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Destra
e
Sinistra
La natura inservibile
di due categorie tradizionali
P re m e ssa
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ca - di connotare gli schieramenti di Destra e di Sinistra in
base a valori - di volta in volta storici o metastorici, oppure di
origine storica e di posteriore validità metastorica, o meglio
infrastorica - , valori di cui si misurano poi gli “spostamenti”
nell’applicazione pratico-politica, con conseguenti giudizi di
“vero” e di “falso” - vera e falsa destra, vera e falsa sinistra. I
parametri assiologici ed antropologici non si escludono, e sono
anzi segretamente complementari: ai “valori” - ad esempio di
eguaglianza e diseguaglianza - corrispondono “tipi umani” che
se ne fanno titolari e portatori.
In questo breve saggio intendiamo recisamente rifiutare i
due approcci sopra indicati, del resto convergenti e complemen
tari, per un approccio al problema radicalmente diverso, ed anzi
opposto. Se non si cambia infatti il punto di partenza, è inutile
pensare di poter giungere a conclusioni alternative. Il punto di
partenza che proponiamo sarà quello che definiremo il fatto
della globalizzazione, che si tratta di valutare bene, e soprat
tutto di chiamare con il suo vero nome, o con un nome meno
apologetico e più corrispondente alla sua natura. Americaniz-
zazione superimperialistica o nuovo imperialismo multipola
re, il fatto della globalizzazione non si lascia “interrogare” at
traverso le categorie di Destra e di Sinistra, ma richiede altre
categorie interpretative.
Questa è la tesi di fondo di questo saggio, già pienamente
avanzata nel primo paragrafo. A questo punto, occorrerà chia
rire che il fatto della globalizzazione eredita un precedente asse
testamentario politico-culturale, fra cui la dicotomia fra De
stra e Sinistra, che però non è affatto “mondiale”, ma limitata
ad alcune zone - sia pure importanti - del pianeta, in partico
lare l’Europa, l’America Latina e parti limitate dell’Africa e
dell’Asia. Questo secondo punto è essenziale, perché i difensori
della dicotomia, in modo un po’ provinciale, tendono a presen
tare come “mondiale” un fenomeno politico che mondiale non
è. In terzo luogo, e di conseguenza, la dicotomia fra Destra e
Sinistra può essere più sobriamente ricondotta ad un’organiz
zazione simbolica dello spazio politico - e parzialmente antro
pologico, lo ammettiamo volentieri -, che oggi è sostanzialmente
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gestita dall’alto, anche se questo utilizzo non è completamente
arbitrario e “virtuale”, ma si basa su consolidate eredità stori
che e culturali, ridotte però a “risorse da sfruttare”. In quarto
luogo, e per finire con questo primo ordine di problemi di in
quadramento generale, si sosterrà la tesi della “preferenza di
sinistra” nella cultura della globalizzazione, in base alle due
categorie dell’eguagliamento e della flessibilità. A questo pun
to, anche il lettore più distratto avrà capito che non solo noi
non sosteniamo l’inesistenza della dicotomia fra Sinistra e
Destra, ma avanziamo una tesi molto più folle e scandalosa,
quella della profonda affinità fra cultura di sinistra e “fatto
della globalizzazione”. I primi quattro paragrafi servono dun
que ad esplicitare da subito le nostre tesi di fondo.
A questo punto, possiamo passare in quattro paragrafi suc
cessivi ad esaminare quattro posizioni teoriche presenti nel
dibattito italiano.
La prima è quella di Norberto Bobbio, giustamente conside
rato un’autorità filosofica sul problema della dicotomia fra
Destra e Sinistra.
La seconda è quella di Marco Revelli, teorico abbastanza
noto negli ambienti culturali della sinistra radicale italiana,
un pensatore che ha molto riflettuto su questo problema, ed ha
coniato il termine di “due destre” - a nostro avviso esattamente
corrispondente a quello di “due sinistre”.
La terza posizione è quella di chi si riconosce invece esplici
tamente in un profilo di Destra, che tenta in qualche modo di
riempire di contenuti - da Marcello Veneziani a Gianfranco
Fini.
La quarta posizione, infine, è quella della cosiddetta “nuova
destra” - Marco Tarchi in particolare -, da distinguere accura
tamente dalla terza, perché la sua logica di sviluppo porta ad
un superamento sostanziale della dicotomia.
Queste posizioni sono per noi sullo stesso piano, nel senso
che le respingiamo tutte e quattro. Non ne diamo però una
valutazione omogenea di “indifferenza”, ma ne proponiamo anzi
una valutazione fortemente differenziata, nel senso che ci in
teressa la loro logica di sviluppo, non la loro “immagine irrigi
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dita” ed eternizzata. È un peccato doverci limitare a queste
quattro posizioni - ve ne sarebbero anche altre molto interes
santi - , ma crediamo di guadagnare in chiarezza quello che
inevitabilmente perdiamo in completezza.
A partire dal nono paragrafo possiamo così tirare i fili del
nostro discorso, e tornare ai temi proposti all’inizio, alla luce
però delle considerazioni fatte nell’attraversamento delle quat
tro posizioni da cui intendiamo demarcarci. Speriamo così di
poter mostrare - non ci illudiamo certo di poter “dimostrare” -
che con l’abbandono di questa sterile dicotomia c’è poco da per
dere, e c’è invece molto da guadagnare. In ogni caso, siamo
consapevoli che il discorso che abbiamo proposto è solo “intro
duttivo” ad un tema che resta ancora sostanzialmente da chia
rire.
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1. L a g lo b a liz z a z io n e c a p ita lis tic a .
I l fa tto , il nom e e d il g iu d iz io e tic o -p o litic o
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In compenso, si fa un gran parlare di “conflitti etnici e religio
si”, connotati come il Male metafisico del prossimo futuro. Mai
come in questo caso realtà e rappresentazione ideologica si
mescolano e si intrecciano strettamente. Bisogna quindi “di
stricare” questo nodo. Da qui bisogna partire, se vogliamo di
scutere in modo sensato di Destra e di Sinistra.
Se il padrone della bisca è chiamato a distribuire le carte, si
può dire che abbia già vinto prima ancora di cominciare a gio
care. A sé stesso il padrone della bisca distribuisce le carte del
la “globalizzazione” - mercantile, finanziaria, produttiva, tec
nologica, culturale, dei consumi, eccetera -, e dalla parola stessa
emana un’aura di ineluttabile neutralità storica, un esito feli
ce di un progresso generalizzato, ed in ogni caso un vincolo
affidato a forze economiche irresistibili. Agli altri giocatori in
vece il padrone della bisca distribuisce carte di tipo “etnico” e
“religioso”, “ideologico” e “particolaristico”, che esprimono im
mediatamente una losca immagine di fanatismo e di conser
vatorismo pericoloso per la pace e per i diritti umani dei citta
dini-consumatori. La partita è truccata. Semplicemente, non
bisogna accettare di giocare con queste carte “segnate”.
C’è naturalmente chi capisce questo, e cerca di opporsi. Ma
l’opposizione è inutile, se viene portata avanti senza chiarezza
culturale e strategica, con il continuo ricatto di non essere suf
ficientemente politicai correct, cioè di non conformarsi ai codi
ci concettuali e linguistici dell’opposizione “consentita” dalla
comunità universitaria e giornalistica accreditata presso il
padrone della bisca. C’è ad esempio chi connota la globalizza
zione in termini di “occidentalizzazione”, ma costui si sbaglia,
perché la globalizzazione non è una semplice “imposizione” di
modelli occidentali di cultura e di consumo al resto del piane
ta, ma è in un certo senso una vera e propria nuova situazione
culturale, in cui l’americanismo incorpora anche modelli sim
bolici asiatici ed africani del tutto assenti nella fase “borghese”
della occidentalizzazione colonialistica vera e propria. C’è chi
saluta la globalizzazione come l’anticamera finalmente com
piuta della prossima rivoluzione proletaria marxiana pura,
tanto attesa e finalmente all’orizzonte, con un nuovo proleta-
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nato informatico, fluido, flessibile, deterritorializzato, migrante
e multicolore, in una “realtà virtuale” in cui Benetton e Bordi-
ga si incontrano dopo essersi tanto a lungo cercati. E non è un
caso che la globalizzazione affascini congiuntamente sia i fau
tori “di destra” della modernizzazione consumistica rivolta alle
famiglie, alle casalinghe, agli amici dei giochi a premio, del
“gratta e vinci” e delle interminabili telenovelas, sia i fautori
“di sinistra” di un generai intellect il quale, congedatosi dal
noioso e rozzo lavoratore collettivo associato, si congiunge gio
iosamente con le nuove tecnologie informatiche del “tempo re
ale”, della velocità, della rapida obsolescenza, del fragore della
musica da discoteca e soprattutto degli “effetti speciali”, questi
giustizieri della narratività letteraria e cinematografica sia
borghese che proletaria. Si compie qui il matrimonio fra l’este
tica delle neoavanguardie e l’estetica dei pubblicitari, con la
(scontatissima) vittoria finale di questi ultimi.
Proviamo a fare una “rettifica dei nomi”, come dicevano i
vecchi filosofi cinesi dei tempi dei regni combattenti. Al posto
del binomio truccato di globalizzazione e di resistenze etniche
e religiose proviamo a parlare di nuova mondializzazione im
perialistica, indicando con questo termine la sostanziale per
manenza di un carattere strutturale del modo di produzione
capitalistico, l’imperialismo. Certo, si tratta di un imperiali
smo diverso da quello del tempo di Lenin, ma occorre chiedersi
in che senso propriamente sia “diverso”. Secondo la plausibile
ipotesi di Gianfranco La Grassa, che assumiamo qui come ipo
tesi di lavoro, siamo di fronte ad una fase sostanzialmente ri
corsiva della storia del capitalismo, in cui la ricorsività consi
ste soprattutto in un nuovo policentrismo, che ricorda per ana
logia gli anni precedenti alla prima guerra mondiale. Ricorsi
vità e policentrismo sono dunque due categorie da esaminare
seriamente, prima di dare per scontato che vi sia una pura e
semplice nuova “globalizzazione” virtuosa contrapposta a pe
ricolose resistenze etniche e religiose. Come avviene per tutte
le ipotesi scientifiche, esse sono in via di principio fallibili, e
dunque potrebbero essere anche errate. Ma la cultura della
“sinistra” tradizionale resiste alla pura e semplice presa in con
ti
siderazione di questa ipotesi, perché decenni di progressismo e
di cattivo marxismo economicistico l’hanno abituata ad adot
tare una visione insieme stadiale e teleologica della storia del
capitalismo, “stadiale” in quanto precedente per fasi - capita
lismo concorrenziale, monopolistico, e via dicendo -, e “teleolo
gica” in quanto predeterminata ad uno sbocco verso un esito
finale - e basta sostituire la globalizzazione al comuniSmo
mondiale per salvare questa teleologia stadiale provvidenzia
listica. È bene riflettere attentamente su questo punto. Indi
pendentemente dalle versioni estremistiche e sgradevoli del
l’ideologia della globalizzazione - come quella affrettatamente
avanzata da Francis Fukuyama sulla “fine della storia” -, ver
sioni respinte dai palati fini della cultura universitaria “globa
lizzata”, vi è una tendenza messianica sedimentata da decenni
di cultura di sinistra che può rovesciarsi facilmente in messia-
nesimo capitalistico, con le varianti new age adatte per tutti
gli orfani della precedente cultura popolare. La cultura di sini
stra ha anche lavorato bene nell’immunizzare l’organismo cul
turale progressista dalle tentazioni “etniche” e “religiose”, che
sono appunto il nemico dichiarato della globalizzazione stessa.
E su questo purtroppo dovremo tornare più avanti, perché die
tro la parola “etnico” ci sta talvolta la vecchia “questione na
zionale” - dalla “sinistra” sempre censurata ed evitata in
un’oscillazione permanente fra internazionalismo e cosmopo
litismo - e dietro la parola “religioso” ci sta quasi sempre la
questione “culturale” in senso ampio. Una “sinistra” che legit
tima preventivamente la globalizzazione, ed illegittima le co
siddette “resistenze” etniche e religiose è un punto di vista che
legittima l’onnipotenza automatica dell’economia ed illegitti
ma le resistenze nazionali e culturali. È necessario meditare
molto su questo fatto.
Se la globalizzazione è in realtà una mondializzazione im
perialistica di tipo ricorsivo e policentrico, occorre chiedersi
quali siano in prospettiva questi poli “policentrici”. In prima
istanza, essi sembrano geopoliticamente essere soprattutto tre,
gli Stati Uniti d’America, un’Europa a guida tedesca ed un
Giappone egemone in un’Asia in pieno sviluppo - al di là del
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crollo borsistico del 1997, forse congiunturale e forse no. Ma
qui c’è però una vera novità storica non ricorsiva, che è il domi
nio monopolistico - ed apparentemente superimperialistico -
degli USA nei due cruciali settori degli armamenti e dei mo
delli culturali. Nel potere militare e nel potere culturale gli
USA non sono policentrici, ma assoluti monopolisti. Tornere
mo su questo più avanti. In ogni caso, se questo è il quadro da
cui partire, è evidente che qualunque giudizio etico-politico da
darne presuppone la conoscenza di questo quadro. Ma la “sini
stra” lo conosce? Ci permettiamo di dubitarne.
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HOHt.cnitori della permanenza della polarità fra Destra e Sini
stra l'anno in generale riferimento a questa realtà storica diffi
cilmente negabile: se è vero - come sembra vero - che si è pas
sati da una società di ordini (politici e religiosi) ad una società
di classi (economiche), e si è passati dunque da una legittima
zione “verticale” ad una legittimazione “orizzontale” del pote
re, come negare allora l’evidenza dell’organizzazione simboli
ca dello spazio politico in Destra e Sinistra? Certo, una volta
ammessa questa polarità, cominciano i problemi di interpre
tazione e di classificazione ulteriore. In primo luogo, si pone il
problema del cosiddetto Centro - e delle sue mezze ali -, se
esso abbia uno statuto autonomo o meno rispetto alla polarità
fra Destra e Sinistra oppure si tratti di un concetto residuale e
derivato. In secondo luogo, si pone ovviamente il problema di
quali siano esattamente i parametri economici, sociali e cultu
rali da utilizzare per “concretizzare” la dicotomia: i ricchi a
destra ed i poveri a sinistra?; i conservatori a destra ed i pro
gressisti a sinistra?; i religiosi a destra ed i laici a sinistra?; la
libertà a sinistra e l’autorità a destra - o viceversa, la libertà a
destra e l’eguaglianza a sinistra? Non moltiplichiamo qui i
parametri non perché non sia interessante la loro analisi - che
è anzi molto interessante e rivelatrice -, ma soltanto per non
distogliere l’attenzione del lettore della nostra linea principale
d’argomentazione. La discussione sui parametri, declinati tal
volta in forma di “valori” e connotata pertanto come “assiologi-
ca”, distoglie infatti dal punto di partenza che abbiamo voluto
fissare con molta forza ed enfasi nel primo paragrafo, cioè il
fatto della globalizzazione. È questo il “padre di tutti i para
metri”, la “madre di tutte le battaglie parametriche”, il criterio
tolemaico, la bussola copernicana ed il sistema di riferimento
einsteiniano.
Non è questo tuttavia il punto che vorremmo segnalare in
questo paragrafo di orientamento generale. Si tratta invece
della questione della assoluta non universalità della polarità
fra Destra e Sinistra, e del fatto che, se è avvenuta una indi-,
scutibile mondializzazione dello spazio economico, non è affat
to avvenuta una corrispondente mondializzazione dello spazio
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politico, per cui la polarità fra Destra e Sinistra connota sol
tanto alcuni sistemi politici mondiali, mentre altri - probabil
mente la maggioranza - non ne tengono di fatto alcun conto. È
questa una situazione generalmente ammessa, ma è impor
tante riflettere sulle ragioni di questa curiosa non-universali-
tà della polarità. In proposito, non è corretto far risalire la non
universalità della polarità fra Destra e Sinistra al fatto che
essa ha avuto una genesi storica e geografica europea, sette
centesca e francese. Questo non è un buon argomento per ne
gare l’universalità di un concetto: la genesi è sempre particola
re, la validità - quando c’è, ovviamente - è sempre universale
(e questo riguarda Spinoza ed Hegel, Newton ed Einstein, Be
ethoven e Picasso, eccetera). Dunque, l’ovvia genesi particola
re - francese e settecentesca - della polarità fra Destra e Sini
stra è perfettamente compatibile in via di principio con una
sua universalizzazione, cioè con la sua “globalizzazione”.
Ma così non è, ed è interessante capire perché. Partiamo dal
fatto, ben noto, che la polarità fra Destra e Sinistra non conno
ta in generale né i punti alti della globalizzazione capitalistica
- gli USA, in primo luogo -, né i punti bassi di esso - mondo
arabo ed islamico, ma anche paesi asiatici -, ma connota so
prattutto dei punti medi di esso - come l’Europa continentale.
E un fatto che deve essere interpretato, ma è impossibile farlo,
se si comincia a classificare arbitrariamente in termini di dico
tomia obbligata fra Destra e Sinistra qualunque regime mon
diale, inserendo categorie tuttofare come “populismo”, “fonda
mentalismo”, “comunalismo”, eccetera - per cui ogni forma di
autoritarismo confuciano, di militarismo africano o di populi
smo latino-americano è sempre alternativamente o di Destra o
di Sinistra. Per interpretarlo adeguatamente la data di par
tenza “giusta”, a mio avviso, non è tanto il 1789, quanto il 1848,
la “primavera dei popoli” europea che non a caso lasciò fuori i
punti alti del capitalismo (l’Inghilterra) ed i punti bassi di esso
(Russia, Turchia, eccetera). In ogni caso, è bene avanzare un’ipo
tesi più forte per spiegare la mancata universalizzazione mon
diale di una dicotomia politica europeo-occidentale.
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La chiave sta forse nel rapporto fra religione e politica. Il
cristianesimo medioevale europeo non era certo una “religione
privata” del singolo credente, ma era un’organizzazione sim
bolica globale della società, cui dava insieme legittimazione
globale e correzione parziale, in termini di equilibrio fra gli
ordini sociali sacralizzati. Esso era dunque contemporaneamen
te “reazionario” - perché reagiva a sollecitazioni ereticali estre
me - e “rivoluzionario” - perché legittimava ogni forma di
contestazione sociale dandole un’immediata immagine ideolo
gica. Con il crollo del cristianesimo medioevale europeo si creò
un’alleanza storica fra classi borghesi e classi popolari che è la
matrice ideologica originaria della “sinistra”, nel senso che le
ha dato la maggior parte dei codici simbolici di riferimento. In
questo senso non c’è nulla di più inesatto nel dire che la bor
ghesia era di “destra” ed il proletariato di “sinistra” - anche se
fu congiunturalmente vero in alcuni paesi per un periodo sto
rico relativamente breve. Non è neppure esatto, anche se su
questo punto andiamo contro corrente, affermare frettolosa
mente che il comuniSmo storico novecentesco come fenomeno
mondiale - e non solo come fenomeno europeo-occidentale e
latino-americano - sia stato un fenomeno di “sinistra” (o di
“estrema sinistra”). Personaggi come Mao Tsetung, Poi Pot,
Kim II Sung, e lo stesso Stalin non hanno quasi nessuna delle
caratteristiche che riscontriamo nella “sinistra” occidentale di
origine democratica, repubblicana, socialdemocratica o sem
plicemente laica e radicale. E più realistico “avvicinare” il com
plesso fenomeno del comuniSmo storico novecentesco mondia
le in termini di formazione storica che “adottò” un linguaggio
politico effettivamente di “sinistra” utilizzandolo però ideolo
gicamente secondo logiche di sviluppo relativamente autono
me - e si pensi alla Cina di oggi, uno dei pochi paesi che tutto
ra si richiamano al “socialismo reale”, e che nello stesso tempo
è uno dei paesi meno di “sinistra” del mondo.
La crisi frontale del precedente rapporto organico fra reli
gione e politica ebbe come conseguenza il fatto che la politica
diventò essa stessa una religione, anzi l’unica religione laica
rimasta. Qui sta a nostro avviso il segreto, non solo dottrinario
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ma soprattutto antropologico, dell’esasperato politicocentrismo
ossessivo tipico della tradizione di “sinistra”: si trattò di un
“vuoto” religioso da riempire con un “pieno” di politica. La po
litica sostituì la religione, coprendone però tutto lo spettro pre
cedente, cioè tu tta la gamma delle posizioni “reazionarie” e “ri
voluzionarie”. La dicotomia fra Sinistra e Destra non è pertan
to in prima istanza una dicotomia spiegabile in termini di va
lori di orientamento, quanto una dicotomia fra una sottomis
sione simbolica integrale dell’intero spazio religioso allo spa
zio politico - caricato variamente di aspettative messianiche, e
dunque destinato ad una fisiologica dialettica di illusione e di
delusione, da Pietro Ingrao a Nanni Moretti, per intenderci -,
ed un rifiuto di questa sottomissione simbolica integrale, in
una mescolanza di privatismo familiare e di prosecuzione del-
l’obbligo religioso. Non intendiamo certo dire che questo sche
ma “spiega tutto” - ad esempio, lascia fuori il fatto innegabile
che ci furono fenomeni politici “totalitari”, e dunque politico
centrici, anche a destra, come il nazionalsocialismo tedesco,
che però ebbero non a caso una matrice anche di “sinistra”. Ma
insistiamo sul fatto che spiega molto, e soprattutto spiega l’as
senza dell’organizzazione dello spazio politico fra Destra e Si
nistra in contesti storici, culturali e sociali in cui non ci fu una
preventiva crisi frontale del rapporto fra religione e politica,
ed in cui la politica continuò ad essere più o meno direttamen
te fondata sulla religione - come è il caso sicuramente dell’Islam
e parzialmente del buddismo. Marginalmente, questa ipotesi
spiega anche il caso “anglosassone”, ed americano in particola
re, in cui il precocissimo uso dell’ideologia religiosa per legitti
mare comportamenti politici protoborghesi - calvinismo, puri
tani, Cromwell, e poi protestantesimo americano settecente
sco - comportò una successiva fusione di religione e di politica,
impedendo così che la politica diventasse una religione sosti
tutiva annullando e marginalizzando la religione vera e pro
pria - e si presti attenzione alle forme semireligiose, puritana
mente ipocrite, fondamentalistiche, filosionistiche e messiani-
co-capitalistiche che la legittimazione politica assume negli
Stati Uniti d’America.
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Se quanto abbiamo ipotizzato è anche solo in parte vero -
un 50% ci basterebbe! -, si capisce allora il perché del fatto
della mancata universalizzazione e generalizzazione mondia
le della dicotomia fra Sinistra e Destra, una dicotomia assente
nelle società ultracapitalistiche ed in quelle precapitalistiche.
Solo in una (relativamente piccola) parte del mondo si è avuto
il fenomeno del divorzio frontale fra legittimazione politica e
legittimazione religiosa, e la “politica” è stata investita - e so
vraccaricata fino all’esplosione - da un eccesso di aspettative
integralmente (anche se imperfettamente) “laicizzate”. Non
neghiamo la storicità e la pertinenza di questo scenario - an
che perché insegniamo storia da trent’anni, e saremmo vera
mente degli analfabeti se lo negassimo. Neghiamo però che
questo scenario sia universale ed universalizzabile, e credia
mo dunque che si creerebbe una insopportabile asimmetrìa fra
il riconoscimento di una “globalizzazione” (comunque definita)
e la pretesa di una sovrapposizione parallela e duplicata di
uno scenario estremamente particolare in senso storico e geo
grafico, ed in più oggi sostanzialmente trascorso.
3. L ’o lig a r c h ia p le b is c ita r ia e l ’o r g a n iz z a z io n e
s im b o lic a d a ll’a lto d e llo s p a z io p o litic o
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eccitazione e di depressione, di prometeismo delle aspettative
e di disincanto dei risultati. Questi due punti devono essere
tenuti sempre presenti per comprendere correttamente la pro
secuzione del nostro ragionamento.
Qualunque sia stata la genesi storica della “sinistra”, ed
anche nel caso che la nostra ipotesi non sia corretta, lo spazio
politico deve comunque essere organizzato, in un contesto di
dominio reale dell’economia e di privatizzazione psicologica
della religione, dal momento che la politica resta l’unica forma
di legittimazione post-religiosa possibile nelle società moder
ne. Questa organizzazione simbolica dello spazio politico uti
lizza ovviamente delle rendite culturali differenziate già esi
stenti e consolidate, dal fondamentalismo islamico sunnita in
Arabia Saudita alla dicotomia fra destra e sinistra nell’Europa
Occidentale. La globalizzazione non è per nulla “ideologica”,
ma utilizza materiali culturali preesistenti purché siano fun
zionali al proprio allargamento. Bisogna allora chiedersi se
questa organizzazione simbolica dello spazio politico sia fatta
fondamentalmente dall’alto o dal basso. Rispondiamo recisa
mente: dall’alto.
Per comprendere questa affermazione proponiamo di con
notare i sistemi politici attualmente vigenti nella parte domi
nante della “globalizzazione” in termini di oligarchie plebisci
tarie. Il termine può sembrare un po’ strano ed inabituale, ma
unicamente perché siamo maggiormente abituati alla term i
nologia di origine giusnaturalistico-contrattualistica e meno
alla terminologia classica di origine platonico-aristotelica. In
realtà, la terminologia filosofico-politica di origine giusnatura-
listico-contrattualistica è effettivamente più adatta di quella
antica per connotare i sistemi politici propriamente borghesi,
ma oggi viviamo in una forma di capitalismo di tipo nettamen
te post-borghese, e questo paradossalmente comporta una ri
valutazione di modelli precedenti di pensiero, a questo punto
equivalenti a quelli posteriori perché entrambi comunque non
specifici ed analogici - e qui sta anche la radice, a nostro avvi
so, del recentissimo “ritorno” esplicito a Platone e/o a Aristote
le in campo morale, eccetera. Nel periodo classico della filoso-
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fiu politica borghese, per opera soprattutto dell’empirismo in
glese - che era sostanzialmente un pensiero politico ed econo
mico travestito da riflessione gnoseologica ed epistemologica -
, furono smantellate le venerande categorie metafisiche di “so
stanza” e di “causa”: di sostanza perché si voleva negare resi
stenza di una struttura sociale fondamentale sottostante i rap
porti mercantili ed il valore di scambio - che Locke corretta-
mente situa nel “lavoro astratto” -, ed in questo modo ricostru
ire la comprensibilità del legame sociale complessivo in term i
ni di rapporti capitalistici, e di nient’altro; di causa perché si
voleva coerentemente negare la fondazione del legame sociale
in termini di causazione materiale da un contratto politico pre
cedente, e lo si voleva far risultare a posteriori come risultato
inconsapevole di armonie economiche radicate in istinti della
natura umana personale. Il pensiero politico borghese nasce
così in due tappe. Prima, vi è il superamento di una presunta
“sostanzialità” signorile sottostante, con la conseguente auto-
nomizzazione sovrana del valore di scambio, e poi vi è la suc
cessiva liquidazione indolore dello stesso contratto politico in
nome della mano invisibile e della insocievole socievolezza de
gli istinti acquisitivi “civilizzati” dell’uomo. Questa eredità bor
ghese si è naturalmente conservata nell’attuale capitalismo
post-borghese, ma lo scenario attuale è completamente diverso
ed inedito. Riteniamo dunque legittimo parlare di oligarchia
plebiscitaria. Chi governa? Rispondiamo: una oligarchia, pre
valentemente finanziaria. Con quale legittimazione politica
governa questa oligarchia? Rispondiamo: mediante meccani
smi elettorali manipolati dall’alto - sondaggi di opinione, scel
ta dei candidati, finanziamento delle campagne elettorali, ec
cetera - , in una logica sempre meno “rappresentativa” e sem
pre più personalizzata su candidati forniti di un carisma arti
ficialmente mediatico, e dunque sempre più plebiscitaria.
Consideriamo un errore ed un’inutile concessione parlare
di liberaldemocrazia, come se i sistemi politici attuali fossero
liberaldemocratici - in questo senso, la mistificazione econo
mica del termine “globalizzazione” corrisponde esattamente alla
mistificazione politica del termine “liberaldemocrazia”. Potreb
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be sembrare a prima vista che la nostra posizione sia parados
sale, ingenerosa ed estremistica. Ma non è così, per due ordini
di ragioni che ora ricorderemo.
Il liberalismo classico - o libertà negativa, o libertà da - può
sembrare inverato nei moderni sistemi politici e costituziona
li, perché vi è in effetti una tutela - sempre formale, ma spesso
anche per molti sostanziale - delle libertà liberali classiche (di
proprietà, di opinione, di stampa, di religione, di scelta di co
stumi di vita, eccetera). Il contesto in cui queste libertà vengo
no “godute” è però completamente cambiato. Nel periodo bor
ghese classico le libertà liberali erano esercitate in un contesto
di sovranità individualistica, cioè di sostanziale espansione
della potenza costitutiva dell’individuo borghese classico, lad
dove oggi l’individuo - sia post-borghese che post-proletario -
è sostanzialmente reso impotente, e dunque non più in alcun
modo “sovrano”, da meccanismi “tecnico-economici” che lo so
vrastano e lo confinano a godere queste libertà liberali in un
ambito vitale interamente privatizzato e del tutto irrilevante
per la sua sovranità.
La democrazia classica - o libertà positiva, o libertà di -
può sembrare inverata nei moderni sistemi politici e costitu
zionali, perché si è in effetti in presenza di meccanismi eletto
rali a suffragio universale che sanciscono la sovranità politica
del principio di maggioranza e dell’eguaglianza formale dei cit
tadini. Il contesto in cui questi diritti vengono “goduti” è però
completamente cambiato. La democrazia moderna era uno stru
mento di emancipazione sociale delle maggioranze escluse dal
potere, ed era pertanto il mezzo di un fine, e come mezzo di un
fine era difesa e praticata, in un contesto di implicita sovrani
tà della politica sull’economia. Ma oggi l’affermazione della
sovranità assoluta dei meccanismi anonimi ed impersonali di
un’economia feticizzata (i “mercati”, eccetera) svuota lo stesso
suffragio universale di ogni residuo di efficacia, e lo confina ad
una sorta di “acclamazione cartacea” - e fra poco nemmeno più
cartacea, ma semplicemente computerizzata - di professioni
sti della politica a loro volta sistematicamente ricattati da un
apposito personale non eletto (in particolare magistrati e gior
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nalisti), nel caso volessero sottrarsi ad un controllo troppo asfis
siante delle oligarchie economiche sovrane. In sintesi, ed in
modo molto chiaro e provocatoriamente esplicito: non viviamo
in alcun modo in una liberaldemocrazia, ma siamo sudditi con
senzienti di un’oligarchia plebiscitaria.
In questo quadro l’organizzazione simbolica dello spazio
politico è sostanzialmente gestita dall’alto, sulla base di una
“rendita simbolica” accumulata nell’immaginario sociale delle
generazioni precedenti. E la polarità fra Destra e Sinistra fa
parte di questa eredità simbolica da organizzare, ovviamente
soltanto nei paesi in cui questa ha avuto un forte significato, e
non certo in quelli in cui ha giocato un ruolo secondario o nes
sun ruolo - come chiarito nel paragrafo precedente. Gli indivi
dui atomizzati del capitalismo post-moderno vengono artificial
mente “interpellati” come cittadini-elettori e chiamati ad in
terpretare una parte sulla base di confuse opzioni ideologiche
o ancor meglio sulla “scelta” del candidato più mediatizzato,
cui dare maggiore “fiducia”. Del resto, è provato che l’espres
sione più corrente presso gli elettori è “mi piace il tale”, incon
sapevole rivelazione del carattere passivo e spesso ludico della
scelta elettorale. Gli stessi penosissimi “caroselli di automobi
li” della parte più presenzialistica ed entusiastica dell’eletto
rato “vincitore” testimoniano abbondantemente dell’omologa
zione sportiva fra elettori e tifosi.
22
di ricostruzione artificiale della società. Ebbene no. Marx è in
vece quasi unanimemente esaltato come attualissimo “profeta
della globalizzazione”, e come profeta della globalizzazione vie
ne segnalato ed onorato, in una vastissima e sospetta unani
m ità apparente che comprende liberali come G albraith e
“marxisti DOC” come Hobsbawm, tutti d’accordo nella conno
tazione di “profeta della globalizzazione”, cioè di un fenomeno
unanimemente riconosciuto come posteriore al 1990. Che ge
nialità, signori! Questi due tedeschi trentenni che nel 1848
“anticipano” nel pensiero l’odierna globalizzazione, esempio
ulteriore del carattere magico della genialità scientifica! Anco
ra una volta, bordighisti e benettoniani possono festeggiare
insieme l’avvento di un “mondo nuovo”, propiziato da un Marx
profeta della globalizzazione totale.
Senonché, vi è un piccolo problema. Il nucleo irriducibile
della “profezia” di Marx non stava tanto nella presunta globa
lizzazione, quanto nell’idea che la generalizzazione dei rappor
ti sociali capitalistici di produzione avrebbe comportato inevi
tabilmente la crescita del proletariato come classe rivoluzio
naria, che Marx ulteriormente (nel Capitale del 1867) avrebbe
ridefinito concettualmente in termini di lavoratore collettivo
associato irresistibilmente convergente con le potenze mentali
della produzione, cioè con il generai intellect . Ebbene, chi fa
notare che questa “profezia” non si è verificata - un esempio
fra tutti, lo studioso italiano Gianfranco La Grassa - viene vi
sto come noioso e pedante guastafeste. Non sembra molto di
“buon gusto” insistere sugli “errori” comprensibili di Marx,
quando si è in presenza di un grande “profeta della globalizza
zione”. Questo teatro dell’assurdo ha comunque una sua logi
ca: la diagnosi teorica precisa della fallibilità dell’ipotesi cen
trale marxiana può comportare una ridiscussione di eventuali
basi nuove per l’attività anticapitalistica, laddove l’innocuo
tripudio sul riconoscimento della “profezia della globalizzazio
ne” esclude questa possibile sgradevole conseguenza.
Ci siamo soffermati brevemente su questo interessante sin
tomo culturale per introdurre un discorso molto più complesso
e delicato, quello della “preferenza di sinistra” della cultura
23
delle oligarchie della globalizzazione finanziaria. Vi sarebbe
molto da dire in proposito, ma per chiarezza ci limiteremo ad
un ragionamento lineare, in vista di una corretta connotazione
della natura essenziale della cultura capitalistica contempo
ranea. Se non si coglie infatti l’aspetto principale, e sostanzial
mente semplice, della questione, si rischia di perdersi nei par
ticolari superficiali ed inevitabilmente “pittoreschi” delle ap
parenze culturali.
In prima approssimazione, possiamo accettare il termine di
pensiero unico per connotare il complesso sistema unificato
dell’ideologia dominante contemporanea. Nonostante le fatue
e stolide chiacchiere sapienziali sulla terribile “complessità”
dei fenomeni culturali, ogni sistema ideologico è fondamental
mente semplice, in quanto è robustamente strutturato ed or
ganizzato su di un fondamento . Nel caso del pensiero unico
ultracapitalistico della “globalizzazione”, si tratta della sovra
nità autoreferenziale di un’economia integralmente autonomiz-
zata, che gerarchizza sotto di sé tutte altre sfere dell’attività
umana. Incidentalmente, notiamo che il “pensiero unico” non
è una novità, perché tutte le formazioni sociali coerenti, anche
in passato, si sono dotate di un “pensiero unico”. La caratteri
stica di questo pensiero unico, comunque, è quello di non esse
re assolutamente connotabile in termini di Destra, Centro e
Sinistra. Questa nostra fermissima opinione si contrappone
radicalmente a quella dello stesso inventore del termine “pen
siero unico”, il direttore di Le Monde Diplomatique Ignacio Ra-
monet, che è invece un convinto sostenitore della permanenza
della polarità fra Destra e Sinistra, e di conseguenza connota
il “pensiero unico” come pensiero di destra. A nostro avviso il
pur benemerito e volonteroso Ramonet è completamente fuori
strada, e non a caso. In prima approssimazione, e volendo ad
ogni costo utilizzare queste fuorvianti metafore spaziali, il pen
siero unico è di destra in economia, di centro in politica e di
sinistra nella cultura, il che equivale a dire ovviamente che
non è né di sinistra, né di centro, né di destra, ma è un’altra
cosa, che si tratta appunto di connotare con categorie adatte,
al di là dell’obsoleta e fastidiosa dicotomia. Ma accettiamo an
24
cora di giocare al “gioco dei tre cantoni”, per far piacere ai suoi
appassionati cultori. Il pensiero unico è di “destra” in econo
mia, perché sceglie le soluzioni liberiste contro quelle keyne-
siane, perché smantella il welfare state, perché fa ponti d’oro
alla speculazione finanziaria, perché ridefinisce in termini as-
sistenzialistici e caritativi la questione sociale tradizionale,
eccetera. Il pensiero unico è di “centro” in politica, perché i
suoi sistemi elettorali, già definiti nel precedente paragrafo in
termini di oligarchia plebiscitaria, tendono ad elidere le ali
estreme dello specchio elettorale facendole demonizzare e de
legittimare dai suoi giornalisti-servi, e contestualmente legit
timando figure carismatico-mediatiche magari alternative sul
piano pittoresco e comportamentale d’immagine, ma ferrea
mente simili sulle questioni fondamentali di politica interna e
soprattutto estera. Infine, il pensiero unico non è tanto di “si
nistra” - abbiamo visto che solo in alcune parti del mondo que
sta espressione ha un senso -, quanto ha una “preferenza di
sinistra”, che si tratta appunto di capire - e che studiosi come
Ramonet, convinti che l’intero pensiero unico sia di destra, non
capiranno purtroppo mai.
Il pensiero unico ha culturalmente una “preferenza di sini
stra”, perché la sinistra è storicamente il luogo duplice della
critica borghese e dell’illusione proletaria, e dunque della ten
denziale distruzione dialettica delle due identità, ottenuta ov
viamente mediante due processi diversi anche se segretamen
te convergenti. Il moderno supercapitalismo “globalizzato” ha
un’identità unitaria post-borghese e post-proletaria, ed è dun
que fortemente fuorviante dire che esso è il frutto provvisorio
di un’epocale vittoria della borghesia sul proletariato - magari
identificati spazialmente l’una con gli USA e l’altro con l’URSS.
Abbiamo già rilevato nel secondo capitolo che la sinistra è sta
ta storicamente il luogo culturale dell’utopia dell’integrale so
stituzione della religione con la politica, ed è in più con la poli
tica come determinazione subordinata dell’economia. In que
sto senso, la sinistra è stata culturalmente il luogo di una dop
pia eredità, l’eredità della critica della “sostanza” - a suo tem
po fatta dalla borghesia alla società signorile -, e l’eredità del
25
la critica della “causalità”, cioè dell’autoreferenzialità assolu
ta dell’economia, che il proletariato avrebbe dovuto però ripo
liticizzare almeno parzialmente - piano contro mercato, pro
prietà statuale contro proprietà privata, eccetera. E ci stiamo
avvicinando così al centro della questione. Da un lato, la sini
stra ha per cento anni sparato a zero su tutte le forme di vita
borghesi - in moltissimi casi in realtà ancora signorili e scam
biate goffamente per borghesi -, credendo in questo modo di
colpire anche e soprattutto il capitalismo, antropomorficamente
concepito come un prodotto progettato e voluto da una sogget
tività borghese fondatrice. In questo modo, essa ha inconsape
volmente lavorato per un capitalismo “puro”, che prevede il
“momento borghese” unicamente come momento temporaneo
e transitorio, appunto perché la logica totalitaria del mercato
tende ad infrangere tutte le forme di consumo limitate. Abbia
mo già notato lo stretto legame fra infrazione artistica delle
avanguardie anti-borghesi ed estetica anticonformistica dei
pubblicitari. La stessa dinamica, anche se meno visibile, si ha
in tutte le altre forme culturali, come ad esempio in filosofia,
in cui il nichilismo relativistico ed antimetafisico, che si pre
senta come terribilmente anticonformistico, è in realtà la for
ma di pensiero ideale per la legittimazione di una integrale
“società senza fondamenti” come l’odierna “globalizzazione”
ultracapitalistica.
Dall’altro, la sinistra ha accompagnato per cento anni la
grande narrazione pseudomessianica del mito del proletaria
to, in un’inevitabile parabola che dall’illusione porta alla delu
sione, più esattamente dall’illusione della padronanza alla de
lusione dell’incontrollabilità. Certo, ammettiamo volentieri che
questo non si poteva sapere in anticipo, e possiamo saperlo
oggi soltanto perché la nottola di Minerva si è hegelianamente
levata al crepuscolo, cioè solo adesso. Ma il risultato finale non
cambia: un sistema di illusioni si è dialetticamente rovesciato
in una costellazione di delusioni.
E siamo giunti allora al cuore del problema culturale della
“preferenza di sinistra”, che è di carattere antropologico. In
breve, il tipo umano che risulta dalla doppia esperienza della
26
critica nichilistica alla cultura borghese e della delusione suc
ceduta all’illusione proletaria è un profilo antropologico ideale
per la globalizzazione capitalistica. In quanto critico delle “me
tafisiche” signorili e borghesi non ha alcun limite morale e re
ligioso da contrapporre all’integrale avvento del valore di scam
bio e della fungibilità assoluta del valore d’uso. In quanto de
luso dalle illusioni proletarie mette a disposizione una base
psicologica depressiva, minimalistica, colpevolizzata e ricatta
bile per l’accettazione integrale della società dei vincitori.
L’unione di questi due micidiali elementi esplosivi - o più esat
tamente “implosivi” - rappresenta una base sociopsicologica
ideale per la “globalizzazione”.
Tutto questo, ovviamente, non è alla portata di nessuna “au
tocritica” di sinistra, per il semplice fatto che la sinistra con
sente alla sua autocritica soltanto sulla base di una preventi
va decisione di voler continuare ad essere tale, come se un to
lemaico accettasse di prendere in considerazione il copernica
nesimo soltanto con l’assicurazione preventiva di restare in
qualunque caso e comunque tolemaico. La soluzione di un pro
blema non può essere il problema stesso. Per capire meglio
questo punto cruciale bisogna però cogliere la differenza fra
eguaglianza (politica) ed eguagliamento (economico), che è in
realtà la chiave teorica di tutto questo complesso di questioni.
Lo faremo con il pretesto della critica del pensiero di Norberto
Bobbio.
5. N o rb e rto B o b b io fr a p r o c e d u r a lis m o tr a g ic o
e d a p o lo g ia d i u n ’in e s iste n te d e m o c ra zia .
L a d ia le ttic a d i e g u a g lia m e n to e d i e g u a g lia n z a
27
durali cui esso dà luogo, in rapporto comunque ad un mondo di
“diritti” cui Bobbio rifiuta di dare una fondazione etica di tipo
ontologico - la sua frase preferita è quella di Ponzio Pilato:
“Che cos’è la verità?”; di proceduralismo tragico perché Bob
bio, allievo del grande pensiero “realistico” moderno, sa perfet
tamente che le regole non garantiscono in realtà nulla, e che i
potenti continuano e continueranno a fare quello che vogliono
dei poveri sudditi manipolati. Ovviamente, l’aspetto “tragico”
non interessa i suoi apologeti capitalisti, che lo onorano pro
prio ed esclusivamente per il suo proceduralismo. E fanno bene
ad onorarlo, perché il proceduralismo è la filosofia politica ide
ale del capitalismo, che su questo punto è kantiano e non hege
liano (l’antipatia dei pensatori capitalistici per il “borghese”
Hegel è sempre stata vivissima): il movimento dell’economia
dà infatti la cosa in sé, il noumeno, che è inconoscibile per de
finizione, ed al mondo della politica resta soltanto il procedu
ralismo dei fenomeni, che vengono invece “costituiti” giuridi
camente nello spazio e nel tempo.
Ma il nostro discorso su Bobbio in questo paragrafo è limi
tato alla sua fondazione (molto nota in Italia) della differenza
fra Destra e Sinistra, su cui il magistero bobbiano è accettato
anche da pensatori diversi - e vedremo nel prossimo paragrafo
il caso interessantissimo di un “bobbiano di sinistra” come
Marco Revelli. In estrema sintesi, Bobbio connota la Sinistra
come il partito storico-filosofico dell’eguaglianza, intesa in senso
“inclusivo” - che include progressivamente sempre nuovi gruppi
di persone - ed estensivo, ma non distributivo, e la Destra come
il partito storico-filosofico della diseguaglianza, in forme che
vanno dalla gerarchia alla estrema differenziazione dei ruoli e
degli status sociali. Per essere più precisi, la Destra non è tan
to il partito della diseguaglianza, quanto dell’ineguaglianza,
cioè della teorizzazione di “differenze naturali” che la società
deve in qualche modo recepire e consacrare. La Sinistra, di
conseguenza, fonda la sua lotta alla diseguaglianza sociale pro
prio perché non crede nell’esistenza dell’ineguaglianza natu
rale. Non si può negare che la teoria di Bobbio presenta una
forte plausibilità ed una forte coerenza interna. Se la respin
28
giamo, e la respingiamo radicalmente, è bene dire che lo fac
ciamo dopo averne riconosciuto l’intelligenza e la pertinenza.
A nostro avviso, la teoria di Bobbio ha come punto di par
tenza un’interpretazione radicalmente errata del pensiero di
Marx, che non gli permette di capire che Marx era un sosteni
tore dell’eguaglianza sulla base preventiva della critica del-
l’eguagliamento capitalistico. Di conseguenza, sulla base di
questa confusione fra eguaglianza ed eguagliamento, Bobbio
applica la sua dialettica di progressiva “inclusione” egualita
ria alla situazione di eguagliamento capitalistico, con il risul
tato di motivare proprio quella “preferenza di sinistra” che è
tipica della globalizzazione capitalistica presente. Con questo
non vogliamo dire in modo ingeneroso che Bobbio non conosce
Marx ed il marxismo. Li conosce, ma il suo approccio teorico
basato sulla separazione programmatica fra categorie politi
che e categorie economiche comporta la non comprensione di
un pensatore il cui stile di pensiero si basa proprio sull’indi-
stinzione delle due classi di categorie. Tra l’altro, Bobbio aveva
perfettamente ragione quando sosteneva che non esiste una
teoria politica marxista dello stato. Non esisteva in Marx, per
ché Marx fu un critico radicale della politica, non un fondatore
di una teoria politica “positiva”. Non è esistita nel comuniSmo
storico novecentesco, che ebbe sempre e soltanto una teoria del
partito, e non ebbe mai una teoria dello stato, per cui l’identifi
cazione burocratica del partito con lo stato non poteva che dare
luogo ad ideologie di legittimazione e di manipolazione, ora
tragiche ed ora semplicemente grottesche. Con Marx Bobbio
ha invece in comune una cosa che non immaginerebbe mai,
una comune concezione non veritativa della conoscenza filoso
fica. Nello stesso tempo, Bobbio fraintende completamente la
concezione marxiana dell’individuo - forse perché la sua cono
scenza di Marx è concentrata sugli scritti filosofici giovanili
del 1844 e non sui Lineamenti, molto più importanti -, e per
tanto ritiene che Marx sia un pensatore “collettivista” e dun
que non individualista ed anzi anti-individualista. Occorre sve
lare questo fraintendimento fatale, perché da questo frainten
dimento fatale deriva anche l’errata concezione bobbiana del
29
l’eguaglianza come processo di progressiva inclusione, motiva
to a sua volta dal rifiuto dell’esistenza di una ineguaglianza
naturale “radicale”.
Marx non è assolutamente un pensatore “collettivista”. Il
marxismo successivo fu “collettivista”, ma appunto lo fu come
proiezione di un’ideologia classista operaia e proletaria. Marx
criticò il capitalismo perché incapace di consentire una libera
individualità sociale reale, e capace soltanto di produrre un’irc-
dipendenza personale in cui l’indipendenza degli individui egua-
lizzati è in realtà soltanto indifferenza, dal momento che que
sti individui egualizzati sono stati egualizzati proprio per ren
derli economicamente diseguali, in quanto portatori astratti
di valore, differentemente “combinato” con i mezzi di produ
zione. A Bobbio sfugge completamente il carattere assoluta-
mente anti-collettivista ed individualista di Marx, ed il fatto
che Marx è un episodio della storia dell’individualismo moder
no, non del collettivismo moderno. Questo ha conseguenze fa
tali anche per la teoria dell’eguaglianza. L’eguaglianza marxia
na esiste soltanto come processo di resistenza e di opposizione
al processo capitalistico dell’eguagliamento, ed essa è dunque
solo un’azione, mai una situazione. Come “situazione” l’unica
eguaglianza è la morte, perché solo da morti saremo finalmen
te tutti veramente eguali. Da vivi, l’eguaglianza coincide con
un processo di liberazione dalla diseguaglianza, ma il processo
di liberazione dalla diseguaglianza coincide a sua volta con la
resistenza e l’opposizione all’eguagliamento capitalistico, che
è l’unica forma moderna di diseguaglianza. Le forme precapi
talistiche della diseguaglianza sono effettivamente non “egua
gliate”, perché gerarchizzate in senso politico, religioso, raz
ziale, eccetera. Ma la diseguaglianza moderna coincide esatta
mente con l’eguagliamento capitalistico - cioè il regno astratto
del valore di scambio e dell’universale fungibilità, che è ap
punto il telos, il fine immanente della globalizzazione.
A nostro avviso, Bobbio non capisce assolutamente la logica
di questo processo, e non può programmaticamente capirla,
per la sua scelta teorica preventiva di separare categorie poli
tiche e categorie economiche. A questo punto, l’eguaglianza
30
bobbiana diventa di fatto la duplicazione politica dell’eguaglia-
mento economico, cioè della sempre maggiore “inclusione” di
sessi, popoli, classi ed individui nella globalizzazione capitali
stica, che in Bobbio è sempre una sorta di “cosa in sé” esogena,
di cui il pensiero politico non può e non vuole dire nulla.
Sulla base della teoria di Bobbio non si può fondare nessu
na teoria della liberazione, ma soltanto una ideologia di legit
timazione alla Blair ed alla Veltroni. Ed è esattamente questa
la ragione per cui la teoria bobbiana è stata accolta con tanto
favore.
31
questa vera e propria quadratura del cerchio è inevitabilmen
te la moltiplicazione delle Destre e delle Sinistre. Di volta in
volta si può decidere che ci sono Due Destre - la destra tecno
cratica dell’Ulivo e la destra populistica del Polo e della Lega -
oppure a piacere che ci sono Due Sinistre - la sinistra modera
ta ed inconseguente del PDS di D’Alema e di Veltroni e la sini
stra radicale e conseguente di Cossutta e Bertinotti. Occorre
notare che le due versioni sono in realtà assolutamente eguali,
in quanto sul piano pratico è di fatto delegata al ceto politico
professionale la decisione in ultima istanza se ci siano Due
Destre - e Rifondazione non appoggia il governo -, oppure Due
Sinistre - ed allora Rifondazione appoggia il governo.
Tuttavia, sia Bobbio che Revelli sono intellettuali indipen
denti, e non sono per nulla al servizio di chi organizza dall’alto
lo spazio politico della globalizzazione capitalistica. Revelli dice
le cose che vuole, è pagato dall’Università, e non è sul libro
paga del ceto politico professionale in cerca di “committenze
ideologiche”. Si ha dunque una tragedia teorica in un certo senso
gratuita, perché il voler a tutti i costi mantenere la polarità
formale fra Destra e Sinistra modificandone sul piano storico e
sociologico i parametri sostanziali - dal Welfare al mutuali
smo, dall’operaio-massa alla nuova improbabile “sinistra so
ciale” postfordista - comporta un blocco concettuale degno di
essere segnalato. La prima conseguenza, ovviamente, è un
fraintendimento radicale della globalizzazione, assunta come
terreno irreversibile su cui collocarsi per ricostruire delle “co
munità” non territorializzate, ma di tipo professionale ed im
prenditoriale. In questa visione non si può ovviamente capire
che Karadzic e Saddam Hussein sono molto meglio di Clinton
e di Blair, e che Hamas è molto meglio del sionismo, dal mo
mento che il mantenimento dei vecchi parametri per connota
re il “fascismo” impedisce come sempre di capire dove sono le
forme attuali del “fascismo” stesso. Le resistenze veramente
esistenti alla globalizzazione sono squalificate, puzzando tutte
inevitabilmente di etnicità e di fondamentalismo culturale,
mentre si evocano inesistenti comunità professionali mutuali
stiche, dove si sarebbe andata a posare l’anima eterna della
32
“sinistra”. Il tradizionale eurocentrismo della “sinistra” è così
trionfalmente confermato, e l’inseguimento sociale della “co
m unità” si sposta semplicemente dalla catena di montaggio
fordista al laboratorio computerizzato postfordista. Ancora una
volta, radicalismo apparente e conservatorismo nostalgico si
incontrano. Vorremmo insistere che si è di fronte ad una trage
dia teorica gratuita, come avviene quando si vuole a tutti i co
sti mantenere una polarità ormai tram ontata oscillando fra
sociologia ed assiologia, soggetti sociali e valori. L’operaismo
resta tale anche quando impara ad usare il computer ed Inter
net.
A proposito di Norberto Bobbio e di Marco Revelli, vorrem
mo sottolineare ancora un loro paradossale elemento comune.
Abbiamo visto che in Bobbio, a causa del corto circuito fra la
categoria politica dell’eguaglianza e la categoria economica
dell’eguagliamento, il capitalismo stesso sparisce in quanto
rapporto di produzione inegualitario e viene ridefìnito di fatto
in termini di processo egualitario di “inclusione progressiva di
precedentemente diseguali”. L’economia è così integralmente
sussunta sotto la politica. Si è detto che Revelli è un “bobbiano
di sinistra”, perché tiene fermo sul criterio discriminante bob
biano dell’eguaglianza, ma cerca di concretizzarlo in senso so
ciale ed economico - a causa della sua matrice operaista origi
naria poi elaborata. Per essere precisi Revelli non è tanto un
pensatore egualitario, quanto un pensatore comunitario, an
che se il suo comunitarismo non è territorializzato ma inte
gralmente professionalizzato e ricavato da processi di lavoro
sociale. La politica è così integralmente sussunta sotto l’econo
mia, nel senso che l’intero apparato categoriale politico è ride
finito a partire da processi di lavoro sociale - in una prima fase
fordisti, in una seconda fase postfordisti. In questo modo la
globalizzazione, politica (per Bobbio) ed economica (per Revel
li), è assunta come quadro di riferimento tolemaico, in quanto
ciò che cerca di resisterle è squalificato come resistenza parti
colaristica (e quindi di Destra) di tipo territoriale, etnico, reli
gioso e culturale. Speriamo di aver mostrato di non aver voluto
assumere verso Bobbio e Revelli un atteggiamento di polemica
33
ingenerosa e meschina, ma di aver invece sottolineato che qui
si sta parlando della “cosa stessa”, non è possibile fare conces
sioni teoriche, e soprattutto non bisogna consentire con chi vuole
rilegittimare “dal basso” delle polarità che vengono invece oggi
sostanzialmente reimposte dall’alto da oligarchie plebiscita
rie.
34
attuale della destra, soprattutto ma non esclusivamente ita
liana. Che spazio culturale resta infatti alla Destra, se è vero
che la Sinistra, almeno in questa fase storica - non ci impe
gniamo per un periodo di tempo superiore al decennio, sia chiaro
-, gode di una preferenza culturale da parte dei padroni della
globalizzazione?
Dalla sua tradizione storica, la Destra europea ed italiana
eredita due opzioni fìlosofico-culturale incompatibili, la difesa
dell’ineguaglianza naturale - di tipo meritocratico ed aristo
cratico - , e la difesa della diseguaglianza economica - di tipo
economico e capitalistico. E evidente che le due opzioni sono
radicalmente diverse e tendenzialmente incomponibili, perché
la prima opzione, di tipo aristocratico, è teoricamente antica
pitalistica perché vede nel capitalismo raffermarsi del princi
pio del livellamento, della volgarità, dell’eguagliamento - su
questo punto Marx e Nietzsche sono molto più vicini di quanto
sospettino molti superficiali commentatori - e del potere uni
formante del denaro, mentre la seconda opzione, di tipo deci
samente economico e “borghese”, è invece disposta a identifi
care meritocrazia e ricchezza, capacità imprenditoriale ed ec
cellenza antropologica globale. Si apre così un arco di posizioni
che vanno da Julius Evola a Silvio Berlusconi. In un certo sen
so, la tragedia secolare della destra sta proprio nel fatto che
l’opzione aristocratica è sempre e soltanto stata la copertura
ideologica dell’opzione economica vincente. In estremissima
sintesi, la diseguaglianza ha sempre dominato sull’ineguaglian
za. La destra inegualitaria non ha mai veramente capito bene
le ragioni profonde di questa sua patetica e ricorrente sconfit
ta di fronte alla normale e “volgare” diseguaglianza capitali
stica, e questo a nostro avviso è avvenuto perché la sola via
teorica di comprendere veramente le cause strutturali di que
sta sua sconfitta sarebbe stata l’adozione della teoria di Marx
sulla dinamica del modo di produzione capitalistico, e non quella
di Splenger sull’ascesa ed il tramonto delle civiltà. L’eguaglia-
mento capitalistico, e la conseguente diseguaglianza non me
ritocratica che si riproduce, non è infatti dovuto ad una fanto
matica “perdita dei valori tradizionali”, ma è radicato in una
35
dinamica scientificamente ricostruibile. In proposito, la “sini
stra” ha peraltro ben poco da ridere. La sconfitta degli inegua
litari meritocratici di fronte ai normali disegualitari capitali
stici - da noi compendiata come la sconfitta di Julius Evola di
fronte a Silvio Berlusconi - è l’equivalente di destra di ciò che
nel campo della sinistra corrisponde alla sconfitta degli intel
lettuali marxisti utopisti di fronte al ceto politico professionale
- ed è dunque la sconfitta inevitabile di Lukàcs rispetto a Sta
lin e di Franco Fortini rispetto ad Achille Occhetto. Vorremmo
insistere molto su questa ardita e sconvolgente analogia, per
ché in nessun modo vorremmo far passare l’idea di un maggior
“realismo” della sinistra rispetto alla destra.
Oggi questa dialettica sembra, almeno in Italia, in via di
risoluzione: gli inegualitari meritocratici - seguaci di Platone
- sembrano avere ormai ceduto le armi rispetto ai disegualita
ri economici - seguaci di Milton Friedmann. Il lungo dopoguer
ra, che ha favorito per mezzo secolo i cenacoli di Pino Rauti e
dei suoi nostalgici, è finito con la reciproca assoluzione dei de
litti pregressi di comunisti e di fascisti, e molto correttamente
Gianfranco Fini corre per aver l’approvazione di sionisti, gran
di capitalisti ed opinionisti accreditati, cioè corre per avere l’ap
provazione dagli stessi identici centri di potere “globalizzato”
da cui corre Massimo D’Alema. E sono infatti a mio avviso Fini
e D’Alema la vera destra e la vera sinistra realmente esistenti
della globalizzazione, e non invece, come opinano i superficia
li, Pino Rauti e Fausto Bertinotti. Il concetto di vera destra e di
vera sinistra infatti, su cui spesso si esercitano in modo onirico
schiere di socialconfusionari cronici, ha uno statuto esclusiva-
mente storico e non filosofico. Ovviamente, questo è un punto
talmente cruciale che ad esso bisognerà dedicare un intero
paragrafo, il decimo ed ultimo di questo saggio. Lasciamo que
sto punto cruciale alla fine perché vorremmo che restasse im
presso nella mente del lettore. Se le nozioni di Destra e di Sini
stra avessero uno statuto di verità filosofica, e non solo di effet
tualità storica, non ci sogneremmo neppure di negarne la vali
dità, ed anzi la difenderemmo. Ma, appunto, si tratta di nozio
ni non veritative, dotate di effettualità ma non di “realtà”, e
36
per questo infatti le respingiamo - ma appunto, su questo si
rimanda all’ultimo paragrafo.
Tornando alla destra culturale italiana, è interessante no
tare non soltanto l’omologazione sistemica di Fini, parallela a
quella di D’Alema - si tratta anzi di vere e proprie “convergen
ze parallele” che sarebbero piaciute ad Aldo Moro -, ma anche
la scelta “più realista del re” di Silvio Berlusconi. Con questo
termine intendiamo dire una cosa ben precisa, cioè che Berlu
sconi presenta direttamente e senza mediazioni culturali la “for
ma” dell’impresa capitalistica come microcosmo dell’intera so
cietà. Ora, è vero che l’impresa è un vero “microcosmo del do
minio” - e rimando su questo alle convincenti analisi di Gian
franco La Grassa -, ed è vero che essa - e non la marxiana
fabbrica ottocentesca - è la cellula riproduttiva dell’intero odier
no legame sociale capitalistico (l’impresa, non la merce), ma è
anche vero che la riproduzione simbolica e culturale di questo
stesso legame sociale capitalistico globalizzato non può essere
direttamente l’impresa sacralizzata. La Mediaset non può es
sere presentata direttamente come la comunità di vita ideale
di tutti gli italiani. In questo senso Berlusconi è “più realista
del re”. La classe dei capitalisti, ed in particolare l’oligarchia
finanziaria, non governa direttamente, anche perché non vor
rebbe mai essere presa di mira dalla furia della plebe in caso
di crisi economica devastante, ma governa indirettamente at
traverso gruppi specializzati di rappresentanti delle oligarchie
plebiscitarie, esperti in mediazione sociale ed in riequilibrio
sindacale. Questo governo indiretto è particolarmente oppor
tuno, sia perché nessun singolo capitalista può prevaricare sugli
altri usando direttamente il potere politico, sia perché il grup
po professionalizzato di politici specializzati può sempre esse
re tenuto sotto ricatto permanente da giudici e da giornalisti.
Per questa ragione insistiamo sul fatto che Silvio Berlusconi è
più “realista del re”, e non può rispondere alla crisi di identità
culturale della destra che pure elettoralmente rappresenta.
37
8. D a A la in d e B e n o ist a M arco T archi.
L a d e c o s tr u z io n e c o ra g g io sa
m a in c o n se g u e n te
d e lla “n u o v a d e s tr a ”
38
valore al modo di produzione) ne sono infine coerentemente
usciti, in modo implicito e solo raramente esplicito.
Fra questi intellettuali radicali segnaliamo i gruppi che si
sono aggregati intorno al francese Alain de Benoist ed all’ita
liano Marco Tarchi. È particolarmente grottesco che essi siano
stati e siano tuttora demonizzati come una setta satanica che
vuole “travestire” il vecchio nazifascismo eterno, laddove le idee
sono fra le poche cose che non si possono in alcun modo trave
stire, perché si concedono nella loro innocente nudità al dibat
tito dialogico, e solo a quello. In realtà, questo gruppo di intel
lettuali (ed altri gruppi consimili) è l’esempio di come una con
seguente radicalizzazione dialettica del fondamento ineguali
tario porti per vie diverse ad una critica all’eguagliamento di-
seguagliante del capitalismo, ed a una autocritica delle illusio
ni superuomistiche in direzione di un comunitarismo rispetto
so delle differenze. Essi non meritano dunque né insulti, né
demonizzazioni. È però possibile egualmente dire che la loro
decostruzione è certo coraggiosa, ma anche inconseguente, per
almeno due ordini di ragioni che qui vogliamo sommariamente
compendiare.
In primo luogo, non risulta ancora veramente chiaro se essi
vogliano una “nuova destra” - sia pure diversissima dalle pre
cedenti -, oppure se si situano esplicitamente in un terreno
culturale al di là di ogni e qualsiasi Destra e Sinistra. Molte
dichiarazioni e molte analisi lo fanno pensare. Ma se si sfoglia
no con attenzione le loro riviste e rivistine, ci si accorge che
esse recensiscono sempre e soltanto la galassia di rivistine espli
citamente di “nuova destra” in Europa e nel mondo. Con una
considerazione malevola si può dire che in questo modo esse
“smascherano” la loro vera natura, che è quella di ridipingere
e di rilegittimare culturalmente una vecchia merce invendibi
le. Con una considerazione benevola - che facciamo nostra - si
può invece dire che essi vivono in un certo senso la stessa con
traddizione vissuta dagli intellettuali di estrema sinistra, sem
pre in bilico fra utopie di ricostruzione e di palingenesi della
“vera” sinistra e derive verso approdi non segnati sulle mappe
e sulle carte della sinistra politicai correct.
39
In secondo luogo, resta in questi intellettuali il problema
classico del deficit di universalismo, tipico della cultura di de
stra tradizionale. Il dramma della cultura di sinistra è sempre
stato quello della contraddizione fra un universalismo astrat
tamente proclamato, declamato e conclamato, ed un particola
rismo partitico e sociologico cinicamente praticato. Alla fine,
questa contraddizione si è consumata in un tragicomico sradi
camento. La cultura di destra non può pensare di evitare que
sto problema. Il suo approdo al differenzialismo è molto felice,
rispetto ai precedenti incubi gerarchici “su basi naturali”, ma
rischia di essere soltanto una variante del relativismo del “pen
siero unico” capitalistico.
9. R ie p ilo g o .
A n c o ra s u lla g lo b a liz z a z io n e ,
la m o n d ia liz z a z io n e
e l ’a m e r ic a n iz z a z io n e
40
Parlando di americanizzazione, non bisogna assolutamente
confonderla con Vamericanismo. L’americanismo è una legitti
ma nozione identitaria della comunità politica e culturale de
gli USA, ed in essa è compresa una spesso affascinante tradi
zione letteraria, musicale, poetica, scientifica, eccetera. L’ame-
ricanizzazione è invece un prodotto illegittimo di esportazione
imperialistica, che ha bisogno di un precedente sradicamento
per potersi imporre e generalizzare. La distinzione fra le due
nozioni è cruciale, perché chi scrive non è affatto anti-america
no, ed è anzi propenso ad apprezzare elementi fondamentali
della cultura americana, dalla cinematografia alla letteratu
ra, ed a rispettare anche elementi identitari della vita quoti
diana della nazione americana - come quelli messi in risalto,
ad esempio, da Christopher Lasch.
Ripetere questo è molto importante, per non essere messi
affrettatamente nell’ambigua casella dell’anti-americanismo
preconcetto, che ha una lunga tradizione in ideologie come
quella nazista, fascista, stalinista e religioso-fondamentalista.
Qui si parla esclusivamente dell’americanizzazione come arti
colo di esportazione imperialistica, veicolo apparentemente
“neutro” e non ideologico di imposizione di un certo “pacchet
to” di merci e di servizi unificati in un mercato globale. Nei
nostri termini, l’americanizzazione sta alla nazione america
na ed all’americanismo come il nazionalsocialismo sta alla na
zione tedesca, il fascismo alla nazione italiana, lo stalinismo
alla nazione russa, il polpottismo alla nazione cambogiana, ed
il fondamentalismo alla nazione algerina. L’americanismo (in
America) è un contributo alla ricchezza ed alla diversità cultu
rale dei popoli del mondo. L’americanizzazione è un pericolo
mortale per questa ricchezza e diversità culturale - e nella
nozione di diversità culturale inserisco soprattutto il diritto
alla sperimentazione sociale di modelli di convivenza comuni
taria.
Ci si può chiedere allora quale sia il terreno culturale ideale
per la diffusione di questa americanizzazione apparentemente
inarrestabile. In generale si risponde affrettatamente che si
tra tta semplicemente del consumismo, o meglio di “modelli di
41
consumo”. Ma questa risposta è semplificatoria e fuorviante,
ed è inoltre “assolutoria” nei confronti di soggetti politici e so
ciali determinati. L’americanizzazione è direttamente propor
zionale allo sradicamento, nel senso di perdita delle radici cul
turali, sia sociali sia nazionali. Abbiamo visto come la “sini
stra” sia il luogo storico e sociale dello sradicamento, inteso
specificatamente come consumazione integrale degli esiti sto
rici del doppio processo della critica avanguardistica alla cul
tura borghese e dell’illusione proletaria praticata fino all’im
plosione degenerativa finale.
Ed è allora questo il nucleo concettuale di questo sintetico
riepilogo. È peraltro evidente che l’abbandono conclamato di
qualsiasi “punto di vista di sinistra” non rilegittima automati
camente affatto qualsivoglia “punto di vista di destra”. Sareb
be spiacevole che una simile accusa ci fosse rivolta, magari con
l’uso dello stupendo avverbio staliniano oggettivamente - per
cui chi non è più di sinistra è allora “oggettivamente” di destra
-, non tanto per ragioni personali (chi scrive, come Jack Fru-
sciante, è “uscito dal gruppo”, ed ogni avverbio gli scivola so
pra senza fargli troppo male), quanto per ragioni che toccano
“la cosa stessa”, cioè il problema che stiamo discutendo. Il lun
go cammino della destra verso l’omologazione e la normalizza
zione si è compiuto, e gli impraticabili sogni di ristabilimento
di gerarchie inegualitarie si sono dialetticamente realizzati
nell’accettazione delle normali diseguaglianze capitalistiche.
Le due parallele “metafisiche” - di destra e di sinistra - si sono
ormai realizzate in una comune “tecnica” planetaria. Il proble
ma è: che fare?
42
10. E pilogo.
P e r un n u o vo o r ie n ta m e n to te o ric o e c u ltu r a le
a l d i là d e lla d ic o to m ia fU o rvia n te
d i D e s tr a e d i S in is tr a
43
sola, ragione filosofica di questa nostra posizione, con la quale
potremo sensatamente concludere questo saggio. Essa risiede
nello statuto veritativo della cultura e della conoscenza, uno
statuto respinto, per ragioni opposte ma convergenti sia dalla
Destra che dalla Sinistra. Compreso questo, si è compreso il
nocciolo della questione.
La Destra si è sempre indebitamente installata in un falso
luogo della Verità, quello che sostanzialmente identificava Ve
rità con Tradizione, oppure Verità con Natura. Le due equazio
ni, apparentemente diverse, erano in realtà una sola, perché
la Tradizione era vista come una sostanziale accettazione del
la Natura, e delle sue leggi immutabili, sia trascendenti (de
stra religiosa) sia immanenti (destra laica e post-illuministi-
ca). La Destra è dunque stata quasi sempre caratterizzata da
un’accettazione verbale della pertinenza della verità (religiosa
e filosofica), cui però seguiva di fatto una negazione della sua
messa in discussione radicale di tipo dialogico, dal momento
che una sua esplicita messa in discussione radicale di tipo dia
logico (e logico-ontologico) avrebbe inevitabilmente eroso le
pretese veritative sia sul versante della Tradizione che su quello
della Natura - ridotte entrambe al rapporto dialettico fra ge
nesi e validità. In sintesi, la Destra fa riferimenti pretestuosi
alla verità come luogo filosofico della sua legittimazione, ma
non può radicalizzarne dialogicamente e razionalmente il prin
cipio ed il fondamento, perché questo implicherebbe la sua re-
lativizzazione e la sua rinuncia al principio di assolutezza.
La Sinistra invece ha sempre seguito una strategia filosofi
ca di tipo esplicitamente relativistico e sociologistico, negando
- quasi sempre con superficiale irrisione - la pertinenza stes
sa della questione della verità, identificata con un “punto di
vista” squisitamente sociologico-politico (la Classe, il Partito,
eccetera). È questa un’inevitabile conseguenza dell’esasperata
politicizzazione di tutti gli ambiti di vita, di cui abbiamo già a
lungo parlato nel secondo paragrafo. Sul versante scientifico,
questo comporta una prevalenza della cultura identitaria di
appartenenza su qualunque provocazione teorica radicale che
possa mettere in crisi questo presupposto identitario di appar
44
tenenza. Sul piano filosofico, questo comporta un’esplicita ri
nuncia ad ogni fondazione veritativa reale, un’identificazione
storicistica del fattuale con il reale e dell’ideologico con il ra
zionale. In questo modo, alla Non-Verità della Destra, spaccia
ta pretestuosamente per Verità, veniva opposta una Non-Veri-
tà programmatica ed esplicita, il cui fondamento stava però in
un illusorio e nichilistico “fronte avanzato della modernizza
zione”, che avrebbe dovuto supplire a questo deficit di fonda
mento veritativo con l’effettualità vincente della temporalità
storica. I laureati in discipline umanistiche di “sinistra” prefe
rivano in genere i soggetti sociali, mentre i laureati di “sini
stra” in discipline scientifiche preferivano in genere il maesto
so progresso delle forze produttive. Sebbene molti studiosi di
storia del marxismo (come Ernst Bloch) sembrino trovarci una
grande differenza, per noi non ce n’è invece praticamente nes
suna, o al massimo è quella che c’è fra la Coca Cola e la Pepsi
Cola, o fra i giochi a premio della RAI e di Mediaset. Chi si
accontenta gode.
Le “identità” di Destra e di Sinistra hanno dunque uno sta
tuto semplicemente di tipo storico-fattuale e di tipo ideologico-
identitario, mentre non hanno nessuno statuto veritativo di
tipo scientifico e filosofico. Ma allora, perché accanirci a difen
dere, a riproporre ed a rinnovare due identità vuote di qualun
que riferimento veritativo, senza alcun statuto scientifico e fi
losofico, dotate di un puro riferimento ideologico?
Ed infatti, non ne capiamo assolutamente la ragione. Lo
capiamo per quello che riguarda le classi dominanti, se è vero
che in questo modo organizzano simbolicamente in modo so
stanzialmente innocuo lo spazio politico ed elettorale - e per di
più solo in alcuni paesi, quelli in cui le due “tradizioni” si sono
ormai radicate. Lo capiamo per quello che riguarda i politici di
professione, che di questa dicotomia letteralmente ci vivono, e
devono perciò difenderla per ragioni intuitive di reddito e di
status sociale e professionale. Lo capiamo per quello che ri
guarda i giornalisti, che in questo modo hanno a disposizione
mille divertenti combinazioni dicotomiche - in proposito, il
gorgonzola è generalmente indicato come di “sinistra”, mentre
45
il provolone è invece di “destra”, così come Giorgio Albertazzi è
di destra mentre Dario Fo è di sinistra. Lo capiamo per tutti,
meno che per le persone normali desiderose di capire il mondo
in cui vivono.
A queste persone consigliamo di lasciar perdere questa di
cotomia inutile, e di avventurarsi nel mare aperto della nuova
decifrazione dei problemi in buona parte inediti cui ci trovia
mo di fronte. Ci teniamo però moltissimo a non essere presi
per “ingenui”, e perciò diciamo subito chiaramente che non
nutriamo nessuna speranza sul fatto che questo possa avveni
re “a breve termine”. Ovviamente, non avverrà. Ma non avver
rà per ragioni paranoiche - i cattivi hanno i media e noi no,
eccetera - , quanto per sane ragioni fisiologiche, dal momento
che questa dicotomia continuerà ad orientare falsamente i pro
fili culturali fino a quando una nuova cultura non si sarà svi
luppata e non sarà diventata visibile.
Questo, e solo questo, è il problema.
46
N ota critica
BIBLIOGRAFICA
/
Per una migliore comprensione dei temi sviluppati in que
sto saggio, ci permettiamo prima di tutto un triplice richiamo
bibliografico.
49
zione autoritaria e normativa della verità, sfocia in una cultu
ra dell’indifferenza e dell’equiparazione, “guscio” ideale del
l’omologazione consumistica, a sua volta favorita dal passag
gio dalla cultura dissacrante delle avanguardie all’apparente
non-conformismo antiborghese della cultura dei moderni pub
blicitari. Andrea Cavazzini spiega come l’assunzione da parte
della sinistra del fronte temporale avanzato della modernizza
zione e del superamento del conservatorismo e della tradizio
ne sia la premessa di un punto di vista presuntuoso ed elitario
di chi ritiene di “aver capito tutto” perché “in linea” con il pro
gresso, e come dunque la fusione di modernizzazione e di elita
rismo porti ad una “sordità” scientifica e filosofica che fa da
sbarramento a qualunque proposta dialogica. Infine, Massimo
Bontempelli chiarisce, partendo da un’analisi della riforma Ber
linguer della scuola superiore italiana, i presupposti economi
ci e sociali che stanno dietro l’integrale assimilazione alla “for
ma dell’impresa” della scuola italiana, realizzata non a caso
da un ministro ex-staliniano ed ex-togliattiano - ma su questo
si veda anche il piccolo gioiello critico di Lucio Russo, Segmen
ti e Bastoncini, Feltrinelli, Milano, 1998. Come si è detto, i
quattro saggi di Dinucci, Badiale, Cavazzini e Bontempelli con
tengono gli elementi critici minimi per una vera e propria “cri
tica della ragione di sinistra”.
50
stanzialmente indecidibile. Un semplice test per il lettore: è
più comico il comportamento di Berlusconi che fa distribuire
da hostess in divisa della Fininvest il Libro Nero del Comuni
Smo ad una platea di ex-missini allocchiti, oppure Dario Fo che
finge che Lotta Continua non abbia avuto nulla a che fare con
la lotta arm ata in Italia, coadiuvando il “vuoto di memoria”
degli attuali uomini di potere politico e giornalistico provenienti
da quella esperienza?
51
Revelli non ha nulla a che vedere con quella che gli muovono i
cosiddetti “marxisti ortodossi” orfani della cosiddetta “centra
lità operaia”. Anzi, io ritengo che in Revelli ci sia ancora trop
pa ortodossia, proprio perché si continua ad oscillare fra una
concezione sociologica del soggetto sociale potenzialmente “li
beratore” ed una duplicazione assiologica di “valori” bobbiani
e sovrastorici che dovrebbe “integrare” la neutralità assiologi
ca dei soggetti sociali, fordisti o no profit che siano. Comunque,
Revelli resta a mia conoscenza il solo ed unico allievo creativo
di Norberto Bobbio, e questa può essere considerata la critica
più radicale a Bobbio che si possa fare. Infatti, la stiamo con
sapevolmente facendo.
52
bliografica. Vi sono oggi tendenze ad un tempo grottesche e
totalitarie, che vorrebbero “normalizzare” il passato, e riscri
vere i manuali scolastici di storia attraverso una storia unica
con memorie diverse, per cui si consente allo spazio psicologico
del vissuto esistenziale personale una “differenza” che non si
consente invece alla presunta “oggettività” della storia. Com
prendiamo benissimo che questa è semplicemente l’ideologia
storiografica della Bicamerale e più in generale della Seconda
Repubblica, in cui la corretta memoria del passato è stata so
stituita dal rito espiatorio in cui sono stati sacrificati Bettino
Craxi e Giulio Andreotti in nome di un’intera classe politica in
buona parte riciclata - in nome del vecchio detto: “soldato che
scappa, buono per un’altra volta”. Ma il lettore di questo picco
lo saggio è certamente uno spirito libero e disinteressato, e com
prende bene che la proposta di superamento della dicotomia
fra Destra e Sinistra non è fatta in nome dell’assenza della
memoria, ma al contrario di una richiesta di verità non ideolo
gica, e pertanto non identitaria. Ma il superamento di una vi
sione identitaria, e dunque non veritativa, della verità scienti
fica e filosofica presuppone il ricordo del passato, e quindi an
che il ricordo delle vicende dialettiche della propria preceden
te identità. E questo il messaggio della Fenomenologia dello
Spirito di Hegel, cui comunque esplicitamente ci richiamiamo.
53
Indice dei nomi
A E
Albertazzi G. 46 Einstein A. 15
Andreotti G. 53 Engels F. 22
Aristotele 19 EvolaJ. 36
B F
Badiale M. 49, 50 Fachinelli E. 50
Berlinguer L. 50 Fini G. 7, 34
Berlusconi S. 34, 36, 37, 50, 51 Fo D. 46, 51
Bertinotti F. 32, 36 Fortini F. 36
Blair T. 5, 31, 32 Friedmann M. 36
Bloch E. 45 Frusciante J. 42
Bobbio N. Fukuyama F. 12
5. 7. 27. 28. 29. 30. 31. 32. FuretF. 22
33, 34, 51, 52
Bontempelli M. 50
Bordiga A. 11
G
Galbraith J. K. 23
C
CavazziniA. 50
H
Clinton B. 32
Cortes D. 52 Hegel G. W. F. 15, 53
CossuttaA. 32 Hobsbawm E. J. E. 23
Craxi B. 53
Croce B. 27
I
D Ingrao P. 17
56
Sommario
Prem essa.................................................................................... 5
1. La globalizzazione capitalistica.
Il fatto, il nome ed il giudizio etico-politico........................9
57
10. Epilogo.
Per un nuovo orientamento teorico e culturale
al di là della dicotomia fuorviante
di Destra e di S in istra .....................................................43
58
N e lla collan a
D ivergen ze
1. Gianfranco La Grassa,
Dai Tre Mondi alla “globalizzazione capitalistica”.
2. Gianfranco La Grassa,
Microcosmo del dominio.
Critica delle ideologie economicistiche dell’impresa.
3. Gianfranco La Grassa,
Il comuniSmo fallibile. A 150 anni dal “Manifesto”.
4. Costanzo Preve,
Il crepuscolo della profezia comunista.
A 150 anni dal “Manifesto”.
5. Costanzo Preve,
60
C ostanzo P reve
Dio nel Pensiero
Gesù
Uomo nella Storia
1. P rologo
2. I n cosa credono i credenti
Dio nel Pensiero
ED IN COSA NON CREDONO
I NON CREDENTI? La divinizzazio
3. I l problema storico e filosofico ne della figura uma
DELLA SECOLARIZZAZIONE na di Gesù non è solo
4. I l D io di H obbes un fatto religioso, ma
5. I l D io di P ascal è anche un enigma
6. I l C risto di P ascal della storia della fi
7. I l D io di S pinoza losofia occidentale.
8. I l C risto di S pinoza L’analisi di questo
9. Il D io ragionevole di L ocke enigma può aprire
10. L a religione scettica di H ume interessanti prospet
11. L’ateismo ed il materialismo tive su questioni sto
francese del S ettecento riche di scottante at
12. I l D io ed il C risto di K ant tualità.
13. I l C risto di H egel In questo saggio si propone un breve
14. I l D io di H egel “attraversamento” degli ultimi trecento
15. L a V ita di G esù di S trauss anni di storia della filosofia, nel presup
16. I l D io di F euerbach posto che la secolarizzazione non abolisce
17. T re significati della critica integralmente, ma trasforma un prece
DELLA RELIGIONE IN MARX dente contenuto religioso.
18. I l marxismo come ateismo. Fra le varie proposte interpretative
D a L eninal materialismo segnaliamo: la posizione di Spinoza, per
dialettico sovietico cui Gesù è la via privilegiata per l’amore
19. I l marxismo come agnosticismo. intellettuale di Dio, cioè della verità come
L’esempio di Althusser unione di sincerità e di carità; la conce
20. I l marxismo come metafisica. zione di ateismo in Hegel come progressi
U n chiarimento indispensabile va perdita di interesse e di tensione nella
21. A ncora sul marxismo. ricerca comune della verità; il rifiuto di
U na conclusione in compendio una interpretazione filosofica di Marx nei
22. I l D io ed il C risto di N ietzsche termini abituali di ateismo materialisti
23. L ’interpretazione veritativa co o di agnosticismo laico; la complemen
DELLA STORIA tarietà, e non la contrapposizione, delle
DELLA METAFISICA DI HEIDEGGER figure del Superuomo e dell’Oltreuomo
nella teoria della morte di Dio di Nietz
sche; ed infine, il rifiuto di Heidegger di
concepire la riflessione filosofica come padronanza tecnica del futuro.
Queste proposte interpretative (ed altre qui non richiamate, ma presenti nel te
sto) configurano un profilo filosofico unitario. Si tratta del superamento della dicoto
mia fittizia fra “credenti” e “non credenti” come dichiarazioni aprioristiche di apparte
nenza alla luce di una ridefinizione di questi termini sulla base preventiva di una
comunicazione dialogica aperta e disponibile a “ricevere” novità impreviste.
La riflessione filosofica condotta da Costanzo Preve è indipendente dalle proposte
specifiche della vita di Gesù di Massimo Bontempelli, ma si situa nella stessa prospet
tiva storica e morale, e pertanto ne presuppone la lettura e l’assimilazione critica.
61
M assimo B ontem PELLI Nichilismo Verità
C ostanzo P re ' /E
Storia
ia Un m anifesto filosofico
della fine del X X secolo
.
a
ÉÈ
M assim o B o n te m p e lli
Verità e nichilismo