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1– Introduzione (storica)
600 a.C. – Sono già noti alcuni fenomeni di attrazione ottenuti strofinando l’ambra,
dal cui nome greco (élektron) ebbe in seguito origine la parola elettricità.
XII sec. – Viene largamente utilizzata la bussola magnetica.
1600 – De magnete, di William Gilbert, in attesa di una formalizzazione più rigorosa
delle osservazioni sperimentali, ostacolata tra l’altro dalla difficoltà ad accettare
l’esistenza di interazioni a distanza.
Seconda metà del XIX secolo – Sintesi di Maxwell, unificazioni di fenomeni elettrici
e di fenomeni magnetici in un’unica grande branca della fisica.
La forza elettrica è una delle quattro interazioni fondamentali della Fisica (assieme alla
forza gravitazionale, nucleare forte e nucleare debole).
n qi (r − ri )
F = qE E=∑
i =1 4πε 0 r − ri
3
Come si nota, il vettore E (di cui sopra) dipende solo dalle cariche sorgenti qi e dalla
loro distribuzione spaziale rispetto a P, e rappresenta quindi il campo elettrostatico
generato dalla distribuzione di cariche. Esso è dato dalla somma dei campi Ei che le
singole cariche determinerebbero da sole in P.
E= ∑ Ei
i =1, n
La definizione operativa generale del campo elettrico prodotto da una distribuzione
di cariche richiede tuttavia una certa attenzione, in quanto va considerato l’effetto che
l’introduzione della carica esploratrice può avere sulla distribuzione delle sorgenti, che
fin’ora abbiamo considerato ferme. In tali casi, il vettore campo elettrico E non risulta
in generale indipendente da q in quanto, al variare di tale carica, cambia anche la
distribuzione di equilibrio raggiunta dalle altre cariche. Per tale motivo, allo scopo di
limitare questi effetti, occorre operare con corpi di prova aventi cariche
sufficientemente piccole. Il campo elettrico viene quindi definito come
F
E = lim
q →0 q
Da non intendere in senso strettamente matematico, visto che la carica è quantizzata e non può scendere sotto il
livello di quanto elementare.
Infine, non si ha sempre a che fare con cariche puntiformi: se si fa uso di un modello
in cui la carica viene descritta attraverso una distribuzione continua, il campo
elettrostatico prodotto da una carica infinitesima può essere espresso nel seguente
modo. Indichiamo, per un una carica dq distribuita in un volume infinitesimo dV
(oppure in un’area infinitesima dS, o in un segmento infinitesimo dl) e quindi
integriamo lungo tutta la distribuzione di carica. Si definiscono a tal proposito la
- densità di carica lineare λ : dq = λ dl
- densità di carica superficiale σ : dq = σ dS
- densità di carica volumica ρ : dq = ρ dV
Quindi, integrando, si ottiene:
dq (r − r ')
E=∫ .
4πε 0 r − r ' 3
A questo punto risulta conveniente scomporre questo calcolo lungo gli assi cartesiani
(r’ varia per ogni elemento di carica dq). Ad esempio, per l’asse x,
1 ( x − x ') ρ (r ')dV '
4πε 0 ∫
Ex = 3
r−r'
L’esempio è qui fatto entro un volume.
otteniamo
λ
E ( x) =
2πε 0 x
Che dipende soltanto dalla distanza del filo. Il risultato approssima bene
il caso reale tanto meglio quanto più vicino al filo.
- 1.6.1.2 - Anello carico: vogliamo trovare il campo E nei punti P
dell’asse di questo anello. Il ragionamento è analogo a quello appena
fatto per il filo, ma questa volta la simmetria del sistema rende agevole
la scelta di un sistema di riferimento con asse x coincidente con l’asse
dell’anello. Ogni contributo, portato dalle porzioni dz dell’anello, subisce
l’annullamento della sua componente z da parte della porzione dz che si
trova dalla parte opposta per simmetria. Proiettando direttamente ogni
contributo sull’asse x ricaviamo l’integrale
dq x
Ex = ∫
4πε 0 r − r ' 3
Che, risolto, dà
q x
Ex =
4πε 0 ( x + R 2 )3/ 2
2
R
σx r
Ex = ∫ dr .
2ε 0
( )
3/ 2
0 x2 + r 2
Il cui risultato finale è:
σ
Ex = (1 − cos ϑ ) .
2ε 0
Si è considerato il caso in qui vi è più di una carica all’interno della superficie chiusa.
1.7.4.4 – Filo
Il filo è di lunghezza l e contiene una carica q distribuita uniformemente.
La densità lineare di carica è dunque λ =
q . Il campo ha struttura
l
radiale per la simmetria del sistema e, scelta dunque una superficie
gaussiana cilindrico di raggio r e altezza h, coassiale col filo, valutiamo il
flusso di E : esso risulta nullo sulle due basi (parallele alla direzione del
campo) e pari a E moltiplicato per la superficie laterale (su
quest’ultima). Applicando, al solito, la legge di Gauss
λh
2π rhE =
ε0
Dunque
q λ
E= =
2π lε 0 r 2π rε 0
Che d’altronde avevamo già ricavato con la sola legge di Coulomb.
ρ
Che è vera quando l’integrando è nullo e dunque quando: divE = = ∇⋅E .
ε0
Giustifichiamo questa affermazione. Prendiamo in considerazione il campo
elettrico, generato da una distribuzione continua di carica di densità ρ , e un
elemento di volume infinitesimo avente la forma di un cubetto di spigoli dx, dy,
dz. Vogliamo calcolare il flusso di E attraverso la superficie del cubetto;
scegliamo dunque come origine O del sistema di riferimento un vertice del cubo
e gli assi orientati da O verso gli altri vertici. Calcoliamo il flusso del campo
attraverso le due facce perpendicolari all’asse x. Avremo, secondo la
definizione, che
d Φ = ( E x )dx dydz − ( E x )0 dydz
Dove (Ex)dx e (Ex)0 sono i vettori del campo elettrico attraverso le due facce.
Siccome il campo è continuo e differenziabile, possiamo usare la serie di
Taylor per approssimare
∂E x
( E x ) dx ≈ ( E x )0 + dx
∂x
Dunque, eseguendo la sottrazione
∂E x
dΦ = dxdydz
∂x
Sommando a questo risultato il contributo al flusso delle altre quattro facce del
cubo, si ottiene
∂E ∂E y ∂Ez
dΦ = x + + dxdydz = divEdV
∂x ∂y ∂z
Poiché la carica contenuta all’interno del cubo è dq = ρ dV , e siccome dalla
ρ
legge di Gauss si ha d Φ = dV , arriviamo alla dimostrazione che:
ε0
ρ
divE = = ∇⋅E
ε0
ur è versore radiale (va da dove è situata la carica al punto in cui si esamina il potenziale) del vettore campo elettrico,
dur è il versore a questo trasverso. La loro somma è uguale a dr (piccolo spostamento).
Integrando, otteniamo il potenziale V del campo in ogni punto dello spazio, più una
costante. Fissando tale costante in modo che il potenziale sia nullo a distanza infinta
dalla carica, il potenziale coulombiano in un punto a distanza r dalla sorgente
assume la forma:
1 Q
V=
4πε 0 r
La differenza di potenziale tra due punti A e B è indipendente dalla scelta della
costante additiva, e si ottiene integrando E ⋅ dr lungo una linea qualsiasi.
B
Q 1 1
V ( A) − V ( B) = ∫ E ⋅ dr = −
A
4πε 0 rA rB
V=
1
4πε 0 R 2
2q
( x2 + R2 − x )
In particolare, il potenziale V0 al centro del disco si ricava dalla precedente
1 2q q Rσ
espressione per x = 0: V = = =
4πε 0 R 2π Rε 0 2ε 0
Tale differenza di energia può essere resa disponibile per una successiva
trasformazione in energia cinetica; ciò si rivela utile in quanto il campo elettrostatico è
conservativo e, dunque, è possibile risolvere molti problemi in modo assai semplice
facendo ricorso alla conservazione dell’energia meccanica
1 mv 2 + qV
2
Se A e B sono due punti della traiettoria della particella, la variazione subita
dall’energia cinetica fra A e B è quindi uguale (e opposta) a quella dell’energia
potenziale:
1 2 1 2
∆K = mvB − mv A = q (V A − VB ) = −q∆V
2 2
Particelle cariche, inizialmente ferme in un punto A, sotto l’azione delle sole forze del
campo si muovono (se non vincolate) verso posizioni in cui il potenziale è minore
(maggiore), se la loro carica è positiva (negativa).
In particolare, se fra due punti A e B esiste una differenza di potenziale ∆V con
VB > VA , prodotta e conservata con opportuno dispositivo, e nel punto A vengono
immessi elettroni con velocità iniziale trascurabile, questi vengono accelerati dalle
forze del campo elettrico e raggiungono B con energia cinetica pari a
1 2
mvB = −e(VA − VB ) = e(VB − VA )
2
Da tale relazione prende spunto la definizione di un’unità di misura per l’energia,
denominata elettronvolt (abbreviata eV): essa misura l’energia cinetica acquistata
da una particella avente carica pari a quella dell’elettrone e accelerata dalla differenza
di potenziale di 1 Volt.
È stato detto che una carica tende “naturalmente” a muoversi verso posizioni
caratterizzate da minore energia potenziale; ne discende ovviamente che, affinché un
punto sia di equilibrio stabile per una particella carica positivamente (negativamente),
il potenziale elettrostatico vi dovrà avere un minimo (massimo) forte.
Sperimentalmente si verifica che in un campo elettrostatico, per una particella carica,
non esistono posizioni di equilibrio stabile in zone non occupate dalle sorgenti del
campo. L’assenza di tali posizioni di equilibrio stabile nello spazio non occupato da
sorgenti ha come conseguenza che ivi il potenziale elettrostatico non può avere né
minimi né massimi forti.
3.3 – Condensatori
Un condensatore è un sistema di due conduttori aventi cariche uguali e segno
contrario: i singoli conduttori vengono chiamati armature del condensatore.
Q
La capacità elettrica di un condensatore è definita come C = , dove ∆V è la
∆V
differenza di potenziale fra le due armature.
v∫ A ⋅ ndS = ∫ divAdV ) (la carica è scritta come integrale della densità di carica ρ)
Σ V
⎛ G ∂ρ ⎞
(2 - cambio fra integrazione e derivazione) ∫ ⎜⎝ divJ + ∂t ⎟⎠dV = 0
V
(la derivata è parziale perché la densità di carica dipende dalla posizione, oltre che dal tempo)
G ∂ρ
Dunque deve accedere che: divJ + = 0 (teorema di continuità della corrente
∂t
elettrica).
G
Per correnti stazionarie tale relazione si semplifica in divJ = 0 .
G
⎛G ∂E ⎞
Per correnti non stazionarie (ad es. sinusoidali): div ⎜ J + ε 0 ⎟ = 0 (si è utilizzata la
⎝ ∂t ⎠
legge di Gauss).
ΔV = Ri
⎛ −t ⎞
q (t ) = C fem ⎜1 − e RC ⎟
⎝ ⎠
Questo risultato mostra che:
- al momento iniziale la carica è nulla;
- asintoticamente la carica tende al valore C fem ;
- la rapidità con cui la funzione tende al valore asintotico dipende dal prodotto
τ = RC che ha le dimensioni di un tempo ed è denominato costante di tempo
del circuito).
fem − t RC
Funzione della corrente: i (t ) = − e
R
5.1 – Il magnetismo
I fenomeni magnetici elementari, consistenti negli effetti di attrazione di alcuni
metalli (in particolare il ferro) da parte della magnetite, sono noti fin dall’antichità.
Già nell’antica Grecia (Socrate), e nell’antica Roma (Plinio, Lucrezio), troviamo le
prime citazioni di questo fenomeno. I marinai già fin dal XI secolo conoscevano la
capacità magnetica della bussola di orientarsi verso il nord, e risale al 1600 (W.
Gilbert) l’ipotesi che la Terra si comporti come un gigantesco ago magnetico.
Le prime misure rigorose risalgono al 1750 (John Michell) e aumentano di precisione
col passare degli anni (1785, Coulomb).
Nel 1813 l’esperimento di Oersted rivela che vi è un collegamento fra fenomeni
elettrici e fenomeni magnetici, mentre prima di allora questi due mondi erano
considerati come separati.
Un’importante caratteristica dei magneti è che essi sono sempre formati da due
distinti poli, denominati polo nord e polo sud; valgono per essi le stesse regole che
caratterizzano il comportamento delle cariche elettriche: poli uguali si respingono, poli
diversi si attraggono.
Hanno poi un’altra proprietà: dividendo i magneti nel tentativo di separare fra loro i
poli nord e sud, si ottengono invece altri due magneti completi. L’impossibilità di
G
separare i due tipi di poli è espressa dalla relazione div B = 0 , che analizzeremo in
seguito.
Come nel caso dei fenomeni elettrici, è conveniente descrivere l’interazione magnetica
G G
mediante un campo, chiamato B . Il campo B ha linee di forza chiuse che nascono
sempre dal polo nord e terminano nel polo sud.
(Legge di Ampère-Laplace)
G
L’intensità del campo B al centro di una spira circolare di raggio R, percorsa da
corrente i, è invece la somma di tutti i contributi elementari:
G μ dl
dB = 0 i 2
4π R
Calcolando l’integrale:
G G μ
B = v∫ dB = 0 i
2R
Volendo calcolare il valore del campo magnetico su un punto P situato sull’asse della
spira a distanza d dal suo centro O (ipotesi: d R ):
- si cerca il contributo elementare di un frammento infinitesimo di spira sul punto
μ0 i dl
situato sull’asse distante R 2 + d 2 : dB = ;
4π R 2 + d 2
- si tiene conto del fatto che tutti i contributi non diretti lungo l’asse z (sta sul
piano in cui giace la spira) vengono annullati da un contributo simmetrico e
dunque non vanno contati; quelli che davvero influiscono sono
μ0 i dl
dBz = sin ϑ (dove ϑ è l’angolo tra il segmento PO e la congiungente P
4π R 2 + d 2
R
e la il punto sulla circonferenza). Tenendo conto che sin ϑ = :
R +d
2 2
μ Ri dl
dBz = 0 ;
4π
(R )
3
2
+d 2 2
μ0 R 2i
- si integra su tutta la circonferenza: Bz = , ma ricordando che
(R )
2 3
2
+ d2 2
μ 0 R 2i
d R , si ottiene il risultato cercato: Bz ≈ .
2 d3
5.5 – Forze magnetiche su circuiti percorsi da corrente
G
L’esistenza di un campo B in un punto dello spazio produce su cariche in moto
G G G
passanti per quel punto un’azione dinamica dovuta alla forza di Lorentz F = qv × B . Il
G
fatto che un conduttore, posto in un campo B , non subisca l’azione di alcuna forza se
non è percorso da corrente dipende dall’annullamento complessivo di tutte le forze
agenti sui singoli portatori di carica, le cui velocità hanno direzioni dirette
casualmente.
Se invece nel conduttore circola corrente, l’insieme delle forze agenti sulle singole
cariche dà origine a una forza complessiva la cui espressione, per un tratto di
lunghezza infinitesima dl di un conduttore, è data dalla seconda Legge elementare
di Laplace:
G G
dF = i dl × B
Da questa relazione si può ricavare anche quella di Biot-Savart: prendiamo il caso
particolare di un filo di lunghezza finita (da A a C), integriamo su di esso
G C G
F= ∫ i dl × B
ΓA
Desideriamo ora ottenere una nuova formulazione della forza complessiva che un
circuito (1) percorso da corrente esercita su un secondo circuito (2).
G G G G
μ0 dl × r
Combiniamo dunque le relazioni dB = i 3 e dF = i dl × B all’interno di quella
4π r
⎛ G
G μ0 dl1 × r ⎞
appena scritta, per ottenere: F = v∫ i2 dl2 × ⎜⎜ Γ v∫ 4π i1 r 3 ⎟⎟ .
Γ2 ⎝ 1 ⎠
⎛ G
G μ0 dl1 × r ⎞
Portando fuori le costanti: F = i1i2 v∫ dl2 × ⎜ v∫ 3 ⎟
.
4π ⎜Γ ⎟
Γ2 ⎝ 1
r ⎠
La relazione, una volta integrata, indica la forza che il primo filo (corrente: i1 ; distanza
dal filo due: d ) esercita su un tratto di lunghezza l del secondo filo (corrente: i2 ),
G μ0 1 G μ l
diventa: F = i1i2 v∫ dl2 × 2 = F = 0 i1i2 .
4π Γ2 d 2π d
Quest’ultima relazione è utilizzata per definire l’unità di misura dell’intensità della
corrente elettrica: l’ampère è l’intensità di quella corrente che, circolando in due
lunghi fili paralleli posti a distanza di 1 m l’uno dall’altro, produce su ciascuno dei due
una forza per unità di lunghezza di 2 ⋅10−7 N / m .
Tale legge è valida in generale, anche se i conduttori in cui circolano le correnti che
generano il campo non sono rettilinei.
La legge di Ampere può essere espressa in forma differenziale usando il teorema di
Stokes, il quale afferma che il flusso del rotore di un campo vettoriale attraverso una
particolare superficie è uguale alla circuitazione del campo lungo la frontiera della
superficie stessa, cioè che
G G G G
v∫
Γ A ⋅ dr = rotA ⋅ dS , ∫
S
in cui il verso della normale alla superficie S è tale che rispetto ad esso il verso
positivo per il calcolo della circuitazione risulti antiorario.
G G G
Sfruttiamo questa relazione per la circuitazione di B , ricordando che J = Nqvd
(densità di corrente elettrica, sfruttata qui per esprimere la corrente totale):
G G G G
∫ rotB ⋅ dS = μ0 ∫ J ⋅ dS
S S
G G G
(per additività) ∫( )
rotB − μ0 J ⋅ dS = 0
S
G G
dunque rotB = μ0 J
Il teorema di Stokes può inoltre essere riformulato e trasformato in modo da ottenere
G
v∫ ∫
la relazione Γ f dl = − S ∇f × dS .
G
Un’interessante applicazione del teorema d’Ampère consiste nel calcolo del campo B ,
prodotto da un solenoide percorso da una corrente d’intensità i. Il solenoide viene
costruito avvolgendo in modo elicoidale un filo attorno a un cilindro: i parametri che lo
caratterizzano sono la sua lunghezza totale L e il numero N delle spire avvolte.
Considerando un solenoide molto lungo (escludendo la zona immediatamente vicina ai
bordi e considerando il solenoide stesso come una successione di spire circolari piane
estremamente vicine l’una all’altra), utilizziamo una linea chiusa rettangolare tutta
quanta esterna ad esso: non esistendo correnti concatenate con tale linea, il campo
magnetico è uguale per ogni lato di questa linea, e dunque il campo fuori dal
solenoide è uniforme (e pari a zero). Anche il campo all’interno del solenoide è
uniforme (come si può dimostrare con una linea chiusa completamente inserita nello
stesso).
G
Calcoliamo invece la circuitazione di B lungo un circuito chiuso uguale ai precedenti,
ma con un lato all’interno e uno all’esterno del solenoide.
Stabilito un verso della corrente, tenuto conto che il numero di spire concatenate al
Nl
circuito chiuso è ( l è la lunghezza dei lati del circuito scelto e paralleli al
L
solenoide) e che il campo esterno è nullo, applichiamo il teorema di Ampère e
otteniamo:
G con
N
v∫ B ⋅ dl = μ 0 ∑ ik Æ Bint l = μ0
L
li
k
Indicato con n il rapporto N : Bint = μ0 ni (verso: regola della mano destra).
L
Abbiamo evidenziato che:
- nell’attraversare la superficie del solenoide si va incontro a una discontinuità
G
di B ;
G
- il solenoide è l’analogo del condensatore piano, essendo uniforme B al suo
interno; esso è dunque un sistema particolarmente adatto per valutare in modo
semplice la densità di energia del campo magnetico.
Consideriamo una situazione in cui una particella dotata di carica q penetra con
G G G
velocità v in una regione dello spazio in cui è presente un campo B uniforme, con v
G
perpendicolare a B . La forza che agisce sulla carica, di modulo qvB , e diretta
G G qvB
perpendicolarmente a B e v , dà origine ad un’accelerazione di modulo a =
m
G
costante, e di direzione perpendicolare a v . Per indicare, graficamente, una linea di
campo magnetico entrante, si usa il simbolo ⊗, altrimenti (se uscente) si usa : .
Il moto ha quindi le caratteristiche tipiche di un moto circolare uniforme, con
v2 qvB
accelerazione (solo) centripeta pari a =a= . La traiettoria risulta quindi un
r m
mv
arco di circonferenza, di raggio r = .
qB
G
Se dunque una particella carica si sta muovendo con velocità v perpendicolare al
G G
campo B , in una regione in cui B è uniforme, il suo moto è circolare uniforme, con
v qB
pulsazione ω0 = = .
r m
ω0
La frequenza di questo moto prende il nome di frequenza di ciclotrone υ = ,
2π
derivato da quello della macchina acceleratrice di particelle (ciclotrone) in cui trova
applicazione questa proprietà del moto.
5.12 – Riassumendo
Campo generato da:
μ0i
- filo cilindrico percorso da corrente: B= ri
2π R 2
- solenoide: B = μ0 ni
μ Ni
- toroide: B= 0
2π r
μ0 J
- lamina piana: B=
2
- doppia lamina piana: B = μ0 J
6.1 – La legge di Faraday dell’induzione
Fu formulata nel 1831, ma trovata indipendentemente sia da Faraday che da Henry
e nello stesso periodo. Per anni, validi ricercatori avevano cercato inutilmente di
dimostrare che, agli effetti magnetici prodotti da una corrente elettrica e rilevati per la
prima volta da Oersted, dovessero corrispondere effetti (di interazione) provocati da
campi magnetici sulle cariche elettriche. Faraday per primo realizzò le basi
sperimentali necessarie a comprendere che le forze di natura elettrica e quelle
magnetiche rappresentano aspetti differenti di un’unica interazione. Con uno dei suoi
esperimenti, egli dimostrò che il movimento di una calamita, nelle vicinanze di un
circuito elettrico, produceva una corrente; analoghi effetti si osservavano tenendo
fermo il magnete e muovendo la spira. Tale risultato ha un’importanza straordinaria,
non solo sul piano della conoscenza, ma anche dal punto di vista tecnologico, perché è
alla base del funzionamento dei generatori elettrici, che permettono di ottenere
correnti elettriche facendo ruotare un circuito in prossimità di una calamita. Nel
tentativo di ottenere le leggi che regolano i fenomeni che stava studiando, egli costruì
il primo motore elettrico.
Con un’altra serie di esperimenti, Faraday mise in evidenza che, utilizzando due
avvolgimenti formati da numerose spire e schematizzati con due spire affacciate l’una
all’altra, chiudendo il contatto A che fa circolare corrente nella prima di esse, il
galvanometro G, inserito nel circuito della seconda, registra un passaggio di corrente
(indotta). Lo stesso fenomeno si manifesta quando il contatto A viene aperto,
interrompendo la circolazione della corrente nella prima spira. In quest’ultimo caso, il
galvanometro indica che il verso della corrente è opposto a quello della corrente
osservata alla chiusura del circuito. Il punto fondamentale è che tali fenomeni si
manifestano solo nella fase in cui la corrente del primo circuito non è stazionaria; nella
situazione stazionaria, infatti, Faraday osservò che il galvanometro non segnava il
passaggio di alcuna corrente indotta. Si tratta, in fondo, di effetti analoghi a quelli che
si verificano avvicinando o allontanando un magnete da una spira; solo mentre il
magnete è in moto si osserva passaggio di corrente, il cui verso di circolazione nella
spira dipende da quello in cui si sta muovendo il magnete.
Le osservazioni sperimentali sopra descritte portarono Faraday alla conclusione che
G
tutti gli effetti osservati sono dovuti alla variazione temporale del flusso Φ ( B ) del
campo magnetico concatenato con la spira. Il verso in cui circola la corrente indotta è
tale che il campo magnetico da questa a sua volta generato si opponga alla
variazione che l’ha prodotto (Legge di Lenz). La circolazione di una corrente nella
spira dimostra l’esistenza di una forza elettromotrice (indotta) prodotta dalla
variazione del flusso. L’analisi quantitativa dei risultati sperimentali porta a stabilire la
Legge dell’induzione:
G
d Φ( B)
femind =−
dt
Il segno negativo esprime in modo formale la legge di Lenz. Va posta attenzione al
fatto che tale segno non ha, in realtà, carattere assoluto, essendo condizionato dal
modo in cui si fissa il versore della superficie delimitata dalla spira.
G
- versore n Æ quello determinato dal corrente positiva circolante in senso
antiorario lungo (ad es.) una spira;
- corrente indotta i: si guardi la direzione delle linee di forza del campo
magnetico (entranti o uscenti);
G
o il magnete si avvicina (direzione n ) con linee di forza entranti nella spira:
la corrente ha senso orario (con la regola della mano destra, la corrente
indotta “segue” il moto del magnete);
G
o il magnete si allontana (direzione - n ) con linee di forza entranti nella
spira: la corrente ha senso antiorario (con la regola della mano destra, la
corrente indotta “segue” il moto del magnete);
G
o il magnete si avvicina (direzione n ) con linee di forza uscenti dalla spira:
la corrente ha senso antiorario (con la regola della mano destra, la
corrente indotta “si oppone” al moto del magnete);
G
o il magnete si allontana (direzione - n ) con linee di forza uscenti dalla
spira: la corrente ha senso orario (con la regola della mano destra, la
corrente indotta “si oppone” al moto del magnete).
Il flusso tagliato è un meccanismo che, nei generatori elettrici, è alla base delle
trasformazioni di energia dalla forma meccanica a quella elettrica. La parte in
movimento, dovendo rimanere confinata all’interno della macchina, deve
necessariamente ruotare attorno ad un asse fisso. Schematizziamo la situazione
considerando una spira rettangolare, avente lati di lunghezza a ed l (lato l parallelo
G G
all’asse di rotazione, perpendicolare al campo B ), che ruota con velocità angolare ω
attorno a un asse fisso passante per i punti medi dei lati di lunghezza a, all’interno di
G
un campo magnetico uniforme B . Le forze di Lorentz agenti sulle cariche mobili
presenti nei due conduttori di lunghezza a sono dirette perpendicolarmente ai
conduttori e quindi non danno alcun contributo alla forza elettromotrice (non
circolano!). Le cariche di conduzione presente invece nei tratti di lunghezza l si
aω
muovono rispetto al campo con velocità di modulo v = ; se ϑ è l’angolo tra i vettori
2
G G
v (= velocità tangenziale istantanea di rotazione della spira) e B , il campo
G G
− ev × B G G
elettromotore derivante dalla forza di Lorentz risulta Eem = = v × B , diretto
−e
parallelamente ai lati di lunghezza l. Di conseguenza, il modulo del campo è dato da
G G
Eem = vB sin ϑ (massimo quando la v è perpendicolare a B ). La differenza di
potenziale agli estremi del tratto di lunghezza l è dunque ΔV = vBl sin ϑ . Sul lato
parallelo si verifica un effetto analogo, e poiché i due campi elettromotori agenti nei
due lati paralleli sono opposti, i loro contributi alla circuitazione si sommano, dando
G
come risultato: fem = 2ΔV = 2vBl sin ϑ . Tenendo conto del valore di v (= ω a / 2 ), si
ottiene: fem = ω Bal sin ϑ = ωΦ sin ϑ , dove Φ = Bal è il flusso massimo del campo
G
magnetico attraverso la superficie della spira (che si ha quando B e il versore
G
normale alla spira n normale alla spira sono paralleli e concordi).
Al variare di ϑ nel tempo, sin ϑ assume valori positivi e negativi, per cui se la spira è
interrotta in un punto e ruota con velocità angolare costante, fra i due estremi si
ottiene una forza elettromotrice che varia nel tempo con legge
fem = fem0 sin ωt
Essa non è continua, ma alternata, e il suo verso cambia nel tempo con la stessa
frequenza di rotazione della spira. Se tale spira non è interrotta, in essa circola
corrente con intensità e verso che cambiano nel tempo secondo la legge
fem0 sin ωt
i = fem =
R R
6.4 – Rotore di E
G
In generale, un campo elettrico E avrà anche il contributo di una parte elettrostatica
G G
ES (per la quale ∇ × ES = 0 ); quindi, la validità sperimentale della Legge di Faraday
implica anche la relazione:
G
G G ∂B
rotE ≡ ∇ × E = −
∂t
Tale equazione risulta valida, in ogni punto di regolarità dei campi, in presenza di un
campo magnetico variabile nel tempo, anche in assenza di un circuito elettrico. Ad
essa corrisponde la forma integrale:
G
G G ⎛ ∂B ⎞ G
v∫ E ⋅ dr = − ∫ ⎜⎝ ∂t ⎟⎠ ⋅ dS
Γ S
(valida per ogni linea geometrica chiusa Γ)
Le due equazioni ora esaminate rappresentano una nuova e fondamentale legge
dell’Elettromagnetismo, e sostituiscono le leggi (solo statiche):
G
G G ⎛ ∂B ⎞ G G G
v∫ E ⋅ dr = − ∫ ⎜⎝ ∂t ⎟⎠ ⋅ dS Å v∫ ⋅ dr = 0
E
Γ S
G
G G ∂B G
rotE ≡ ∇ × E = − Å rotE = 0
∂t
Mostrano inoltre che un campo elettrico può essere prodotto non solo da cariche
elettriche, ma anche da campi magnetici variabili nel tempo.
6.5 – Mutua induzione e autoinduzione
La legge di Faraday stabilisce una connessione fra le variazione dell’intensità di
corrente in un circuito e gli effetti che esse producono in circuiti posti nelle vicinanze o
nel circuito stesso. I fenomeni di induzione elettromagnetica non sono stazionari e
quindi, in linea di principio, per il calcolo del campo magnetico non potrebbero essere
utilizzate le stesse relazioni discusse nel capitolo 5 per i campi magnetici stazionari.
Tuttavia, si può dimostrare che gli errori indotti dall’uso delle leggi della
magnetostatica nel calcolo di flussi e campi sono trascurabili (purché essi non
cambino molto rapidamente nel tempo).
Teniamo presente questa premessa nei casi che esaminiamo ora: abbiamo due
G
circuiti, con il primo concatenato nel secondo. Il flusso del campo B1 (prodotto dalla
corrente di intensità i1 , circolante nel circuito 1) concatenato col circuito 2 si scrive
G
allora come: Φ 2 ( B1 ) = M12i1 . M12 è detto coefficiente di mutua induzione (o mutua
induttanza). In modo del tutto analogo, si può scrivere il flusso concatenato col
G
circuito 1, dovuto al campo B2 (prodotto dalla corrente di intensità i2 , circolante nel
G
circuito 2): Φ1 ( B2 ) = M 21i2 .
Si vedrà che vale la relazione M12 = M 21 = M . L’unità di misura di M è l’Henry [H].
6.5.1 – Solenoide
A titolo d’esempio, consideriamo la situazione in cui un solenoide formato da N
avvolgimenti, ciascuno di area A, è collocato al centro di un secondo solenoide
più lungo, di lunghezza lS , costituito da N S avvolgimenti attorno ad un cilindro,
avente sezione di area S > A.
Si vuole calcolare il coefficiente di mutua induzione del primo solenoide sul
secondo, nell’ipotesi che i due sistemi abbiano gli assi coincidenti. Sfruttiamo la
proprietà M12 = M 21 = M per trovare M, ad esempio, come coefficiente di mutua
induzione del solenoide più grande su quello più piccolo.
Ci serve il flusso del campo prodotto dal solenoide più grande su quello più
piccolo (il quale è concatenato con N avvolgimenti di area A del solenoide più
piccolo):
G ANN S N
Φ ( B) = NAB = μ0 i dato che B = μ0i S ;
lS lS
G
G Φ (B ) Φ ( B) ANN S
siccome Φ 2 ( B1 ) = M12i1 Æ 2 1 = M12 possiamo dire che M = = μ0 .
i1 i lS
Naturalmente, se in un circuito varia l’intensità di corrente, si ha anche una variazione
del flusso magnetico concatenato con il circuito stesso. In questo caso si definisce un
coefficiente di autoinduzione L, spesso chiamato anche induttanza, legato al flusso
G
del campo magnetico dalla relazione Φ ( B ) = Li [H].
Un circuito percorso da corrente di intensità variabile nel tempo diventa sede di una
forza elettromotrice che si oppone alla variazione che l’ha generata e che è legata a
di
questa dalla relazione: fem = − L .
dt
6.5.2 – Solenoide (II)
Calcoliamo ora l’induttanza di un lungo solenoide di lunghezza lS , costituito da
N S avvolgimenti attorno ad un cilindro avente sezione di area A, nell’ipotesi in
cui si possa considerare il solenoide come infinito: ciò equivale a supporre che il
campo vicino ai bordi del solenoide abbia lo stesso valore che ha al centro (sia
NS
cioè uniforme). Assumiamo dunque B = μ0i ovunque, internamente al
lS
solenoide, e valutiamo il flusso complessivo moltiplicando l’intensità del campo
AN S2
per l’area A delle spire e per i loro numero complessivo N S : Φ ( B ) = μ0 i.
lS
G Φ ( B) AN S2
Ricordando che Φ ( B ) = Li , si ottiene per L il valore: = μ0 .
i lS
Se i circuiti coinvolti sono più di due, allora in ciascuno di essi si manifestano fenomeni
sia di autoinduzione che di mutua induzione. In tale caso, per il primo di essi potrà
di1 di
essere scritta la forza elettromotrice indotta nella forma: fem1 = − L1 −M 2 .
dt dt
6.5.3 – Correnti di Foucault
Le correnti di Foucault, dette anche correnti parassite, sono un esempio di
correnti indotte che compaiono quando cambia nel tempo il flusso di un campo
magnetico attraverso un conduttore. Gli effetti di tali correnti mostrano
esplicitamente il significato della Legge di Lenz. Una sperimentazione efficace
potrebbe consistere nel far oscillare un pendolo costituito da un conduttore
appeso a un filo in una regione in cui è presente un campo magnetico.
Il campo magnetico entro cui si muove il pendolo può essere quello generato da
un elettromagnete. Inizialmente si fa oscillare il sistema a elettromagnete
spento; quando però l’elettromagnete viene attivato, si osserva un
rallentamento del pendolo: la variazione di flusso magnetico concatenato ha
generato nel conduttore piccole spire di corrente, naturalmente con verso tale
da opporsi alla variazione del flusso. Dal punto di vista energetico, il
rallentamento è dovuto a dissipazione dell’energia meccanica: le correnti
indotte, infatti, possono sviluppare calore per effetto Joule, energia che verrà
sottratta all’energia meccanica dell’oscillazione.
Si nota che le due formule hanno la stessa forma, che è poi quella dell’equazione di
D’Alembert (tridimensionale):
1 ∂2 f
∇2 f =
v 2 ∂t 2
(equazione d’onda)
Si sostituisca a v la velocità c della luce (con cui si propagano le onde
elettromagnetiche nel vuoto).
È sperimentalmente confermato che per tutte le onde elettromagnetiche la velocità di
propagazione nel vuoto ha lo stesso valore in tutti i sistemi di riferimento inerziali.
Questo fatto, assieme al Principio di Relatività, impone la validità delle leggi di
Maxwell in ogni sistema di riferimento e la necessità di sostituire le trasformazioni di
Galileo con quelle di Lorentz.
(teorema di Poynting)
Da qui si vede che un trasferimento di energia alla materia in V, ad opera del
campo, deve essere accompagnato da una diminuzione dell’energia totale del campo
elettromagnetico: i due termini suddetti corrispondono a due modalità di realizzazione
di tale variazione, il primo mediante una variazione dell’energia elettromagnetica
“immagazzinata” nel volume V, il secondo per mezzo di un flusso netto di energia
attraverso la superficie chiusa che racchiude V.
In base a queste considerazione è lecito:
- considerare u = 1 ε0E2 + 1 B 2 come densità di energia del campo
2 2 μ0
elettromagnetico;
- porre U em = ∫ ⎛⎜ 1 ε 0 E 2 + 1 B 2 ⎞⎟dV (energia elettromagnetica
⎝ 2 2 μ0 ⎠
V
immagazzinata nel volume V);
- considerare la somma dell’energia U mat trasferita (per unità di tempo) alla
materia e quella U em immagazzinata nel volume V nella forma:
∂ ⎛ E×B ⎞
(U mat + U em ) = − ∫ ⎜ ⎟ ⋅ dΣ ≡ − ∫ S ⋅ dΣ
∂t Σ⎝
μ 0 ⎠ Σ
(dove S è detto vettore di Poynting)
Tale vettore corrisponde all’energia che “fuoriesce” per unità di tempo da V,
“trasportata” del campo elettromagnetico per mezzo di onde elettromagnetiche.
∂
NOTA: in forma locale (umat + uem ) = −∇ ⋅ S ; in essa S rappresenta il flusso di
∂t
energia analogamente a come J rappresenta il flusso di carica.
Il teorema di Poynting ha validità generale e, nel caso particolare in cui applichiamo
il teorema in una parte di spazio completamente priva di materia, esso ci aiuta a
definire il trasporto di energia associato alla propagazione delle onde.
Nel caso di onde elettromagnetiche piane, in cui E e B sono perpendicolari fra loro, il
vettore di Poynting ha la direzione di propagazione dell’onda, e il suo modulo è:
EB cB 2
S= = = cε 0 E 2
μ0 μ0
1.1 – Coordinate termodinamiche
Un sistema termodinamico è definito come un insieme di uno o più corpi, di composizione
nota, che si trovano in una regione dello spazio delimitata da superfici (reali o ideali) che li
distinguono dagli altri corpi o sistemi con cui essi possono interagire, e che costituiscono il
cosiddetto ambiente circostante del sistema. L’insieme formato dal sistema termodinamico
e dal suo ambiente circostante si chiama universo termodinamico del sistema. Le
interazioni del sistema con il suo ambiente possono avvenire mediante scambi di energia e di
materia; si definiscono aperti i sistemi che sono in grado di scambiare sia energia che massa
con l’ambiente, chiusi quelli che possono scambiare solo energia e isolati quelli che non
possono effettuare alcuno scambio.
Per descrivere i sistemi termodinamici si introduce un certo numero di grandezze fisiche
macroscopiche dette coordinate termodinamiche, direttamente osservabili e misurabili.
∆t 2 ∆t
I = 2 mvxi = mvxi
2 L / vxi L
Sommando i contributi di tutte le particelle:
∆t
I tot = ∑ mvxi
2
i L
Siccome il modulo dell’impulso (appena trovato), diviso per l’unità di tempo, dà come risultato
la forza media esercitata sulle pareti, otteniamo che questa è pari a
m
fx = ∑
L i
2
vxi
Siccome, facendo analoghe considerazioni, otteniamo un uguale valore anche per v yi2 e vzi2 , ed
essendo valida la relazione: v 2 = v x2 + v y2 + v z2 (in cui tutte le velocità nella somma sono uguali),
Si mostrerà poi che le macchine il cui scopo è la trasformazione di energia interna in energia
meccanica, attraverso scambi di calore, costituiscono sistemi che realizzano trasformazioni
cicliche; se un sistema termodinamico compie una trasformazione di tal genere, che lo
riporta nello stato iniziale, anche la sua energia interna, che è una funzione di stato, torna ad
essere quella iniziale; perciò risulta: ΔU = 0 . Per il primo principio della dinamica si ha allora
che: ΔU = Q − L ⇒ Q = L .
Il calore complessivamente scambiato dal sistema in una trasformazione ciclica è perciò
uguale al lavoro totale fatto dal sistema. Si dice dunque che un sistema può compiere un
lavoro (positivo) durante una trasformazione ciclica solo se, nel complesso, riceve dall’esterno
un’uguale quantità di calore.
Unità di misura: caloria [cal] (Æ non S.I.) = 4,186 J (Æ S.I.);
Nel caso di trasformazioni quasi statiche (per le quali sono continuamente definite le
variabili macroscopiche), il Primo Principio della Termodinamica può essere scritto in forma
differenziale:
dU = δ Q − δ L
Questa relazione, attraverso l’utilizzazione di simboli diversi (d e δ ) mette in particolare
evidenza l’importante differenza fra la variazione dU (che è un differenziale esatto), della
funzione di stato U e le quantità elementari δ Q e δ L , i cui valori dipendono dalla
trasformazione.
Un’altra grandezza, funzione di stato, di uso frequente nei casi di trasformazioni a pressione
costante, è l’entalpia, definita come: H = U + pV .
Nelle trasformazioni a pressione esterna ( pe ) costante, poiché il lavoro è L = pe ΔV , per il
Primo principio si ha: Q p = ΔU + pe ΔV = H f − H i ≡ ΔH .
2.4.1 – Conduzione
Dal punto di vista sperimentale, il modo più semplice per mettere in evidenza questo
meccanismo di trasporto consiste nello scaldare uno dei due estremi della barretta
meccanica. All’equilibrio, anche la temperatura del secondo estremo risulta aumentata.
La conduzione di calore è descritta dalla Legge di Fourier, secondo la quel il flusso di
energia è opposto al gradiente di temperatura ed è proporzionale a una grandezza,
chiamata conducibilità termica K, che è tipica del materiale. Si può quindi
esprimere la quantità di calore infinitesima che, nel tempo dt, attraversa una lamina di
materiale di superficie dS e spessore dx, con un salto termico dT, nella forma:
dT ⎡W ⎤
δ Q = − KdS dt ⎢⎣ mK ⎥⎦
dx
Il segno negativo indica che il calore fluisce dalla faccia più calda a quella più fredda
della lamina. Integrando in maniera opportuna questa formula, si può ottenere il flusso
di calore attraverso una parete:
δ Qdx = − K dS dT dt
Integrando su tutte le variabili, indicato con D lo spessore, con A l’area della superficie,
con T1 e T2 le temperature sulla faccia interna ed esterna della parete, si ottiene la
quantità di calore che, nell’intervallo di tempo Δt , attraversa la parete:
A
Q =K T1 − T2 Δt
D
Il meccanismo di trasporto per conduzione dipende dal fase del materiale:
- metalli: è dovuto alle vibrazioni reticolari e alla possibilità di trasferimento degli
elettroni di conduzione; se si confronta il coefficiente di conducibilità termica con
quello di conducibilità elettrica si vede infatti che i migliori conduttori di
elettricità sono anche i migliori conduttori di calore: tale osservazione suggerisce
che il meccanismo prevalente sia associato alla mobilità degli elettroni di
conduzione. Nella parte più calda della barretta, infatti, la velocità media di tali
particelle è maggiore e, impoverendosi di elettroni il lato più caldo, si produce una
differenza di potenziale elettrico (effetto termoelettrico);
- gas: il trasporto del calore è dovuto al movimento degli atomi o delle molecole (si è
vista la relazione fra la loro energia cinetica e la temperatura); essendo queste
particelle in continuo movimento, esse si scambiano energia e quantità di moto
nei loro urti reciproci e la trasferiscono piano piano dalla regione più calda verso
quella più fredda;
- liquidi: il meccanismo è qualitativamente lo stesso di quello dei gas, ma la
situazione è resa più complicata dal fatto che le distanze medie fra le molecole
sono molto più piccole e non si possono trascurare le forze intermolecolari.
2.4.2 – Convezione
Il trasporto di calore per convezione implica la presenza di un fluido (quasi sempre aria
o acqua) e, se si escludono i fenomeni naturali, le sue interazioni con una parete solida.
Consideriamo ad esempio il problema del raffreddamento in aria di una lamina
metallica riscaldata. La quantità di calore che può essere asportata dall’aria nel tempo
Δt dipende in maniera critica dal fatto che l’aria venga spinta o meno verso la lamina e
può essere espressa mediante una relazione assai semplice, nota come Legge di
Newton:
Q = hA(T − T∞ )Δt
(Dove A rappresenta l’area della superficie esposta al flusso, T eT∞ sono le temperature sulla superficie
della lamina e del fluido a grande distanza)
Il coefficiente h dipende dalla natura del fluido, dalla geometria del sistema e dal
regime di trasporto del fluido.
2.4.3 – Irraggiamento
Il fenomeno dell’irraggiamento consiste nel trasporto di calore per onde
elettromagnetiche: la vita sulla Terra esiste in virtù dell’energia termica che il Sole
fornisce in tale modo al nostro pianeta. L’energia irradiata da un corpo dipende dalla
sua temperatura, dall’area A della superficie radiante e dal tempo Δt , secondo la legge
di Stefan:
Q = εσ AT 4 Δt
W
σ = 5,67051 ⋅108 = costante di Stefan-Boltzmann;
m2 K 4
ε = 1 solo in caso di corpo nero (che assorbe tutte le variazioni dalle quali è investito);
altrimenti è ε < 1 .
Un’altra legge importante per l’irraggiamento è la Legge di Wien, che indica come il
prodotto fra la lunghezza massima λmax delle onde emesse da un corpo caldo e la
temperatura T sia costante e pari a:
λmaxT = costante = 2,898 ⋅10−3 mK
Dunque, tutti i corpi emettono energia per radiazione, anche se ci accorgiamo soltanto
delle radiazioni elettromagnetiche che il nostro occhio è in grado di percepire (spettro
visibile).
Sperimentalmente si nota che vi sono situazioni fisiche nelle quali un sistema non cambia la
propria temperatura, pur scambiando calore con l’ambiente circostante. Questo avviene
quando nel sistema sta avvenendo un cambiamento di fase (o di stato); viene chiamato
calore latente (di fusione o di evaporazione) il calore necessario a far cambiare fase alla
massa unitaria di una certa sostanza; esso risulta equivalente alla corrispondente variazione
di entalpia.
Infine, accenniamo un interessante risultato sperimentale (legge di Dulong e Petit), secondo
cui quasi tutti i calori molari dei solidi degli elementi chimici tendono allo stesso valore, per
temperature sufficientemente grandi.
QT' = ∑ Qi . Per l’enunciato di Kelvin del secondo principio QT' ≤ 0 e quindi la macchina trasforma lavoro in
'
calore.
Q1 Q2
D’altra parte, però, per ogni macchina di Carnot Ci vale la + ≤ 0 quindi si ha che:
T1 T2
Qi' ( −Qi ) Q
+ = 0 ⇒ Qi' = T0 i
T0 Ti Ti
Q Q
QT' = ∑ Qi = T0 ∑ i ≤ 0 ⇒ ∑ i ≤ 0
'
Ti Ti
Si può dimostrare che, se la macchina M è reversibile, nella formula appena scritta vale il segno di uguaglianza.
In tal caso, infatti, è possibile realizzare il ciclo inverso, nel quale tutte le quantità in gioco hanno lo stesso
Q
modulo ma cambiano segno. Se ne deduce una relazione identica a ∑ Ti ≤ 0 , ma con tutti i calori cambiati di
i
segno:
−Qi Q
∑ Ti
≤0⇒∑ i ≥0
Ti
Q
Che sono compatibili solo se ∑ Ti = 0 .
i
L’estensione a una trasformazione ciclica in cui la temperatura del sistema varia con continuità, equivalente a
considerare un numero di serbatoio tendente all’infinito, è immediata: chiamando δ Q il calore scambiato con il
δQ
serbatoio a temperatura T, si ha v∫ T
≤ 0.
4.1 - Entropia
δQ
Nel caso di cicli reversibili, la relazione ∫ T
≤ 0 equivale ad un’importante proprietà:
f δQ
l’indipendenza dalla trasformazione eseguita dell’integrale ∫
R i
T
≤0 (che ora non
[da terminare…]