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L’Ottobre e la letteratura

17 martedì Giu 2014

Posted by György Lukács in I testi

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avanguardia, Böll, Beethoven, Blok, Fadeev, Gorkij, Lenin, letteratura, Makarenko,


Morante, O'Neil, rivoluzione, Semprun, Solženicyn, Stalin, Styrov, Vercors, Weiss,
Šolochov
Natan Altman. The Arch of the General Staff. 1918 di Nathan Altman (1889-1970,
UKRAINE)

«Rinascita» n. 42, 27 ottobre 1967

Questo articolo è stato scritto dal grande filosofo marxista ungherese per la rivista
di cultura cecoslovacca «Plamen», per gentile concessione della quale lo
pubblichiamo contemporaneamente alla sua uscita a Praga.

1. La combinazione di questi due concetti molto raramente, in poche persone, suscita


una immagine unitaria e conchiusa. Infatti l’incontestabile verità — astratta però
rispetto all’esperienza immediata, — che oggi non può esserci uomo le cui fondamenta
esistenziali e i cui modi di pensiero non siano determinati in maniera decisiva
dall’Ottobre e dalle sue conseguenze, tale verità è difficilmente concretabile per i
singoli appunto a causa di questa sua universalità. Inoltre le leggende sorte pro e contro
creano oscurità sui fatti, insieme semplici ed estremamente complessi, delle grandi
giornate rivoluzionarie ed anche sugli anni, importanti e ricchi di mutamenti, che di
necessità ne uscirono. Cosicché, specialmente per chi non abbia vissuto di persona quei
tempi, non è affatto facile aver concretamente chiara la connessione, pur razionalmente
ammessa, con le questioni della vita d’oggi.
Se ora, io che sono stato contemporaneo — all’inizio osservatore da lontano, più tardi
militante, se anche modesto, ma certo attivo — di questa svolta del mondo, cerco oggi
di riassumerne nella memoria l’essenza e le conseguenze, e di riferire al presente il
risultato così raggiunto, come primo passo verso tale concretizzazione, mi si rileva la
figura di Lenin, il motore centrale, il cervello guida, la personificazione visibile della
rivoluzione. E la sua figura si cristallizza meravigliosamente da un lato nella unità
inscindibile di una potente volontà verso ciò che è radicalmente nuovo, e dall’altro in
una matassa di contraddizioni reali dalla cui intima connessione risulta
contemporaneamente la monumentalità umana della sua opera e la vastità dei problemi
che quell’epoca aprì di necessità per ogni uomo.

Massimo Gorkij ha descritto nel modo più calzante l’effetto affascinante provocato da
Lenin, che era, poi, il fascino della grande Rivoluzione, la ragione per la quale questi
due momenti suscitavano nelle più diverse persone un odio infinito o l’amore più
entusiasta. Secondo Gorkij, Lenin sapeva, «come nessuno prima di lui, impedire alla
gente di continuare nel suo abituale modo di vita». Non si dimentichi: tutto ciò avveniva
nel 1917, avveniva anche a persone che non vivevano in Russia, nel mezzo di una
guerra mondiale che aveva fatto rovinare a tutto il mondo borghese, insieme con i suoi
ideali, l’immaginaria sicurezza precedente il 1914, una guerra che costringeva ciascuno
a riproporsi il problema della sensatezza o della insensatezza anche della propria vita
privata. Ciò che Gorkij esattamente delinea qui come essenza dell’attività di Lenin,
come irradiamento delle sue azioni, era l’essenza dell’epoca stessa, la domanda che
questa rivolgeva ad ogni singolo individuo.

Nel suo aspetto più esteriore, «tale domanda sembra riguardare la violenza o la non
violenza, se cioè approvare o negare un suo diritto universale a determinare, nell’intimo
e all’esterno, la vita degli uomini. Per Lenin la risposta positiva era ovvia. Egli sapeva e
proclamava, come marxista coerente, che quando l’umanità distrugge le sue vecchie
forme di vita e s’accinge a costruire forme sostanzialmente nuove, sempre deve entrare
in azione la violenza come inevitabile motore del rinnovamento. Non è questo il luogo
per discutere l’aspetto storico-filosofico di tale alternativa. La stessa realtà sociale ha
dato la risposta, annullando importanti voci contrarie come quella di Gandhi. Questa
questione però, per la maggior parte di coloro che allora erano in vita, non era
semplicemente un problema storicamente oggettivo. Per ciascuno di noi, la cui storia
giungeva a questo bivio, la domanda si faceva personale, intima: quale posizione
assumere, se la mia propria esistenza deve avere un senso, nei confronti di questa
alternativa? Anche qui Gorkij ha molto chiaramente rilevato tale contraddittorietà, che
risulta evidente da diversi frammenti di colloquio con Lenin. Il poeta si lamentava della
crudeltà della vita quotidiana rivoluzionaria e nella replica, afferma il cronista, sorpresa
e irata di Lenin vi è questa frase: «Con che metro misura lei, in una zuffa, il numero dei
colpi necessari e di quelli superflui?». In un altro colloquio dello stesso periodo Lenin
parla del suo amore per l’Appassionata di Beethoven, che egli però non voleva ascoltare
troppo spesso. E, secondo l’espressione di Gorkij, «non proprio allegramente» aggiunse:
«Si vorrebbero dire amabili sciocchezze e accarezzare il capo a uomini simili che, pur
vivendo in un inferno ripugnante, riescono a creare cose tanto belle». Invece si deve,
così conclude, «colpire senza pietà, sebbene noi, secondo il nostro, ideale, siamo contro
ogni violenza nei confronti dell’uomo».

Naturalmente, in questo groviglio di tendenze e controtendenze, esiste una sicura norma


di azione: il marxismo. Ed è superfluo dire quanto sia sempre stata importante per Lenin
la sua dottrina integra, schietta. Durante la guerra, dopo lo scoppio della rivoluzione,
negli anni del potere sovietico, la sua aspirazione fu costantemente questa: esporre la
dottrina nella sua vera struttura, ripulita da tutte, le falsificazioni semplificatrici,
applicarla secondo il suo senso vero. Non lo si mette in caricatura, ma si nota uno dei
suoi aspetti, e non dei meno importanti, quando si considera Stato e rivoluzione una
descrizione filologicamente esatta delle opinioni di Marx su questo insieme di problemi
nella loro continuità storica. E nella pratica la repubblica dei Soviet appare di fatto come
la chiave di volta, realizzata, di questo sistema di idee. Lo stesso Lenin però, al
momento di introdurre la NEP, così descriveva la situazione teorica in relazione ai
problemi del capitalismo di Stato nel socialismo: «A Marx non venne neppure l’idea di
scrivere anche una sola parola su questa questione, e morì senza lasciare né una
citazione né una indicazione incontrovertibile. Dobbiamo quindi cercare di aiutarci da
noi stessi». E allo stesso modo il comunismo di guerra, già passato e in via di
superamento, non lo considerava affatto una realizzazione della teoria di Marx. Esso
«nacque forzatamente per la guerra e le rovine. Non era una politica che corrispondesse
ai compiti economici del proletariato e neppure poteva esserlo. Si trattava di un
provvedimento provvisorio».
Questo atteggiamento marxista allora — dopo decenni di deformazione e
cristallizzazione opportunistico-dogmatica del marxismo — apparve a molti
estremamente paradossale. E appare paradossale anche oggi, dopo decenni di
deformazione dogmatica sotto Stalin. E questa paradossalità aumenta ancora se ci
mettiamo davanti agli occhi il problema fondamentale della rivoluzione russa. Il
marxista ortodosso Lenin fece esattamente il contrario di quanto diceva la previsione
teorica di Marx — in linea di principio giusta, — secondo la quale la rivoluzione
proletaria sarebbe scoppiata e avrebbe vinto dapprima nei paesi capitalistici più evoluti
che avessero già liquidato i resti dell’arretratezza feudale. La Russia si trovava nel 1917
in una situazione rivoluzionaria e ciò, come Lenin giustamente vide, in relazione sia ai
fattori oggettivi che a quelli soggettivi. La grande alternativa, capitalismo o socialismo,
non venne posta da Lenin, e neppure dal suo partito, ma imperativamente dalla realtà
sociale stessa. E Lenin si rese sempre conto fino in fondo del carattere alternativo della
storia. Non esistono, diceva, situazioni senza uscita, non esiste cioè una «necessità»
meccanicisticamente fatale dello sviluppo. Questo è il risultato delle attività umane,
certo non solo degli individui, ma delle classi, delle masse. Per questo, secondo Lenin,
una situazione rivoluzionaria nasce solo «quando “gli strati inferiori” non vogliono più
il vecchio ordine e gli “strati superiori” non possono più vivere alla vecchia maniera».
La guerra mondiale imperialista aveva creato in Russia una tale situazione
rivoluzionaria e per i marxisti russi si trattava di reagire praticamente all’alternativa che
in tal modo era stata loro posta.

Ed essi lo fecero, prima di tutto su appassionata iniziativa di Lenin, in un modo che


contraddiceva la previsione teorica di Marx. Così Lenin fu alla testa di una rivoluzione
sociale che, secondo un marxismo rigoroso, era irregolare. Ma la storia lo ha
giustificato; noi sappiamo infatti che, nel corso di mezzo secolo, essa è diventata una
determinazione esistenziale per gli uomini di tutto il mondo. Ma comunque, anche in
questo caso Lenin ha forse negato la validità della teoria di Marx? Niente affatto. Egli
ha sempre saputo che la Rivoluzione russa era un fatto decisivo nella storia del mondo,
che bisognava approvare incondizionatamente; ma al tempo stesso sapeva che, benché
questa grande iniziativa avrebbe efficacemente agito da esempio sul piano
internazionale, essa non avrebbe potuto fare a meno di incarnare per lungo tempo
quell’arretratezza economica che caratterizzava la Russia di allora in contrapposizione
ai paesi capitalistici altamente sviluppati. Lenin agì dunque contro i presupposti teorici
di Marx — ed agì bene, — ma senza dubitare un solo istante della loro validità sul
piano storico universale. Per questo nel 1920 egli può scrivere positivamente sul
significato internazionale della Rivoluzione russa. E tuttavia aggiunge: «Sarebbe
ugualmente un errore dimenticare che dopo la vittoria della rivoluzione proletaria, anche
se in un solo paese progredito… la Russia sarà immediatamente non più un modello, ma
di nuovo un paese arretrato (nel senso del socialismo e del sistema sovietico)».

Queste riflessioni non vogliono fornire un quadro completo, e neppure vogliono


avvicinarsi a tanto. Perciò interrompiamo qui, accennando soltanto, come conclusione
integrativa, che Lenin, notoriamente il teorico di una rigida disciplina di partito,
ugualmente nel 1920, a proposito del modo di mantenerla e di controllarla, scrisse che
essa «si realizza… con la giustezza della direzione politica; con la giustezza della sua
strategia e tattica politica, a condizione che le più larghe masse si convincano della sua
giustezza per propria esperienza». Altrimenti la disciplina di partito si muta
«inevitabilmente in una finzione, in una frase, in una farsa». La contraddizione, che
qualche lettore attuale vi sente, è appunto l’unità leniniana tra disciplina di partito
comunista e democrazia proletaria realizzata.

Allo stesso modo, tutto quanto negli esempi precedenti è apparso in superficie
contraddittorio, non è nient’altro che un aspetto singolo di questo processo
grandiosamente complicato e tuttavia grandiosamente unitario. Proprio perché questa
unità costituisce il nucleo, l’essenza di tale processo, proprio perché la contraddittorietà
in esso esprime solo la sua onnilateralità, la sua onnicomprensività, la sua intrinsecità
rivoluzionatrice di tutto, appunto questo carattere della Rivoluzione del 1917, il
carattere del suo centro spirituale, Lenin, non poteva non agire in modo tanto
irresistibilmente affascinante (o, a seconda della classe e dell’atteggiamento,
veementemente scostante). La crisi latente del vecchio mondo, già da qualcuno avvertita
nel periodo della sicurezza come una corrente spirituale sotterranea, entrò come un
uragano nella vita quotidiana degli uomini e li mise davanti a una cataratta di alternative
le più diverse, mentre il vecchio mondo non era neppure in grado di formulare i propri
problemi, balbettava oppure si inventava miti a richiesta. Di contro stava questa unità
radiante e luminosa nell’esistenza e negli atti di un paese: la Russia rivoluzionaria. Non
c’è da meravigliarsi che ogni opposizione, nella quale fosse viva anche solo una scintilla
di autenticità, non potesse fare a meno di guardare in quella direzione. Walter Jens, che
nessuno può sospettare di simpatie comuniste, ha scritto una volta: « Nessuno può
mettere in dubbio infine che l’arte degli anni venti fu improntata, e non in piccola
misura, dallo sguardo rivolto all’Unione Sovietica».

Proletarians of all countries – Unite!, 1920 di Nathan Altman (1889-1970, UKRAINE)

2. E l’arte nostra? L’inizio sembra semplice. Il gorgo di quella pienezza di problemi cui
qui si è accennato, fece diventare Majakovskij il lirico tribuno del primo decennio
rivoluzionario. Ma forse il caso del poema I Dodici di Blok, è ancora più caratteristico.
Infatti, per tutto il corso della sua vita, questo grande poeta fu estraneo al mondo di idee
della Rivoluzione. Ciò che lo colpiva, ciò che dette alla sua poesia grandezza universale,
fu il pathos della problematica umana che essa andava scavando, fu la visione di un
mondo nuovo capace di chiarire in domande e risposte autentiche ciò che era
umanamente irresolubile per il vecchio mondo. Il fatto che Blok dia espressione alla
strada e non all’arrivo, all’ansia e non all’adempimento, segna nel modo più chiaro la
sua originalità, fa del suo poema l’espressione durevole dello stato d’animo universale
di quei giorni.

Naturalmente se parliamo degli effetti dell’Ottobre sulla letteratura, non è possibile


limitarci semplicemente ai giorni e alle settimane del rivolgimento immediato. Una
letteratura che voglia raggiungere e conservare una validità universale, deve dare
immagini valide di tutta la gran strada percorsa dalla Rivoluzione socialista e che ne ha
fatto un idolo o uno spauracchio per milioni di uomini. Anche qui ci troviamo di fronte
ad una situazione doppiamente contraddittoria ed eppure, alla fine, unitaria. Già al I
Congresso dell’Internazionale comunista, Lenin espresse il timore che lo sviluppo della
rivoluzione potesse procedere ad un ritmo così rapido che la coscienza degli uomini
fosse incapace di seguirlo. Questo avvertimento, se fosse rimasto senza contrasto,
avrebbe potuto anche soddisfare coloro che considerano come unico criterio di
un’avanguardia artistica e intellettuale la mera capacità di aderire ai mutamenti dei dati
di superficie. Ma proprio contro queste semplificazioni avanguardistiche Lenin si
richiama di nuovo al marxismo, al suo essere radicato tanto nei mutamenti quanto nella
continuità, al marxismo che ha raggiunto il suo significato storico universale, la sua
forza rivoluzionatrice appunto perché «si è appropriato ed ha elaborato tutto quanto vi
era di prezioso nello sviluppo di oltre duemila anni del pensiero e della cultura umana».
Di nuovo una richiesta contraddittoria, vecchia e nuova: tener d’occhio il nuovo nella
sua novità sostanziale, non restare indietro rispetto alla sua concretezza, ma in modo da
non perdere mai l’altro lato del fenomeno che lo fa essere un momento essenziale
nell’evoluzione dell’umanità.

Quella grande epoca ha avuto anche una grande letteratura. (Qui parliamo
esclusivamente di letteratura, ma è impossibile non accennare al cinema di quel
periodo). È vero: il numero delle opere letterarie importanti non è troppo grande. Se
però lo paragoniamo con la più grande delle rivoluzioni precedenti, con la Rivoluzione
francese, esso appare abbastanza notevole. In questa non nacque nessun capolavoro
letterario che per attualità e universalità sia possibile paragonare a canzoni popolari
come la «Carmagnola»; solo alcuni decenni più tardi la grandezza umana di quei grandi
anni diviene forma poetica in Balzac e Stendhal. Per contro, il primo periodo della
Rivoluzione russa si presenta — cito solo dei grandi esempi, non faccio un catalogo —
con lo Jegor Bulyciov e con Klim Samghin di Gorkij, con Il placido Don, col Poema
pedagogico di Makarenko. E queste vette si levano su una quantità di ottime opere che,
a volte non a un grande livello di ideazione, ma assai spesso con onestà umana e
artistica, descrivono quel mondo di alternative sempre acute nel quale nessuno poteva
continuare a vivere nel modo abituale. Il che portò talvolta a tragiche catastrofi, talvolta
a mutamenti interni che resero possibile vivere in condizioni del tutto mutate; e ciò
poteva avvenire tanto negli ambienti intellettuali delle metropoli, quanto nei villaggi
sperduti, tanto nel mezzo dei conflitti armati tra la rivoluzione e la controrivoluzione,
quanto in solitarie stanze di studio.
Il placido Don spicca in questa serie di opere per il suo scorrere, possente, irresistibile.
È una epopea del dibattito che i contadini del Don tengono con il vecchio mondo dello
zarismo, con il suo crollo, con la lotta per la vita e la morte fra il vecchio e il nuovo.
Esso mostra come le alternative dell’Ottobre valessero per ogni uomo e come quella
grande contraddizione sociale penetrasse nella vita intima e trasformasse in un campo di
battaglia anche l’anima dell’individuo. È un’epopea di profonda veracità nelle
psicologie e nei destini: i singoli individui impersonano i problemi generali di classe e
le decisioni di classe divengono destino di individui inflessibili. Il pro e il contro di
molti contadini di fronte alla rivoluzione proletaria raggiunge una incarnazione
autentica nella figura di Grigorij Malechov, nel cui animo e nel cui destino si
concentrano tutte queste tendenze, a battagliare nelle loro contraddizioni, per giungere
poi alla conclusione che un cambiamento è inevitabile. Il vecchio non ritornerà mai più,
ma il nuovo non è lì già pronto, deve essere creato.

Molto lontano da questo vasto universalismo il giovane Fadeev dà forma in Diciannove


al destino degli attivi soldati della rivoluzione, i bolscevichi, convinti. Proprio perché
tali personaggi, a causa dell’epoca staliniana, appaiono equivoci, a volte con ragione —
e il Fadeev maturo ha contribuito personalmente non poco a che ciò avvenisse —, è
necessario mettere qui in evidenza questa rara riuscita. Il giovane Fadeev raffigura il
comunista convinto, eroico, come risultato del suo stesso divenire, e ne descrive il
comportamento positivo nella lotta fino al sacrificio personale. Cosicché il suo eroismo
è profondamente legato all’epoca, ha radici profonde nel proletariato e, nello stesso
tempo, ha un incancellabile carattere personale. Il modo con il quale egli cerca, in
maniera assolutamente consapevole, una soluzione concreta per la buona causa e al
tempo stesso sa solo cadere da eroe per essa, lo fa divenire rappresentante della morale
di quel periodo eroico, un «tipo» di quell’epoca che di simili ne produceva anche al di
fuori della Russia. La letteratura rivoluzionaria non ha saputo eternare come figure
poetiche i vari Lewin di Monaco e Otto Corvin di Budapest. È il Levinson di Fadeev
che rappresenta qui l’intera epoca.

Il quadro dell’epoca più imponente, più netto e più maturo resta però il poema eroico di
Makarenko sulla nascita pratico-spirituale, sull’educazione al socialismo. Il punto di
partenza è dato dalla profondissima desolazione della guerra civile: bambini che la
guerra ha trasformato in vagabondi, e per la massima parte, in delinquenti. È
impossibile qui anche solo accennare al metodo pedagogico di Makarenko, al massimo
possiamo indicarne alcuni momenti di novità umana. Makarenko descrive il vicolo
cieco di quell’individualismo anarchico che non può non nascere nell’animo di giovani i
quali sono costretti a puntare esclusivamente sulla propria forza, sulla sopravvivenza
fisica; descrive però anche come esso possa essere superato, come cioè la cosciente
solidarietà con la collettività, nella quale ciascuno deve concretamente vivere e agire e
che ciascuno con le proprie azioni contribuisce a plasmare, produca una forma superiore
di personalità. E come soltanto questa unione fra socialità ed essere personale, che nasce
in modo estremamente complicato e che funziona per conflitti, porti in luce
l’individualità e la libertà umane. Nel mondo di Makarenko lo sviluppo umano dei
bambini avviene solo in seguito a decisioni alternative che molto spesso terminano con
un fallimento, con la catarsi dell’autocritica. Ma proprio in questo, tale mondo si
manifesta come un mondo di autentica, di nuova libertà; la catarsi è diretta
esclusivamente al mutamento intimo, alla fondazione spirituale dell’azione futura; essa
è insieme una dichiarazione di guerra, elevata nella pratica a concezione del mondo,
contro il pentimento, contro l’incatenamento ai peccati passati, contro le frustrazioni
psichiche di ogni sorta.

Questi esempi vogliono essere solo esempi. Essi dimostrano che la letteratura autentica
generata dall’Ottobre, e che attingeva allo smisurato groviglio di problemi che esso
aveva scagliato nella vita degli uomini, si sforzava onestamente e con successo di
elevare a forma poetica valida ciascuno degli aspetti umani della sua totalità. E anche se
non ne uscì un quadro dell’epoca grandioso e universale come in Dante o Shakespeare,
nella Commedia umana o nei grandi romanzi di Tolstoj, pure questa letteratura
costituisce una degna eco all’appello fatto risuonare dall’Ottobre e dalle sue
conseguenze.
Fabbriche per i lavoratori – 1918 di Nathan Altman (1889-1970, UKRAINE)

3. Negli anni trenta questa alta marea di valore universale nella letteratura russa
decresce. Naturalmente di quando in quando — soprattutto nel difficile primo periodo
della seconda guerra mondiale — nascono anche opere di livello notevole, ma il
carattere fondamentale di quello che si è soliti chiamare realismo socialista in realtà
rappresenta, come una volta mi è accaduto di chiamarlo, solo un certo «naturalismo
erariale», guarnito di romanticismo cosiddetto rivoluzionario, ed è servito in generale a
tappare le discrepanze fra i desideri, le fissazioni, i rapporti ufficiali, e la realtà, o a dare
mano libera alla manipolazione burocratica.

Questa repentina caduta, vista da una certa distanza storica, è senza dubbio un frutto
necessario dell’epoca staliniana. Ma per comprendere bene quest’epoca bisogna
riandare alle sue basi essenziali, alla sua prassi sociale ed alla sua teoria. Il che
purtroppo finora è accaduto molto di rado. Naturalmente vi ebbero notevole importanza
i grandi processi e le successive massicce deportazioni nei campi di concentramento.
Tutte queste però erano solo manifestazioni estreme da un sistema, non il sistema
stesso. E quindi è stato possibile liquidare in larghissima misura questi eccessi della
prassi, senza eliminare davvero il sistema.
Abbiamo visto: Lenin non si faceva la minima illusione sul carattere non classico, in
senso marxiano, della Rivoluzione russa. Egli puntava perciò in Russia, come mostra la
politica della NEP, a commutazioni sociali che superassero gradualmente questa
arretratezza o almeno ne moderassero le conseguenze. Ma nei suoi ultimi anni, quando
ormai la malattia gli rendeva difficile il lavoro, non riuscì a progettare un piano totale di
riforme. E tuttavia la sua costante paura di una burocratizzazione del sistema sovietico
dimostra che egli voleva attuare queste riforme conservando la democrazia proletaria.

Sarebbe inutile oggi stare a meditare su come queste riforme sarebbero state, se Lenin
sarebbe stato capace di realizzarle… Davanti ai suoi successori — il testamento di
Lenin mostra che egli era scettico su tutti, non solo su Stalin — stava dunque il
problema di superare il più rapidamente possibile l’arretratezza economica della Russia.
A questo problema si aggiunse, agli inizi degli anni trenta, un motivo fortemente
acceleratore: l’ascensione del movimento di Hitler, la prospettiva di una nuova guerra
mondiale, la necessità per il giovane Stato sovietico di essere in grado di difendersi dal
militarismo tedesco, il che presupponeva naturalmente lo sviluppo dell’industria
pesante. Non è certo questo il luogo anche solo per accennare un’analisi economico-
sociale, storica di questo sviluppo. A noi interessa invece indicare qui come i metodi
con i quali Stalin effettuò la trasformazione dell’economia sovietica, come tale corso
ideologico del paese agì soprattutto sul corso della letteratura.

Dato che ripetutamente mi sono pronunciato in pubblico su questi metodi, ora posso
essere relativamente breve. Prima di tutto il contrasto con Lenin si rivela in ciò, che non
appena la fase acuta della guerra civile fu grosso modo passata, Lenin cercò di
eliminarne i metodi specifici e di tornare ai normali sistemi di governo. Al contrario
Stalin, non appena la situazione interna del partito si fu acutizzata anche solo di poco, e
in una situazione sociale completamente tranquilla, ricorse di nuovo ai metodi della
guerra civile e li trasformò in base «normale» d’amministrazione anche in condizioni
del tutto consolidate. In questo modo, i mali inevitabili nella guerra civile, il dominio
soverchiante del potere centrale e la sospensione di ogni autonomia e democrazia, si
mutarono in una forma permanente di vita.

Per attuare conseguentemente tutto ciò in un paese dove il marxismo era divenuto la
filosofia dominante, Stalin, pur mantenendo la terminologia marxista-leninista, dovette
rovesciarne radicalmente i concetti, la loro connessione, gerarchia, ecc. Per Marx ed
Engels i princìpi dello sviluppo sociale erano fissati scientificamente e teoricamente.
Con il loro aiuto il partito era in grado di stabilire le grandi tendenze dominanti,
permanenti, di un’epoca e così poi poteva essere scientificamente determinata la
strategia del partito comunista e dello Stato socialista. Tale strategia, poi, permetteva di
giungere a giuste risoluzioni tattiche nel mezzo degli avvenimenti quotidiani
rapidamente mutevoli. La gerarchia principio-strategia-tattica risulta evidente in modo
naturale nel passaggio dal grado più elevato al grado più vicino alla vita, che però non
può mai percorrere la via deduttiva, ma al contrario è stato sempre pensato come analisi
concreta di ogni concreta tendenza che opera realmente. Ora Stalin rovesciò questa
gerarchia. Per lui la pietra di paragone era sempre il provvedimento tattico necessario al
momento. Su questo poi veniva costruita «logicamente» in ogni caso una
corrispondente pseudo-strategia e un altrettale sistema di princìpi, che poi naturalmente
mutavano a ogni mutamento di tattica.

Questo assorbimento nella tattica di princìpi, prospettive e strategia, serve prima di tutto
a rendere assoluta ogni definizione o decisione nata in questo modo. L’importantissima
questione teorica e pratica del marxismo, di come debba essere giudicata sulla base dei
princìpi e della strategia una azione tattica eventualmente inevitabile, in questo modo
viene completamente messa da parte e con essa anche qualsiasi autentica autocritica del
movimento rivoluzionario, che Marx riteneva sua differentia specifica di contro al
movimento borghese. Marx ha detto che le rivoluzioni proletarie «criticano
costantemente se stesse», ma Lenin è stato il primo e l’ultimo, come abbiamo visto, nel
suo comunismo di guerra a praticare apertamente questo principio. Sotto Stalin esiste
solo una forma di autocritica, vale a dire l’autocritica — spesso estorta dalla pressione
dell’organizzazione — dei singoli che si erano permessi di manifestare dubbi sulle
infallibili decisioni. In tal modo il metodo di Marx fu sfigurato e degradato a metodo di
brutali manipolazioni.

Il che fu — a dirla francamente — una rottura totale con il metodo di Marx. De facto
tale rottura Stalin la realizzò anche nella pratica. Lo fece però con l’aria di voler
conservare il marxismo-leninismo ortodosso. Le affermazioni dei classici conservavano
la loro validità, che anzi venne accresciuta, dogmatizzata dalla canonizzazione ufficiale.
Ma come metodo definitorio e ordinatore vigeva il predominio della tattica, di cui
appunto abbiamo parlato. Questo naturalmente non avvenne tutto in una volta.
Dapprima Marx venne gradualmente spinto indietro da Lenin (l’edizione completa
critica delle opere di Marx iniziata da Rjazanov, non fu né continuata né tanto meno
portata a termine). Più tardi però anche Lenin cominciò a retrocedere di fronte a Stalin.
Naturalmente continuava a esistere, era abbondantemente citato, ma solo fino a quel
punto in cui le sue affermazioni sembravano confermare le momentanee indicazioni
tattiche di Stalin. Si veniva così realizzando una grave deformazione del metodo di
Marx e Lenin mentre si conservava la loro terminologia, dove naturalmente la
deformazione metodologica mutava anche il contenuto di tutte le categorie, dava loro
per la maggior parte un senso fisso, astratto, adatto alla manipolazione, burocratico.

Per la letteratura questa trasformazione del marxismo significò la sua sottomissione


assoluta alle risoluzioni del partito (cioè di Stalin). «Scrivete la verità» consigliò una
volta Stalin agli scrittori. Ma verità significava in pratica: accordo con le ultime
risoluzioni del Comitato centrale. Abbiamo già accennato al fatto che questa completa
deformazione metodologica non si verificò d’un colpo ma gradatamente, cosicché, in
verità solo di tanto in tanto, solo episodicamente si ebbero anche voci di opposizione.
Così, ad esempio, la coraggiosa e intelligente saggista Elena Usievic protestò contro
l’idea che la verità di ogni scrittore dovesse essere scritta nelle risoluzioni del partito.
Un’altra volta indicò l’inferiorità umana della poesia politica ufficiale degli anni trenta.
Il suo appello allora a Majakovskij è un appello — in realtà, non pronunciato — alla
ricchezza umana e sociale dei grandi anni iniziali della rivoluzione, in contrapposizione
alla schematica degradazione dell’uomo del tempo di Stalin. Anch’io, sia pure meno
direttamente, ho preso parte a questi tentativi di protesta. La prassi staliniana fece sì che
fra la teorizzazione del partito e il contenuto d’idee dell’opera d’arte si stabilì un sistema
meccanico di coincidenza necessaria, un rapporto di determinazione diretta. Quando io,
commentando l’interpretazione engelsiana di Balzac e la critica di Lenin a Tolstoj,
parlai di complicatezza, contraddittorietà tra la cosciente concezione del mondo di uno
scrittore e il contenuto di idee della sua opera, anche questo era una protesta —
altrettanto inespressa. Naturalmente tutti questi tentativi — che non furono i soli —
vennero bruscamente respinti dalla stragrande maggioranza dei critici staliniani.
Rostrums around the Alexander Column -di Nathan Altman (1889-1970, UKRAINE)

4. Il 1946 dette il via alla resa dei conti con la dottrina di Stalin. Anche qui bisogna
rilevare che, come il dominio di Stalin aveva avuto in fin dei conti delle ragioni
economico-sociali, anche la lotta iniziata contro quel metodo ebbe le sue. Quali che
fossero i mezzi usati, Stalin riuscì a costruire nell’Unione Sovietica una forte industria.
Guerra e dopoguerra ne sono dimostrazioni pratiche incontestabili. Ma come
conseguenza di questo fatto si è avuto anche un cambiamento interno nella
stratificazione sociale. Nell’Unione Sovietica esisteva ora una vasta e qualificata classe
operaia. Al contrario degli anni trenta, quando gli specialisti economici e tecnici
provenivano per la maggior parte dalla vecchia borghesia ed erano sovente avversari
coscienti del sistema sovietico, lo sviluppo economico ha creato adesso un vasto strato
di specialisti d’impronta nettamente sovietica. Comunque si vogliano valutare i metodi
staliniani dei «commissari politici», degli universali controlli sull’intero andamento
della società tramite la polizia politica, ecc., all’epoca della morte di Stalin questi
metodi erano già storicamente superati dallo sviluppo sociale; erano divenuti solo freni
dello sviluppo economico; e si dovette eliminarli.

Questa è la vera base sociale che ha portato Krusciov alla ribalta del XX Congresso e
alla conseguente politica di riforme. Ancora una volta non è questo il luogo per
descrivere gli alti e bassi di questo movimento. Sintetizzando si può e si deve dire però
che proprio Krusciov ha criticato e corretto Stalin in gran parte alla maniera staliniana,
con metodi staliniani, che anche successivamente il suo atteggiamento verso Stalin ha
preso come modello metodologico un po’ la critica a Trotskij del periodo di Stalin. Non
era e ancora oggi non è il caso di parlare di un tentativo davvero storico, davvero
marxista, di critica all’opera staliniana. Per questo nel campo dei sostenitori delle
riforme nasce sempre un certo nervosismo quando da qualche parte vengono sottolineati
alcuni momenti positivi dell’attività di Stalin; si teme — e, aggiungiamo noi, non
sempre senza ragione — che si tratti di sondaggi per riaccostarsi alla prassi staliniana.

Sul piano ideologico l’aspetto più importante è che la deformazione staliniana della
metodica di Marx e Lenin e con essa la compressione, il freno dello sviluppo
progressivo del marxismo continua a perdurare in nome della «partitiche» (di nuovo nel
senso di Stalin e non di Lenin). Non potendo qui approfondire veramente l’argomento,
non possiamo fare a meno di notare che in questo modo, se da un lato si è impedita con
successo, un’analisi autenticamente marxista delle trasformazioni avvenute nella
economia mondiale dalla morte dei classici in poi, si è impedita la scoperta dei suoi
nuovi tratti economici, dall’altro lato però sono stati resi possibili l’affluire e la
ricezione acritica delle «conquiste» occidentali nel marxismo. Al posto della autocritica
e di una vera riforma basata sui princìpi, si è avuta spesso un’alleanza tra il
burocratismo dogmatico-conservatore e certe nuovissime parole d’ordine occidentali. Si
pensi alle proposte non di riformare le basi irrazionali, puramente burocratiche
dell’economia di piano, con un ritorno ad un marxismo purificato, sdogmatizzato,
fondato sulla realtà dei fatti, ma di superarla armando il burocratismo, immutato e
conservato, di macchine cibernetiche, ecc. Dietro tali tendenze si nasconde il desiderio
di accomunare le brutali manipolazioni del periodo staliniano e quelle «sottili» del
capitalismo attuale. E a guardare la cosa da questo angolo di visuale, è solo coerenza
quando accadono casi in cui il persistente burocratismo staliniano dà mano libera a
qualsiasi avanguardismo, mentre mantiene una censura di buona rigorosità staliniana nei
confronti della rinascita del marxismo.

Naturalmente alla lunga non è possibile frenare in questo modo lo sviluppo economico.
Appare sempre più evidente che non basta la semplice distruzione del dominio assoluto
della polizia politica e l’eliminazione dei vecchi stalinisti più responsabili e più
incorreggibili, per mettere in moto una economia socialista funzionante e all’altezza dei
tempi. Per questo in vari luoghi la forza imperativa della realtà economica provoca reali
movimenti di riforma che — non importa per il momento sulla base di quale teoria — si
sforzano di liberare le forze reali del rinnovamento economico e che, se davvero
vorranno realizzare quanto è divenuto storicamente necessario, se davvero
combatteranno fino in fondo, col passare del tempo saranno anche costretti a dar vita a
una loro fondazione teorica, marxista.

Questa sconcertante pienezza di acuti problemi dell’esistenza determina anche le


tendenze attuali della letteratura. Per questo la critica distruttivamente appropriata nei
confronti del periodo staliniano è una questione vitale tanto quanto per la economia. Se
davvero si vuole superare il naturalismo erariale, è necessario intraprendere un esame
universale, approfondito, schietto sul piano sociale e umano, del periodo staliniano. Ci
si può facilmente rendere conto dell’inevitabilità di una tale tematica. Se uno scrittore
vuole parlare in modo autentico dei problemi del presente, dell’uomo di oggi, non può
non prendere posizione come scrittore sul come essi sono diventati ciò che attualmente
sono. Ma appunto il periodo del loro divenire, del loro maturare è il periodo staliniano; i
conflitti nei quali gli uomini che oggi sono vivi si sono irrobustiti o sono stati spinti al
dissidio interiore, all’abbrutimento, alla cristallizzazione, ecc., ecc., sono appunto i
problemi del periodo staliniano, certamente non in senso astrattamente sociologico, ma
proprio come concrete tendenze dell’epoca che agiscono positivamente o negativamente
sulla storia di ogni individuo. Se non si dice spietatamente la verità su queste questioni,
non è possibile distruggere veramente il naturalismo erariale. Quali strade, sul piano
formale, la letteratura imboccherà, potrà dirlo solo la prassi degli scrittori onesti e di
talento. Solo una cosa bisogna capire, che qui si tratta di prendere posizione su
alternative di vita e non semplicemente di scegliere tra forme espressive efficaci. In sé è
del tutto possibile con i monologhi interiori, i diaframmi temporali, il culto dell’assurdo,
scrivere un’apologia del periodo staliniano, così come negli anni trenta ci furono opere
che misero al servizio della letteratura allora ufficiale la «nuova oggettività», il
montaggio ed altre correnti di moda.

Indubbiamente c’è qualche disposizione a una autentica nuova ondata. In talune poesie
uscite recentemente nei paesi socialisti, e anche nella prosa, soprattutto nella novella.
Alcuni anni fa io rilevai la grande importanza di Solzhenitsyn, proprio perché egli aveva
affrontato con coraggio e talento il problema centrale di quel periodo: come gli uomini,
nella lotta con la realtà quotidiana dello stalinismo, — e i campi di concentramento ne
fanno parte, pur senza essere l’unico campo di battaglia — sapevano mettere a prova la
sostanza della loro umanità, e conservarla, come in questa lotta venivano maturati o
distrutti e corrotti. Da parte di burocrati, contro un tale giudizio sulla situazione, si
obietta che non bisogna «rimestare» nel passato, che bisogna invece applicarsi alle
questioni del presente. Ma prima di tutto c’è da dire che proprio qui stanno i problemi
del presente.

Naturalmente, in una autobiografia ufficiale, scritta per la direzione del personale di un


qualche ufficio, uno può anche manipolare il proprio passato in modo che esso vada a
genio all’autorità competente; nella realtà però l’oggi di ciascuno di noi è
grandissimamente determinato dall’atteggiamento che abbiamo assunto di fronte agli
avvenimenti del periodo di Stalin. Non si può descrivere l’uno in modo autentico e
valido letterariamente senza descrivere l’altro. Che cosa sarebbero diventati i drammi di
Shakespeare se egli non avesse «rimestato» nel passato della Guerra delle due rose?
Solzhenitsyh e i suoi commilitoni sono in tal modo precursori esemplari (e forse un
giorno anche realizzatori) della nuova ondata del realismo socialista.

Nel giudizio sulle nuove tendenze bisogna essere molto cauti. Anche qui per ora
possiamo stabilire solo la faccia negativa: le promesse che nascono adesso hanno ancor
meno in comune con le correnti letterarie che dominano in Occidente. Ciò dimostra che
sta nascendo davvero qualcosa di essenzialmente nuovo. Sono gli inizi di un’arte nuova,
che sorge per soddisfare nuovi bisogni popolari; le sue forme vengono organicamente
ricavate dal contenuto di quella richiesta sociale, alla quale essa deve la propria
esistenza di fenomeno originalmente nuovo. Ma si potrà parlare a fondo di questi
problemi estetici solo quando questa arte nuova si sarà dispiegata in una certa misura.
Solo dopo — post festum — sarà chiaro se esistono fili che la collegano al primo
periodo e come sono fatti questi legami. Per ora possiamo solo prender atto, con gioia e
speranza, della sua esistenza e darle il benvenuto.

5. Crisi e ricerca di una via d’uscita oggi non si limitano affatto alla zona del
socialismo. In Occidente adesso assistiamo di frequente al crollo di false immagini del
mondo che erano state covate a lungo come salda verità. Oggi si dice spesso che la
guerra fredda sta avvicinandosi alla fine. E in realtà quel che c’è dietro è molto di più di
un semplice mutamento tattico di politica estera. Per gli Stati Uniti è crollato il sogno
della validità universale dell’american way of life; per l’Inghilterra il sogno del
Commonwealth come surrogato della condizione di potenza mondiale; per la
Repubblica federale tedesca il sogno del roll back come base per un rinnovato
predominio militare in Europa, ecc., ecc. Se poi si aggiunge che in questo periodo sono
crollati tutti i vecchi imperi coloniali, che i «miracoli economici», ritenuti modi d’essere
permanenti della economia, si sono rivelati semplici periodi di ricostruzione già
terminati (per quest’ultima questione mi baso sulle indagini di F. Janossy), se si riflette
infine che nella società dei consumi, apparentemente così perfetta, risulta sempre più
chiaramente che è l’uomo ad essere messo in forse, ci si accorgerà che sono presenti,
più che a sufficienza, motivi economici, sociali e politici per una crisi ideologica
generale.

Anche occorre parlare soprattutto della letteratura. W. Jens, che già abbiamo citato a
testimoniare sugli effetti della rivoluzione d’Ottobre, a proposito della delusione degli
intellettuali tedeschi (e non solo tedeschi) provocata dagli avvenimenti degli anni trenta
dice: «Gli intellettuali divennero una volta per tutte apolidi». Che questa apolidìa nel
periodo delle illusioni capitalistico-imperialiste, nonostante tutto l’ostentato scetticismo
e pessimismo, si sia dimostrata in sostanza solo autocompiacimento, adesso importa
poco. I vuoti ideali del 1945, le utopie reazionarie del periodo della guerra fredda, sono
ormai in via di disfacimento. Vorrei sottolineare adesso un solo sintomo, in verità
importante, di questa crisi. Per interi decenni, tra gli intellettuali progressisti
dell’Occidente è stato di gran moda disprezzare profondamente il marxismo come una
ideologia troppo a lungo sopravvissuta al XIX secolo, messo ormai da parte per altri
aspetti. Ora però la crisi ideologica spinge un numero sempre maggiore di intellettuali a
vedere proprio nel marxismo la chiave per risolvere quei problemi ai quali neppure il
pensiero borghese «più o meno progressista» è capace di dare una risposta.

Si intende da sé che questo fatto non può non mutare a poco a poco anche
l’atteggiamento nei confronti della prospettiva socialista. E appunto qui, lo sviluppo
concreto dei paesi socialisti si lega strettamente alla forza d’attrazione della prospettiva
socialista nei confronti degli intellettuali dell’Occidente capitalista. Il fascino
dell’Ottobre e delle sue immediate conseguenze consisteva nel fatto che in esso
risultava evidente tutto un nodo di risposte che, per ragioni sociali, questi intellettuali
non riuscivano a chiarire con i propri strumenti di pensiero quasi nemmeno nella forma
di domande. L’angustia dogmatica, la rigidezza, il carattere grossolanamente
volgarizzatore di quello che nel periodo staliniano si usava chiamare marxismo, non
poteva per sua natura né esercitare tale influenza, né trattenere l’ondata antimarxista nel
pensiero occidentale. Per il nascente interesse, per la crescente simpatia verso il
marxismo che comincia a manifestarsi ora in Occidente, è quindi d’importanza
determinante il modo in cui i comunisti parteciperanno alla rinascita del marxismo. Per
ora la situazione è estremamente confusa. A un polo ci sono le tradizioni del periodo
staliniano ancora fortemente radicate, all’altro polo non di rado si è avuta l’inclinazione
ad andare incontro — anche troppo — ai pregiudizi ed alle confusioni di tutti i
partecipanti alla discussione, fino ad abbandonare i principi fondamentali del marxismo.
In ultima analisi però determinante è qualcosa che ovviamente non si realizzerà mai del
tutto senza una autentica rinascita del marxismo: la veemenza della vita stessa nel
socialismo sarà questa a dare la risposta. Per quanto all’interno del mondo socialista, la
riforma dell’economia sia molto importante, il semplice aumento della produzione e del
livello di vita non sarà mai capace di avere questa forza d’attrazione per l’Occidente (e
questa era una delle illusioni di Krusciov). Questo processo, dunque, che suscita le più
grandi speranze oggi appare ancora in uno stadio estremamente confuso; da marxisti
tuttavia possiamo aspettarci come prospettiva, con buona coscienza teorica, il
chiarimento così necessario del pensiero sulla base della riforma della vita sociale e
dell’economia del mondo del socialismo.

Per queste ragioni l’insieme dei problemi sociali e umani dell’Ottobre non può oggi
avere influenza, né estensiva né intensiva sulla letteratura occidentale. Come sempre,
sono i problemi di vita del presente a decidere che cosa scrittori e lettori sono in grado
di sentire come un passato vivo ed esemplare. E la letteratura occidentale per giunta
ancora non è venuta in chiaro neppure con il proprio recente passato. Tale discrepanza
risulta evidente dal fatto che ancora oggi gli immediati documenti umani della
Resistenza antifascista — ricordiamo solo le ultime lettere dei condannati a morte, gli
schizzi del carcere di Fucik — son d’un livello che la letteratura occidentale ha
raggiunto solo in casi rari ed eccezionali. Naturalmente ci si muove, e validamente, in
questa direzione, così in alcune novelle di Vercors, o Biliardo alle nove e mezzo di Böll,
o Il Vicario di Hochhuth o gli ultimi drammi di Peter Weiss. Ma solo il Grande viaggio
di Jorge Semprun si eleva sino quasi a raggiungere il livello del vero modello di vita.

In questa situazione si rispecchia l’avversione dell’Occidente a fare davvero i conti con


il passato fascista. Il fatto che l’opinione pubblica della Bundesrepublik tenta di ridurre
il problema dell’hitlerismo alla persecuzione contro gli ebrei, rivela nel modo più
evidente questo rifiuto: i prestiti di guerra ad Israele forniscono una confortevolissima
«catarsi» all’interno, rendono possibile agli ex nazisti di fare i dirigenti politici, e
permettono inoltre una sordida concorrenza ideologica — velata naturalmente da riserve
verbali — cogli eredi della estrema destra della reazione tedesca. Ma anche in altri paesi
non si è giunti ad una definitiva resa dei conti con il fatto che soltanto la loro tolleranza
permise ad Hitler di salire in alto fino a diventare una minaccia per tutta la civiltà
umana. Ancora una volta, se volessimo approfondire le questioni che vi sono connesse,
oltrepasseremmo di molto i limiti di queste riflessioni. Accenniamo solo a questo, che
dipende dal presente se le irradiazioni dell’Ottobre non possono agire come vivo
passato dell’umanità.

Un tale presente è ancora molto lontano. Non bisogna però sottovalutare il materiale
esplosivo che è stato ed è accumulato, latente o eruttivo, in rivolte individuali, solitarie,
personali. Naturalmente non parliamo qui di quel conformismo anticonformistico che
sublima l’elementare scontentezza dell’uomo in una autocompiaciuta disperazione
intimamente passiva, e che fornisce la propria alienazione come consumo di lusso per
clienti esclusivi. Il contrario c’è sempre stato, così il tardo O’ Neill, la fine della pista di
Thomas Wolf, o Menzogna e sortilegio di Elsa Morante, o Styron, o molti altri. Queste
rivolte hanno una così grande importanza sociale ed artistica perché in esse, pur
configurate come azioni individuali di uomini singoli, è sempre implicitamente presente
l’in-sé della loro socialità. Sarebbe un compito importante e bello per il marxismo che
cresce, trasformare questo in-sé in un per-noi chiaro, universalmente valido ed
efficacemente unito. In questo modo sarebbe spianata la strada evolutiva per elevare
questo in-sé della rivolta contro la alienazione nel mondo manipolato al suo essere-per-
sé.

Le forme della alienazione umana in Occidente sono cosiffatte che proprio la letteratura
e l’arte potrebbero dare notevoli impulsi alla volontà degli uomini per sfondare questo
cerchio magico. La consapevolezza su se stessi, sulla propria situazione, sulle proprie
possibilità, implica l’autocoscienza dell’uomo su se stesso, ma appunto come essere
insieme autonomamente attivo e ineliminabilmente sociale. Obiettivamente, l’uomo non
è stato «gettato» in un mondo alienato, ma vive in un mondo, per ostile che sia, il cui
essere non può mai venir separato dall’essere della sua personale interiorità. Così
l’uomo, in un certo senso, ha anche una parte di colpa per la sua alienazione, per cui
anche il rifiuto del suo mondo circostante include sempre anche un’autocritica orientata
praticamente, cioè una critica della realtà sociale oggettiva. Per questo il rifiuto
dell’alienazione che resta semplicemente soggettivo, semplicemente sentimentale, slitta
tanto spesso in un adattamento ad essa, pieno di riserve solo formali, perché
l’alienazione sfugge a una reale dialettica, di soggetto e oggetto. Solo una dialettica,
divenuta coscientemente pratica, di doppie negazioni intrecciate una nell’altra, dà alla
sostanza umana la capacità di resistere, la spinge dal semplice immediato in-sé
all’autonomo riconoscimento del per-sé.

Questo tipo di problemi scaturisce dalle specifiche determinazioni dell’odierno essere


sociale. Il suo collegamento diretto con quel nodo di domande e di risposte che
l’Ottobre ha scagliato nel mondo è quindi assai allentato, estremamente lontano e
confuso. Purtuttavia è un collegamento che esiste nella realtà. E se la rinascita del
marxismo guiderà i creatori dell’arte e i lettori a una tale coscienza e autocoscienza, in
tal modo essa obiettivamente getterà un ponte fra l’Ottobre e la migliore letteratura di
oggi e di domani.

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