di solito la Vergine o santi) e la dimensione della trascenden-
za, simboleggiata dall’oro che circonda e avvolge le figure umane; in
quanto immersa nell’oro del divino, la figura umana si offre quale epi-
fania del significato. La stessa tecnica della rappresentazione caratte-
rizza le apparizioni di Beatrice nella Vita nuova, dove l’interesse
realistico è – come negli artisti ora ricordati – subordinato alla fidu-
cia simbolistica nella trasparenza dei fenomeni.
Ebbene, la stessa crisi di civiltà che spinge Dante, con la conclu-
sione aperta del prosimetro e soprattutto con la Commedia, ad abban-
donare le strategie simbolistiche e a tentare la strada del realismo e
dell’allegoria si riscontra anche nella pittura coeva. Le esemplari figu-
re di Ambrogio Lorenzetti – che narra realisticamente le grandi alle-
gorie del buono e del cattivo governo – e di Giotto testimoniano una
svolta che ha non pochi punti di contatto con quella dantesca. Giot-
to in particolare, affrescando il ciclo francescano di Assisi, deve rinun-
ciare alla raffigurazione immediata del significato trascendente della
vita del santo; e Francesco viene narrato secondo una logica proces-
suale che può attribuire valore alla vita solo collocandola entro un con-
testo realisticamente connotato: il fondo oro della trascendenza epi-
fanica lascia il posto a paesaggi naturali e sociali con i quali la vita del
santo stabilisce relazioni di senso. Come nel poema dantesco, dall’in-
sieme del racconto ricevono significato anche i particolari che lo
compongono, e possono ricevere infine valore l’insieme di un’esperien-
za storica e la vita in generale.
È come se Dante assommasse in se stesso due generazioni di ar-
tisti: dopo aver dipinto i fondi oro nella giovinezza stilnovistica, ec-
colo costruire nella maturità un grande ciclo narrativo e realistico di
affreschi.
19.
Il realismo e l’individuo

Un legame profondo congiunge allegoria e realismo. Soprattutto gli


studi di Auerbach hanno permesso di valutare appieno questo aspet-
to della strategia allegorica di semantizzazione della realtà. Ben altro
che una semplice figura retorica è dunque, nel senso qui considerato,
l’allegoria; la quale, appunto in quanto strategia di semantizzazione,
può avvalersi anche di veri e propri simboli. Infatti quel che conta è
la dominante gnoseologica, ovvero il principio organizzativo del discor-
so. E d’altra parte il fondamento realistico del procedimento allego-
rico ha, oltre che una ragione filosofica, visto che il significato divie-
ne una negoziazione fra dati reali e ipotesi interpretative, anche
una ragione retorica: avendo i singoli particolari perduto l’aspirazio-
ne diretta al significato, solamente la struttura in cui essi vengono col-
locati può restituire loro un senso, così che è la coerenza e la tenuta
del sistema a conferire legittimità alle ipotesi semantiche specifi-
che; ne consegue infine che l’universo retorico e narrativo formulato
dal punto di vista allegorico aspiri sempre a porsi quale metafora del-
la realtà.
In termini generali, il fondamento realistico dell’allegoria dante-
sca relativamente al primo canto dell’Inferno consiste innanzitutto nel-
la rappresentazione di una crisi diciamo spirituale per mezzo di
eventi fisici concreti, cioè servendosi di materiale avventuroso. Il pro-
tagonista è quasi un paladino di Carlo Magno o un cavaliere di re Ar-
tù che si trovi a vivere un’avventura eroica; anche se dalla selva, an-
ziché draghi o attentatori all’onore del sovrano, spuntano comuni ani-
mali feroci. Tuttavia il lettore è messo sull’avviso che il racconto, men-
tre chiede di essere preso sul serio e perfino considerato vero in se
88 Dante e la nascita dell’allegoria

stesso, parla d’altro, non semplicemente alludendovi, ma costruendo-


lo in parallelo. D’altra parte, così avviene pure – secondo la prospet-
tiva dell’allegorista – nella realtà: essa è vera, e non si limita ad allu-
dere (magari epifanicamente) a una dimensione ulteriore e più vera,
ma non meno vero è il significato attribuibile, come costruendo-
glielo accanto, alla realtà.
Per un altro aspetto, l’allegoria del poema ha un fondamento rea-
listico generale anche grazie alla rappresentazione di una crisi storica
(abbiamo addirittura parlato di una crisi di civiltà) per mezzo di un per-
corso individuale concreto. Come quel che il soggetto fa nella selva cor-
risponde a eventi della sua interiorità, così quel che accade a lui qua-
le singolo corrisponde ad avvenimenti riguardanti l’umanità intera.
Si è molto discusso se i tre animali feroci raffigurino ostacoli spe-
cifici dell’individuo singolo smarrito nella selva, coincidente magari
con l’io biografico dell’autore, oppure ostacoli collettivi, e cioè non vi-
zi di Dante ma vizi del tempo e della società suoi. Quale che sia la pre-
ferenza di ciascun lettore, una cosa è certa: il sistema dell’allegoria non
ammette la rappresentazione di un significato vero per mezzo di un si-
gnificato falso – non ammette cioè l’uso strumentale di referenti la cui
necessità risieda solo (come nel simbolismo) nella verità di ciò che es-
si significano –, dato che il significato ulteriore si legittima quale in-
terpretazione – e se si vuole quale generalizzazione – del significato
primo (diciamo fenomenico), e cioè dato che il non detto è costruito
sul detto. Dunque, se nel poema viene raccontato che le tre fiere osta-
colano i passi di Dante verso il colle, non sarà legittimo sottrarre l’in-
terpretazione figurale a questo vincolo: e perciò il coinvolgimento per-
sonale del protagonista nel male che i tre animali incarnano è fuori di-
scussione. E ci mancherebbe altro che un singolo individuo non
possa salvarsi a cagione di un male pubblico dal quale egli sia esente!
Proprio al contrario, in molte circostanze abbiamo nel poema esplici-
te dichiarazioni di individui eccezionali che sfuggono, pur circonda-
ti dalla corruzione, alla regola generale (da Nella di Forese Donati a
Piccarda, prescindendo dal più ovvio caso dei santi). Se Dante è osta-
colato dalle tre fiere, vuol dire allora che è personalmente contamina-
to dal male che esse rappresentano.
E tuttavia le tre fiere non sono solo un male di Dante ma sono
anche un male sociale. Non potrebbero però essere un male sociale,
cioè non potrebbero nella Commedia essere proposte quali mali socia-
li, se non fossero un male riferito a un individuo concreto. Né dunque
è accettabile la soluzione pure spesso proposta, che le tre fiere costi-
tuiscano sia un ostacolo personale sia un ostacolo collettivo: non è ac-
Il realismo e l’individuo 89

cettabile, cioè, nel metodo. Piuttosto, le tre fiere costituiscono un osta-


colo (e un male) sociale letto su un caso individuale concreto: non tut-
te e due le cose semplicemente, dunque, ma l’una cosa in dipenden-
za dall’altra.
Questa procedura non fonde – o giustappone – l’universale al par-
ticolare ma chiede di leggere nel particolare l’universale, con un
procedimento di interpretazione, se si vuole, dialettico. Sono infatti
altri elementi della narrazione a legittimare l’allargamento e la gene-
ralizzazione sociale del dato particolare, e per esempio nel primo can-
to stesso la dichiarazione esplicita di Virgilio secondo cui la lupa non
lascia passare nessuno per la sua strada ma piuttosto lo uccide (cfr. vv.
95-96): non dunque il solo Dante ma nessuno. Per non dire di altri
rimandi infratestuali, a partire dal trio «superbia, invidia e avarizia»
del canto VI dell’Inferno (v. 74). Ci sarebbe poi anche il richiamo ai
molti animali cui la lupa si ammoglia e si ammoglierà (vv. 100-101),
non fosse che pare preferibile non leggere in quel passaggio un riferi-
mento a esseri umani ma ad animali come la lonza e il leone, per co-
sì dire accessori del vizio centrale incarnato nella lupa.
Questa procedura dunque, costringendo a cercare il dato genera-
le in quello particolare, e cioè la crisi storica di una civiltà in quella di
un individuo specifico, non può fare a meno di essere ancora una vol-
ta una procedura realisticamente connotata, e anzi fondata sul reali-
smo.
20.
Narrazioni dell’io e incontri reali

La grande costellazione realistica della rappresentazione dantesca è poi


arricchita grazie a un seducente realismo psicologico e a un non me-
no innovativo realismo mimetico-narrativo.
Il realismo psicologico costituisce senza dubbio una delle maggio-
ri novità dell’arte dantesca. Si intende qui con realismo psicologico la
rappresentazione dei movimenti psichici dell’io per mezzo di riman-
di concreti, che possono ora essere gesti e comportamenti effettivi, ora
invece oggetti ficti tuttavia nominati quali corrispettivi di ciò che non
può essere concretamente descritto perché sfugge alle leggi della
materia. Nella Commedia perciò vediamo il protagonista cadere come
un corpo morto piuttosto che essere astrattamente angosciato (Inf. V,
142); o lo vediamo cercare Virgilio come un bambino smarrito cerca
la mamma e non semplicemente con il desiderio di essere rassicurato
(Purg. XXX, 43-45). D’altra parte, perché questo mondo finto possa
legittimamente invocare la credibilità sulla quale si fonda il suo stes-
so potenziale semantico, e dunque la sua scommessa più caratterizzan-
te e più audace, deve fra l’altro costruire una grammatica dell’interio-
rità oggettivata, ovvero deve produrre una realtà capace di esprime-
re in forma mediata quella verità intima (spirituale o trascendente) che
non può più esprimersi direttamente. Ora la felicità e il dolore devo-
no incarnarsi in gesti o almeno in oggetti esperibili dai sensi. L’anima,
per vivere ancora, ha bisogno di una psicologia e di un suo codice di
segni materiali. Anche l’interiorità, non potendo più contare su una
comunicazione diretta con il significato trascendente e ultimo, deve
articolarsi secondo procedure realistiche e concrete: alle espressioni e
ai gesti di alto valore simbolico ma bloccati dei fondi oro deve sosti-
92 Dante e la nascita dell’allegoria

tuirsi una dinamica variegata e complessa, una narrazione dell’io.


I movimenti psichici del soggetto trapuntano per intero il canto
proemiale, con un’accurata alternanza di paura e speranza nei primi
sessanta versi (e “paura” e “speranza/sperare” sono parole-chiave del
canto) e poi, con provvisorio trionfo dell’atteggiamento positivo,
nella conclusione. Di più, i gesti e i movimenti del protagonista sono
la manifestazione dell’una o dell’altra delle due dominanti psichiche:
in particolare procedere verso l’alto o verso il basso, e anche, impli-
citamente, avanzare con calma o correre (come fanno intendere il v.
25 e il verbo «rovinava» al v. 61). Perfino il gesto del ricordare e del
narrare risulta subito segnato da un contenuto psichico: dire è «cosa
dura» e il ricordo «rinova la paura» (vv. 4-6).
La realtà materiale è dunque carica di valenze emotive, e l’emo-
tività si proietta in oggetti e movimenti concreti, realisticamente. D’al-
tra parte la Commedia è un viaggio materiale – un viaggio presentato
quale realmente compiuto – che allude anche a un percorso interiore
del protagonista. Ciò è vero in due sensi: ciò che egli vede con gli oc-
chi e in generale sperimenta con i sensi costituisce anche un’esperien-
za interiore; e quanto egli prova nel mondo interiore non può fare a
meno di divenire realtà oggettivata fuori di lui stesso. In questo
senso, ogni esperienza è duplice: la lupa o Virgilio sono incontri
reali che costituiscono subito anche acquisizioni (o perdite) della
coscienza, e sono movimenti psichici che si accampano nel mondo del-
le cose reali proiettandovi i propri contenuti; la lupa e Virgilio sono
esperienze per dir così predestinate, che all’io sta di acquisire nel pro-
prio mondo interiore, e sono espressioni del libero arbitrio individua-
le (e i due movimenti non possono che tomisticamente coincidere). In
questo senso, a Dante sono sì mostrate le anime dell’aldilà per una spe-
ciale concessione della Grazia divina; ma ogni cosa che egli incontra
è anche l’espressione del suo personale processo di maturazione inte-
riore. Ciò vorrà dire che al protagonista accadono quelle cose che egli
sceglie dentro di sé (purché al verbo “scegliere” si dia un significato
non limitato alla sfera della consapevolezza e della volontà); ovvero il
paesaggio esterno e oggettivo è anche la proiezione di quello interio-
re e soggettivo.
Ma non è forse vero che nella Commedia la tensione fra interio-
rità e realtà esterna costituisce uno dei fondamentali principi costrut-
tivi? Pensiamo alle anime dei dannati, collocati in una dimensione ma-
teriale che, in nome del principio del contrappasso, è al tempo stesso
un’imposizione garantita dalla giustizia divina e un inesorabile scon-
finamento dell’interiorità oltre il limite dell’individuo. La punizione
Narrazioni dell’io e incontri reali 93

coincide con un riversamento del male morale dall’interno all’esterno


del colpevole, e implica dunque che ciascun peccatore sia condanna-
to a vivere in un mondo che oggettiva la sua soggettività, in un
mondo che è tutto costruito, fuori, al modo in cui egli è fatto interior-
mente. In un certo senso, i dannati ricevono da Dio la punizione di vi-
vere dentro se stessi. Questa geniale trovata non si limita a definire
una condizione e una strategia morali, ma è gestita quale complesso
meccanismo psichico; tant’è vero che i dannati non possono fare a me-
no di pensare, ossessivamente, al proprio peccato: la punizione pati-
ta discende da questo stato per così dire maniacalizzato, ne è la
proiezione e l’oggettivazione; e se per assurdo un dannato potesse pen-
sare ad altro che al proprio peccato, cioè potesse uscire dall’eterno e
rientrare nel tempo, allora l’architettura e il meccanismo della puni-
zione si dileguerebbero intorno a lui.
È appunto quanto si vede accadere alle anime del Purgatorio, col-
locate in un regno assai peculiare rispetto ai parametri dell’oltretom-
ba: un regno ancora abitato dal tempo, che si è formato nel tempo e
scomparirà con il Giudizio insieme alla fine del tempo; un regno nel
quale il sole sorge e tramonta e nel quale, soprattutto, le anime pos-
sono modificare il proprio assetto interiore. Da Stazio, il pellegrino
apprenderà infatti come la durata della permanenza in Purgatorio non
sia dettata da leggi estrinseche, ma coincida con i tempi di un proces-
so interiore; così che la fine della sua elaborazione non può che
comportare il dileguarsi della pena e del suo paesaggio, i quali esisto-
no, certo, in quanto strumenti offerti (e imposti) da Dio, ma anche in
quanto proiezioni dell’interiorità dei purganti. Come loro, anche
Dante sarà a un certo punto a tal segno liberato dei limiti terreni da
innalzarsi, fisso a Beatrice, verso i cieli del Paradiso.
Qui però, come si è già avuto modo di osservare, è ricucito lo ia-
to aperto nella storia fra cosa e idea: tutte perfettamente appagate in
Dio, le anime beate non danno al di fuori alcun segno della diversa
condizione interiore. In Paradiso la realtà è a tal segno coincidente con
il significato e con la verità, da non esistere – almeno nel senso
umano del termine. Al fine di essere visibile in termini umani, dun-
que, il Paradiso deve accettare eccezionalmente – come il verbum lo
accetta nelle Scritture – di assumere una qualche dose di realismo. Per
mostrarsi agli occhi di Dante, il Paradiso deve cioè allegorizzarsi, con
la distribuzione dei beati nei vari cieli e il diverso brillare di ciascuno
di essi; e allegorizzandosi il Paradiso assume, sia pure solo per alcuni
aspetti specifici (soprattutto luci e suoni), tratti realistici.
In termini storici, la città celeste costituisce la scommessa uto-
94 Dante e la nascita dell’allegoria

pica dell’autore; laddove nell’Inferno egli ha raffigurato la verità di


una civiltà, nella quale il mondo prende forma dai soggetti e a poco
a poco li imprigiona nei loro vizi, e nel Purgatorio ha prospettato la
direzione per riscattarsi da quella caduta. È perciò soprattutto nella
prima tappa – come i lettori hanno d’altra parte largamente percepi-
to – che il racconto del viaggio ha bisogno, oltre che di realismo in
generale, di realismo psicologico in particolare; perché il realismo psi-
cologico tratteggia la fragilità e la condanna degli umani meglio
che non la loro maturità redenta. E dunque ben si spiega la straordi-
naria sensibilità psicologica espressa nel primo canto dell’Inferno, men-
tre il rischio per il protagonista è forte come non sarà mai più in se-
guito e dunque la sua natura umana ha modo di manifestarsi al
grado più alto.
Vediamo i segni di questa fragilità umana nel realismo psicologi-
co con il quale è narrato l’esordio dell’avventura, tutto nel segno del-
la inconsapevolezza e della incoscienza: «mi ritrovai» (v. 2), «io
non so ben ridir com’i’ v’intrai / tant’era pieno di sonno in quel pun-
to/ che la verace via abbandonai» (vv. 10-12). D’altra parte l’anima,
creata da Dio, non può scegliere il male, che sarà quindi accolto solo
per il prevalere di una sorta di passività distratta, di una mancanza di
sorveglianza (e di scelta) morale.
Della fragilità vediamo un’espressione luminosa allorché il prota-
gonista, vinto dall’entusiasmo per l’agnizione del suo prediletto mo-
dello letterario (e non solo), per un attimo dimentica la propria con-
dizione e il rischio per rallegrarsi dell’incontro: segno di umanità, di
relatività umana, non meno del grido di aiuto («Miserere di me») ri-
volto all’apparizione spettrale; a esprimere tutta intera, secondo mo-
di di grande realismo psicologico, la personalità umana del pellegrino,
diviso fra disperazione (e coscienza di essa) e orgoglio («lo bello stilo
che m’ha fatto onore», v. 87).
D’altra parte, solamente la psicologia – realisticamente raffigura-
ta e non solo dichiarata – può rendere il protagonista un personaggio
complesso e modernamente interessante, stendendo davanti agli oc-
chi del lettore l’imprevedibile territorio del «lago del cor» (v. 20): ter-
ritorio capace di legittimare perfino una tensione fra pulsioni opposte,
o fra pulsioni e scelte, come quando il corpo si ferma per riposarsi al-
la vista del colle luminoso e l’animo continua a fuggire (vv. 25-26 e
28). E dove il rapporto con la realtà è incrinato dalla scissione – co-
me pochi decenni dopo insegnerà Petrarca – la psicologia si impone
quale territorio decisivo per la valutazione del significato dell’esperien-
za e del mondo. Dante non vuole certo sostituire l’interiorità al
Narrazioni dell’io e incontri reali 95

mondo e alla storia (se non altro Francesca mostra le conseguenze di


una simile riduzione), e getta l’interiorità nella dialettica delle cose: ne
fa un oggetto, ne parla come di un oggetto, vasto, certo, come un «la-
go», ma costretto tuttavia a dialogare con la realtà. Il realismo psico-
logico di Dante sta in questo corpo a corpo fra interiorità e mondo,
dal quale anche scaturisce la specifica struttura e la tecnica narrativa
della Commedia.
Un attributo del realismo psicologico è il realismo mimetico-nar-
rativo, dal quale – per dirla con brutale semplicità – discende che ogni
cosa si comporti coerentemente alla propria natura e alla propria con-
dizione specifica. Ciò vuol dire che gli attori – fossero pure oggetti –
della Commedia non vi sono convocati in quanto universali ma in
quanto individui particolari. Questo è ovviamente, ancora una volta,
un segno del principio allegorico, in contrapposizione a quello simbo-
listico: per il simbolismo medievale, infatti, la rappresentabilità coin-
cide con il carattere universale, così che, secondo un principio salda-
mente antirealistico, non si parlerà tanto di un luogo o di una perso-
na particolari quanto di una categoria generalizzante; laddove il mo-
dello allegorico non può fare a meno di fondare su individui partico-
lari concreti, realisticamente, la propria ricostruzione di senso, foss’an-
che di un senso generale. Nella Commedia non troviamo più il tradi-
tore o il bugiardo, ma un certo traditore o un certo bugiardo. E l’uno
e l’altro non si limiteranno a tradire o a mentire, ma riferiranno un de-
terminato tradimento o una determinata bugia. D’altra parte la crisi
della trasparenza epifanica implica appunto l’impossibilità di leggere
l’universale nel particolare, cioè di vedere altro che individui concre-
ti e situazioni finite. La nuova strategia allegorica deve pertanto
misurarsi con un ben definito hic et nunc, in cui sta alla forza dell’in-
terpretazione – cioè della ricostruzione intellettuale – collocare il sin-
golo gesto dentro un significato generale.
E se le tre fiere sono in questo canto proemiale ancora largamen-
te debitrici del punto di vista simbolistico, uscite come risultano da un
bestiario, il deuteragonista Virgilio si annuncia invece, ancora una vol-
ta, l’interprete più spigliato della nuova stagione allegorica, e dunque
il primo coerente esempio di quel realismo mimetico-narrativo che co-
sì profondamente agirà nel poema. Dopo essersi presentata con i trat-
ti di evanescenza di cui si è detto, infatti, la guida risponde alla incal-
zante richiesta di Dante con un esordio di cavernosa lentezza, tanto
più stupefacente se si considerano la delicatezza della missione accol-
ta – soccorrere il pellegrino smarrito – e la proverbiale eloquenza del
parlante, di lì a poco rievocata dall’interlocutore:
96 Dante e la nascita dell’allegoria

Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,


e li parenti miei furon lombardi,
69 mantoani per patrïa ambedui […]».

Perfino la didascalia, con la dittongazione scura in sillaba tonica,


coopera alla musica rallentata e grave di questi versi, così come la dop-
pia uscita di rima in –ui, lo iato di «mantoani» e la dieresi «patrïa»;
per non dire che qui la didascalia ha tutto il tempo di precedere la ri-
sposta, quasi a segnalarne un tentennamento, tanto quanto invece ave-
va dovuto inseguire la sùbita parlata del protagonista, inserendosi, so-
lo due versi prima, dopo il primo decisivo grido di soccorso. Se la ca-
vernosità della voce di Virgilio suggerita da questi tratti intrinseci del
suo esordio può essere decifrata quale equivalente della sua fiochez-
za, la lentezza scandita delle prime parole ha fatto addirittura imma-
ginare una iperrealistica difficoltà dell’antico poeta nell’uso del volga-
re toscano; così che quattro su cinque delle parole deposte cautamen-
te, come sillabando, al v. 67 sono linguisticamente ancipiti, e valide
anche in latino, mentre una tessera latina bella e buona è il «sub Iu-
lio» del v. 70 (e per ritrovare un altro latino così esplicito, il lettore
dovrà aspettare l’ultimo canto dell’Inferno). Chi parla qui non è
un’idea di Virgilio, non è il Virgilio per universali delle scuole di re-
torica medievali, e neppure il Virgilio mitizzato dal giovane Dante cul-
tore dell’Eneide: è un Virgilio costretto alla concretezza di un indivi-
duo particolare in una situazione specifica, significativo tassello di quel
realismo mimetico-narrativo che collabora a costruire il complessivo
realismo dell’allegoria.
21.
Parlare del colle

Non si dice nulla di nuovo ammettendo che il terreno sul quale Dan-
te soprattutto applica la sua originale strategia realistica è quello del-
la lingua. Già nella precisione differenziale del lessico, la sua è una lin-
gua popolata di individui concreti e particolari. Anche solo relativamen-
te allo spazio fisico del territorio qui considerato, ecco la «valle», lo
«passo», la «piaggia», l’«erta»; e poi la «selva», il «colle» (base e ver-
tice), il «basso loco», il «gran diserto». È bandita ogni genericità; e non
meraviglia che la specificità innanzitutto lessicale della descrizione dan-
tesca abbia indotto l’elaborazione di atlanti topografici. Qui la lingua
non è fatta per evocare ma per definire. Non è più infatti da ogni sin-
gola parola che può sperarsi l’illuminazione, simbolisticamente: come
la realtà di cui parla, anche la lingua è divenuta muta e opaca; e non la
parola singola ma il sistema della lingua nel suo complesso può semmai
ancora concedere il privilegio del senso. La lingua non è più l’accesso
epifanico alla totalità del mondo, ma piuttosto uno strumentario
mondano di orientamento secolarizzato: serve a descrivere e può vale-
re a interpretare. La parola stessa ha anzi patito la scissione dal signi-
ficato: può essere la cosa e può essere l’idea, non può più aspirare a
esprimere l’unità di cosa e idea, come nella stagione del simbolismo. La
lingua deve perciò proporsi quale strumento di riunificazione dialetti-
ca di cose e idee, secondo una strategia che ne faccia l’equivalente rea-
listico del mondo delle cose quali esse sono disseminate nel tempo e nel-
lo spazio – e di qui l’allargamento “comico” del lessico e degli stili –,
e nello stesso momento ne faccia anche lo strumento fondamentale di
ricostruzione sistematica di relazioni e di gerarchie. Alla parola sta di
inseguire la dispersione dei significanti messa in moto dalla catastrofe
98 Dante e la nascita dell’allegoria

storica in atto; e sta di ricondurla a una nuova struttura sistematica,


allegoricamente connotata.
Un caso esemplare di questa funzione strategica si incontra qui ai
vv. 13-18, in due terzine delle quali si è già sottolineato l’importanza
in quanto chiavi del sistema allegorico fondamentale. Rileggiamole:

Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,


là dove terminava quella valle
15 che m’avea di paura il cor compunto,
guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
18 che mena dritto altrui per ogne calle.

L’espressione «piè d’un colle» introduce un’elementare metafo-


ra, ben ravvisabile quale metafora morta (o catàcresi), dato l’uso con-
venzionale del rimando ai piedi per indicare la parte più bassa di una
sopraelevazione naturale o artificiale (“i piedi di un palazzo, di una
montagna ecc.”). Tuttavia, al v. 16 la metafora è per così dire rivi-
talizzata dal rimando alle «spalle» («sue», cioè del «colle»), d’altra
parte rafforzato e completato dal riferimento al vestito di luce che si
distende sulle parti alte (le spalle appunto) del colle. Non manchia-
mo intanto di sottolineare l’efficacia descrittiva dell’insieme, il po-
tenziale espressivo sul quale si fonda qui il realismo figurativo (e per-
cettivo): dal basso, il protagonista contempla la sommità luminosa del
colle vedendo la luce come riverstirla. I lettori hanno aguzzato l’in-
gegno per indovinare da quale versante Dante osservi qui il colle (a
prescindere dalla sua identificabilità figurale); laddove meno interes-
se ha suscitato la posizione del sole, che risulta invece piuttosto ben
definita dalle terzine in questione, rivelandosi non meno rilevante ai
fine interpretativi: il sole, già sorto nelle zone alte del colle, non è in-
vece direttamente visibile agli occhi di chi, come il protagonista, si
trovi alla base della collina. È un tratto descrittivo di grande effica-
cia realistica, e di non minore significato nel sistema allegorico fon-
damentale. È chiaro infatti – chiaro, s’intende, sul piano innanzitut-
to della raffigurazione realistica – che il modo perché il protagonista
smarrito nella selva possa tornare a vedere il sole-Dio è di arrampi-
carsi sul colle; e poiché lo scopo del soggetto è quello di allontanar-
si dalle tenebre (causa di paura) e di riconquistare la luce rassicuran-
te, ovvero di ritrovare la via perduta, ecco che la decisione di salire
sul colle, verso la cima, è l’unica possibile: e Dante tenta infatti su-
bito l’arrampicata.
Parlare del colle 99

Ora, se non può esservi dubbio circa il significato del sistema al-
legorico fondamentale, costruito su quella legge dei parallelismi e del-
le contrapposizioni di cui si è detto nei §§ 7-8, alquanto meno certa
è la specifica valenza del colle. I commentatori hanno d’altra parte ri-
conosciuto nel sole una raffigurazione del divino, e nella selva il
suo contrario; ma sul valore specifico del colle, ecco invece una curio-
sa alternanza di diaspora interpretativa e di ecumenismo generico. E
se la prima produce ipotesi alquanto fantasiose, dal secondo scaturi-
sce un accordo invero poco fruttuoso: «la felicità terrena» (Bosco-Reg-
gio) e «la vita virtuosa e ordinata» (Sapegno) sono le conclusioni di
una tradizione tutt’altro che recente. Il colle, cioè, non esisterebbe in
quanto tale, ma solo al fine di alludere ad altro: proprio in barba a un
fondamento della strategia allegorica – ricordata anche nella epistola
a Cangrande –, secondo cui il senso allegorico non può che fondarsi
sul letterale e la seconda verità dell’allegoria non può che manifestar-
si quale adempimento di una verità di carattere realistico. Ora,
avremmo qui un colle ipotetico il cui adempimento non avrebbe
nulla a che fare con un colle, risolvendosi in un insieme di atteggia-
menti astratti: felicità, virtù, ordine.
Tre ordini di ragioni spingono invece a leggere in questo colle una
raffigurazione del monte purgatoriale. La prima ragione è di tipo in-
tertestuale, e potrebbe bastare da sola alla causa. La seconda ragione
è nella logica della strategia allegorica complessiva di questo canto. La
terza ragione, infine, è di tipo strettamente linguistico-retorico, a pat-
to di annettere alla lingua e alla retorica una funzione importante nel
sistema figurale.
L’attribuzione del significato di “vita virtuosa e felice” si fonda
fra l’altro su un successivo passaggio del canto, nel quale Virgilio de-
finisce il colle «dilettoso monte». Ma rileggiamo l’intero passo:

«[…]
Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
78 ch’è principio e cagion di tutta gioia?».

Come non cogliere nelle domande della guida una punta di sfer-
zante ironia? È come se Virgilio dicesse: “Ti accorgi bene, ora che
vorresti salire sul colle, quanto sia difficile recuperare le facoltà per-
dute con l’abitudine a vie torte e buie e basse!”; ovvero: “Ti accorgi
bene, ora che vorresti intraprendere un cammino di purificazione e
riavvicinarti a Dio, come l’abito del peccato non si possa dismettere
100 Dante e la nascita dell’allegoria

tanto facilmente!”. Abbiamo già rilevato, d’altra parte, la desolata


umiltà della risposta di Dante: «“Vedi la bestia…”» (v. 88). Ebbene,
una situazione del tutto analoga si ripresenterà in un altro momento
di svolta del viaggio, e in una situazione analoga: nel momento in cui
Beatrice apparirà per proporsi quale nuova guida, e cioè subito dopo
che quel Virgilio qui acquistato sarà stato perduto. Siamo nel canto
XXX del Purgatorio; Dante ha appena riconosciuto l’amata, fieramen-
te collocata sul carro in cui la processione simbolica ha avuto il suo cul-
mine, e ha appena verificato la scomparsa di Virgilio. Beatrice gli ha
rivolto finora solo pochissime parole (Purg. XXX, vv. 55-57), per sot-
tolineare la fine della funzione di Virgilio e annunciare la propria in-
tenzione di rinfacciare al pellegrino le sue colpe; e nel momento in cui
si presenta, esplicitamente dichiarando il proprio nome, rivolge a Dan-
te due domande che per il taglio sarcastico ricordano quelle profferi-
te dalla vecchia guida pure all’esordio della sua funzione:

«Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.


Come degnasti d’accedere al monte?
non sapei che quivi è l’uom felice?»
(Purg. XXX, 73-75).

Come nel primo dell’Inferno Virgilio, che ben conosce gli ostaco-
li del pellegrino, lo pungola nel chiedergli perché non salga verso i di-
letti del monte luminoso, così qui Beatrice, sulla cima del Purgatorio,
apre la requisitoria contro il suo fedele chiedendogli, dopo averlo aiu-
tato in ogni modo a raggiungere quella meta, come egli abbia osato di
conseguire quel luogo felice. La stessa espressione «dilettoso monte»
impiegata dalla prima guida si ripresenta nelle parole della seconda,
scissa in «monte» e «felice». È da escludere – come pure ad alcuni in-
terpreti è parso possibile – che Beatrice parli seriamente, per rimpro-
verare davvero Dante di aver osato un viaggio siffatto e conseguito
l’arrivo nell’Eden. A prescindere dalla dominante sarcastica delle pa-
role di Beatrice in questo canto e nel successivo (dove arriverà a chia-
mare «barba» il volto di Dante per accusarne la avanzata maturità),
evidentemente la beata è ben felice di questo arrivo, e se qualcosa in-
tende qui lamentare è solamente – al di là del rovesciamento ironico
– la sua lentezza; quasi dicesse: “Ti sei finalmente degnato di salire sul
monte! eppure lo sapevi da tanto tempo che solo qui si trova la vera
felicità!”. Il più evidente sarcasmo di queste due domande si specchia
in quello delle altre due rivolte a Dante da Virgilio sessantaquattro
canti prima. Ora, come Beatrice dicendo «monte» allude a quello del
Parlare del colle 101

Purgatorio («qui»), così a esso alluderà Virgilio impiegando l’iden-


tico sostantivo. E che quel monte sia origine di “diletto” (cioè
appunto «dilettoso») il lettore legge subito in principio del primo
canto («… agli occhi miei ricominciò diletto…»: Purg. I, v. 16), per
poi meglio verificarlo nell’incanto del Paradiso terrestre.
La seconda ragione è, si è detto, nella logica della strategia alle-
gorica che agisce nel primo dell’Inferno. Se il sistema spaziale si con-
nota per la contrapposizione adialettica alto vs basso, con quanto si as-
socia a questa tensione assiale di fondo, il colle/monte costituisce tut-
tavia un’eccezione, avendo la base in basso (nelle tenebre, dove è fa-
cile smarrire la strada) e il vertice in alto (in piena luce, dove conver-
gono le vie dritte e vere). Il colle è dunque l’unica occasione di passag-
gio da una condizione all’altra, l’unica opportunità, per così dire, di
dialettizzare alto e basso, luce e tenebra, verità ed errore. Il colle è
questa occasione nella sua realtà topografica: chi si trovasse smarrito
nel basso tenebroso della selva oscura quale essa è fisicamente potreb-
be riguadagnare l’altezza luminosa e un punto di osservazione eleva-
to, utile all’orientamento, solo arrampicandosi sul colle. Ebbene:
che cos’è che nella storia umana, nel grande sistema universale che in-
crocia la storia umana, assolve concretamente una analoga funzione?
Appunto il Purgatorio. È il Purgatorio che ha riaperto ai peccatori la
via del cielo, offrendosi quale scala a Dio, quale opportunità proces-
suale; cioè appunto quale eccezionale formazione dialettica che tenda
un arco fra perdizione e salvezza. E poiché è stato grazie al manifestar-
si di Dio con l’Incarnazione, la Rivelazione e il sacrificio della Passio-
ne che il Purgatorio si è aperto ai passi degli uomini, ben si capisce
come questa opportunità di convertire il male in bene si riveli al pel-
legrino all’apparire del sole/Dio, cioè sul primo far dell’alba, e nel mo-
mento in cui le sue tribolazioni hanno rievocato (come è parso ad al-
cuni interpreti) la passio Christi. Una conferma in più di questa rico-
struzione del rapporto fra referenti narrativi e strategia figurale si avrà
nel primo del Purgatorio, allorché una nuova alba, ma questa volta più
durevole e affidabile, accompagnerà l’incontro del protagonista con il
colle penitenziale; quasi a riprendere una situazione interrotta e a pro-
seguire, finalmente verso l’alto e guidati dal sole, il cammino in pre-
cedenza impossibile.
Da questo legame fra le due situazioni testuali può fra l’altro de-
rivare una più completa giustificazione della prima similitudine del
poema, che non senza una ragione segue immediatamente l’apparizio-
ne del colle, definendo la condizione emotiva del pellegrino nel mo-
mento in cui crede di potersi arrampicare verso la salvezza:
102 Dante e la nascita dell’allegoria

E come quei che con lena affannata,


uscito fuor del pelago a la riva,
24 si volge a l’acqua perigliosa e guata,
così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
27 che non lasciò già mai persona viva.

Il «pelago» e la «riva» introducono qui l’idea di un’ipotetica tra-


versata marina, quasi come se per raggiungere le pendici del colle Dan-
te avesse dovuto sfidare un’ardua navigazione. Sul piano trasposto che
le è proprio, la similitudine risolve dunque l’aporia spaziale addotta da
molti commentatori per negare l’identificabilità del Purgatorio nel col-
le: è vero, cioè, che il monte del Purgatorio sorge al centro del-
l’oceano, dalla parte opposta dell’orbe terracqueo, ma non è meno ve-
ro che il racconto dichiara subito dopo l’apparizione del colle che è co-
me se Dante avesse in effetti attraversato una vasta e perigliosa diste-
sa marina. Più ancora, incerta appare l’allusione che conclude le
due terzine occupate dalla similitudine: «lo passo» è – come pare per
lo più ai commentatori – la selva, o non è (anche) una imprecisata e
misteriosa distesa d’acqua? Questa seconda possibilità, coerente con
i riferimenti interni della similitudine, introdurrebbe dunque qui, in
un passaggio di altissimo valore strategico, un ennesimo riferimento
all’antagonista Ulisse, scopritore audace del monte purgatoriale ma in-
capace tuttavia di gestire correttamente il proprio valore. Di specia-
le rilievo – fra i vari riferimenti contrappositivi a Ulisse (cfr. Par.
XXVII, 82-83) – il richiamo al fallimento dell’eroe greco nella conclu-
sione del primo canto del Purgatorio, dove la base del colle è definita
«lito diserto» (v. 130), come qui nel primo dell’Inferno si legge
«piaggia diserta» (v. 29) in riferimento pure alle pendici montuose, e
dove risuona un implicito richiamo al fallimento di Ulisse che potreb-
be richiamare quello al v. 27 del proemio infernale (il «lito diserto, /
che mai non vide navicar sue acque / omo che di tornar sia poscia
esperto»: vv. 130-132).
Resta infine il terzo argomento, di tipo linguistico-retorico; la cui
efficacia è ovviamente in relazione ai due precedenti. Perché Dante
impegna qui la metafora morta dei piedi del colle, e soprattutto per-
ché la rivitalizza con il riferimento alle spalle e al vestito di raggi? Pos-
sibile che si tratti solamente di un espediente esornativo in un canto
nel quale tutto – e particolarmente in questa zona iniziale – risulta
funzionale a una saldissima logica semantica e strutturale interna? In
effetti, l’insistenza metaforica pare costruire accanto all’inerte referen-
Parlare del colle 103

te fisico della montagna una pulsante figura umana: piedi, spalle, ve-
stiti… Cioè, per dir meglio, la metafora, insistendo sull’area seman-
tica del corpo umano, innalza due corpi in parallelo: quello del refe-
rente realistico montuoso e quello di un’allegoria antropomorfica. Ora,
come non ricordare tanto che il Purgatorio è il grande dono concesso
da Dio all’uomo, quasi un’immagine vivente dell’umanità redenta,
quanto che sulla cima del monte purgatoriale Dante incontra il Para-
diso terrestre, il luogo originariamente destinato da Dio all’umanità
(«fatto per proprio de l’umana gente»: Par. I, v. 56)?
La grande figura umana che traspare dietro il colle sembra voler-
ne orientare l’adempimento figurale anche in quanto rivela di lacuno-
so e incompleto: se le spalle costituiscono la sommità del colle, tutta-
via a completare un corpo ideale di uomo manca ancora la testa, cul-
mine non solo fisico dell’identità umana, e questa non può che esse-
re riconosciuta in qualcosa che si collochi al di sopra del colle, cioè nel
sole. Al quale spetta dunque di adempiere l’integrale identità umana:
della storia in genere, e del destino particolare di Dante.
22.
Il momento dei lupi

Questa aspirazione all’integrale identità umana sembra avvicinare il


mondo di Dante al nostro. È per questo forse che la Commedia susci-
ta oggi un interesse non solamente archeologico, e invita a forme di
dialogo che vadano al di là del dovuto rispetto filologico. In fondo, se
è lecito – e forse doveroso – chiederci perché Dante abbia scritto il
poema, non meno lecito – e non meno doveroso – sarà chiederci se noi
si sia oggi ancora interessati a quelle ragioni, e nella condizione di con-
dividerle, almeno in parte. Ora, l’idea di salvarsi da una condizione
catastrofica inventando nuove forme di ricostruzione del senso appa-
re particolarmente attuale, non solo per la nostra percezione di vive-
re all’interno di una spaventosa catastrofe di civiltà, ma per la connes-
sa difficoltà a ricostruire i legami fra parole e cose, cioè ad attribuire
significato e valore all’esperienza e alla vita.
La Commedia è stata composta anche contro qualcosa; anzi, si ha
spesso l’impressione che gli obiettivi polemici siano nel poema ancor
più nettamente definiti che non le finalità positive. Dante si scaglia
contro religiosi e politici corrotti, contro valori sociali che hanno per-
vertito ogni possibile buona convivenza umana, contro abitudini
degli individui che li distolgono dalla salvezza per asservirli ai disva-
lori collettivi e alla corruzione pubblica; ma fissa anche l’origine co-
mune di tutta questa rovina in un’entità di alto valore simbolico, che
anima il male nelle sue varie forme: il denaro, l’oro, la ricchezza. D’al-
tra parte la civiltà del guadagno fondava proprio in quei decenni una
possibilità di relazione fra cose e significati che ne ridislocava fatal-
mente il valore: acquistando un prezzo, e sempre più coincidendo nel-
la communis opinio con un prezzo, le cose vedevano attenuarsi il pro-
106 Dante e la nascita dell’allegoria

prio significato trascendente. La secolarizzazione del mondo procede-


va quale secolarizzazione dei valori del mondo; e secolarizzandosi, il
valore delle cose rivelava un fondamento esclusivamente convenzio-
nale, cioè nessun fondamento. Bene e male si trasformavano in varia-
bili della fortuna, una delle presenze più perturbanti della cosmologia
di Dante, che con fatica e inquietudine si sforza nel poema di ricon-
durla, pur nel suo mondano capriccio, alla volontà provvidenziale di
Dio (cfr. soprattutto Inf. VII, 61-96). La necessità di ridefinire il rap-
porto fra ordo rerum e ordo idearum, ovvero le strategie per mezzo del-
le quali rendere possibile tale rapporto, è dettata in primo luogo pro-
prio dalla trasformazione dei rapporti sociali sotto la spinta della nuo-
va civiltà affaristico-imprenditoriale. Infatti Dante, appartenendo
per formazione a una società ancora non pregiudicata dai nuovi valo-
ri borghesi, e avendo anzi istintivamente rafforzato i propri legami cul-
turali con una fase perfino precedente dello sviluppo storico, idealiz-
zandone i valori, era nella specialissima condizione di vedere i linea-
menti albali di un mondo colonizzato dalla logica del guadagno senza
averne ancora interiorizzato i valori e la inevitabilità. Dante riesce
dunque a vedere tragicamente, per così dire nella sua interezza, l’or-
rore; quell’orrore del quale è parte non secondaria la facoltà di assue-
fare e omologare. Dante vede infine un mondo già simile per molti
aspetti al nostro, e dal quale comunque il nostro sarebbe derivato, con
gli occhi di una diversa e contraria epoca storica. Ne deriva, come sap-
piamo, che la Commedia è forse l’opera più duramente distruttiva del-
la letteratura occidentale: l’intera società contemporanea del poeta è
rifiutata e scagliata dentro la nera voragine dell’Inferno.
Contro la secolarizzazione del mondo, Francesco d’Assisi è pro-
mosso, nell’XI del Paradiso, al titolo di «sole» (v. 50) e anche in altro
modo paragonato a Cristo (v. 72): lo stesso santo d’Assisi, d’altra par-
te, si proclamava alter Christus, cioè nuovo Cristo. E puntando per in-
tero l’esaltazione di Francesco sulla scelta radicale della povertà,
Dante mostrava di essere ben addentro alla polemica intercorsa fra
“spirituali” e “conventuali” all’interno dell’ordine francescano, e di
respingere sdegnosamente la preferenza di Bonifacio VIII per i secon-
di (e due anni dopo la morte di Dante, Giovanni XXII condannerà
esplicitamente gli spirituali con una proposizione che rifiuta fra l’al-
tro la tesi della povertà degli apostoli). L’«ignota ricchezza» (Par. XI,
v. 82) esaltata nella povertà costituisce un consapevole rovesciamen-
to del comune sentire.
Nel primo canto dell’Inferno questi temi si presentano già con for-
za, occupando subito il centro del quadro. L’ostacolo decisivo che im-
Il momento dei lupi 107

pedisce al pellegrino di proseguire il cammino verso il colle e la salvez-


za è infatti costituito dalla lupa, le notizie sulla quale fornite dal te-
sto impongono di leggervi una personificazione perturbante della
logica economica scesa a dominare il mondo («mai non empie la
bramosa voglia, / e dopo ’l pasto ha più fame che pria»: vv. 98-99).
Meno evidente ma egualmente carico di significato è il rimando del-
la seconda similitudine del canto alla figura sociale dell’arricchito:

E qual è quei che volontieri acquista,


e giugne ’l tempo che perder lo face,
57 che ’n tutti suoi pensier piange e s’attrista;
tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi ’ncontro, a poco a poco
60 mi ripigneva là dove ’l sol tace.

Non convince la troppo sottile individuazione proposta da Con-


tini della figura di un giocatore in colui che acquista e poi perde, se
non altro per il vincolo del parallelismo stabilito fra la prima e la se-
conda parte della similitudine: la lupa riduce Dante non certo nella
condizione di un giocatore sottoposto alle alterne leggi della fortuna
nell’azzardo, ma in quella, tipica della società comunale, dell’intrapren-
dente affarista cui le cose prendano ad andar male.
Il verso nel quale la similitudine svela il proprio valore di durissima
critica sociale è senz’altro il terzo: felice di guadagnare e costretto poi a per-
dere le ricchezze accumulate, questo esemplare tipo sociale non sa più pen-
sare ad altro; tutti i suoi pensieri sono concentrati sulla perdita. Ecco, in
questa potente similitudine Dante sperimenta per la prima volta la tecni-
ca sulla quale fonderà il meccanismo di rappresentazione del peccato: la ma-
niacalizzazione di un aspetto della vita, cioè la perdita appunto di quella
integrale identità umana il cui recupero è, non a caso, lo scopo del viaggio.
Così Francesca non vedrà che l’amore, e Farinata non vedrà che la politi-
ca con le sue contese. Il tipo introdotto nella similitudine dei vv. 55 sgg.
è in qualche modo già un dannato, il primo dell’Inferno; e per la forza di
quel rimando «’n tutti i suoi pensier» è anzi il prototipo di tutti i danna-
ti, chiusi in una sineddoche della vita e colpevolmente caduti a scambia-
re la parte per il tutto. Non senza una profonda radice nell’ideologia del-
l’autore e negli scopi del poema, questo prototipo insiste sul tema capita-
le della ricchezza, facendone così il crogiuolo di tutte le altre perversioni
sociali.
Fra gli innumerevoli luoghi del poema nei quali Dante avrà mo-
do di riprendere la critica, qui implicita, alla civiltà del guadagno, uno
108 Dante e la nascita dell’allegoria

ha un rilievo particolare rispetto all’assetto complessivo del canto proe-


miale:

La tua città, che di colui è pianta


che pria volse le spalle al suo fattore
129 e di cui è la ’nvidia tanto pianta,
produce e spande il maladetto fiore
c’ha disvïate le pecore e li agni,
132 però che fatto ha lupo del pastore
(Par. IX, 127-132).

Il maledetto fiorino era, nel mercato internazionale dei cambi, la


principale valuta di riferimento (come oggi il dollaro o l’euro), anche
in forza della scelta di coniarlo in oro zecchino; e la fortuna economi-
ca e mercantile di Firenze dipendeva anche dalla centralità della
sua moneta. Tanto più forte risulta dunque l’invettiva dantesca, inten-
zionata a cogliere, come dietro la povertà francescana un’autentica ric-
chezza, la rovina disposta dal successo apparente della ricchezza.
Fra denaro e Lucifero non c’è differenza: la città seminata da Satana
è la stessa che trionfa nei mercati con la sua moneta d’oro; e anzi da
quel trionfo deriva che la città sia figlia di Lucifero. La stessa invidia
che ha spinto Lucifero alla ribellione, provocando lo sterminato dolo-
re successivo, è invocata nel primo dell’Inferno quale causa della libe-
razione della lupa (vv. 110-111); e nel nome dell’invidia eguale è l’evo-
cazione di Lucifero nei due luoghi. Ma il legame fra le due terzine del
Paradiso e il primo dell’Inferno è più radicale e sistematico. Infatti col-
pa peculiare del maledetto fiorino è di “disviare” pecore e agnelli, cioè
l’umanità dei fedeli; e non serve certo rievocare la fitta trama di ri-
mandi alla via e al viaggio, e alla vita quale via e quale viaggio, per re-
gistrare la rilevanza di questo verbo “disviare”. È la logica del dana-
ro che più di ogni altra cosa ha provocato lo smarrimento catastrofi-
co denunciato già nell’esordio del poema. Ed è ancora il maledetto fio-
rino ad aver trasformato il pastore in lupo. Come nel proemio dell’In-
ferno, quando la via è smarrita allora è il momento dei lupi.
Nota

Le proposte di lettura contenute in questo studio sono il risultato di


una lunga ma discontinua frequentazione con l’opera dantesca e con
la bibliografia connessa. Non è dunque possibile ricostruire e segna-
lare per intero i molti debiti contratti verso altri studiosi. Tuttavia, un
debito costantemente consapevole, e ben al di là di quanto i richiami
evidenzino, va dichiarato innanzitutto nei confronti di E. Auerbach
(Studi su Dante, Feltrinelli, Milano 1984), e quindi di Ch. Singleton
(La poesia della Divina Commedia, Il Mulino, Bologna 1978) e di J.
Lotman (Testo e contesto. Semiotica dell’arte e della cultura, Laterza,
Roma-Bari 1980). Per la questione teorica dell’allegoria andranno ri-
cordati d’altra parte soprattutto W. Benjamin (Angelus novus. Saggi e
frammenti, Einaudi, Torino 1982 e Parigi, capitale del XIX secolo, Ei-
naudi, Torino 1986), e poi P. de Man (Cecità e visione. Linguaggio let-
terario e critica contemporanea, Liguori, Napoli 1975 e Allegorie della
lettura, Einaudi, Torino 1997), H. R. Jauss (Estetica della ricezione,
Guida, Napoli 1988), R. W. B. Lewis (L’allegoria d’amore. Saggi
sulla tradizione medievale, Einaudi, Torino 1969), G. Lukács (Esteti-
ca, Einaudi, Torino 1970). Su specifiche questioni è necessario poi se-
gnalare il debito verso gli studi di B. Nardi (Dante e la cultura medie-
vale, Laterza, Roma-Bari 1949) e verso una delle opere recenti su Dan-
te di più utile lettura (E. Pasquini, Dante e le figure del vero. La fab-
brica della “Commedia”, Bruno Mondadori, Milano 2001). In partico-
lare sulla questione della donna gentile, si è tenuto conto di M.
Corti, La felicità mentale. Nuove prospettive per Cavalcanti e Dante, Ei-
naudi, Torino 1983. Stimolante G. Gorni (Dante nella selva. Il primo
canto della “Commedia”, Pratiche, Parma 1995). I due commenti ci-
110 Dante e la nascita dell’allegoria

tati nel saggio sono quelli fortunati di Bosco-Reggio (Le Monnier, Fi-
renze 1988) e di N. Sapegno (La Nuova Italia, Firenze, 1985). Dove-
roso segnalare, fra i molti altri commenti consultati, quelli di A. M.
Chiavacci Leonardi (Mondadori, Milano 1991) e di E. Malato (Sag-
gio di una nuova edizione commentata delle opere di Dante. Il canto I
dell’«Inferno», Salerno, Roma 2007).
Una parte del § 18 è già stata pubblicata su «Allegoria» quale
commento del capitolo XXXIV della Vita nuova (VI, 16, 1994, pp.
88-98) e poi raccolta in Parafrasi e commento, Palumbo, Palermo
2003, pp. 53-64; alcuni passaggi del § 22 riprendono qualche paragra-
fo di Perché leggere Dante (oggi)?, uscito pure su «Allegoria» (XI, 31,
1999, pp. 43-50) e poi raccolto in La strana pietà. Schede sulla lettera-
tura e la scuola, Palumbo, Palermo 1999, pp. 15-24.
Senza le discussioni sullo statuto del simbolo e dell’allegoria
svolte durante le riunioni redazionali della rivista «Allegoria» e sen-
za gli studi teorici del mio maestro Romano Luperini su questi temi
e sulla questione dell’attribuzione del significato questo saggio non sa-
rebbe stato scritto.
Un ringraziamento particolare va poi agli amici che hanno letto
e discusso questo saggio prima della pubblicazione – Daniela Brogi,
Tiziana de Rogatis, Raffaele Donnarumma, Natascia Tonelli, Luigi
Trenti –, anche se la gratitudine per l’incoraggiamento che mi hanno
trasmesso non può che andare unita al rammarico di non aver saputo
meglio far tesoro dei loro consigli preziosi.
Un ringraziamento infine agli amici editori, che accolgono anco-
ra una volta un mio libro per piccolo mercato, a condividere una co-
mune passione per i valori della cultura e della ricerca.
Finito di stampare dalla Luxograph s.r.l.
per conto della G.B. Palumbo & C. Editore S.p.A.
Palermo, dicembre 2008

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