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Questo articolo è stato scritto dal grande filosofo marxista ungherese per la rivista
di cultura cecoslovacca «Plamen», per gentile concessione della quale lo
pubblichiamo contemporaneamente alla sua uscita a Praga.
Massimo Gorkij ha descritto nel modo più calzante l’effetto affascinante provocato da
Lenin, che era, poi, il fascino della grande Rivoluzione, la ragione per la quale questi
due momenti suscitavano nelle più diverse persone un odio infinito o l’amore più
entusiasta. Secondo Gorkij, Lenin sapeva, «come nessuno prima di lui, impedire alla
gente di continuare nel suo abituale modo di vita». Non si dimentichi: tutto ciò avveniva
nel 1917, avveniva anche a persone che non vivevano in Russia, nel mezzo di una
guerra mondiale che aveva fatto rovinare a tutto il mondo borghese, insieme con i suoi
ideali, l’immaginaria sicurezza precedente il 1914, una guerra che costringeva ciascuno
a riproporsi il problema della sensatezza o della insensatezza anche della propria vita
privata. Ciò che Gorkij esattamente delinea qui come essenza dell’attività di Lenin,
come irradiamento delle sue azioni, era l’essenza dell’epoca stessa, la domanda che
questa rivolgeva ad ogni singolo individuo.
Nel suo aspetto più esteriore, «tale domanda sembra riguardare la violenza o la non
violenza, se cioè approvare o negare un suo diritto universale a determinare, nell’intimo
e all’esterno, la vita degli uomini. Per Lenin la risposta positiva era ovvia. Egli sapeva e
proclamava, come marxista coerente, che quando l’umanità distrugge le sue vecchie
forme di vita e s’accinge a costruire forme sostanzialmente nuove, sempre deve entrare
in azione la violenza come inevitabile motore del rinnovamento. Non è questo il luogo
per discutere l’aspetto storico-filosofico di tale alternativa. La stessa realtà sociale ha
dato la risposta, annullando importanti voci contrarie come quella di Gandhi. Questa
questione però, per la maggior parte di coloro che allora erano in vita, non era
semplicemente un problema storicamente oggettivo. Per ciascuno di noi, la cui storia
giungeva a questo bivio, la domanda si faceva personale, intima: quale posizione
assumere, se la mia propria esistenza deve avere un senso, nei confronti di questa
alternativa? Anche qui Gorkij ha molto chiaramente rilevato tale contraddittorietà, che
risulta evidente da diversi frammenti di colloquio con Lenin. Il poeta si lamentava della
crudeltà della vita quotidiana rivoluzionaria e nella replica, afferma il cronista, sorpresa
e irata di Lenin vi è questa frase: «Con che metro misura lei, in una zuffa, il numero dei
colpi necessari e di quelli superflui?». In un altro colloquio dello stesso periodo Lenin
parla del suo amore per l’Appassionata di Beethoven, che egli però non voleva ascoltare
troppo spesso. E, secondo l’espressione di Gorkij, «non proprio allegramente» aggiunse:
«Si vorrebbero dire amabili sciocchezze e accarezzare il capo a uomini simili che, pur
vivendo in un inferno ripugnante, riescono a creare cose tanto belle». Invece si deve,
così conclude, «colpire senza pietà, sebbene noi, secondo il nostro, ideale, siamo contro
ogni violenza nei confronti dell’uomo».
Allo stesso modo, tutto quanto negli esempi precedenti è apparso in superficie
contraddittorio, non è nient’altro che un aspetto singolo di questo processo
grandiosamente complicato e tuttavia grandiosamente unitario. Proprio perché questa
unità costituisce il nucleo, l’essenza di tale processo, proprio perché la contraddittorietà
in esso esprime solo la sua onnilateralità, la sua onnicomprensività, la sua intrinsecità
rivoluzionatrice di tutto, appunto questo carattere della Rivoluzione del 1917, il
carattere del suo centro spirituale, Lenin, non poteva non agire in modo tanto
irresistibilmente affascinante (o, a seconda della classe e dell’atteggiamento,
veementemente scostante). La crisi latente del vecchio mondo, già da qualcuno avvertita
nel periodo della sicurezza come una corrente spirituale sotterranea, entrò come un
uragano nella vita quotidiana degli uomini e li mise davanti a una cataratta di alternative
le più diverse, mentre il vecchio mondo non era neppure in grado di formulare i propri
problemi, balbettava oppure si inventava miti a richiesta. Di contro stava questa unità
radiante e luminosa nell’esistenza e negli atti di un paese: la Russia rivoluzionaria. Non
c’è da meravigliarsi che ogni opposizione, nella quale fosse viva anche solo una scintilla
di autenticità, non potesse fare a meno di guardare in quella direzione. Walter Jens, che
nessuno può sospettare di simpatie comuniste, ha scritto una volta: « Nessuno può
mettere in dubbio infine che l’arte degli anni venti fu improntata, e non in piccola
misura, dallo sguardo rivolto all’Unione Sovietica».
2. E l’arte nostra? L’inizio sembra semplice. Il gorgo di quella pienezza di problemi cui
qui si è accennato, fece diventare Majakovskij il lirico tribuno del primo decennio
rivoluzionario. Ma forse il caso del poema I Dodici di Blok, è ancora più caratteristico.
Infatti, per tutto il corso della sua vita, questo grande poeta fu estraneo al mondo di idee
della Rivoluzione. Ciò che lo colpiva, ciò che dette alla sua poesia grandezza universale,
fu il pathos della problematica umana che essa andava scavando, fu la visione di un
mondo nuovo capace di chiarire in domande e risposte autentiche ciò che era
umanamente irresolubile per il vecchio mondo. Il fatto che Blok dia espressione alla
strada e non all’arrivo, all’ansia e non all’adempimento, segna nel modo più chiaro la
sua originalità, fa del suo poema l’espressione durevole dello stato d’animo universale
di quei giorni.
Quella grande epoca ha avuto anche una grande letteratura. (Qui parliamo
esclusivamente di letteratura, ma è impossibile non accennare al cinema di quel
periodo). È vero: il numero delle opere letterarie importanti non è troppo grande. Se
però lo paragoniamo con la più grande delle rivoluzioni precedenti, con la Rivoluzione
francese, esso appare abbastanza notevole. In questa non nacque nessun capolavoro
letterario che per attualità e universalità sia possibile paragonare a canzoni popolari
come la «Carmagnola»; solo alcuni decenni più tardi la grandezza umana di quei grandi
anni diviene forma poetica in Balzac e Stendhal. Per contro, il primo periodo della
Rivoluzione russa si presenta — cito solo dei grandi esempi, non faccio un catalogo —
con lo Jegor Bulyciov e con Klim Samghin di Gorkij, con Il placido Don, col Poema
pedagogico di Makarenko. E queste vette si levano su una quantità di ottime opere che,
a volte non a un grande livello di ideazione, ma assai spesso con onestà umana e
artistica, descrivono quel mondo di alternative sempre acute nel quale nessuno poteva
continuare a vivere nel modo abituale. Il che portò talvolta a tragiche catastrofi, talvolta
a mutamenti interni che resero possibile vivere in condizioni del tutto mutate; e ciò
poteva avvenire tanto negli ambienti intellettuali delle metropoli, quanto nei villaggi
sperduti, tanto nel mezzo dei conflitti armati tra la rivoluzione e la controrivoluzione,
quanto in solitarie stanze di studio.
Il placido Don spicca in questa serie di opere per il suo scorrere, possente, irresistibile.
È una epopea del dibattito che i contadini del Don tengono con il vecchio mondo dello
zarismo, con il suo crollo, con la lotta per la vita e la morte fra il vecchio e il nuovo.
Esso mostra come le alternative dell’Ottobre valessero per ogni uomo e come quella
grande contraddizione sociale penetrasse nella vita intima e trasformasse in un campo di
battaglia anche l’anima dell’individuo. È un’epopea di profonda veracità nelle
psicologie e nei destini: i singoli individui impersonano i problemi generali di classe e
le decisioni di classe divengono destino di individui inflessibili. Il pro e il contro di
molti contadini di fronte alla rivoluzione proletaria raggiunge una incarnazione
autentica nella figura di Grigorij Malechov, nel cui animo e nel cui destino si
concentrano tutte queste tendenze, a battagliare nelle loro contraddizioni, per giungere
poi alla conclusione che un cambiamento è inevitabile. Il vecchio non ritornerà mai più,
ma il nuovo non è lì già pronto, deve essere creato.
Il quadro dell’epoca più imponente, più netto e più maturo resta però il poema eroico di
Makarenko sulla nascita pratico-spirituale, sull’educazione al socialismo. Il punto di
partenza è dato dalla profondissima desolazione della guerra civile: bambini che la
guerra ha trasformato in vagabondi, e per la massima parte, in delinquenti. È
impossibile qui anche solo accennare al metodo pedagogico di Makarenko, al massimo
possiamo indicarne alcuni momenti di novità umana. Makarenko descrive il vicolo
cieco di quell’individualismo anarchico che non può non nascere nell’animo di giovani i
quali sono costretti a puntare esclusivamente sulla propria forza, sulla sopravvivenza
fisica; descrive però anche come esso possa essere superato, come cioè la cosciente
solidarietà con la collettività, nella quale ciascuno deve concretamente vivere e agire e
che ciascuno con le proprie azioni contribuisce a plasmare, produca una forma superiore
di personalità. E come soltanto questa unione fra socialità ed essere personale, che nasce
in modo estremamente complicato e che funziona per conflitti, porti in luce
l’individualità e la libertà umane. Nel mondo di Makarenko lo sviluppo umano dei
bambini avviene solo in seguito a decisioni alternative che molto spesso terminano con
un fallimento, con la catarsi dell’autocritica. Ma proprio in questo, tale mondo si
manifesta come un mondo di autentica, di nuova libertà; la catarsi è diretta
esclusivamente al mutamento intimo, alla fondazione spirituale dell’azione futura; essa
è insieme una dichiarazione di guerra, elevata nella pratica a concezione del mondo,
contro il pentimento, contro l’incatenamento ai peccati passati, contro le frustrazioni
psichiche di ogni sorta.
Questi esempi vogliono essere solo esempi. Essi dimostrano che la letteratura autentica
generata dall’Ottobre, e che attingeva allo smisurato groviglio di problemi che esso
aveva scagliato nella vita degli uomini, si sforzava onestamente e con successo di
elevare a forma poetica valida ciascuno degli aspetti umani della sua totalità. E anche se
non ne uscì un quadro dell’epoca grandioso e universale come in Dante o Shakespeare,
nella Commedia umana o nei grandi romanzi di Tolstoj, pure questa letteratura
costituisce una degna eco all’appello fatto risuonare dall’Ottobre e dalle sue
conseguenze.
Fabbriche per i lavoratori – 1918 di Nathan Altman (1889-1970, UKRAINE)
3. Negli anni trenta questa alta marea di valore universale nella letteratura russa
decresce. Naturalmente di quando in quando — soprattutto nel difficile primo periodo
della seconda guerra mondiale — nascono anche opere di livello notevole, ma il
carattere fondamentale di quello che si è soliti chiamare realismo socialista in realtà
rappresenta, come una volta mi è accaduto di chiamarlo, solo un certo «naturalismo
erariale», guarnito di romanticismo cosiddetto rivoluzionario, ed è servito in generale a
tappare le discrepanze fra i desideri, le fissazioni, i rapporti ufficiali, e la realtà, o a dare
mano libera alla manipolazione burocratica.
Questa repentina caduta, vista da una certa distanza storica, è senza dubbio un frutto
necessario dell’epoca staliniana. Ma per comprendere bene quest’epoca bisogna
riandare alle sue basi essenziali, alla sua prassi sociale ed alla sua teoria. Il che
purtroppo finora è accaduto molto di rado. Naturalmente vi ebbero notevole importanza
i grandi processi e le successive massicce deportazioni nei campi di concentramento.
Tutte queste però erano solo manifestazioni estreme da un sistema, non il sistema
stesso. E quindi è stato possibile liquidare in larghissima misura questi eccessi della
prassi, senza eliminare davvero il sistema.
Abbiamo visto: Lenin non si faceva la minima illusione sul carattere non classico, in
senso marxiano, della Rivoluzione russa. Egli puntava perciò in Russia, come mostra la
politica della NEP, a commutazioni sociali che superassero gradualmente questa
arretratezza o almeno ne moderassero le conseguenze. Ma nei suoi ultimi anni, quando
ormai la malattia gli rendeva difficile il lavoro, non riuscì a progettare un piano totale di
riforme. E tuttavia la sua costante paura di una burocratizzazione del sistema sovietico
dimostra che egli voleva attuare queste riforme conservando la democrazia proletaria.
Sarebbe inutile oggi stare a meditare su come queste riforme sarebbero state, se Lenin
sarebbe stato capace di realizzarle… Davanti ai suoi successori — il testamento di
Lenin mostra che egli era scettico su tutti, non solo su Stalin — stava dunque il
problema di superare il più rapidamente possibile l’arretratezza economica della Russia.
A questo problema si aggiunse, agli inizi degli anni trenta, un motivo fortemente
acceleratore: l’ascensione del movimento di Hitler, la prospettiva di una nuova guerra
mondiale, la necessità per il giovane Stato sovietico di essere in grado di difendersi dal
militarismo tedesco, il che presupponeva naturalmente lo sviluppo dell’industria
pesante. Non è certo questo il luogo anche solo per accennare un’analisi economico-
sociale, storica di questo sviluppo. A noi interessa invece indicare qui come i metodi
con i quali Stalin effettuò la trasformazione dell’economia sovietica, come tale corso
ideologico del paese agì soprattutto sul corso della letteratura.
Dato che ripetutamente mi sono pronunciato in pubblico su questi metodi, ora posso
essere relativamente breve. Prima di tutto il contrasto con Lenin si rivela in ciò, che non
appena la fase acuta della guerra civile fu grosso modo passata, Lenin cercò di
eliminarne i metodi specifici e di tornare ai normali sistemi di governo. Al contrario
Stalin, non appena la situazione interna del partito si fu acutizzata anche solo di poco, e
in una situazione sociale completamente tranquilla, ricorse di nuovo ai metodi della
guerra civile e li trasformò in base «normale» d’amministrazione anche in condizioni
del tutto consolidate. In questo modo, i mali inevitabili nella guerra civile, il dominio
soverchiante del potere centrale e la sospensione di ogni autonomia e democrazia, si
mutarono in una forma permanente di vita.
Per attuare conseguentemente tutto ciò in un paese dove il marxismo era divenuto la
filosofia dominante, Stalin, pur mantenendo la terminologia marxista-leninista, dovette
rovesciarne radicalmente i concetti, la loro connessione, gerarchia, ecc. Per Marx ed
Engels i princìpi dello sviluppo sociale erano fissati scientificamente e teoricamente.
Con il loro aiuto il partito era in grado di stabilire le grandi tendenze dominanti,
permanenti, di un’epoca e così poi poteva essere scientificamente determinata la
strategia del partito comunista e dello Stato socialista. Tale strategia, poi, permetteva di
giungere a giuste risoluzioni tattiche nel mezzo degli avvenimenti quotidiani
rapidamente mutevoli. La gerarchia principio-strategia-tattica risulta evidente in modo
naturale nel passaggio dal grado più elevato al grado più vicino alla vita, che però non
può mai percorrere la via deduttiva, ma al contrario è stato sempre pensato come analisi
concreta di ogni concreta tendenza che opera realmente. Ora Stalin rovesciò questa
gerarchia. Per lui la pietra di paragone era sempre il provvedimento tattico necessario al
momento. Su questo poi veniva costruita «logicamente» in ogni caso una
corrispondente pseudo-strategia e un altrettale sistema di princìpi, che poi naturalmente
mutavano a ogni mutamento di tattica.
Questo assorbimento nella tattica di princìpi, prospettive e strategia, serve prima di tutto
a rendere assoluta ogni definizione o decisione nata in questo modo. L’importantissima
questione teorica e pratica del marxismo, di come debba essere giudicata sulla base dei
princìpi e della strategia una azione tattica eventualmente inevitabile, in questo modo
viene completamente messa da parte e con essa anche qualsiasi autentica autocritica del
movimento rivoluzionario, che Marx riteneva sua differentia specifica di contro al
movimento borghese. Marx ha detto che le rivoluzioni proletarie «criticano
costantemente se stesse», ma Lenin è stato il primo e l’ultimo, come abbiamo visto, nel
suo comunismo di guerra a praticare apertamente questo principio. Sotto Stalin esiste
solo una forma di autocritica, vale a dire l’autocritica — spesso estorta dalla pressione
dell’organizzazione — dei singoli che si erano permessi di manifestare dubbi sulle
infallibili decisioni. In tal modo il metodo di Marx fu sfigurato e degradato a metodo di
brutali manipolazioni.
Il che fu — a dirla francamente — una rottura totale con il metodo di Marx. De facto
tale rottura Stalin la realizzò anche nella pratica. Lo fece però con l’aria di voler
conservare il marxismo-leninismo ortodosso. Le affermazioni dei classici conservavano
la loro validità, che anzi venne accresciuta, dogmatizzata dalla canonizzazione ufficiale.
Ma come metodo definitorio e ordinatore vigeva il predominio della tattica, di cui
appunto abbiamo parlato. Questo naturalmente non avvenne tutto in una volta.
Dapprima Marx venne gradualmente spinto indietro da Lenin (l’edizione completa
critica delle opere di Marx iniziata da Rjazanov, non fu né continuata né tanto meno
portata a termine). Più tardi però anche Lenin cominciò a retrocedere di fronte a Stalin.
Naturalmente continuava a esistere, era abbondantemente citato, ma solo fino a quel
punto in cui le sue affermazioni sembravano confermare le momentanee indicazioni
tattiche di Stalin. Si veniva così realizzando una grave deformazione del metodo di
Marx e Lenin mentre si conservava la loro terminologia, dove naturalmente la
deformazione metodologica mutava anche il contenuto di tutte le categorie, dava loro
per la maggior parte un senso fisso, astratto, adatto alla manipolazione, burocratico.
4. Il 1946 dette il via alla resa dei conti con la dottrina di Stalin. Anche qui bisogna
rilevare che, come il dominio di Stalin aveva avuto in fin dei conti delle ragioni
economico-sociali, anche la lotta iniziata contro quel metodo ebbe le sue. Quali che
fossero i mezzi usati, Stalin riuscì a costruire nell’Unione Sovietica una forte industria.
Guerra e dopoguerra ne sono dimostrazioni pratiche incontestabili. Ma come
conseguenza di questo fatto si è avuto anche un cambiamento interno nella
stratificazione sociale. Nell’Unione Sovietica esisteva ora una vasta e qualificata classe
operaia. Al contrario degli anni trenta, quando gli specialisti economici e tecnici
provenivano per la maggior parte dalla vecchia borghesia ed erano sovente avversari
coscienti del sistema sovietico, lo sviluppo economico ha creato adesso un vasto strato
di specialisti d’impronta nettamente sovietica. Comunque si vogliano valutare i metodi
staliniani dei «commissari politici», degli universali controlli sull’intero andamento
della società tramite la polizia politica, ecc., all’epoca della morte di Stalin questi
metodi erano già storicamente superati dallo sviluppo sociale; erano divenuti solo freni
dello sviluppo economico; e si dovette eliminarli.
Questa è la vera base sociale che ha portato Krusciov alla ribalta del XX Congresso e
alla conseguente politica di riforme. Ancora una volta non è questo il luogo per
descrivere gli alti e bassi di questo movimento. Sintetizzando si può e si deve dire però
che proprio Krusciov ha criticato e corretto Stalin in gran parte alla maniera staliniana,
con metodi staliniani, che anche successivamente il suo atteggiamento verso Stalin ha
preso come modello metodologico un po’ la critica a Trotskij del periodo di Stalin. Non
era e ancora oggi non è il caso di parlare di un tentativo davvero storico, davvero
marxista, di critica all’opera staliniana. Per questo nel campo dei sostenitori delle
riforme nasce sempre un certo nervosismo quando da qualche parte vengono sottolineati
alcuni momenti positivi dell’attività di Stalin; si teme — e, aggiungiamo noi, non
sempre senza ragione — che si tratti di sondaggi per riaccostarsi alla prassi staliniana.
Sul piano ideologico l’aspetto più importante è che la deformazione staliniana della
metodica di Marx e Lenin e con essa la compressione, il freno dello sviluppo
progressivo del marxismo continua a perdurare in nome della «partitiche» (di nuovo nel
senso di Stalin e non di Lenin). Non potendo qui approfondire veramente l’argomento,
non possiamo fare a meno di notare che in questo modo, se da un lato si è impedita con
successo, un’analisi autenticamente marxista delle trasformazioni avvenute nella
economia mondiale dalla morte dei classici in poi, si è impedita la scoperta dei suoi
nuovi tratti economici, dall’altro lato però sono stati resi possibili l’affluire e la
ricezione acritica delle «conquiste» occidentali nel marxismo. Al posto della autocritica
e di una vera riforma basata sui princìpi, si è avuta spesso un’alleanza tra il
burocratismo dogmatico-conservatore e certe nuovissime parole d’ordine occidentali. Si
pensi alle proposte non di riformare le basi irrazionali, puramente burocratiche
dell’economia di piano, con un ritorno ad un marxismo purificato, sdogmatizzato,
fondato sulla realtà dei fatti, ma di superarla armando il burocratismo, immutato e
conservato, di macchine cibernetiche, ecc. Dietro tali tendenze si nasconde il desiderio
di accomunare le brutali manipolazioni del periodo staliniano e quelle «sottili» del
capitalismo attuale. E a guardare la cosa da questo angolo di visuale, è solo coerenza
quando accadono casi in cui il persistente burocratismo staliniano dà mano libera a
qualsiasi avanguardismo, mentre mantiene una censura di buona rigorosità staliniana nei
confronti della rinascita del marxismo.
Naturalmente alla lunga non è possibile frenare in questo modo lo sviluppo economico.
Appare sempre più evidente che non basta la semplice distruzione del dominio assoluto
della polizia politica e l’eliminazione dei vecchi stalinisti più responsabili e più
incorreggibili, per mettere in moto una economia socialista funzionante e all’altezza dei
tempi. Per questo in vari luoghi la forza imperativa della realtà economica provoca reali
movimenti di riforma che — non importa per il momento sulla base di quale teoria — si
sforzano di liberare le forze reali del rinnovamento economico e che, se davvero
vorranno realizzare quanto è divenuto storicamente necessario, se davvero
combatteranno fino in fondo, col passare del tempo saranno anche costretti a dar vita a
una loro fondazione teorica, marxista.
Indubbiamente c’è qualche disposizione a una autentica nuova ondata. In talune poesie
uscite recentemente nei paesi socialisti, e anche nella prosa, soprattutto nella novella.
Alcuni anni fa io rilevai la grande importanza di Solzhenitsyn, proprio perché egli aveva
affrontato con coraggio e talento il problema centrale di quel periodo: come gli uomini,
nella lotta con la realtà quotidiana dello stalinismo, — e i campi di concentramento ne
fanno parte, pur senza essere l’unico campo di battaglia — sapevano mettere a prova la
sostanza della loro umanità, e conservarla, come in questa lotta venivano maturati o
distrutti e corrotti. Da parte di burocrati, contro un tale giudizio sulla situazione, si
obietta che non bisogna «rimestare» nel passato, che bisogna invece applicarsi alle
questioni del presente. Ma prima di tutto c’è da dire che proprio qui stanno i problemi
del presente.
Nel giudizio sulle nuove tendenze bisogna essere molto cauti. Anche qui per ora
possiamo stabilire solo la faccia negativa: le promesse che nascono adesso hanno ancor
meno in comune con le correnti letterarie che dominano in Occidente. Ciò dimostra che
sta nascendo davvero qualcosa di essenzialmente nuovo. Sono gli inizi di un’arte nuova,
che sorge per soddisfare nuovi bisogni popolari; le sue forme vengono organicamente
ricavate dal contenuto di quella richiesta sociale, alla quale essa deve la propria
esistenza di fenomeno originalmente nuovo. Ma si potrà parlare a fondo di questi
problemi estetici solo quando questa arte nuova si sarà dispiegata in una certa misura.
Solo dopo — post festum — sarà chiaro se esistono fili che la collegano al primo
periodo e come sono fatti questi legami. Per ora possiamo solo prender atto, con gioia e
speranza, della sua esistenza e darle il benvenuto.
5. Crisi e ricerca di una via d’uscita oggi non si limitano affatto alla zona del
socialismo. In Occidente adesso assistiamo di frequente al crollo di false immagini del
mondo che erano state covate a lungo come salda verità. Oggi si dice spesso che la
guerra fredda sta avvicinandosi alla fine. E in realtà quel che c’è dietro è molto di più di
un semplice mutamento tattico di politica estera. Per gli Stati Uniti è crollato il sogno
della validità universale dell’american way of life; per l’Inghilterra il sogno del
Commonwealth come surrogato della condizione di potenza mondiale; per la
Repubblica federale tedesca il sogno del roll back come base per un rinnovato
predominio militare in Europa, ecc., ecc. Se poi si aggiunge che in questo periodo sono
crollati tutti i vecchi imperi coloniali, che i «miracoli economici», ritenuti modi d’essere
permanenti della economia, si sono rivelati semplici periodi di ricostruzione già
terminati (per quest’ultima questione mi baso sulle indagini di F. Janossy), se si riflette
infine che nella società dei consumi, apparentemente così perfetta, risulta sempre più
chiaramente che è l’uomo ad essere messo in forse, ci si accorgerà che sono presenti,
più che a sufficienza, motivi economici, sociali e politici per una crisi ideologica
generale.
Anche occorre parlare soprattutto della letteratura. W. Jens, che già abbiamo citato a
testimoniare sugli effetti della rivoluzione d’Ottobre, a proposito della delusione degli
intellettuali tedeschi (e non solo tedeschi) provocata dagli avvenimenti degli anni trenta
dice: «Gli intellettuali divennero una volta per tutte apolidi». Che questa apolidìa nel
periodo delle illusioni capitalistico-imperialiste, nonostante tutto l’ostentato scetticismo
e pessimismo, si sia dimostrata in sostanza solo autocompiacimento, adesso importa
poco. I vuoti ideali del 1945, le utopie reazionarie del periodo della guerra fredda, sono
ormai in via di disfacimento. Vorrei sottolineare adesso un solo sintomo, in verità
importante, di questa crisi. Per interi decenni, tra gli intellettuali progressisti
dell’Occidente è stato di gran moda disprezzare profondamente il marxismo come una
ideologia troppo a lungo sopravvissuta al XIX secolo, messo ormai da parte per altri
aspetti. Ora però la crisi ideologica spinge un numero sempre maggiore di intellettuali a
vedere proprio nel marxismo la chiave per risolvere quei problemi ai quali neppure il
pensiero borghese «più o meno progressista» è capace di dare una risposta.
Si intende da sé che questo fatto non può non mutare a poco a poco anche
l’atteggiamento nei confronti della prospettiva socialista. E appunto qui, lo sviluppo
concreto dei paesi socialisti si lega strettamente alla forza d’attrazione della prospettiva
socialista nei confronti degli intellettuali dell’Occidente capitalista. Il fascino
dell’Ottobre e delle sue immediate conseguenze consisteva nel fatto che in esso
risultava evidente tutto un nodo di risposte che, per ragioni sociali, questi intellettuali
non riuscivano a chiarire con i propri strumenti di pensiero quasi nemmeno nella forma
di domande. L’angustia dogmatica, la rigidezza, il carattere grossolanamente
volgarizzatore di quello che nel periodo staliniano si usava chiamare marxismo, non
poteva per sua natura né esercitare tale influenza, né trattenere l’ondata antimarxista nel
pensiero occidentale. Per il nascente interesse, per la crescente simpatia verso il
marxismo che comincia a manifestarsi ora in Occidente, è quindi d’importanza
determinante il modo in cui i comunisti parteciperanno alla rinascita del marxismo. Per
ora la situazione è estremamente confusa. A un polo ci sono le tradizioni del periodo
staliniano ancora fortemente radicate, all’altro polo non di rado si è avuta l’inclinazione
ad andare incontro — anche troppo — ai pregiudizi ed alle confusioni di tutti i
partecipanti alla discussione, fino ad abbandonare i principi fondamentali del marxismo.
In ultima analisi però determinante è qualcosa che ovviamente non si realizzerà mai del
tutto senza una autentica rinascita del marxismo: la veemenza della vita stessa nel
socialismo sarà questa a dare la risposta. Per quanto all’interno del mondo socialista, la
riforma dell’economia sia molto importante, il semplice aumento della produzione e del
livello di vita non sarà mai capace di avere questa forza d’attrazione per l’Occidente (e
questa era una delle illusioni di Krusciov). Questo processo, dunque, che suscita le più
grandi speranze oggi appare ancora in uno stadio estremamente confuso; da marxisti
tuttavia possiamo aspettarci come prospettiva, con buona coscienza teorica, il
chiarimento così necessario del pensiero sulla base della riforma della vita sociale e
dell’economia del mondo del socialismo.
Per queste ragioni l’insieme dei problemi sociali e umani dell’Ottobre non può oggi
avere influenza, né estensiva né intensiva sulla letteratura occidentale. Come sempre,
sono i problemi di vita del presente a decidere che cosa scrittori e lettori sono in grado
di sentire come un passato vivo ed esemplare. E la letteratura occidentale per giunta
ancora non è venuta in chiaro neppure con il proprio recente passato. Tale discrepanza
risulta evidente dal fatto che ancora oggi gli immediati documenti umani della
Resistenza antifascista — ricordiamo solo le ultime lettere dei condannati a morte, gli
schizzi del carcere di Fucik — son d’un livello che la letteratura occidentale ha
raggiunto solo in casi rari ed eccezionali. Naturalmente ci si muove, e validamente, in
questa direzione, così in alcune novelle di Vercors, o Biliardo alle nove e mezzo di Böll,
o Il Vicario di Hochhuth o gli ultimi drammi di Peter Weiss. Ma solo il Grande viaggio
di Jorge Semprun si eleva sino quasi a raggiungere il livello del vero modello di vita.
Un tale presente è ancora molto lontano. Non bisogna però sottovalutare il materiale
esplosivo che è stato ed è accumulato, latente o eruttivo, in rivolte individuali, solitarie,
personali. Naturalmente non parliamo qui di quel conformismo anticonformistico che
sublima l’elementare scontentezza dell’uomo in una autocompiaciuta disperazione
intimamente passiva, e che fornisce la propria alienazione come consumo di lusso per
clienti esclusivi. Il contrario c’è sempre stato, così il tardo O’ Neill, la fine della pista di
Thomas Wolf, o Menzogna e sortilegio di Elsa Morante, o Styron, o molti altri. Queste
rivolte hanno una così grande importanza sociale ed artistica perché in esse, pur
configurate come azioni individuali di uomini singoli, è sempre implicitamente presente
l’in-sé della loro socialità. Sarebbe un compito importante e bello per il marxismo che
cresce, trasformare questo in-sé in un per-noi chiaro, universalmente valido ed
efficacemente unito. In questo modo sarebbe spianata la strada evolutiva per elevare
questo in-sé della rivolta contro la alienazione nel mondo manipolato al suo essere-per-
sé.
Le forme della alienazione umana in Occidente sono cosiffatte che proprio la letteratura
e l’arte potrebbero dare notevoli impulsi alla volontà degli uomini per sfondare questo
cerchio magico. La consapevolezza su se stessi, sulla propria situazione, sulle proprie
possibilità, implica l’autocoscienza dell’uomo su se stesso, ma appunto come essere
insieme autonomamente attivo e ineliminabilmente sociale. Obiettivamente, l’uomo non
è stato «gettato» in un mondo alienato, ma vive in un mondo, per ostile che sia, il cui
essere non può mai venir separato dall’essere della sua personale interiorità. Così
l’uomo, in un certo senso, ha anche una parte di colpa per la sua alienazione, per cui
anche il rifiuto del suo mondo circostante include sempre anche un’autocritica orientata
praticamente, cioè una critica della realtà sociale oggettiva. Per questo il rifiuto
dell’alienazione che resta semplicemente soggettivo, semplicemente sentimentale, slitta
tanto spesso in un adattamento ad essa, pieno di riserve solo formali, perché
l’alienazione sfugge a una reale dialettica, di soggetto e oggetto. Solo una dialettica,
divenuta coscientemente pratica, di doppie negazioni intrecciate una nell’altra, dà alla
sostanza umana la capacità di resistere, la spinge dal semplice immediato in-sé
all’autonomo riconoscimento del per-sé.