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Letteratura latina.

Storia e antologia di testi, Giovanni Cipriani

La leggenda delle origini


Tito Livio, nella sua Storia di Roma, ricostruisce le oscure origini della città. Da Troia, Enea era giunto
profugo nel Lazio e aveva sconfitto la popolazione indigena dei Rutuli di Turno. A lui succedette il
figlio Ascanio, poi arrivarono Silvio e altri ancora, Tiberino, Aventino, Amulio, che detronizzò il
fratello Numitore e che costrinse la figlia di questi, Rea Silvia, a diventare sacerdotessa di Vesta,
affinchè rimanesse vergine. Ma Rea partorì due gemelli, Romolo e Remo. Amulio li fece gettare nel
Tevere, ma questi vennero salvati prodigiosamente dalla corrente del fiume. Vennero allattati da una
lupa e raccolti dal pastore Faustolo. Crebbero, uccisero Amulio e restituirono il regno di Albalonga a
Numitore. Presa la decisione di fondare una nuova città, i due gemelli litigarono su chi dovesse esserne
il fondatore, ergo per cui chiesero l’aiuto degli dei attraverso il volo degli uccelli. Fu scelto Romolo:
Remo non accettò questa decisione e venne ucciso da Romolo in una rissa. Così nacque Roma, nel 753
a.C. Ora bisognava popolarla. Romolo creò un consilium di patres che avrebbe amministrato la vita
della neonata società. Il primo affronto i Romani lo subirono quando si pose il problema di trovare
delle donne con cui costruire delle famiglie e propagare la razza. Gli ambasciatori venivano maltrattati
ovunque si recassero: per ripicca, venne organizzato il ratto delle Sabine: durante uno spettacolo di
giochi in onore di Nettuno, i giovani romani rapirono le vergini sabine e le portarono nelle proprie
case.

Il periodo della monarchia


La ricerca archeologica e topografica recente ha scovato materiali che fanno pensare a tempi/modalità
di fondazione di Roma sostanzialmente in linea col racconto liviano. I ritrovamenti archeologici
testimoniano l’esistenza sui vari colli di Roma di stanziamenti sparsi (soprattutto Esquilino e Palatino).
La città nacque quando vari insediamenti di etnia latina si amalgamarono in un un’unica comunità
il cui nucleo commerciale e civico era rappresentato dalla valle compresa tra Palatino ed Esquilino. Il
processo di fusione continuò nei secoli successivi: il ratto delle Sabine allude a un assorbimento non
del tutto pacifico degli stanziamenti posti sul Quirinale (dove vivevano per l’appunto i Sabini). Sarà
proprio l’elemento sabino a dominare la prima fase del governo regio. Al sabino Numa Pompilio viene
attribuita la creazione di istituti religiosi e dei sacerdozi di Roma, mentre sotto Tulio Ostilio i Romani
distrussero Alba Longa, dando luogo a una prima fase di espansione di Roma nel territorio laziale.
Anco Marzio poi avrebbe fatto costruire il ponte Sublicio, da cui passava il commercio proveniente
dall’Etruria e diretto in Campania. Dagli ultimi decenni del VII secolo alla fine del VI, Roma visse
sotto l’egemonia degli Etruschi. A questo periodo si attribuiscono riforme importanti
dell’organizzazione sociale e dell’esercito, da cui rimasero esclusi quanti non potevano comprarsi gli
armamenti. Sotto i re etruschi Roma perde l’assetto primitivo di aggregazione di clan familiari e inizia
a trasformarsi in una città-stato in cui governa un sovrano assoluto. La fine della monarchia (il figlio
di Tarquinio il Superbo violentò Lucrezia, moglie di un patrizio, scatenando una rivolta che detronizzò
il monarca, 509 a.C.) coincide con la fine dell’egemonia etrusca a Roma e nell’area tirrenica. Inizia
così l’età repubblicana. I patrizi esercitano il loro controllo sul governo, la giustizia, la vita religiosa e
la guerra, mentre la plebe era esclusa dal potere; l’imperium del re è affidato a due consoli di pari
autorità per scongiurare il ritorno della monarchia.

I primi secoli della repubblica: l’espansionismo interno


È certo che i Romani consolidarono lo stato avviando contemporaneamente un processo di graduale
espansione territoriale: prima si assicurarono l’egemonia sulle altre popolazioni latine, poi si imposero
sugli Osco-Umbri. Tra la fine del V e gli inizi del IV a.C., Roma conquistò la città etrusca di Veio (396
a.C) e affermò il proprio primato tra le città del’Italia centrale. Tutto ciò determinò una svolta nel
conflitto tra patrizi e plebei per il controllo dello stato. Le pretese di costituzione di uno “stato plebeo”
portò all’istituzione di una magistratura, il tribunato della plebe, che nacque inizialmente in

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contrapposizione al consolato, dal quale la plebe rimase esclusa fino al 366. Ben presto i tribuni furono
riconosciuti come magistrati della Repubblica e dotati di ius auxilii e intercessio, ossia diritto di
intervento in difesa di plebei accusati e condannati ingiustamente. Le conquiste dei Romani subirono
un momentaneo arresto a causa dell’incursione di una popolazione nuova, proveniente da oltralpe, i
Galli, che sottoposero Roma a saccheggio (390 a.C.). Dalla metà del IV sec. riprese l’espansione
militare romana, rivolta ora verso la parte interna della penisola. I Romani arrivarono allo scontro con
i Sanniti per il controllo dei commerci con la Campania (su cui prevalsero solo nel 290 a.C.). Non si
fecero scrupolo di infrangere un precedente trattato di non interferenza nella sfera d’influenza di
Taranto, con un intervento a sostegno dell’aristocrazia di Turi. I tarantini chiesero aiuto a Pirro, re
dell’Epiro, sconfitto dopo un difficoltosissimo braccio di ferro (275 a.C.). La prestigiosa vittoria su
Taranto consegnò ai Romani il dominio su tutta l’Italia meridionale e la libera navigazione
commerciale nell’Atlantico.

La società
La gens costituisce la cellula base: si tratta di un insieme di famiglie patriarcali che si richiamano a
una parentela di sangue e alla discendenza in linea maschile da un antenato comune. Un complesso di
gentes forma una tribù. A Roma troviamo assai presto tre tribù: Tities, Ramnes, Luceres, ciascuna
divisa in 10 curie. Attorno al capo di ogni gens si raggruppano anche i clientes. Il vincolo di clientela
è una sorta di vassallaggio, un rapporto vincolante di carattere morale e sociale tra patrono e cliente,
che troverà nelle Leggi delle XII Tavole del V sec una regolamentazione giuridica. L’istituto della
clientela è legato alla nozione di fides, sentimento d’onore che impone al potente il dovere di
proteggere colui che gli si è affidato. È rispetto della parola data. Come già testimoniano le Leggi delle
XII Tavole, nel ruolo di struttura sociale fondamentale alla gens subentra la familia, che raggruppa,
sotto l’autorità di un pater familias, la moglie di questi, i figli, nuore e nipoti, gli schiavi e tutti i beni
di casa. Il segno di una gens, allineata al comportamento delle generazioni precedenti, costituisce il
mos, una sorta di istituzione etico-comportamentale ereditata dagli antenati. L’unificazione politica si
è realizzata sotto la spinta della monarchia. La parola rex realizza in sé un nesso tra l’esercizio del
potere politico/religioso e l’organizzazione dello spazio. Compito del re è dunque fissare delle regole,
di delimitare il territorio, prima ancora che dirigere lo stato e l’esercito. Tutte queste prerogative
confluiscono nella concezione romana del più alto potere esecutivo, l’imperium. La fine della
monarchia segna la perdita di esso da parte del rex, ma quest’ultimo non scompare del tutto e vede
restringersi le proprie prerogative alla sola funzione religiosa. La struttura aristocratica della società
romana si esprime nell’assemblea dei patres familias, il senatus. Si dice che sia stato creato da
Romolo e che all’inizio fosse stato composto dai 100 esponenti delle famiglie più in vista. Il suo
compito originario è quello di eleggere il re. I plebei che riescono a conseguire una magistratura curule,
entrano a far parte del senato come conscripti. Con il passare del tempo (III a.C.) nasce una nuova
classe dirigente, la nobilitas, che comprende alcune distinte famiglie plebee cui sono concessi i
privilegi sacrali e politici dei vecchi patrizi, andrà a costituire il centro propulsore della vita
socioculturale di Roma.

La guerra
Roma è una comunità che fa della guerra un principio di governa, una modalità di rapporto con l’altro,
con lo straniero, l’hostis. La guerra a Roma è un’istituzione sociale/religiosa scandita da una ritualità
ricca di eventi e gesti simbolici. Ogni anno, nel mese di marzo, si apre con cerimonie particolari:
purificazione dei cavalli/armi/trombe, poi danza dei Salii (sacerdoti vestiti da antichi guerrieri) che
portano fuori dalla Regia gli scudi sacri (ancilia) e li agitano danzando per tutta la città. In ottobre
cerimonie simmetriche annunciano la tregua invernale. C’è stretta correlazione tra aspetto militare e
religioso. La devotio, una sorta di votum di sé alle divinità infernali, è la forma più alta di servizio nei
confronti dello stato, reso secondo le più rigide regole religiose: l’offerta della propria vita obbliga le
potenze divine a riversare sul nemico le loro influenze negative: il destino di morte del protagonista

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della devotio, nel momento in cui si lancia disarmato nel campo nemico e viene ucciso, coinvolgerà,
come per contagio, l’esercito avversario. La dichiarazione stessa di guerra è fatta dai sacerdoti
(Fetiales): si avvicinano al campo nemico e scagliano un giavellotto. I romani non sono completamente
a loro agio nei confronti della violenza: ecco perché hanno elaborato la nozione di bellum iustum: tale
è per loro la guerra dichiarata secondo le regole del ius fetiale, guerra che risulta quindi consacrata. Il
successo del generale che ha ucciso un gran numero di nemici comporta il trionfo: vestito di un costume
rosso (richiamo a Giove), con il volto dipinto di rosso e una corona d’alloro, in una cerimonia ricca
di simboli e riti purificatori.

La religione
Nella forma più antica di religione romana l’uomo vive circondato da spiriti innominati (numina)
contro i quali è impotente. Essi non hanno tratti somatici definiti, storia, personalità, e agiscono sulle
cose con le quali il romano ha a che fare nella vita quotidiana. L’intero ciclo del grano, per esempio, è
tutelato in ogni sua fase da Proserpina (geminazione), Nodutus e Volutina, Patelana (apertura della
spiga), Matuta (maturazione), Runcina (mietitura). I tratti umani sono appena accennati e sono spesso
terrificanti. Gli stessi Lares sono associati all’idea dell’Oltretomba e manifestano un potere terrifico
verso l’esterno con il loro aspetto animalesco. Gli spiriti dei morti, i Manes, invadono l’atmosfera tre
giorni all’anno, attraverso il mundus, cavità simile a un silos per il grano, e ogni famiglia ne celebra la
commemorazione. La vita religiosa di Roma arcaica è ricca di riti: sacrifici cruenti nutrono il corpo
del dio, l’offerta della decima fa sì che il dio si riappropri del bottino e del raccolto, l’offerta della
propria vita (devotio), preghiere magiche (carmina), libagioni di vino/sangue da parte dei sacerdoti,
litanie rivolte agli spiriti divini affinchè garantiscano la loro assistenza. Alcune confraternite hanno
ruoli più specializzati: gli Arvales celebrano nel mese di maggio il sacrificio di un agnello e consacrano
il pane e il vino, danzando/cantando un inno le cui parole risultano incomprensibili; i Luperci corrono
una volta all’anno in direzione del Palatino, per allontanare i lupi dal bestiame. Nel 700 a.C. vengono
importati anche nuovi dei: Ercole,
Cerere. Anche l’apporto degli Etruschi fu fondamentale: Tarquinio il Superbo introdusse i Libri
Sibyllini, contenenti i vaticinii della profetessa cumana riguardanti Roma. In questi anni la città
accoglie anche i primi aruspices (leggere futuro nel fegato delle vittime). Ai fini dell’organizzazione
religiosa della realtà, profano e sacer vengono separati: sacer è tutto ciò che viene sottratto all’uso
profano e che viene messo a disposizione della divinità (tempio, oggetti). A Roma mancano i miti
teogonici, concernenti la nascita delle varie divinità e i loro rapporti di parentela.

Le prime tracce di scrittura


Il latino in origine non è che una parlata locale, che coesiste con quelle di più antiche popolazioni del
Lazio. Il condizionamento etrusco sotto il quale viene a trovarsi la città (fine VII) influenzò anche la
lingua di Roma, ma in misura minore di quanto non fece con le istituzioni. Anche l’alfabeto arrivò a
Roma con la mediazione degli etruschi e parimenti etrusco sembra essere l’uso dei tre nomi
praenomen, nomen, cognomen. Per il periodo più antico possediamo solo pochissimi documenti
scritti: si tratta di iscrizioni ritrovate su oggetti di uso domestico, che vogliono trasmettere
sentimenti/desideri/abitudini, oppure testi connessi alla pratica giuridico sacrale (vedi il carmen
religioso di Catone il Censore). Altro documento “primigenio” è quello de Le Leggi delle XII Tavole.
Se uno chiama in giudizio, l’altro ci vada; se non va, quello prenda dei testimoni: poi lo arresti. È
il primo articolo di legge, che qualsiasi Romano era tenuto a conoscere. Queste norme giuridiche
costituiscono uno dei più antichi documenti scritti dell’età repubblicana, anche se conoscono pure un
canale di trasmissione orale. All’ambito religioso ci riportano testimonianze come il canto rituale dei
Salii (che aprivano la stagione della guerra) o dei Fratres Arvales, incaricati di cerimonie propiziatrici
per il raccolto. Abbiamo anche i carmina triumphalia, comprendenti filastrocche e versetti che erano
recitati in occasione della celebrazione del trionfo di un imperator vittorioso; ci sono poi i carmina
convivalia, che celebravano la gloria di qualche rappresentante illustre di una gens; si vedano anche le

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laudationes funebres, con i quali si ripercorreva la vita del defunto.

Appio Claudio Cieco


Primo autore di un trattato giuridico perduto, De Usurpationibus, mentre il suo scrivano Cneo Flaviio
sottrasse ai pontefici i formulari delle actiones, li riorganizzò in un corpus noto come Ius Flavianum
e lo pubblicò (304 a.C.). A lui si fa risalire pure la sentenza Faber est quisque fortunae. Gli vennero
inoltre attribuite riforme nel campo dell’ortografia.

L’età arcaica

Il contesto storico

L’espansionismo romano
Roma concluse con successo la prima guerra punica per sottrarre la Sicilia e il Mediterraneo
occidentale all’influenza di Cartagine (264-241 a.C.); la Sicilia, che diventò la prima provincia
romana, fornì il modello per la riorganizzazione politica/amministrativa dei territori annessi
successivamente. Le province furono sottoposte all’autorità di un magistrato romano e tenute al
regolare versamento di onerosi tributi. Il processo di espansione di Roma proseguì con la conquista di
gran parte della Gallia Cisalpina, mentre l’influenza romana si estendeva ai territori costieri della
Dalmazia (236-222 a.C.); senonchè, quando Cartagine riprese la Spagna con le armi (218), un nuovo
conflitto fu inevitabile. I Romani vennero sconfitti da Annibale al Trebbia, al Trasimeno, a Canne
(216); la conclusione della guerra con la vittoria a Zama (202) dell’esercito di Scipione l’Africano
segnò il tramonto della potenza cartaginese. In seguito, l’apertura di Roma ad Oriente fu accompagna
da contrasti interni al gruppo dirigente (espansionisti v conservatori). Al termine della prima fase di
intervento – vittorie di Tito Quinzio Flaminino su Filippo V di Macedonia a Cinoscefale (197), di
Scipione l’Africano a Magnesia contro Antioco di Siria (189) – Roma sperimentò una nuova forma di
imperialismo, limitandosi ad esercitare una discreta influenza politica sulle città-stato greche a
salvaguardia di quella che si presenta come una sorta di autonomia “protetta”. Politica che mostrò
ben presto i suoi limiti e Roma non riuscì a imporsi come guida politica del mondo ellenistico in
presenza della Macedonia, che si pose a capo di un sentimento indipendentistico da parte di stati
minori. Roma scelse la soluzione di forza: la Macedonia venne smembrata in 4 parti e Corinto venne
rasa al suolo (146).

Roma nell’età dei Gracchi


Nel 133 Tiberio Gracco si fece eleggere tribuno della plebe, per poter proporre una riforma agraria,
per ricostruire la classe dei piccoli proprietari terrieri. La riforma prevedeva che un proprietario potesse
possedere al massimo 500 iugeri o 1000 nel caso avesse più di un figlio. La legge di Tiberio incontrò
l'opposizione del senato poiché i senatori si erano appropriati del terreno pubblico e quindi
consideravano la riforma come un esproprio. Il senato vota contro Tiberio il “senatoconsulto ultimo”
dopo questa decisione ci furono dei tumulti nel quale Tiberio fu ucciso. Caio Gracco Nel 123 venne
eletto tribuno della plebe Caio Gracco. Egli ripropose la lex agraria del fratello, costruì nuove strade
e fondò colonie nelle province. Così venne rieletto anche nel 122 e propose di attribuire la cittadinanza
Romana ai socii italici. Ma questa proposta fu la causa della sua rovina, perse il sostegno della plebe.
Nel 121 non fu rieletto: tentò la via della rivolta armata invitando gli schiavi a combattere a suo fianco,
ma il senato (emesso il senatoconsulto ultimo) soffocò la rivolta nel sangue. Caio per non essere ucciso
dai soldati chiese a uno schiavo di dargli la morte. l potere era tornato ai senatori, e la società si era
divisa in 2 partiti i popolari (plebei, cavalieri, italici) e i senatori. Tra questi due partiti c'erano sempre
degli scontri, allora i tribuni della plebe per far fronte a questa situazione chiesero aiuto ai comandanti
militari. Nel 112 il senato dichiara guerra a Giugurta, re di Numidia, che aveva fatto uccidere dei
commercianti italici. Si vede allora a quale livello si sia ridotta Roma: mentre i generali si lasciavano

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corrompere, i soldati vendevano le armi al nemico.

Da Mario a Silla
Nel 107 i cavalieri e i popolari riuscirono a far eleggere Caio Mario (homo novus) console,
probabilmente uno tra i più grandi generali di Roma. Mario riformò l'esercito rendendo l'arruolamento
volontario e aperto a tutti: per la prima volta l'esercito non era composto dai soli possidenti. Nel 105
la Numidia venne domata. Mario fu rieletto console per ben 5 anni (sconfisse i cimbri, teutoni, 2
popolazioni germaniche). Perse l'appoggio dei suoi sostenitori, accettando l'incarico di reprimere la
rivolta scoppiata. La classe senatoria continuava a ignorare le richieste dei socii (la cittadinanza). Nel
91 i socii decisero di muover guerra a Roma. Le ostilità si estesero in tutta l'Italia centro meridionale.
Il senato fu costretto a concedere la cittadinanza a tutti i socii. Si stava preparando una nuova guerra:
Mitridate Viaveva dato inizio a una rivolta contro Roma. Nell’88 il senato gli dichiarò guerra. Il senato
voleva che fosse condotta da Silla e il popolo da Mario. Silla entrò a Roma a capo delle sue truppe e
si apprestava a partire. Mario, approfittando della lontananza di Silla, entrò nella capitale e la
saccheggio per 5 giorni. Il ritorno di Silla, riaccese la guerra civile, che nel 82 finì con la vittoria di
Silla sui mariani. Silla fu nominato dittatore con l'incarico di scrivere le leggi e di costituire una nuova
repubblica. I sui provvedimenti: vennero fatte le liste di proscrizione, riformò la costituzione
raddoppiando il numero dei senatori (300-600) e stabilì che i tribuni della plebe dovessero sottoporre
al parere del senato le proposte che volevano presentare.

Livio Andronico
La vita La prima personalità definita della storia letteraria di Roma, Livio Andronico, era un greco di
Taranto, condotto a Roma come schiavo al tempo della conquista romana della sua patria (272) da
Livio Salinatore. Tito Livio racconta che, durante la seconda guerra punica, i pontefici incaricarono
Livio Andronico di placare la presunta ostilità degli dei con un inno espiatorio a Giunone Regina. Il
carme si rivelò efficace, visto che i Romani sconfissero Asdrubale al Metauro (207). Il senato offrì in
segno di riconoscimento al poeta il tempio di Minerva sull’Aventino. La morte è da collocare al 200
a.C.

L’Odusia e la tecnica della traduzione letteraria


Egli voleva che la classe superiore romana familiarizzasse con il patrimonio letterario della Grecia:
voleva consentire alla letteratura latina, ancora in nuce, di fare propri gli evoluti mezzi espressivi e i
contenuti della cultura letteraria greca. Il suo tradurre si fondava su un processo di
adattamento/trasposizione, di romanizzazione, quanto ai contenuti, e di latinizzazione sul piano
linguistico. Tale attività è visibile nella traduzione dell’Odissea di Omero. Perché questa e non l’Iliade?
Per l’elemento fiabesco e romanzesco, la presenza di toni pensosi ed intimistici, le peregrinazioni per
mare di Ulisse (che ricordavano quelle di Enea) e la vicinanza dello stesso al mos maiorum latino.
Purtroppo si sono salvati poco più di 30 brevi frammenti dell’Odusia. Per avvicinare l’opera al suo
pubblico Livio sceglie nomi latini: Ulixes, le romane Camenae (Muse), Moneta (Mnemosyne). Al
processo di latinizzazione del testo omerico rinvia anche la sostituzione dell’esametro dell’epica
omerica con il saturnio, l’antico verso italico della poesia epica e religiosa.

Livio Andronico autore di teatro


A Livio si deve anche l’avvio di una produzione teatrale latina non più fondata sull’improvvisazione
e su un canovaccio di base; abbiamo per la prima volta, invece, fabulae cothurnatae e fabulae palliatae
direttamente ispirate ai testi del teatro greco. Non è sicuro, comunque, che sia stato lui a introdurre nel
teatro romano questa pratica della contaminatio (ispirarsi a più modelli greci per la stesura di un unico
dramma). Alcune delle sue tragedie traevano ispirazione da episodi legati alla guerra di Troia; si può
pensare che il legame con la patria del mitico progenitore Enea le rendesse più gradite al pubblico
romano (ne sono 9, tra cui, Achilles, Equos Troianus, Aiax mastigophorus ecc). I miti greci che stanno

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alla base di queste trame suggeriscono un certo interesse per l’elemento patetico e romanzesco. Il
confronto con gli originali ci consente di affermare che anche in questo campo Livio operò con una
certa libertà, rileggendo le tragedie greche con spirito romano. Una differenziazione si riscontra
nell’accresciuto spazio riservato alle parti liriche rispetto a quelle dialogate. Egli si cimentò anche nella
commedia, di cui possediamo tre titoli, Gladiolus (che si vanta di aver sbaragliato un numero
esorbitante di nemici), Ludius, Verpus, di cui ci son pervenuti solo pochi frammenti.

Nevio
La vita Cittadino romano di Capua. È probabile che Nevio, libero cittadino ma plebeo, avesse preso
posizione nella lotta politica che si svolgeva a Roma in quegli anni tra il gruppo di tendenze
oligarchiche ed espansionistiche (famiglia dei Cecilii Metelli + Scipioni) e l’ala più conservatrice
(famiglia dei Valerii e Marcellii). A Nevio viene attribuito un saturnio offensivo nei confronti di due
membri illustri del primo clan, Quinto e Marco Metello: fato Meletti Romae fiunt consules (per la
rovina di Roma i Metelli vengon fatti consoli). È come se volesse riproporre la pharresia (esprimersi
con franchezza) greca a Roma. I Metelli lo fecero incarcerare ed esiliare ad Utica, dove morì nel 201
a.C.

La produzione comica
Nevio compose fabulae palliatae, ispirandosi a originali greci, o meglio, traducendoli, rivelando una
più spiccata verve comica rispetto ad Andronico. Della sua produzione comica ci sono rimasti un
centinaio di versi e una trentina di titoli: Acontizomenos, Colax, Carbonaria, Agitatoria, Figulus,
Tarentilla ecc. Secondo Terenzio, Nevio sarebbe stato il primo a mettere in pratica la contaminatio.
Le parole pronunciate da un personaggio dell’Agitatoria celebrano in toni enfatici quella libertà che il
poeta rivendicava per se stesso. Nevio non risparmiò frecciatine contro personaggi importanti: oltre
all’attacco ai Metelli, ironizzò anche su Scipione l’Africano (che avrebbe trionfato contro Annibale da
lì a poco). La vivacità della lingua della commedia, la capacità di giocare con le parole per ottenere
effetti di comicità è documentata da un litigio tra moglie e marito presente nell’Agitatoria. Celebre è
anche la Tarentilla, in cui parla di una ragazza facile di costumi, e lo fa con insoluta raffinatezza,
immediatezza e vivacità di dettagli.

La produzione tragica
Nevio fu anche autore di cothurnatae, ispirate a originali greci. La tragedia di cui rimane il maggior
numero di frammenti è il Lucurgus: Licurgo era un mitico re di Tracia, che si oppose a Dioniso e
quindi fu atrocemente punito. Il modello era forse l’omonimo dramma di Eschilo. La volontà di Nevio
di esprimersi sulla storia e la società di Roma è documentata anche dalla composizione di tragedie di
argomento romano: per noi, infatti, Nevio fu il primo a proporre delle pretextae. Una di queste,
Romulus affonda le sue radici nel passato mitico della città; un’altra, Clastidium, trattava della vittoria
conseguita da Marco Claudio Marcello a Casteggio, sui Galli Insubri.

Nevio epico: il Bellum Poenicum


In età avanzata concepì il disegno di un poema epico originale, il cui mito delle origini della città si
fondesse con la storia recente di Roma. Nacque così il Bellum Poenicum, un poema continuo in saturni,
successivamente diviso in 7 libri dal grammatico Ottavio Lampadione, che narra le fasi e le vicende
della prima guerra punica, evento a cui Nevio partecipò in prima persona. L’idea di un poema epico
rimanda alla tradizione del poema storico celebrativo ellenistico; la stessa fusione in un’unica opera
del racconto di guerra con quello d viaggi e di avventure si trova realizzata nelle Argonautiche di
Apollonio Rodio. Anche per lunghezza, il poema neviano dovette essere più vicino a queste ultime
(6000 esametri) che ai poemi omerici (15000 Iliade e 12000 Odissea). Secondo l’ipotesi più
accreditata, dopo la tradizione invocazione alle Muse, venivano narrate le vicende della prima guerra
punica fino all’assedio di Agrigento (262). A questo punto la descrizione del ciclo di immagini del

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frontone del tempio di Zeus Olimpio in questa città introduce l’espediente dell’ekfrasis (che permette
l’inserimento nella vicenda principale di unì’ampia digressione in cui veniva rievocata la fuga di Enea
da Troia fino alla fondazione di Roma. Viene riservato spazio anche all’amore tra Enea e Didone, che
ebbe un infausto epilogo (richiamando così il rapporto tra Roma e Cartagine). Accanto alla lingua
emozionale (poetica), troviamo nell’opera un secondo registro stilistico per la narrazione degli eventi
della guerra, raccontati con l’asciuttezza di un’espressione scabra, essenziale, cronachistica, in cui non
c’è posto per l’elaborata dizione omerizzante. L’informazione è ridotta all’essenzialità di una griglia
di verbi e sostantivi, senza note di
colore. Nevio concepì per primo l’epica come forma di espressione della coscienza e delle tradizioni
di un popolo: era vivo il bisogno di elaborare un nuovo “codice” epico di valori in cui il popolo romano
potesse riconoscere la propria identità culturale. All’ideale omerico di aristeia individuale (la prova
del singolo), che caratterizza la concezione bellica dell’epica greca, Nevio sostituisce la virtus
collettiva.

Ennio
La vita Nacque a Rudiae (tra Brindisi e Taranto, zona di influenza greca) ma si trasferì a Roma grazie
a Marco Porcio Catone. Qui entrò in contatto con le famiglie più in vista. Dei suoi patroni a Roma,
Ennio celebrò anche le gesta: un poemetto intitolato Scipio era dedicato a Scipione Africano;
Ambracia, praetexta con cui celebrò l’impresa di Marco Fulvio Nobiliore. Pochi anni dopo (184), il
figlio di Fulvio realizzò il sogno di Ennio di divenire cittadino romano. Ennio affermava di avere 3
anime, in quanto parlava greco, osco e latino.

Il teatro di Ennio
La sua produzione teatrale fu ricca. Abbiamo due titoli di praetextae: Ambracia e Sabinae, in cui era
tematizzato l’episodio del ratto delle Sabine. Più cospicua è l’eredità delle cothurnatae che, come nel
caso di Ennio, avevano a che fare con il ciclo della guerra di Troia: Achilles, Aiax, Hecuba, Eumenides,
Thyestes, Medea ecc. La base di questa vasta produzione è naturalmente costituita dal patrimonio
teatrale greco, ricco di suggestioni su temi morali, di contenuti etici in grado di rappresentare un fattore
coagulante o disgregante rispetto ai valori della civitas romana. Più in generale, Ennio ha assimilato i
precedenti greci e li ripropone arricchiti di pathos e sympatheia. Quintiliano lo considera un maestro
della retorica e consiglia la lettura delle sue opere agli aspiranti avvocati.

Ennio epico: gli Annales


Conserviamo circa 600 versi (in origine dovevano essere 15000). Erano 18 libri, organizzati per esadi
(gruppi di 6), con un proemio per ogni esade. Ennio era ritenuto la reincarnazione di Omero (alter
Homerus). Ennio sostenne di aver fatto un sogno in cui Omero gli diceva che la sua anima si trovava
ora nel corpo di Ennio stesso. Egli non traduce, non rielabora, bensì gareggia con il modello omerico,
sfidandolo sul terreno ideologico e formale, a cominciare dall’archiviazione del saturnio, sentito troppo
antiquato, e dall’adozione dell’esametro. Ennio non si appella alle Camenae italiche ma alle Muse. Fa
esplicito riferimento ai suoi predecessori romani, etichettati come Fauni e Vati, pechè rozzi e si
contrappone ad essi proclamandosi dicti studiosus. Gli Annali di Ennio raccontano l’epopea di Roma:
il titolo stesso richiama le registrazioni ufficiali degli eventi, in forma diaristica, di cui si facevano
carico i pontefici. Gli Annali trattavano soprattutto di storia e di avvenimenti contemporanei: riusciamo
a seguirne le tracce fino alla presa di Ambracia da parte di Marco Fulvio Nobiliore nell’anno 189 a.C.
Vengono invece messi da parte i conflitti politici e sociali interni che pure non mancarono durante il
cammino di sviluppo della città. C’è l’interesse per le personalità singole rispetto alla collettività
totalizzante, mentre la sapientia e altri valori della vita civile vengono celebrati accanto alla virtus
militare.

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Lingua e stile
L’Ennio degli Annales ha a sua disposizione una molteplicità di registri espressivi. Troviamo
l’asciuttezza essenziale della scrittura diaristica, accanto a vivide immagini poetiche. Ora riprende
solenni formule omeriche, ora si esprime per sentenze o sottigliezze retoriche. Costante è la ricerca
dell’effetto fonico, fino al virtuosismo imitativo dei suoni. La lingua mostra evidenti tratti di arcaismo,
come dimostra la desinenza di genitivo –ai. Lo sperimentalismo enniano agisce anche sul piano della
metrica, dove troviamo esametri composti di soli dattili (17 sillabe) o di soli spondei (12), con una
cadenza più lenta.

Le opere minori
A Epicarmo, autore comico greco della Sicilia, rinvia un poema che porta lo stesso nome
(Epicharmus): ne rimangono solo pochi testi in cui si accenna alla teoria dei quattro elementi originari
di Empedocle (acqua, terra, aria, sole). Gli Hedyphagetica, opera della vecchiaia, parlano di
gastronomia. Gli interessi filosofici di Ennio sono testimoniati dal Protrepticus, in versi. Maggiore
attenzione richiede la Satura, prima testimonianza di un genere letterario che i Romani rivendicarono
sempre come proprio e che avrà rappresentanti di spicco in Lucilio e Orazio: composta da più libri,
alternava dialogo e narrazione, in un tono che doveva essere prevalentemente colloquiale; spicca la
descrizione vivace e satirica del parassita.

Il teatro romano arcaico

Le origini del teatro latino


Le prime manifestazioni drammatiche della cultura latina ebbero origine all’interno delle feste (ludi)
che scandivano le fasi del lavoro agricolo: insieme ad atti rituali come sacrifici e processioni, erano
previste anche danze, gare e divertimenti. I versus fescennini, improvvisati e dal carattere beffardo,
dovevano racchiudere in forma embrionale quegli elementi farseschi tipici delle successive esperienze
teatrali latine. L’etimologia del nome è ricollegata da alcuni alla località di Fescennia, da altri a
fascinum (malocchio/ membro virile). Ciò potrebbe spiegare i contenuti osceni dei fescennini:
l’elemento sessuale serviva a tenere lontane le influenze negative, pericolose per la fertilità dei campi
e della donna.

Gli spettacoli a Roma


I primi spettacoli pubblici coincidono con l’istituzione dei ludi romani in onore di Giove Ottimo
Massimo, che si tenevano a settembre. Ma solo nel 365 a.C. abbiamo a Roma vere e proprie
rappresentazioni teatrali. Agli artisti indigeni, poiché il ballerino era chiamato con la parola etrusca
ister, fu dato il nome di istrioni (histriones); e questi non si scambiavano, come in passato versi
rozzamente improvvisati e grossolani sul tipo del fescennino, ma rappresentavano satire ricche di
melodie, con un canto regolato sul suono del flauto e con movimenti armonizzati. In questo modo, i
tradizionali fescennini improvvisati, arricchiti da danza e musica, diedero vita a una nuova forma
artistica, la satura, che entrò a far parte dei ludi. Il termine satura richiama al “piatto farcito” ed è da
intendere come un “varietà”. All’origine del teatro romano ci furono apporti culturali diversi. La farsa
osca, la cosiddetta fabula atellana, svolse un ruolo importante nel processo evolutivo della commedia.
La atellana era costruita su personaggi fissi con maschere grottesche, come Maccus, Bucco, Pappus,
Dossenus: in esse doveva dominare il comico della bassa corporeità (eccessi alimentari e sessuali) e il
motivo dell’inversione della realtà.

Il teatro “alla greca”: fabula coturnata e fabula palliata


Mentre la tragedia romana non poteva rifarsi a precursori italici, ed è quindi un prodotto essenzialmente
letterario, la farsa atellana con i suoi Pappus, Bucco e Maccus, presentava dei punti di contatto con il
più recente teatro greco, quello della cosiddetta Commedia Nuova e i suoi tipi fissi (padrone avaro

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sempre beffato, servo astuto, giovane innamorato, parassita ecc), agevolando il trapianto di questo
modo nuovo di fare teatro sul corpo della tradizione preesistente. Le prime prove teatrali romane
furono improntate alla “traduzione” di originali greci. La tragedia di argomento greco prese il nome
di fabula coturnata dall’alto calzare che in Grecia era tipico di personaggi tragici femminili, mentre a
Roma fu esteso a quelli maschili. Tra i più sfruttati troviamo i soggetti connessi al ciclo leggendario
della guerra di Troia. La lingua della tragedia rispecchia quella “solenne” delle preghiere/leggi/elogi
funebri; il tono è sempre magniloquente, ridondante, con una forte propensione al melodrammatico.
Alla coturnata si affiancò la praetexta, dalla toga indossata dai magistrati in occasioni solenni. Essa
celebrava il passato leggendario di Roma primitiva. Alla coturnata corrisponde in ambito comico la
fabula palliata, che conosce al pari della commedia greca, dei tipi fissi: senex padre di famiglia,
giovane innamorato, prostituta, ruffiano, schiavo, parassita, cuoco. Rispetto alla Commedia Nuova, la
palliata si distingue per alcuni aspetti formali: 5/6 attori invece di 3, assenza di maschera e ampio
spazio concesso alla musica e al canto. Il singolo personaggio era di solito rappresentato da un unico
attore, diversamente dal teatro greco in cui la maschera consentiva un rapido avvicendamento dello
stesso ruolo e la possibilità di ricoprire con facilità più ruoli. Il riconoscimento dei personaggi era
affidato alle parrucche e agli accessori tipici, come il bastone per il vecchio, il coltello per il cuoco, la
spada per il soldato.

L’organizzazione degli spettacoli


Erano presentati in concomitanza con feste religiose. Cicerone insiste sulle differenze tra i giochi del
teatro e quelli del Circo: i secondi implicano gare ginniche e corse di cavalli; i primi intrattenimento
di canto e di cetre e di flauti. Il teatro non aveva diritto a uno spazio proprio e quindi verrà improvvisato
in strutture destinate ad altro uso; al contrario, gli spettacoli del circo hanno da sempre un ancoraggio
stabile nell’architettura urbana. Ma ai tempi di Cicerone abbiamo già un teatro stabile in muratura, che
non favoriva l’ascolto (sarebbe stato meglio il legno): ergo per cui, venivano messe dei vasi di bronzo
sotto i posti degli spettatori, affinchè l’effetto acustico fosse più prominente. I ludi hanno naturalmente
carattere rituale, in virtù della loro origine e, come per ogni cerimonia sacra, in caso di interruzione il
magistrato deve farli ripetere. Al di là di questo particolare, il teatro è sottratto all’ambito della
religione: l’azione non si svolge sotto l’auspicio e il “patronato” di una qualche divinità e l’altare
tradizionalmente presente sul palco si riduce a puro elemento di scena. La buona riuscita dei giochi
influiva positivamente sulla carriera politica di chi li organizzava; quando un’opera non piaceva, il
pubblico manifestava il proprio disappunto anche in maniera violenta. I preparativi erano affidati ad
un appaltatore privato in possesso di una compagnia di attori, cantanti, ballerini e operai, sui quali
aveva piena autorità; in tale compagnie, vigeva una rigida gerarchia.

Gli attori e la recitazione


Gli attori recitavano entrando attraverso porte collocato sulla scaena, oppure dalla parte dx o sx, nella
prospettiva dello spettatore. L’allestimento complessivo suggerisce l’idea di un teatro dell’effetto:
la scena colorata e scintillante, la musica, i costumi variopinti, i movimenti e le trovate di scena. Il
costume comico segue una rigida codificazione: i vecchi hanno un abito bianco, i giovani un costume
multicolore, gli schiavi una tunica corta. I parassiti portano il mantello arrotolato sul braccio, i
personaggi positivi portano colori brillanti, i negativi sono straccioni, i ricchi portano la porpora. Gli
schiavi hanno la parrucca rossa, i vecchi bianca, i giovani bionda o bruna. Al codice visuale si
aggiungeva quello vocale-gestuale. La voce era fortemente stilizzata e adattata al personaggio:
Quintiliano riteneva inammissibile che un attore nell’impersonare un giovane uomo o riferire un
discorso di un vecchio assumesse una voce tremante o effeminata. La gestualità dell’attore era regolata
da due discipline: chironomia (mani) e orchestica (corpo). Ad esempio, i personaggi maschili, ad
eccezione degli schiavi, utilizzavano solo la mano destra e l’attore non poteva portare la mano più in
alto degli occhi o al di sotto della cintura; vecchi/giovani/donne/soldati usavano un’andatura lenta e
posata, mentre gli schiava si muovevano a grande velocità.

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Plauto

La vita
Un Plauto dapprima attore di teatro e successivamente autore di palliatae, con nel mezzo un’umiliante
esperienza alla macina, durante la quale avrebbe composto due commedie, il Saturio e l’Addictus, di
cui oggi rimane appena qualche verso. I dati biografici sono pochi e derivano da testimonianze di altri
autori (Cicerone, Varrone) o dalle didascalie, vale a dire notizie spicciole riportate in forma schematica
per Pseudolus e Stichus nel più antico codice plautino conservatoci. Nacque a Sarsina e il nome
completo fu Titus Maccius Plautus. Da Cicerone apprendiamo che egli morì nell’anno in cui Catone
esercitò la censura (184 a.C.), mentre la nascita dovrà risalire approssimativamente al 255-250 a.C.
Passò dall’umile mestiere di attore di atellane alla fama di autore.

Le commedie
Alcune delle 21 pervenuteci per intero:
Amphitruo: imperniata sulle peripezie erotiche di Giove, che riesce a sedurre Alcmena (moglie di
Anfitrione) trasformandosi in suo marito, partito per la guerra.
Asinaria: Argirippo deve pagare alla mamma di Filenio, ragazza di cui è innamorato, venti mine: per
fare ciò vende bestie da soma. Ma suo padre si invaghisce della ragazza e vorrebbe farla sua: interviene
sua moglie, che lo coglie in flagrante e lo punisce.
Aulularia: il vecchio Euclione trova una pentola con un tesoro, la nasconde e vive nell’angoscia che
gli venga sottratta. Ciò avviene per mano di Liconide, il quale ora possiede il denaro per sposare Fedra,
figlia d Euclione.
Miles Gloriosus: Pleusicle, giovane ateniese, vive una storia d’amore con la cortigiana Filocomasia,
che viene rapito e condotta ad Efeso dal soldato di ventura
Pirgopolinice, millantatore e spaccone. Toccherà a Palestrione, servo di Pleusicle, il compito di
ingannare il sodato, spingendolo a congedare Filocomasio per dedicarsi ad Acroteleuzio, un’altra
cortigiana che spasima per lui (per finta, ovviamente). Venuto all’appuntamento galante, Pirgopolinice
viene attesa da una nutrita dose di legnate, mentre i due amanti tornano felici ad Atente.
Pseudolus: Pseudolo, servo ingannatore, vede una giovane cortigiana contesa da Calidoro (padrone di
Pseudolo) e da un soldato, cui il lenone Ballione ha promesso
di vendere la fanciulla. Con una serie di inganni e raggiri (c’è perfino una scommessa con il padre di
Calidoro sulla riuscita della beffa), Psedudolo esce trionfatore su tutti i fronti, sul lenone, sul soldato,
nonché sul padre del gioane innamorato, convinto del fallimento del piano.
Stichus: due sorelle, Panfila e Panegiri, mogli di due fratelli lontani da casa da tre anni, sono sul punto
di abbandonare i mariti, convinte dal padre Antifone a chiedere il divorzio per contrarre un nuovo
matrimonio. I mariti tornano sani e salvi, tacitando le voci e facendo la felicità delle mogli fedeli.

Lo spettacolo: ludus e ludere


Lo spettacolo vuole essere un momento alternativo rispetto alla quotidianità, un veicolo di
spensieratezza contro la gravitas. Lo stesso apparato di scena, l’ambientazione esotica e grecizzante,
le maschere “tipiche” (estranee alla società romana), compone l’indispensabile cornice di finzione
(mondo lontano e diverso) entro la quale diventano lecite le battute salaci e irrispettose. Ludus intende
tanto lo spettacolo che si svolge sulla scena, quanto il principio motore di quello stesso spettacolo,
ossia il prendersi gioco/inganno/ trappola fallace in cui si esalta l’astuzia di chi la mette in atto, e la
vittima dello scherza diventa bersaglio delle risate. Ludere simbolizza l’attività del creatore di finzione,
dell’artista della trappola: costui è il poeta, in quanto poietes di fabulae e intrecci da mettere in scena.
Ludere aliquem indica il prendersi gioco di qualcuno, così da dare vita al ludus, lo spettacolo: un
personaggio in scena fa uno scherzo a un altro e ride di lui; nello stesso tempo gli spettatori che seguono
l’azione dalla cavea ridono di loro e con loro. Ludificari indica l’illusorio meccanismo del “recitare

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una parte”, del prendere un’identità che non è quella propria e contemporaneamente del recitare in
modo che la simulazione passi presso gli interlocutori per realtà.

Plauto e i modelli greci: il vortere e la contaminatio


Plauto si cimenta soltanto con la commedia: è uno specialista. Anche lui lavora su originali greci della
nèa (Commedia Nuova); l’autore preferito sembra essere Menando, poi vengono Filmeno, Demofilo,
Difilo. Questo suo “contatto”con i modelli greci è da Plauto stesso denunciato spontaneamente e
significato tramite l’affermazione secondo cui egli vortit barbare quanto appartiene al patrimonio
ellenistico. Il tradurre (vortere) plautino, non rappresenta lo stesso atteggiamento che aveva guidato
l’attività poetica di Andronico. Dei modelli greci, che vengono spesso nominati nei prologhi delle
commedie, Plauto eredita l’impianto drammaturgico, la tipologia dei personaggi, le convenzioni
teatrali e l’esito obbligato (lieto fine). Egli, uomo di teatro, deve far fronte alla necessità di divertire
gli spettatori in un contesto socioculturale diverso da quello greco, senza rinunciare a riproporre in
modo efficace quanto il pubblico si aspettava: clichès prevedibili, personaggi tradizionali, situazioni
stereotipate. Lo smontaggio e il rimontaggio delle diverse parti del modello, magari combinato con un
modello secondario, secondo il principio della contaminatio (non rapina, ma sperimentazione), danno
spesso come risultato una trama irresistibilmente comica e inattesa.

Plauto e le convenzioni teatrali


A essere toccati dal capovolgimento parodico sono gli statuti dei personaggi, le gerarchie sociali, gli
stilemi della dizione alta fatti precipitare ora nella dimensione dello scherzo, dove si muovono servi
imbroglioni e finti eroi. Non sfuggono neppure i meccanismi teatrali caratteristici del dramma greco,
come gli inganni del Caso, gli equivoci fatali, il lieto fine conquistato grazie all’espediente
dell’agnizione. Al clima pesante della tragedia si sostituisce quello della festa, agli errores depistanti
dei personaggi tragici si sostituiscono le frustrationes che traducono il valzer di beffe/imbrogli in cu
sono gioiosamente travolti i vari personaggi. A complicare il tutto è presente anche un espediente
drammatico, la messa in scena di un “doppio” che origina una serie di infiniti equivoci, nel teatro
plautino come in quello di oggi: Giove-Anfitrione si sostituisce in tutto e per tutto al vero Anfitrione,
così come Mercurio-Sosia si introduce in luogo del “vero” Sosia. Già la tragedia greca aveva
sperimentato con successo il meccanismo dell’inganno dovuto alla presenza di due identiche
sembianze capaci di generare dubbi sull’identità. Nell’Amphitruo è solo l’azione intrapresa da Giove
a generare il “doppio”, usurpando l’identità propria di Anfitrione. Nel fare ciò Giove si pone sullo
stesso piane di Plauto: come al poeta è dato di escogitare un intreccio fondato sugli scambi di persona,
così Giove concepisce e crea con i suoi poteri divini una situazione di equivoco assumendo le
sembianze del vero Anfitrione. Nell’Amphitruo il ruolo del servo è sdoppiato tra le personae di
Mercurio e Sosia. Normalmente il servus riscatta nel contesto irreale della rappresentazione scenica
l’umiliante condizione nella quale il destino lo ha relegato, sicché da figura marginale egli assurge a
eroe. Abbiamo infatti il servus adiutor, che promuove l’intesa amorosa; il servus currens, obbediente
esecutore degli ordini, che deve giungere rapidamente per riferire sui fatti importanti per la trama; il
servus metuens, de-eroizzato, subordinato.

Lingua e stile
La Commedia Nuova prevede una divisione in atti, mentre la palliata plautina si configura come
un’azione continua, senza pause programmate. Plauto trasforma spesso in parti cantate in metri lirici
quelle che nell’originale erano parti recitate, ossia composte in trimetri giambici. Sono proprio i numeri
innumeri (infiniti ritmi) adoperati da Plauto a dare il segno della fantasia del cantato presenti nelle
sue commedie. Egli usa due metri, il senario giambico (recitato) e il settenario trocaico (cantato).
Plauto piegava la lingua alle proprie trovate comiche (virtuosismi, neologismi, scioglilingua). Il
sostrato espressivo è costituito dal sermo familiaris, la lingua della buona conversazione quotidiana a
Roma; su questa base si innestano di volta in volta stilemi e movenze del registro infimo come anche

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di quello elevato, del linguaggio sacrale e giuridico. Plauto sa come creare nuovi composti, nomi
parlanti e neologismi; si prende la libertà di incorporare battute in lingua punica o di allineare una serie
di improbabili nomi composti. Per il resto è un trionfo dell’iperbole, dell’accumulazione dei termini,
dei giochi di suono, combinati con l’anafora, il poliptoto e una tendenza alla costruzione di strutture
sintattiche simmetriche.

La tipicità dei personaggi e degli intrecci


Le trame ruotano intorno ad uno schema con elementi ricorrenti, in cui agiscono personaggi dalla
tipologia consueta. Abbiamo per esempio l’adulescens che si innamora di una ragazza, non disponibile
perché appartenente al leno (che esige una dote molto cospicua) e perché avente un padre burbero
(senex) intransigente ed avaro. Poi ci sono le varianti: può esserci un rivale in amore (miles), la ruffiana
sordida e avida (lena) e così via. Personaggi spesso al centro dell’azione sono il parassita e il servo: il
primo è disponibile a qualsiasi forma di adulazione e complicità, il secondo si esalta nell’architettare
piani che consentiranno il trasferimento del bene al nuovo pretendente dello stesso. La risoluzione
dell’intreccio è spesso affidata al riconoscimento (agnizione).

Cecilio Stazio

La vita e le opere
Nato nel 230 a.C., morto nel 167 a.C. Gli inizi dell’attività teatrale di Cecilio furono all’insegna di
grandi difficoltà, in quanto a dominare la scena era Plauto, con la sua palliata di tipo antico,
caratterizzata da arguzie di tipo popolaresco e da fantasia priva di freni. Dopo la morte di Plauto,
l’attore Ambivio Turpine riuscì a portare al successo le commedie di Cecilio e gradualmente il
pubblico iniziò ad apprezzare il lavoro di questa poeta. I titoli delle opere sono sempre in greco; lui
non mette in pratica la contaminatio. L’opera di Cecilio testimonia un momento di evoluzione nella
storia della palliata: si ridimensiona il ruolo del servo astuto, lo spettacolo perde in fantasia,
brillantezza e movimentazione, mentre la commedia si sforza di riprodurre il realismo della
quotidianità.

Terenzio

La vita
Liberto di origine africana. Fece parte di quel clima di rinnovamento che vedeva l’uomo in un senso
universale, andando a scavare nella sua emotività e portando alla luce le sue risorse intime e le sue
debolezze. Visione che finì per scontrarsi con l’ideologia più chiusa del mos maiorum, che considera
la persona per il ruolo che svolge nella società, e che ne ispira e giudica le azioni in base all’affetto
che avranno sul complesso della res publica. Si recò in Grecia per conoscere da vicino la Commedia
Nuova.

Le commedie
I titoli hanno tutti forma greca
Andria: la prima opera di Terenzio, tratta da un originale di Menandro. Il giovane Panfilo ama Glicerio,
una ragazza dell’isola di Andro, che si trova ad Atene presso una cortigiana, ma è un amore contrastato,
poiché lo status sociale di Glicerio rende impossibile un’unione regolare tra i due giovani, e Simone,
padre di Panfilo, ha già provveduto a combinare il matrimonio del figlio con Filumena, figlia di
Cremete. Con un colpo di scena si scopre che anche Glicerio è figlia di Cremete (quindi libera e
cittadina ateniese). La commedia si conclude col lieto fine tra i due giovani.
Heautontimorumenos: è una commedia stataria, più incentrata sull’analisi dei caratteri e della
complessità dei rapporti umani che sulla vivacità dell’azione, sulle baruffe e suiu battibecchi agitati.
Il protagonista è Menedemo, pentito d’aver costretto con la sua intransigenza il figlio Clinia,

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innamorato di una ragazza senza dote (Antifila) ad arruolarsi come mercenario in Asia. Per questo
punisce se stesso lavorando con accanimento eccessivo il proprio podere. Anche qui si viene a scoprire
che Antifila sia figlia dello stesso Cremete: di conseguenza, i due si sposano.
Eunuchus: L’etera Taide, innamorata di Fedria, è desiderata anche dal miles Trasone, rozzo e
millantatore. Quest’ultimo, per ingraziarsela, le fa dono di Panfila, bellissima schiava che in realtà è
di nascita libera. Fedria risponde regalando all’amata un servo eunuco. Il fratello di Fedria, Cherea,
invaghitosi di Panfila, con un travestimento prende il posto dell’eunuco e si introduce nella casa per
approfittare di Panfila. Alla fine Cherea sposa quest’ultima (riconosciuta libera) e Fedria si tiene per
sé Taide. Rilevante qui è la figura del servus “filosofo”, Parmenone, famoso per un’analitica disamina
sulla forza instabile ed irrazionale dell’amore.
Hecyra: Panfilo, di ritorno da un viaggio, scopre che la moglie Filumena ha abbandonato la casa ed è
tornata presso i genitori. La suocera, Sostrata, si offre di allontanarsi da casa per favorire la
riconciliazione; ma Panfilo sa che la moglie è incinta (è stata violentata da uno sconosciuto) e la
respinge. Il lieto fine è reso possibile dall’intervento dell’etera Bacchide (ex amante di Panfilo): si reca
da Filumena e le confessa che, dal giorno del matrimonio, ogni rapporto con Panfilo è stato stroncato.
In seguito si viene a sapere che Panfilo è l’autore della violenza, e la commedia si può chiudere con la
riconciliazione dei due sposi.
Phormio: Formione beffa due anziani fratelli, Demifone e Cremete (i padri di Antifone e Fedria). Fa
dunque in modo che Antifone, spacciato come parente dell’amata Fanio, sia citato in tribunale: in
base alla legge dovrà trovare il denaro per la dote di lei oppure sposarla, come il giovane auspica ed
ottiene, malgrado Demifone non sia d’accordo. Cremete avrebbe voluto dare in moglie ad Antifone
una sua figlia illegittima (frutto di una relazione con una donna di Lemno). Quando scorpe che Fanio
è proprio la sua figlia di Lemno, rinuncia ad invalidare le nozze e chiede la restituzione delle trenta
mine: il parassita coinvolge la moglie di Cremete (ignara dell’esistenza della figlia illegittima) e
l’intreccio si avvia verso una riconciliazione generale.
Adelphoe: Demea, cultore del mos maiorum, ha impartito una rigida educazione contadina a uno dei
suoi figli, Ctesifone, mentre l’altro, Eschino, è stato allevato con metodi più liberali dallo zio paterno
Micione, in città. Eschino, seppur innamorato di Panfila (che è incinta di lui), rapisce al lenone la
cortigiana Bacchide. In realtà Eschino ha commesso il rapimento per aiutare Ctesifone, il vero
spasimante della cortigiana; sicchè Demea si ricrede circa l’efficacia del suo metodo e perdona il
figlio.

I prologhi
Mentre il prologo tradizionale aveva la funzione di introdurre l’intreccio esponendone
antefatti/implicazioni, nelle opere terenziane esso si articola in una struttura che ricorda le orazioni
giudiziarie e diventa luogo privilegiato per polemizzare contro avversari, difendersi da calunnie,
mettere a tacere pettegolezzi. Si difende quando viene accusato di essere il prestanome di Lelio e di
Emiliano. Si difende quando viene accusato di usare la contaminatio in modo illegittimo. Luscio
Lanuvino arriva a chiamarlo “ladro”, in quanto ritiene che l’Eunuchus sia stato interamente preso
da Plauto e Nevio: a sua difesa, Terenzio asserisce di aver semplicemente tradotto un originale di
Menandro.

Terenzio e la tradizione
La tradizione comica non lascia scampo: le commedie possono differire per qualche dettaglio, ma alla
fine son tutte uguali; iniziano e finiscono sempre allo stesso modo. Terenzio vuole svincolare da questa
tradizione oramai stereotipata, povera di interesse, incapace di colpire gli spettatori. La sua rivoluzione
parte dall’interno: le trame esibiscono una sostanziale fedeltà ai canovacci standard della palliata, ma
uno sguardo attento sa scoprire un umorismo sottile e sfumato, un teatro in cui equivoci e colpi di
scena non sono giocati sul burlesco, ma servono ad indagare l’animo umano, mutevole al variare delle
circostanze; c’è una maggiore attenzione verso i personaggi, imprevedibili e problematici, spogli degli

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espedienti comico-parodistici del teatro plautino. Terenzio non vuole provocare il riso o l’applauso,
ma riflessione.

La nuova figura della meretrix


Bacchide (Hecyra) è il personaggio più rappresentativo del crocevia terenziano di tradizione e
innovazione. È una cortigiana, è bella e desiderata, ma è dotata di nobiltà d’animo (qualità insolita per
una meretrix). Mette a tacere qualsiasi voce su un legame tra lei e Panfilo per salvare il matrimonio
della sua rivale in amore. Bacchide è un essere umano, capace di sentimenti, che crede nell’amicizia e
nella riconoscenza.

Lingua e stile
Terenzio fu certamente più vicino a Menandro di quanto non lo fosse stato Plauto, per l’attenzione
all’approfondimento psicologico cui sottopone le sue figure e per diversi aspetti della tecnica
drammatica. Viene ridimensionato il ruolo del servus (soprattutto quello currens) e ridotta la rottura
dell’illusione scenica, ovvero quei momenti in cui il discorso non viene rivolto alle altre maschere ma
agli spettatori. Risulta inevitabilmente dimezzato lo spazio per termini di nuovo conio, composti
strabilianti, vistosi ornamenti retorici, allitterazioni ecc. Diminuiscono i cantica a favore dei deverbia.
È un teatro che intende ammaestrare il pubblico.

Marco Porcio Catone

La vita
Ebbe una brillante carriera politica. Venne eletto censore nel 184 a.C. Rimosse dal senato quanti
riteneva indegni e amorali (Lucio Quinzio Flaminino, in quanto omosessuale). Era conservatore,
mirava al recupero del mos maiorum e nutriva diffidenza verso la cultura greca. Ecco spiegato il suo
astio verso gli Scipioni, riformatori. Dopo la censura, continuò ad avere una parte rilevante in politica
come senatore e sostenne la necessità dell’annientamento di Cartagine, tornata ad essere una temibile
concorrente per i commerci romani.

I discorsi
Nella sua carriera politica Catone pronunciò circa 150 orazioni politiche/giudiziarie. Frequentemente
parla in difesa di sé e del proprio operato; talvolta il discorso verte su questioni di pubblica morale.
Per Catone, senza etica non può esserci corretta azione politica né corretta eloquenza (oratore quale
vir bonus dicendi peritus). Catone considerò le orazioni un efficace mezzo di diffusione dei suoi
principi morali e delle sue idee politiche e le fece mettere per iscritto. Il suo personale rapporto con la
letteratura greca, di cui aveva parecchia conoscenza, fu condizionato, in negativo, dall’esigenza di
preservare i principi e i contenuti dello stile di vita romano, dalla cui salvaguardia dipendeva la
sopravvivenza degli ordinamenti di Roma.

L’opera storica sulle Origini e l’annalistica precedente


Si trattava di una storia continua della città di Roma, composta in 7 libri: il primo narra dei re di Roma,
il secondo e il terzo del sorgere di ciascuna popolazione italica, il quarto della prima guerra punica, il
quinto della seconda e poi si procede per sommi capi fino ai tempi di Servio Galba. È la prima opera
storica in prosa latina. Per l’epoca precedente, come unica forma di registrazione storica conosciamo
i resoconti ufficiali anno per anno, gli annales, redatti dai pontefici, e le cronache informali presenti
negli archivi delle famiglie aristocratiche. Quella di Catone è una ricostruzione interessata in
particolare al passato remoto che alla storia recente. Egli allarga l‘orizzonte dei suoi interessi al di là
delle semplici vicende politiche e militari di Roma. Si sofferma così su dettagli etnografici (natura,
usi, curiosità, costumi dei popoli italici).

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L’opera tecnica Sull’agricoltura e le opere minori
Il trattato de Agri Cultura è la più antica opera in prosa latina pervenutaci sostanzialmente integra.
Scritto di carattere tecnico: vengono fornite al pater familias prescrizioni varie circa l’acquisto della
terra, l’attrezzatura della villa (fattoria), la semina, la concimazione, la coltivazione dell’ulivo e della
vite. Sono presenti anche ricette di cucina. Il proprietario della villa, azienda agricola che impiega
manodopera servile, è rappresentato come rigoroso, parco, previdente, alieno del lusso, pragmatico.
Gli enunciati sono semplici e asciutti, scanditi da frequenti imperativi. Troviamo spesso ripetuti gli
stessi termini, senza che l’autore si sia preoccupato di variarli; molto del lessico utilizzato ha carattere
tecnico e in molti casi si tratta di termini presi a prestito dal greco. L’interesse per il mondo campagnolo
travalica comunque la precettistica tecnica, fino a suggerire pratiche “magiche”, cui l’uomo ha da
sempre fatto ricorso come risorsa protettiva. Si veda l’esempio dell’arto lussato guarito tramite una
lunga canna verde e una formula recitata.

Pacuvio

La vita
Fu a suo agio nel farsi interprete, con il suo teatro, del rinnovamento ideale portato avanti dagli Scipioni
e da quanti ne condividevano la proposta di un nuovo modello di cittadino, in cui alla virtus della
tradizione nazionale si accoppiasse la crescita spirituale che solo il contatto con la Grecia poteva
garantire.

La produzione drammatica
Ci rimangono solo 450 versi. Le dodici cothurnatae a noi note sono ispirate perlopiù a episodi legati
alla guerra di Troia: Atalanta, Chryses, Hermiona, Iliona, Medus, Niptra, Pantheus, Periboea, Teucer.
Delle restanti tre ci è rimasto il maggior numero di frammenti. Duloresters (Oreste srvo), figlio di
Agamennone (Clitennestra, ritorna in patria conciato da servo per vendicare il padre ucciso dalla
moglie e dall’amante Egisto. L’Armorum Iudicium tratta della violenta disputa scoppiata tra
Ulisse/Aiace per aggiudicarsi le armi del defunto Achille; alla fine avrà la meglio Ulisse ed Aiace
impazzirà (e si suiciderà). Antiopa resa gravida da Giove, fugge presso Epopeo, che la sposa; Lico,
incaricato di punirla dal padre di lei Nitteo, uccide Epopeo e la porta via, mentre i due figli Anfione e
Zeto vengono allevati da un pastore; riuscita a fuggire, viene riconosciuta dai figli che si vendicano di
Lico e riprendono il regno già di Nitteo. Pacuvio si è servito dei due fratelli per proporre la questione
relativa alla musica, vista dai romani come un pericolo per la gravitas tradizionale di questo popolo:
Anfone lodava le attività liberali, atte ad ingentilire l’animo, mentre Zeto le disprezzava,
rappresentando così la vecchia virtus romana.
Pacuvio compose anche una praetexta intitolata Paulus, celebrante Lucio Emilio Paolo, vincitore dei
Macedoni nella battaglia di Pidna del 168 a.C. Pacuvio mostra una certa sensibilità per le scene di
pronto effetto: è celebre la descrizione, ricca di giochi sonori, della tempesta sul mare (Teucer), mentre
l’Iliona si apriva con l’apparizione dello spettro di Deifilo.

Accio

Le opere grammaticali e di vario genere


Didascalica: 9 libri di prosa e versi insieme, in cui trattava di epica, tragedia e attrezzature sceniche;
simili dovevano essere i Pragmatica. I Parerga erano invece un’opera sull’agricolutra, in cui si parlava
dell’influsso che possono esercitare le stesse. Di astrologia potevano occuparsi i Praxidica.

Le fabulae praetextae
Lontano dall’ambiente rinnovatore degli Scipioni, Accio compose la tragedia Brutus ino onore del suo
patrono a Roma, Decimo Giunio Bruto, attraverso la celebrazione di un suo antenato, quel Lucio

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Giunio Bruto che aveva guidato la ribellione contro il dominio tirannico dei Tarquinii nel 509 a.C.,
inaugurando l’epoca della repubblica. Al passato leggendario di Roma riportano anche gli Aenedae,
in cui si celebrava il volontario sacrificio di Publio Decio Mure nella battaglia del Sentino contro i
Sanniti (295).
Le fabulae cothurnatae
Di lui possediamo oltre 40 titoli di tragedie per un totale di circa 700 versi. Non mancano ovviamente
drammi ispirati al ciclo troiano: Philoctea (i Greci abbandonarono FIlottete su un’isola, ma dovettere
farlo tornare perché un oracolo aveva predetto che Troia non sarebbe caduta senza il suo arco);
Epinausimache e Nyctegresia; Armorum Iudicium e Antenoridae. Nel caso del ciclo dei Pelopidi
possiamo osservare come il poeta abbia ripercorso praticamente l’intera linea di discendenza di questa
famiglia “maledetta”, dal capostipite Pelope fino ai discendenti di Agamennone. Possiamo distinguere
anche un ciclo tebano: Antigona, Epigoni, Amphitruo. Alcuni drammi costituiscono il ciclo di
Calidone, tra cui spicca il Meleager (contesa familiare nata per la pelle del feroce cinghiale di Calidone:
Altea brucia il tizzone al quale era magicamente legata la vita del figlio Meleagro). Accenniamo infine
ad un ciclo degli Argonauti: Medea sive Argonautae e Phinidae.

Il carattere del teatro acciano


Accio ama ispirarsi a episodi cupi e foschi, a trame inquietanti segnate da empietà, come atti di
cannibalismo, abusi e violenze compiute su consanguinei. Accio vive in un’epoca inquieta, segnata
dalle rivendicazioni dei Gracchi e dai disordini che portarono con sé; il tessuto sociale si strappa e
negli ottimati va radicandosi l’idea che i capi popolari aspirino al regnum, a un regime tirannico
sostenuto dalla sua massa. Nel suo teatro la figura del tiranno è sottoposta a un’analisi approfondita,
nel suo duplice aspetto di despota predicatore e insieme di uomo che non può riporre fiducia negli altri,
diffidente e malsicuro. Seppur spoglio della dimensione sovrumana del tiranno, l’eroe di Accio tende
a dominare la scena con la sua figura e personalità. Lo stile delle tragedie è energico, maestoso, ma
ricco di tensione.

Lucilio

La vita
L’opera e la personalità di Lucilio si caratterizzano per quella che noi definiremmo la libertà di parola,
ossia il suo atteggiamento rivolto a segnare con note infamanti i vizi e le debolezze della buona società
contemporanea, facendo i nomi dei destinatari delle sue invettive. Condusse una vita tranquilla, non
volle inseguire la carriera politica e cominciò a dedicarsi alle Saturae solo nel 130 a.C.

Lucilio e la composizione delle Satire


L’esigenza di un diretto confronto del poeta con la società del suo tempo determinò la nascita di un
genere nuovo, romano: la satira, di cui Lucilio viene considerato l’inventore. Lucilio compose le
Saturae, 30 libri. Al suo interno, L. non usa mai la parola satura per indicare la sua opera ma espressioni
più generiche: versus, ludus ac sermones, poemata, schedion. Fu merito di Lucilio se la satira subì
un’evoluzione irreversibile dalla polimetria all’esametro e se si orientò decisamente verso la critica di
costume. Possiamo riconoscere in quest’opera l’influenza della commedia.
Il contenuto dell’opera.
Libro I: Cornelio Lentulo Lupo, avverso alle posizioni politiche di Lucilio, era sottoposto al giudizio
degli dei riuniti; il concilio affronta il problema di salvare Roma dalla rovina e dopo aver individuato
in Lupo la causa di tutti i mali, viene decretata la sua eliminazione mediante indigestione.
Libro II: qui c’è un processo reale, contro il giurista Mucio Scevola per malversazione nella provincia
d’Asia; nelle parole di Scevola risuona l’attacco mordace a quanti rinnegano le consuetudini di vita
latine per attore quelle dei Greci.
Libro III: dedicato all’Iter Siculum del poeta, che inaugura un motivo tradizionale, quello della satira

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di viaggio. Libro V: lettera a un amico. Libro IX: questioni linguistiche e grammaticali. Libro XI:
ricordi della spedizione militare in Spagna + elogio condotta tenuta da Scipione Emiliano. Libro XVI:
parla di una donna che ama, Collira, ed il tutto è parecchio insolito, visto i crudi tratti misogini ed
estranei a qualsiasi sentimentalismo di Lucilio. Libro XXVI: parla della propria scelta artistica. Libro
XXX: riflessioni su donne e matrimonio. La satira di Lucilio nasce nell’ambiente scipionico, vuole
intrattenere e stimolare al pensiero, valorizzare i momenti di otium.

Lucilio poeta
Elabora lingua e stile con una certa sensibilità per le sfumature, mescolando parole greche al latino,
espressioni popolari e gergali a momenti di dizione nobile e solenne, così da rispecchiare la
molteplicità delle situazioni osservate nelle Satire.

La poesia tra il II e il I secolo a.C.

Caratteri generali
Influssi ellenici: poesia breve, aperta ad esperimenti sul piano tecnico e linguistico, che ripiega verso
la sfera privata (tematiche amorose, aspetti intimi). Due le correnti principali: preneoterici e neoterici.

Preneoterici
Esponenti di un circolo letterario sorto a Roma alla fine del II secolo a.C. intorno alla figura di Lutazio
Catulo. Il maggior merito ad essi riconosciuto è quello di avere per la prima volta introdotto a Roma
la lirica, ispirandosi al contemporaneo modello alessandrino. Di Valerio Edituo possediamo solo due
epigrammi: nel primo vengono descritte le manifestazioni fisiche dell’amore. Altro esponente cardine
è Porcio Licinio, di cui possediamo un solo epigramma, che ci mostra una originale variazione agreste
sul tema della passione amorosa.

Levio e altri poeti


Levio, autore di Erotopaegnia (scherzi d’amore), opera composta in 6 libri. Il tratto più significativo
di questa poesia appare la de-eroizzazione delle figure del mito, i cui sentimenti/atteggiamenti vengono
uguagliati a quelli dell’umanità comune. Il linguaggio è ricercato, pieno di parole composte e di
frequenti diminutivi.
Generi diversi furono praticati da Cneo Mazio e Sueio. Il primo fu autore di Mimiambi, vivaci quadretti
di vita quotidiana espressi in uno stile raffinato; lavorò, inoltre, a una traduzione latina in esametri
dell’Iliade. Il secondo produsse il Moretum e i Pulli, richiamandosi al genere ellenistico dell’idillio:
soggetti umili vengono presentati con attenzione per i particolari, stile raffinato e prezioso.

La letteratura tra il II e il I secolo a.C.

L’oratoria
Galba, Caio Lelio e Publio Cornelio Scipione Emiliano. Il primo un po’ antiquato, il secondo
caratterizzato dalla lenitas (semplicità spontanea), il terzo dalla gravitas (solennità autorevole).
Anche Tiberio e Caio Gracco furono oratori di primo piano: del primo non rimane nulla, il secondo
si distingueva per un pathos quasi teatrale e un dettato non particolarmente elaborato. Importanti
sono anche Marco Antonio e Lucio Licinio Crasso: di Antonio non ci resta nulla (suscitava
emozioni, ma curava poco i suoi discorsi), di Licinio veniva ammirata la cura minuziosa delle sue
orazioni.

L’annalistica e la storiografia
La storiografia pre-liviana è nazionalistica, nel duplice senso di un interesse quasi esclusivo per i
fatti romani e di un vivo sentimento di patria che la permea. Appare una certa familiarità con la

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storiografia ellenistica. Generalmente viene seguito il tradizionale criterio annalistico, con la
presentazione del materiale impostata su una ripartizione per singole annate. Abbiamo Lucio Celio
Antipatro, che scrisse una monografia in 7 libri sulla seconda guerra punica, con un occhio di
riguardo per la figura di Scipione. Con Claudio Quadrigario inauguriamo la generazione
successiva degli storici (primi decenni del I a.C.): compose 23 libri di Annales, che partivano dal
sacco di Roma ad opera dei Galli (390). Lucio Cornelio Sisenna fu autore delle Historiae (tra i 12
e i 23 libri), in cui la struttura annalistica si fa più flessibile (ci sono spazi per brevi digressioni
monografiche) e si arricchisce di discorsi e sogni narrati.

L’autobiografia
Tra quelli che decisero di mettere per iscritto le proprie memorie (ricche di proprie esperienze
politiche e invettive verso nemici) troviamo Caio Gracco, Marco Emilio Scauro, Publio Rutilio
Rufo, Quinto Lutazio Catulo.

L’evoluzione dei testi teatrali: la fabula togata, l’atellana e il mimo


La togata mantenne l’uso dei cantica e il repertorio già noto di personaggi tipici (cortigiana, lenone,
uxor dotata), mentre venne meno la figura del servo astuto, perché nella togata non era concesso
ai poeti di rappresentare servi più intelligenti dei padroni. La togata entrò in concorrenza con
l’antica farsa osca, la atellana, ora rinnovata e portata a dignità letteraria. Le maschere
dell’atellana sono quelle tradizionali italiche: Maccus, Bucco, Pappus, Dossenus; richiami al cibo
e al bere, ai doppi sensi e oscenità facevano parte del bagaglio di questo genere “popolaresco”. Già
nel I a.C. il mimo prende il posto dell’atellana come farsa finale nei ludi teatrali. Il mimo è
caratterizzato da una comicità volgare, di facile presa; è lascivo e spesso osceno. Gli attori non
portavano la maschera, e le parti femminili erano interpretate da attrici che potevano arrivare alla
nudità completa. L’autore più significativo di mimi fu Decimo Laberio, contemporaneo di
Cicerone.

Grammatica e filologia
Stilone si occupò delle commedie di Plauto, studiò e commentò il Carmen Saliare e le leggi delle
12 Tavole.

La Rhetorica ad Herennium
L’autore di questo manuale di retorica indirizzato ad Erennio è anonimo, anche se non è remota
l’ipotesi che si potesse trattare di Cornificio, retore ed etimologo attivo a Roma nel I a.C. L’opera,
comprendente 3 libri, ciascuno dei quali con breve prefazione ed epilogo, fu composta nel periodo
88-82 a.C.; porta una dedica a Caio Erennio. Essa denuncia in molti punti un’affinità sostanziale
con il ciceroniano De Inventione, a partire dalla classificazione delle cause secondo la loro
tipologia: genus demonstrativum, deliberativum, iudiciale. Trova una precisa corrispondenza
anche la definizione dei campi su cui si misura l’abilità dell’oratore, ovvero inventio (trovare
argomenti veri che rendano causa convincente), dispositio (distribuzione degli argomenti),
elocutio (uso delle parole e delle frasi opportune in modo d’adattarsi all’invenzione), memoria,
pronuntiatio (capacità di regolare in modo gradito la voce, l’aspetto e il gesto). La Rhetorica ad
Herennium ci offre una testimonianza sia dell’interesse per l’eloquenza sia dello sforzo di creare
una terminologia tecnica latina della retorica, come presupposto per la nascita di artes manuali di
questo tipo a Roma.

L’età cesariana

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La morte di Silla è l'evento che sembra chiudere un'epoca storica per aprirne un'altra, inizialmente
caratterizzata dalla brama di potere degli optimates che scatenò numerose reazioni in tutto il territorio
sottomesso da Roma. Il periodo compreso tra il 78 a.C. ed il 43 a.C. fu caratterizzato da un clima
rovente e da un ambiente in cui spiccarono le figure di Sertorio, Spartaco, Mitridate, Lucullo, Catilina,
Cicerone, Pompeo, Crasso e Cesare, il grande condottiero che incoraggiò la fusione fra i romani
conquistatori e le popolazioni soggiogate.

I neoterici
La definizione di Cicerone
Neoteroi, letteralmente “più giovani”, ma anche “nuovi”. Sono i rappresentanti di quella corrente di
rinnovamento della poesia latina a cui allude lo stesso Cicerone chiamandoli ora poetae novi, ora (con
intento ironico) cantores Euphorionis.

Caratteristiche del movimento neoterico


Il nucleo di questo gruppo di poeti proviene dalla nobiltà provinciale della Gallia Cisaplina. Sono
inoltre accomunati da una profonda esigenza di rinnovamento morale e letterario e da una sorta di
insofferenza verso schemi comportamentali sentiti come restrittivi. La loro è una poesia che sancisce
una rottura con il passato, che privilegia la dimensione intimistica e personale, ma che allo stesso
tempo si richiama ad un ideale di raffinatezza e dottrina e cerca le proprie radici artistiche non già nella
tradizione latina, ma nei maestri della poesia alessandrina, spesso lontani nel tempo e nello spazio, ma
prossimi nel gusto e nella concezione dell’arte. Il più illustre di tali maestri? Callimaco. Questi
predicavano brevitas e poikilia, intesa come varietà compositiva (generi e metri) e di alternanza di
tono e di livelli stilistici all’interno di uno stesso componimento.

I poeti neoterici
Valerio Catone era il caposcuola, autore del poemetto mitologico Diana, gioiello di erudizione. Di
Furio Bibaculo abbiamo due epigrammi scherzosi in cui allude alle precarie condizioni economiche di
Valerio Catone. Varrone Atacino si cimentò nella scrittura di Satire (di cui non c’è rimasto nulla), nella
traduzione di un lungo poema epico, le Argonautiche di Apollonio Rodio, nella composizione di una
Chorographia (descrizione della terra) e di Epimenis (astri e loro effetti sugli uomini). La piena
maturazione degli ideali de letterari del movimento avviene grazie a Catullo e ai suoi sodales, Cinna e
Licinio Calvo. Catullo pose Cinna e il suo epillio Zmyrna al centro del “manifesto programmatico”
della poesia neoterica. Zmyrna narra dell’amore incestuoso di Mirra per il padre Cinira, re di Cipro,
cui facevano seguito la metamorfosi della ragazza in albero (mirra) e la nascita di Adone dalla sua
corteccia. Licinio Calvo dedicò un carme alla moglie defunta di Catullo, ma anche epitalami (poesie
matrimoniali), epigrammi e un epillio intitolato a Io, la mitica fanciulla amata da Zeus e vittima della
gelosia di sua moglie Era, che la trasformò in una giovenca.

Catullo

La vita
Ebbe una vita breve ma intensa, divisa tra due poli geografici ed esistenziali: Verona, città natale,
sentita sempre come provvisorio soggiorno, lontano dai libri amati e dall’amata mondanità, e poi
Roma, la grande città, dove fu introdotto nei salotti dei circoli mondani e letterari alla moda (e fece
amicizia con Conrelio Nepote e Licinio Calvo). Celebre è il suo viaggio in Bitinia, rivelatosi una
cocente delusione, poiché Memmio tradì gli interessi e la fiducia del suo seguito, rivelandosi un
personaggio spregevole.

Il liber di Catullo
Liber di 116 componimenti che sii può suddividere in tre sezioni in base a un criterio metrico-formale:

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la prima comprende brevi poesie in metri vari (carmi polimetri), le cosiddette nugae (sciocchezze) di
argomento e tono varie (2-60); la seconda raccoglie i cosiddetti carmina, sotto l’aspetto tecnico, ricchi
di doctrina (61-68); infine, le composizioni in distici elegiaci della terza sezione (69-116, quasi tutti
epigrammi) che ripropongono i motivi, situazioni e atteggiamenti del primo gruppo di poesie. Il liber
è introdotto da un breve componimento (carme I) che contiene la dedica all’amico Cornelio Nepote e
ulteriori informazioni su quest’opera, presentata come
“lepidus” (piacevolmente scherzoso) e novus. Risulta difficile tracciare una cesura tra le diverse
sezioni, c’è uniformità a livello stilistico. Le nugae presuppongono comunque il gusto alessandrino
per il trattamento “serio” di cose umili; nei carmina docta ritroviamo un’intensità di pathos che sa
tradursi in espressività di linguaggio.

La poesia di Catullo e Lesbia


Odi et amo: perfetta sintesi della passione dell’autore per questa donna, attorno alla quale Catullo fece
ruotare la sua intera esistenza e che lo rese preda del delirio della passione, di cui conobbe e
sperimentò qualsiasi aspetto: sorriso, baci, promesse, dolcezza, tedio, angoscia, dolore. Catullo,
segnato dalla “nuova” cultura, restrinse il suo orizzone all’universo privato degli amori, delle amicizie,
dei propri principi di natura etica ed estetica e diede voce con la poesia a questa sua sostanza di uomo.
La poesia di Catullo ha “vicino il sorriso alla lacrima e il sogghigno al dolore”. Fece ruotare il suo liber
attorno ad un mondo di affetti e di convinzioni, che trovò il suo fulcro nella vicenda d’amore con
Lesbia. Ma chi è costei? Lo pseudonimo, evidente richiamo a Saffo, delinea il profilo di una donna
colta e brillante, il cui cuore era capace di vibrare alle note intensamente malinconiche della poesia
della poetessa di Lesbo. Lesbia, la docta puella, avrebbe potuto cogliere nel comune amore la poesia
di Saffo l’intensità della passione e della gelosia che Catullo nutriva per lei. Un passo di Apuleio ci
suggerisce di chiamarla Clodia, da Publio Clodio (suo fratello), acerrimo nemico di Cicerone, che non
si risparmiò di insultare, ne In difesa di Celio, proprio la stessa ragazza, ritenuta colpevole di incesto
assieme al fratello (mettendola così in cattiva luce dinanzi alla società romana del tempo). Catullo amò
e disprezzò clamorosamente Clodia. I momenti più intensi della passione sono rispecchiati dai “poemi
dei baci” (carmi 5/7). Del marito di Lesbia, il titolato Metello, Catullo non mostra di preoccuparsi
troppo, né lo considera un rivale. Catullo è ben consapevole che gli è precluso un legame
giuridicamente sancito con una donna sposata, ma cerca comunque di rivalutare il suo rapporto
“irregolare” conferendogli la dignità di un libero foedus d’amore. Quest’ultimo non ha alcun valore
ufficiale, ma vincola i due amanti alla fedeltà reciproca. Di fronte ai ripetuti tradimenti di Lesbia,
Catullo proclamerà con accenti disperati di non avere mai violato la santità della parola data. L’amore
cede così al rancore e al disprezzo e la poesia di Catullo prende accenti che ricordano le acerbe e
volgari invettive dei giambi di Archiloco ed Ipponatte. La candida diva che conosciamo dal carme 68
si è trasformata in un’adultera vogliosa, confermando implicitamente quanto presunto da Cicerone.

Catullo e la politica
Catullo osserva con sguardo attento i neoterici e il loro voler rinnovare la tradizionale gerarchia di
valori sociali (con conseguente esaltazione della dimensione privata e intimistica dell’individuo, a
discapito dell’impegno politico attivo richiesto al civis Romanis). Di Cesare, Catullo proclama di non
curarsi, e di non conoscere neanche il colore della pelle; contro di lui scrive numerosi versi, arrivando
addirittura a legarlo sentimentalmente a Mamurra, ex prefetto del Genio militare durante le campagne
cesariane di Spagna e di Gallia.

Il gruppo dei carmina docta


Nei componimenti 61-68, i cosiddetti carmina docta, la presenza del materiale mitologico si fa
cospicua e l’elaborazione formale è più curata rispetto al resto della raccolta, ma possiamo comunque
cogliere tracce di una continuità tematica relative ad alcuni leit-motiv della poesia catulliana, come
l’aspirazione ad un coniugum stabile e regolare e l’attenzione alla fides. Nel carme 64, il più lungo del

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liber con i suoi 408 versi, Catullo si cimenta nel genere ellenistico dell’epillio, breve poemetto in
esametri improntato alla valorizzazione dell’elemento patetico, più mirato a delineare fisionomie
psicologiche che a celebrare imprese di guerra.
Carme 64: Il principe della Tessaglia, Peleo, si innamora di Tetide, emersa dalle onde con le nife del
mare. Si approntano i preparativi del matrimonio e i visitatori ammirano sulla coperta nuziale le
immagini a ricamo di Arianna che dalla spiaggia vede fuggire Teseo con la sua nave. Il lamento
disperato della fanciulla si conclude con la maledizione del traditore, la cui punizione non tarda a
venire: Egeo, padre di Teseo, credendo morto il figlio, si uccide per il dolore. Ma sulla coperta è
raffigurato anche Bacco, che sta per giungere nell’isola con il corteo dei Satiri e farà di Arianna la sua
donna. A questo punto la gioventù tessalica abbandona la reggia di Peleo. La struttura dell’epillio
rivela l’abilità del poeta di combinare tra loro piani cronologici diversi: l’inizio del carme si colloca
in un’età mitica anteriore alla guerra di Troia, quindi la descrizione ecfrastica dei ricami sulla coperta
ci porta indietro nel passato, al momento in cui Teseo abbandona Arianna. L’epillio si conclude infine
sulla contrapposizione tra il tempo presente del narratore e il tempo mitico. Arianna è citata perché
c’è analogia tra il suo amore e quello di Peleo/Tetide, ma anche contrastante, in quanto finisce male.
La devozione coniugale trova la sua celebrazione anche nel carme 66: la regina Berenice ha offerto
agli dei un ricciolo della propria chioma, come ex voto per il felice ritorno in patria dell’amato
consorte, il re Tolomeo III, partito per una campagna militare; al ritorno del sovrano, il ricciolo non
si trova più nel tempio in cui era stato posto e per spiegarne la scomparsa,
Conone (astronomo di corte), rivela che è stato portato in cielo per volere divino e trasformato in
costellazione. Il tema matrimoniale si trova naturalmente al centro dei due epitalami, il primo dei quali
(carme 61) composto per le nozze dell’amico Manlio Torquato con Iunia Auruculeia. La vivacità
caratterizza il secondo epitalamo (carme 62) che, a differenza del precedente, non sembra essere stato
composto per un’occasione particolare, ma è un tipico prodotto letterario: due cori, uno di ragazzi e
uno di fanciulle, si affrontano in un contrasto scherzoso secondo la tecnica del canto amebeo, ovvero
pronunciando a turno strofe in cui espongono i rispettivi punti di vista sul matrimonio. Nel carme 67
troviamo la condanna del degrado morale, con un ignoto viandante che interroga la porta di una casa
a Brescia, facendosi raccontare una squallida storia d’incesto. Nel carme 68 Catullo fa risuonare
accenti profondi di dolore per la morte del fratello e di sentita amicizia verso il suo benefattore Allio.
Il carme 63 tratta di una tragedia dell’identità sessuale, con Attis che, sbarcato nella Frigia, si innamora
della dea Cibele, si evira con una pietra e partecipa al rito collettivo all’aperto; al mattino Attis si
risveglia e si pente amaramente del suo gesto.

Lo stile e la fortuna
Catullo si orienta verso un’espressione più graziosa e vivace, grazie al frequente impiego della figura
dell’apostrofe e dell’interrogativa retorica. Si rivela estremamente abile nel muoversi tra diversi
registri di stile, anche all’interno di uno stesso carme: troviamo così forme del parlato e poetiche;
arcaismi; termini coniati in vista di un particolare contesto; grecismi.

Lucrezio

Il destinatario dell’opera
Il coinvolgimento di Lucrezio nella vita culturale/sociale di Roma trova conferma indiretta nella dedica
dell’opera a Caio Memmio, pretore che condusse con sì in Bitinia (57-56 a.C.) un gruppo di
intellettuali, tra cui Cinna e Catullo. Nei libri I, II e V; quelli composti per primi, Lucrezio si rivolge
per nome a Memmio ben 9 volte, mentre nei libri restanti la sua figura scompare, forse per la
decadenza politica dello stesso pretore, autoesiliatosi ad Atene nel 52 a.C. Lucrezio parla a Memmio
come un docente: gli presenta i suoi insegnamenti filosofici come se fossero “doni”, non fini a se stessi,
ma destinati ad apportare un reale vantaggio. Per parte sua il poeta spera di goede dell’amicizia di
Memmio, finalmente convertito all’epicureismo come ricompensa dello sforzo di “inventare” un

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linguaggio specifico in latino per illustrare adeguatamente l’intera dottrina di Epicuro. La
“ricompensa” cui aspira Lucrezio si chiarisce appieno alla luce del valore dato all’amicizia dagli
epicurei, come comunanza d’affetti e solidarietà tra esseri umani, giustificata su base filosofica;
fondamentalmente distinta dall’amicizia tradizionale romana, che individua un rapporto di mutuo
sostentamento personale nella vita pubblica.

Il poema filosofico “De Rerum Natura”


Per Lucrezio l’epicureismo fu un’esperienza di vita totalizzante ed egli volle farsi portavoce di questa
fede: la natura, le sue leggi, la formazione dei mondi, il perpetuo movimento degli atomi, la nascita e
la morte delle cose, i fenomeni del cielo e della terra, l’uomo, l’esaltazione della pace e della fratellanza
umana ispirarono la composizione del poema De Rerum Natura, il cui titolo riprende quello dell’opera
più vasta di Epicuro (Perì Fuseos), oggi perduto. Il poema è composto di 6 libri ed è articolato in tre
doppie (diadi) di libri più fortemente connessi tra di loro. La prima diade è dedicata ad atomi/fisica, la
seconda a anima/antropologia, la terza a mondo/cosmologia. Ogni libro comprende un proemio, un
trapasso, la trattazione specifica della materia e un finale; tutti i libri dispari e in più l’ultimo
contengono una celebrazione dei meriti del maestro, Epicuro. La veste poetica e il rapporto di
educazione/persuasione che si instaura in primo luogo tra l’autore e il suo dedicatario Memmio, ma
più in generale con il lettore- discepolo, inscrivono il De Rerum Natura nella tradizione del poema
didascalico, che comincia in Grecia con Esiodo e prosegue con i poeti-filosofi Senofane, Parmenide
ed Empedocle. Proprio l’adesione all’antica tradizione della poesia didascalica e le aspettative di un
pubblico romano colto giustificano il ricorso alla forma poetica, che Epicuro condannava per la
mancanza di “chiarezza” nell’espressione - un difetto rilevante, se l’obiettivo è la presentazione della
verità –e per i contenuti mitologici, legati alla religione tradizionale e quindi pericolosi per i timori
superstiziosi che possono suscitare. Lo stile poetico, l’agilità delle forme espressive, la copiosità delle
osservazioni umane, alcune analogie con il lessico di Catullo rivelano influenze del contemporaneo
movimento neoterico, sebbene nel complesso la poesia lucreziana sia chiaramente forgiata sul modello
dell’epica latina arcaica (Ennio in particolare), rivoluzionata però nei contenuti.

I libri I-II: la fisica


Il primo si apre con il celebre “inno a Venere”, affinchè aiuti il poeta nell’esposizione della dottrina e
perché blandisca Marte fermando le atrocità della guerra. Va considerato come proemio dell’intera
opera e non di un libro singolo; l’esposizione della materia del libro I è introdotta dall’elogio di
Epicuro. Lucrezio, dopo aver presentato nelle linee generali i contenuti dell’opera, reagisce all’accusa
di empietà per le dottrine di Epicuro e le ritorce contro i detrattori. L’episodio mitico del sacrificio di
Ifigenia, la figlia di Agamennone immolata in ossequio alle profezie di un indovino, è assunto da
Lucrezio come exemplum dell’assurda soggezione di popoli e re alle catene della superstizione, che
fa compiere loro azioni insane. Di seguito vengono delineati i principi della fisica epicurea, attraverso
i quali è possibile comprendere la vera natura del mondo e degli dei: nulla ha origine dal nulla e
nulla si riduce a nulla, ma nascita e morte sono unione e separazione di atomi. Oltre alla materia c’è il
vuoto entro cui gli atomi si muovono. Il tempo non esiste in assoluto, è determinato in base al moto e
alla quiete dei corpi. Gli atomi sono eterni perché non contengono vuoto. L’ultima sezione è dedicata
alla confutazione di differenti tesi filosofiche (Eraclito, Empedocle, Anassagora). Il libro I si chiude
con la maestosa immagine poetica della distruzione del mondo.
Il proemio del libro II è dedicato alla rappresentazione della tranquillità interiore: chi è attratto e
fuorviato da superstizioni, è smarrito nel proprio percorso esistenziale e vive in uno stato di perenne
angoscia. In quest’universo di vuoto e materia, il ruolo degli dei è marginale. Gli atomi hanno forme
differenti e sono infiniti.

I libri III-IV: l’antropologia


Epicuro ha eliminato la paura della morte e degli dei. Così si apre il libro III. Sede della sensibilità e

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dell’intelligenza è l’animus (spirito) e ad esso è sottoposta l’anima, diffusa per tutto il corpo,
mediante la quale vengono percepite le sensazioni fisiche. Entrambi hanno consistenza materiale, ma
gli atomi che li compongono hanno una diversa qualità e sono mortali. Di conseguenza, la morte non
è da temere, perché quando c’è lei non ci siamo noi, quando ci siamo noi non c’è lei. Rendendosi
tuttavia conto del fatto che le prove razionali non sono sufficienti a dimostrare ciò, Lucrezio si affida
alla voce della Natura personificata, che con un procedimento retorico di grande effetto. Il proemio del
IV libro, ripropone i versi del libro I in cui il poeta proclamava gli obietti programmatici della propria
opera. L’argomento del libro è la gnoseologia epicurea, a partire dai simulacra, sottilissimi intrecci di
atomi che si distaccano dalla superficie dei corpi mantenendone i contorni e impressionano così i nostri
sensi. Con grande ricchezza di immagini vengono esaminati gli effetti prodotti dall’azione dei
simulacri sulle facoltà sensitive (vista, udito, gusto e olfatto) e i problemi connessi alla percezione,
come la natura dell’eco, dell’ombra delle visioni ecc. Vengono sottoposte ad analisi anche sensazioni
fisiche come fame, sete e fenomeni psichici come i sogni. Epicuro non condanna gli impulsi sessuali,
ritenuti naturali, ma le passioni ad essi correlati.

I libri V-VI: la cosmologia


Il libro V è introdotto da un nuovo elogio della eccelsa grandezza di Epicuro, cui l’umanità è debitrice
della sapentia, più preziosa del vino e delle messi, donati da Bacco e Cerere. Il cosmo è nato dal caos
e non è opera degli dei. Il poeta sembra avere un pessimismo di fondo: nel mostrare all’uomo la sua
amara condizione di vita, Lucrezio vuole fornire uno stimolo a cercare in se stessi e nella propria
ragione la via di salvezza. Vengono affrontati anche problemi di tipo astronomico: le reali dimensioni
del sole, le stagioni e le eclissi. Dalla Terra sono nati un tempo tutti i viventi e il progresso del genere
umano è avvenuto per gradi: focolare, famiglia, linguaggio, città, diritto. L’ignoranza porta alla
superstizione al timore. Il poeta si sofferma poi sullo sviluppo delle arti manuali e dell’agricoltura,
sull’invenzione del canto e della musica.
Il libro VI si apre con l’esaltazione della gloria di Atene, patria dell’agricoltura, delle leggi e di Epicuro.
Tema del libro è la meteorologia, ovvero la spiegazione razionale dei fenomeni naturali del cielo e
terrestri. L’esposizione della causa delle epidemie (flusso di germi letali) introduce la descrizione della
peste di Atene (429 a.C.). Nell’episodio troviamo anche l’ultimo attacco ala religio, che ne esce
annichilita, vista la totale indifferenza degli dei, che non proteggono dalla peste chi si è rifugiato nei
loro templi.

Lingua e stile del De Rerum natura


Continuo ricorso alle figure che prevedono la ripetizione di suoni (allitterazione, rima, omeoteleuto,
paronomasia), di parole (figura etimologica, pleonasmo), di emistichi (è la parte del verso che precede
o segue la cesura centrale) e perfino di intere sezioni di versi. La scrittura è per Lucrezio il risultato di
un’operazione combinatoria: come gli atomi si combinano a formare le cose, così le lettere si
combinano a formare le parole che designano le cose. La lingua di Lucrezio presenta una evidente
patina arcaica. Gli arcaismi di Lucrezio sono dovuti a opportunità metrica o alla volontà di accentuare
la solennità “enniana” del dettato. Alla poesia arcaica rimandando poi le numerose allitterazioni e i
giochi di suono, l’uso dell’aggettivazione, spesso abbondante, per rendere una descrizione più
vivida/intensa/patetica. Nel suo poema ci sono circa un centinaio di neologismi e composti rari, perché
doveva introdurre a Roma concetti epicurei.

Varrone

La vita
Nacque a Rieti e morì novantenne nel 27 a.C. Perfezionò la sua formazione culturale con un viaggio
ad Atene, dove ascoltò le lezioni del filosofo accademico Antioco di Ascalona. Si cimentò anche con
la politica, dove iniziò come questore e proseguì per i vari gradi previsti dal cursus honorum fino alla

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pretura. Fu sostenitore di Pompeo nella guerra civile contro Cesare.

Le opere
Ci sono noti più di 70 titoli, per un’estensione complessiva di oltre 600 libri. Di questa immensa
produzione è rimasto molto poco.
Le opere grammaticali
L’orientamento linguistico-grammaticale degli studi di Varrone trova conferma in una nutrita serie di
titoli di opere perdute per noi. Abbiamo il De lingua Latina, sopravvissuto solo parzialmente (V-X).
Questa parte di opera è dedicata a Cicerone. In generale, il De Lingua Latina si componeva di un libro
introduttivo e quatto esadi (cioè gruppi di sei, ciascuno dei quali prevedeva due triadi, teorica e pratica,
con esempi) per un totale di 25 libri. La prima esade si occupa dell’etimologia, la seconda mette a
confronto le vedute di animalisti e analogisti; sul contenuto della parte perduta possiamo solo
formulare supposizioni, ma sappiamo che era prevista la trattazione della sintassi. Secondo Varrone,
la conoscenza etimologica ha 4 gradi successivi: uno intuitivo ed elementare, un secondo riserato al
grammatico, un terzo accessibile solo al filosofo che studia la natura profonda delle cose, un quarto
corrispondente al momento in cui la “cosa” ricevette il suo nome. Il libro VIII apre la seconda esade,
dove si contrappongono i due modelli funzionali della lingua allora favoriti dagli studiosi, basati
rispettivamente sui principi dell’analogia e dell’anomalia. Gli analogisti sostenevano l’esistenza di
elementi di regolarità, di una “norma” interna al sistema della lingua, che guida la formazione di nuove
parole iscrivendole entro modelli ricorrenti: tra scribo e il futuro scribam c’è un rapporto preciso, lo
stesso che ricorre anche tra dico e dicam. A loro si contrapponevano quanti erano convinti che l’uso,
nel continuo mutare delle condizioni esterne della comunicazione linguistica, ha un ruolo decisivo
nel determinare l’evoluzione della lingua, in maniera allora sostanzialmente arbitraria ed
imprevedibile. Per Varrone esistono due tipi di declinazione: quella volontaria e quella naturale: la
seconda nasce dalla volontà dei singoli, ma dal consenso generale. Pertanto, una volta fissati i nomi,
tutti declinano i loro casi ugualmente.

L’opera Sull’agricoltura
Composta in vecchiaia, è l’unico pervenuti per intero. L’opera si compone di 3 libri, con tre distinti
proemi: il primo riguarda la coltivazione della terra, e porta una dedica alla moglie Fundania; il secondo
tratta dell’allevamento del bestiame; il terzo tratta dei piccoli animali da cortile, della selvaggina, degli
uccelli, perfino di api e pesci. Lavora solo in parte a dati d’esperienza personali; tra le sue fonti
possiamo riconoscere Teofrasto, Aristotele, Magone, Catone. La forma è dialogica: vengono riportate
conversazioni con personaggi, presumibilmente storici, che discorrono di quella che pare essere la loro
specialità; i nomi rimandano spesso al mondo agricolo e al lavoro dei campi. Il De Re Rustica
varroniano riabilita la figura del faenerator (usuraio) e si rivolge non solo al proprietario di cospicue
tenute agricole, ma anche a quel pubblico, in particolare urbano, su cui può far presa l’immagine di
un ambiente rustico lindo e gentile, che possa fornire l’occasione di far proprie le sane gioie della vita
campestre.

Le Satire Menippee
150 libri. La scelta del titolo nasce dall’intenzione dell’autore di ricollegarsi alla tradizione della satira
latina (Ennio e Lucilio), ma a questa Varrone affianca il richiamo alla figura di Menippo di Gadara,
filosofo cinico del III sec. a.C. e indirettamente, per suo tramite, alla tradizione più popolare della
filosofia greca, la diàtriba, che si caratterizzava per l’interesse quasi esclusivo verso temi morali e
un’esposizione ricca di esempi, di immagini vivide e similitudini espressive, con il tono della
“lezione”. Varrone non tradusse Menippo, ma ne riprese la forma mista di prosa e versi (prosimetro)
di grande varietà ritmica, la mescolanza di serietà e comicità, e il gusto per il fantastico e il bizzarro.
Nei frammenti rimasti si intravede la propensione ad invenzioni singolari (viaggi aerei), caricaturai e
grottesche, in cui figure mitologiche si mescolano a personaggi attuali con forte

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effetto comico. La lingua delle Menippee è caratterizzata dall’impasto di livelli stilistici: prosa e verso,
parole greche e latine, frammenti poetici, proverbi e massime, espressioni quotidiane.

Le opere perdute
Antiquatates rerum humanarum et divinarum: 41 libri di erudizione antiquaria, suddivisi in due parti,
una dedicata alle antichità umane e una ad antichità divine. Il discorso sulle antichità umane era
improntato a un gusto etnografico e ispirato a uno spiccato orgoglio nazionale: soffermatosi su aspetti
folclorici, storici, cronologici e toponomastici, egli indagava unicamente sulla civiltà latina e sul suo
modello di vita; nella parte sulle antichità divine Varrone affermava l’origine umana dei rituali offerti
agli dei e riconosceva alla religione una funzione “politica”, come garanzia della pubblica moralità.
Le Imagines: 15 libri, raccoglieva ritratti di celebri personaggi greci e romani, come Pitagora,
Aristotele, Platone, Catoni, Scipioni.
I Logistorici: 76 libri, raccoglievano discussioni filosofiche in forma presumibilmente di dialogo;
ognuno di questi trattava un tema specifico, che veniva indicato nel titolo assieme al nome di un
personaggio storico ad esso collegato.
Le Disciplinae: 9 libri, tentativo di opera enciclopedica, stimolata dalla necessità di dare una
sistematica organizzazione al sapere greco e latino.

Cicerone

I primi anni e la formazione culturale


Cicerone nasce ad Arpino il 3 Gennaio del 106 a.C. Si trasferì a Roma ben presto per sviluppare il suo
immenso potenziale di oratore. Negli anni immediatamente successivi Cicerone potè seguire le lezioni
di diritto di Quinto Mucio Scevola e successivamente di Publio Mucio Scevola il Pontefice, frequentare
i due celeberrimi oratori Licinio Crasso e Marco Antonio, ascoltare l’amabile filosofo epicureo
Fedro, l’accademico Filone di Larissa e così via.

Dall’esordio come avvocato a pater patriae


La sua carriera forense iniziò con la Pro Quinctio. Da quel momento, vicenda biografica privata e
vicenda dell’uomo pubblico si intrecciano indissolubilmente. La pratica dell’eloquenza costituirà il
principale interesse di Cicerone. A questo successo seguì l’anno dopo quello della Pro Roscio Amerino,
che vide Cicerone impegnato a difendere il suo cliente Sesto Roscio da un’accusa di parricidio
montata da Crisogono, potente liberto di Silla. Nel 79 partì per la Grecia e l’Asia con l’intento di
irrobustirsi (o per evitare rappresaglie dei sillani?). Ad Atene perfezionò la conoscenza della filosofia
grazie ad Antioco di Ascalona. Di ritorno dall’Oriente, sposò Terenzia, da cui ebbe due figli: Tullia e
Marco. Nel 76 diventò questore a Lilibeo (odierna Marsala). La Sicilia era terra fertile e quindi soggetta
alla rapacità di governatori romani: qui si guadagnò la stima della popolazione, che gli affidò il compito
di sostenere l’accuso in un processo intentato contro l’ex governatore Caio Verre (70). Il successo
contro Verre ebbe un effetto positivo sulla carriera dell’Arpinate, che nel 69 fu edile e nel 66 pretore.
Il 63 è l’anno del consolato, avvantaggiato dalle prospettive commerciali apertesi in Oriente con
l’azione di Pompeo; al consolato concorreva anche Catilina. Quest’ultimo ripropose la propria
candidatura per l’anno successivo, ma Cicerone fece rinviare la data delle elezioni, ostacolandone
l’azione politica: Catilina abbandonò le vie costituzionali e decise per il ricorso alla forza. Fu allora
che Cicerone produsse le Catilinarie, con cui smascherò il progetto di golpe di stato da parte del
nemico e dei suoi seguaci. Cicerone, uscito di carica, ottenne la più grande delle onorificenze con il
titolo di pater patriae.

Dall’esilio alla guerra civile


Publio Clodio, cesariano e acerrimo nemico di Cicerone, fu eletto a tribuno della plebe nel 58 a.C.

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Questo vedeva nell’Arpinate una minaccia per il triumvirato Cesare + Pompeo + Crasso, ergo per cui
gli comminò un anno e mezzo di esilio tra l’Epiro e Durazzo. Tuttavia, l’azione demagogica di Clodio
e la tracotanza da lui mostrata in tante occasioni preoccuparono Pompeo, che cercò di indebolirne la
posizione politica, adoperandosi in favore di Cicerone: Cicerone tornò, trionfalmente, a Roma nel
settembre del 57. Clodio rimase ucciso in uno scontro tra bande armate (52) e del fatto fu accusato
Milone; Cicerone doveva molto a questo personaggio, che non si era risparmiato in occasione del suo
richiamo dall’esilio, e ne assunse la difesa. Questa non convinse e Milone dovette rassegnarsi all’esilio.

Dall’ascesa di Cesare alla morte


Gli eventi precipitarono e Cicerone si recò al seguito di Pompeo a Durazzo, da dove, dopo la sconfitta
dei pompeiani (Farsalo, 48 a.C.) fece ritorno in Italia. Rimase a Brindisi per 10 mesi: in questo lasso
di tempo si separò dalla moglie. Il perdono di Cesare consentì a Cicerone di rientrare a Roma, ma fu
inevitabile la sua emarginazione dalla vita politica. Nonostante la morte dell’amata figlia Tullia (45),
gli anni tra il 46 e il 44 furono i più fecondi dal punto di vista dell’attività letteraria: Brutus, Paradoxa,
Stoicorum, Hortensius, Academica, De Fato, Topica e altre. L’assassinio di Cesare (44) segnò un
rallentamento di questa fervida attività: il nome dell’autore risuonò tra i congiurati nel giorno
dell’’agguato ed egli sent di poter riacquistare il perduto ruolo politico. Nel tenzone tra Antonio
(luogotenente di Cesare) e Ottaviano (futuro Augusto), Cicerone scelse di appoggiare il secondo, nella
speranza di poterlo manovrare come strumento della volontà del senato, e ripristinare così
l’ordinamento repubblicano. L’opposizione nei confronti di Antonio è documentata dalle 14 orazioni
note come Filippiche, con le quali Cicerone si sforzò di far dichiarare quest’ultimo nemico pubblico.
Il successivo riavvicinamento tra Antonio e Ottaviano condannò Cicerone, il cui nome finì nelle
liste dei proscritti: si dette alla fuga, ma nel 43 fu raggiunto dai sicari di Antonio nella sua villa di
Formia e venne decapitato.

Le orazioni del periodo 70-64 a.C.


La difesa di un’intera provincia, la Sicilia, vessata dall’amministrazione di Verre (73-70) offrì a
Cicerone l’opportunità di misurarsi contro un avvocato di grido come Ortensio, in una causa di assoluto
rilievo per Roma. Fu una vittoria completa. Mentre Verre metteva in atto una serie di iniziative per
rinviare il processo, in attesa dell’entrata in carica di consoli a lui favorevoli, Cicerone si recò in Sicilia
dove raccolse un’enorme quantità di prove e testimonianze. Iniziato il processo (70), Cicerone tenne
un discorso molto stringato ed essenziale, cui seguì l’interrogatorio dei testimoni. La difesa non riuscì
ad opporre argomenti convincenti e il processo fu ben presto archiviato con la fuga di Verre a
Marsiglia. Le Verrine mostrano la prova della raggiunta maturità stilistica di Cicerone e della piena
padronanza dei vari registri dell’espressione. Indimenticabile il ritratto di Verre, archetipo dei tanti
personaggi viziosi e corrotti che affollano le orazioni ciceroniane. L’Arpinate pronunciò il suo primo
discorso politico, in occasione della proposta di legge presentata dal tribuno Manilio, che affidava a
Pompeo il comando supremo della guerra contro Mitridate, re del Ponto. Cicerone si pronunciò in
favore di Pompeo e della lex Manilia.

Le orazioni consolari
La produzione più significativa del periodo del consolato è quella relativa all’azione intrapresa per
sventare le trame eversive di Catilina e dei suoi seguaci, che avevano organizzato dall’Etruria una
struttura paramilitare e si preparavano a conquistare il potere con le armi. La I Catilinaria segnò una
schiacciante vittoria per Cicerone, che il girono successivo tenne un’orazione al popolo, in cui rendeva
conto della situazione (II Catilinaria): la “belva” Catilina si era data alla fuga, ma volgeva ancora gli
occhi alla preda sfuggitagli dalle fauci voraci. Anche la III Catilinaria abbonda di informazioni, relative
alla scoperta del complotto e all’arresto dei congiurati. L’ultimo di questi discorsi (IV Catlinaria) si
distingue per il tono cauto ed estremamente bilanciato: scongiurato il pericolo immediato, Cicerone
presiedeva l’assemblea cui toccava decidere la sorte degli arrestati: quel giorno, in senato furono

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protagonisti Cesare e Catone. Cicerone si limitò a pronunciare quell’algido Vixerunt, che ragguagliava
il popolo dell’avvenuta esecuzione dei congiurati; Catilina morirà in battaglia poco dopo.

Le orazioni del periodo 62-52 a.C.


La difesa di Lucio Cornelio Silla (Pro Sulla, 62), parente del dittatore, riguardava un personaggio
accusato di connivenza con i catilinari: la decisione di accettare questo patrocinio sarà dovuta alla
necessità di avvicinarsi agli ambienti aristocratici vicini ai populares. Celebre è anche la Pro Archia,
concernente la difesa di Archia, accusato da Grattio di usurpazione della cittadinanza romana; gli
argomenti difensivi erano semplici – Archia era cittadino romano, ma anche ammesso che non lo fosse,
avrebbe meritato di esserlo per l’eccellenza del suo animo di artista. Con l’orazione De Domo Sua,
volle dimostrare che la consacrazione alla Libertà divinizzata, per iniziativa di Clodio, del luogo in
cui sorgeva la casa di Cicerone sul Palatino andava contro il diritto religioso e civile e costituiva un
ennesimo attacco alla sua persona e ai suoi interessi privati.

Le orazioni del periodo 46-43


Ultimo guizzo di una ritrovata energia oratoria, le 14 orazioni pronunciate contro Antonio furono
definite dall’autore stesso Phillipicae, con riferimento agli appassionati discorsi pronunciati
dall’oratore ateniese Demostene contro Filippo di Macedonia. Cicerone voleva convincere il senato a
prendere ufficialmente posizione contro Antonio e indurlo a sostenere l’azione di Ottaviano. Il motivo
dominante delle Philippicae è senz’altro la contrapposizione di queste due figure: Antonio è il tiranno
assetato del sangue dei suoi concittadini, l’essere abietto e depravato, privo di qualsiasi senso morale;
al contrario, Ottaviano è presentato come il divinus adulescens, puer senex, al quale pur la
giovanissima età non impedisce di compiere azioni all’insegna della virtù e della saggezza. In questa
fatica Cicerone riversò il meglio della sua arte oratoria: tesa e potente, la prosa delle Filippiche alterna
ai toni dell’invettiva quelli della parenesi (esortazione) più accorata, al sarcasmo feroce la concitazione
appassionata.

Le opere retoriche
Il De Inventione, trattatello giovanile doveva prevedere la trattazione sistematica delle 5 partizioni
della retorica (inventio, dispositivo, elocutio, memoria e actio) ma si interrompe al libro II. In effetti
viene compiutamente esposta solo la parte relativa all’inventio, la ricerca del materiale tematico grezzo
che, successivamente disposto e confezionato, consentirà all’oratore di raggiungere il suo fine, ovvero
la persuasione dell’uditorio. Diviso in 3 libri e articolato come un dialogo a più interlocutori, il De
Oratore fu completato nel 55 a.C. Nella finzione letteraria si presenta come il resoconto di una dotta
conversazione sull’eloquenza avvenuta nella villa di Lucio Licinio Crasso a Tuscolo, in occasione
dei ludi Romani del 91: accanto ai due principali interlocutori,il padrone di casa e Marco Antonio,
ritroviamo anche Crasso, Lutazio Catulo, Mucio Scevola, Sulpicio e Cotta. Il dialogo è dedicato al
fratello di Cicerone, Quinto, che ne ha ispirato la stesura. L’esordio (libro I) esprime l’importanza
dell’eloquenza come forza civilizzatrice, che rende l’uomo superiore all’animale.
Dopo quasi un decennio, Cicerone tornò ad occuparsi di eloquenza in un altro dialogo, il Brutus (46),
in cui viene delineata una sorta di rassegna storica dell’eloquenza latina. È un testo di grande
importanza per noi, poiché ci trasmette notizie su molti personaggi le cui opere andarono presto
perdute. Nella prefazione al dialogo, Cicerone lamenta la scomparsa dell’amico, collega e spesso rivale
Ortensio, e da qui prende spunto per amare riflessioni sulla condizione dell’eloquenza a Roma. La
cornice narrativa del dialogo è preparata in una lunga introduzione, dove s’immagina che Cicerone
riceva la visita di Attico e Bruto, pompeiano riabilitato da Cesare, ma, pochi anni dopo, fautore della
congiura. Culmine di questa disamina è la figura del perfectus orator. Cicerone si sofferma sulla
vibrante oratoria dei Gracchi, poi sull’equilibrio dell’eloquenza di Catone Il Vecchio, e ancora sula
finezza dell’eloquenza di Cesare. C’è anche una sottile polemica contro gli oratori dell’ultima
generazione, i cosidetti atticisti, di cui faceva parte lo stesso Bruto, che al rigoglioso stile asiano

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contrapponevano l’ariditià e la ieiunitas (snellezza) dello stile attico, di cui Tucidide e Lisia era
considerati i modelli. Ancora nel 46 Cicerone compose l’Orator, un’opera sull’eloquenza non
dialogica, ma in forma di epistola a Bruto.

Le opere politiche
Negli anni tra il 54 e il 51 Cicerone si dedicò alla stesura dell’impegnativo dialogo De Re Publica e
del De Legibus, due opere che nel titolo richiamano esplicitamente la Repubblica e le Leggi di Platone,
per quanto Cicerone si renda autonomo rispetto al modello e affronti problematiche strettamente
connesse alla realtà politica romana. Del primo, la trama non è ricostruibile nei dettagli, per lo stato
piuttosto frammentario della sezione conservatesi, ma è certo che si trattasse di un dialogo, che i
immagina tenuto in tre giornate; a ogni giornata corrispondono due libri, mentre oggi coppia di libri
era introdotta da un proemio. Il dialogo è ambientato nella villa suburbana di Scipione Emiliano,
nell’anno 129 a.C.; la discussione verte sulla ricerca della migliore forma di governo. Partendo
dall’antica dottrina che individuava tre forme fondamentali di governo (monarchia, aristocrazia e
democrazia), Scipione nei primi due libri esamina di ognuna gli aspetti positivi e le loro possibili
degenerazioni (tirannia, oligarchia e oclocrazia), contrapponendo lor una quarta; quest’ultima realizza
una sintesi delle tre forme di regime e nello stesso tempo evita la loro degenerazione, quanto il processo
di avvicendamento ciclico delle stesse, detto commutatio, per cui il processo di corruzione al quale
ciascuna di esse va incontro, nel momento in cui viene applicata, comporta inevitabilmente il passaggio
dall’una all’altra. Nella sua Repubblica ci troviamo di fronte al tentativo di conferire una validità
universale, assoluta, al modello costituzionale “misto” che aveva sostenuto la crescita di Roma fino a
tutto il II a.C., ma che al tempo di Cicerone mostrava chiaramente segni di crisi. Nel libro V troviamo
il Somnium di Scipione, durante il quale Scipione l’Africano gli aveva illustrato, dall’alto della volta
celeste, la straordinaria complessità dell’universo e al tempo stesso la piccolezza e la caducità di tutte
le cose umane, cui si contrappone il destino di eternità riservato a coloro che avessero disprezzato i
beni terreni.
De Legibus: si tratta sempre di un dialogo, ma questa volta di ambientazione contemporanea, che si
immagina avvenuto nella villa di Cicerone a Tuscolo, tra lo stesso autore, suo fratello Quinto e Attico.
Degli originari 5 libri in cui si articolava l’opera, ci sono giunti solo i primi 3, che trattano
rispettivamente dell’esistenza di un diritto naturale, del diritto sacrale e delle magistrature.

Le opere filosofiche
I Paradoxa Stoicorum: si trattava di sententiae che riassumevano, agli occhi dei meno esperti, l’essenza
del pensiero etico dello Stoicismo. Il proemio al libro II del De Divinatione, completato e pubblicato
dopo la morte di Cesare, contiene questo orgoglioso bilancio retrospettivo della propria attività di
scrittore di filosofia; queste opere, oltre a riempire il vuoto di un’esistenza, effettivamente
contribuirono in maniera determinante alla divulgazione ad alto livello di un sapere filosofico fino ad
allora accessibile solo in lingua greca. Messe da parte le schermaglie di natura gnoseologica, Cicerone
volle dedicarsi all’etica, la parte a lui più congeniale della filosofia, e compose uno dei suoi più riusciti
dialoghi filosofici, il De finibus honorum et malorum, in cui, attraverso un esame critico dei sistemi
etici epicureo, stoico e accademico, si cerca di definire la natura del sommo bene, e per
contrapposizione, del sommo male. Nel De Finibus non si giunge a una vera e propria scelta tra le
dottrine esposte dai rappresentanti delle varie scuole; al contrario, il metodo eclettico dell’Arpinate si
sforza proprio di promuovere un dialogo costruttivo tra le diverse opinioni, dal quale sia idealmente
bandita ogni forma di prevaricazione e polemica preconcetta. Ancora incentrata su problematiche
morali – e parimenti dedicata a Bruto – è l’opera immediatamente successiva, le Tusculanae, il cui
titolo deriva dalla villa ciceroniana di Tuscolo, dove si immagina avvenuta la discussione. L’opera è
articolata in 5 libri e vede come protagonisti lo stesso autore e un anonimo interlocutore; si tratta
dunque di una forma particolare di dialogo, che conferisce alle Tuscolane il tono più raccolto del
monologo interiore. All’inquadramento teorico del problema morale fornito nel De finibus, le 5

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conversazioni tusculane sostituiscono l’effetto pratico e una più profonda partecipazione emotiva
dell’autore alla materia trattata: disprezzo della morte, sopportazione del dolore, sofferenza spirituale,
turbamenti dell’animo e, infine, la virtù come garante della felicità costituiscono, nell’ordine, gli
argomenti dei 5 libri e si presentano come una vera e propria summa di una parte importante dell’etica
antica. I dialoghetti Cato maior e Laelius vegono generalmente associati in un dittico, secondo
un’ormai consolidata tradizione, per via dei numerosi tratti condivisi: innanzitutto la loro
composizione avvenuta nel 44 a.C.; in secondo luogo, la comune dedica ad Attico; ancora, la stessa
singolare struttura compositiva, una via di mezzo tra la presentazione “narrativa” e quella
“drammatica”, spezzata tra più interlocutori, del dialogo; infine, in entrambi è stato seguito il principio
di assumere a portavoce delle tematiche affrontate una figura altamente rappresentativa della tradizione
nazionale, allo scopo di conferire autorevolezza alla trattazione. Il Cato maior fu composto al
principio dell’anno, nel periodo di otium forzato che precede le idi di marzo, mentre il Laelius seguì
la morte di Cesare. Nella dedica ad Attico premessa al Cato maior, Cicerone attribuiva all’opera una
funzione consolatoria per sé e per l’amico: entrambi avevano infatti superato i 60 anni, età con qla
quale aveva inizio la vera e propria senectus, nella prospettiva della forzata inattività e
dell’emarginazione dalla vita politica. Il dialogo, condotto da Catone con Scipione e Lelio, si
propone dunque di restituire alla senectus la pienezza del suo prestigio sociale: essa non è di ostacolo
all’impegno civile e politico, può
compensare il decadimento fisico con l’arricchimento spirituale e con l’avvenuta cessazione degli
impulsi delle passioni; né il senex può essere turbato dal timore della morte, poiché essa porta con sé
il premio giusto. Cicerone costruisce ad arte il suo protagonista, trasfigurando il personaggio storico
di Catone il Censore, che di vecchio conserva solo il fascino che si accompagna ad una lunga
esperienza di vita. La rappresentazione complessiva del Catone storico appare fortemente deformata
in senso idealizzante e lontana dalla realtà: l’Arpinate dava vita ad un raffinato cultore dell’humanitas
e della socievolezza, a un senex sereno e autorevole, profondamente legato alla sua terra e capace di
guardare con grande commozione alle fatiche dell’attività agricola. In quest’opera Cicerone si propone
di superare l’idea tradizionale di amicitia delle elites di Roma, che si traduceva nella messa in opera
di una serie di legami personali a scopo di sostegno politico, integrandola con una concezione
dell’amicizia, fondata sulla virtus e saldamente ancora a valori etici e personali, in cui confluiscono
elementi della riflessione filosofica greca. Il fine “politico” dell’opera, che non è semplicemente una
riflessione sul sentimento puro dell’amicizia, è quello di cementare la coesione dei boni, le cui virtù
devono fondare l’istanza a porsi come sicuro baluardo dell’ordine sociale. Il De Officis è l’ultima delle
opere filosofiche di Cicerone. L’intento è quello di mettere a disposizione di suo figlio Marco un
manuale degli officia (dover) riguardanti il buon cittadino, ispirati all’honestum, e sul cui rispetto si
fonda la civile convivenza. L’honestum è il “bene morale”, prodotto dalla convergenza di quattro virtù
come sapientia, iustitia, fortitudo e
temperantia. Nel campo del concreto agire etico è il decorum (buon senso, tatto, gusto) a fornire un
criterio guida. L’utile invece, è l’altro movente fondamentale dell’azione umana, cui fornisce i propri
indirizzi, spingendo, ad esempio, alla gloria.

L’epistolario
Le lettere furono pubblicate solo dopo la sua morte, in parte dall’amico Attico, in parte da Tirone, il
liberto fedele segretario di Cicerone. Se Cicerone avesse potuto procedere a una cernita e revisione
delle sue epistole, è indubbio che ci sarebbe giunto in un carteggio di dimensioni ben più ridotte,
rimaneggiato nei contenuti biografici imbarazzanti e nello stile schiettamente familiare; al posto del
ritratto di un uomo contraddittorio e talvolta persino meschino, ci sarebbe giunta un’immagine più
rispondente alla figura eroica rimpianta da Francesco Petrarca. L’epistolario ci consegna uno spaccato
di storia e di vita quotidiana, aperto su piccoli e grandi problemi, su tresche e giochi di potere, su un
vissuto sostanziato di emozioni e sentimenti autentici; e ci consegna il grande Arpinate colto di
sorpresa, in un’intimità che lo allontana dalla maschera solenne del Cicerone idealizzato. Le lettere ad

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Attico spaziano dalle vicende familiari dei due amici, al resoconto degli eventi politici e mondani della
capitale. Sono temi ampiamente riscontrabili anche nelle lettere ad altri corrispondenti. La raccolta
delle Epistulae familiares (anch’essa in 16 libri), raccoglie lettere del periodo 62-43 a.C., ordinate in
base ai destinatari; tra questi ci sono anche amici e conoscenti a vario titolo. Da segnalare solo le lettere
indirizzate alla moglie Terenzia e al fido Tirone, mentre un ristretto gruppo di lettere è quel che rimane
del carteggio col genero Dolabella. Per il resto, la nutrita galleria di personaggi con cui l’Aprinate fu
in contatto epistolare comprende nomi assai illustri della vita politica e cultura dell’epoca, si pensi
all’erudito Varrone, a Pompeo, a Catone l’Uticense, a Cassio Longino. La silloge delle Epistulae ad
Quintum fratrem si compone di 3 libri,
relativi agli anni 59-54 a.C.: nelle lettere si trovano informazioni sulla situazione politica dell’Urbe e
scambi di opinione su argomenti dotti o opere letterarie.

Lo stile
Un tratto distintivo della prosa ciceroniana è costituito dalla ricerca della cincinnitas, con la
costruzione di periodi di ampio respiro, in cui le singole parti (membra) si dispongono armonicamente
a formare una struttura ben equilibrata e bilanciata. L’efficacia artistica è accresciuta da un uso sapiente
delle figure retoriche e da un attento studio delle clausole, che conferiscono musicalità al periodo.
Nella stesura delle opere filosofiche Cicerone dovette fare i conti con la “povertà” della lingua latina
rispetto alle risorse lessicali e alla duttilità espressiva della lingua greca. Di fronte alla necessità di
rendere in latino i termini “tecnici” della filosofia greca, Cicerone ricorre ora al corrispondente latino,
ora a perifrasi più o meno elaborate; ma in particolare non si può trascurare il contributo offerto da
Cicerone alle capacità di espressione astratta del latino; a lui si devono termini come qualitas,
perceptio, beatitas. Nelle lettere non ufficiali ci troviamo di fronte a un latino diverso da quello delle
altre opere, tendente alla paratassi nella costruzione del periodo, e aperto ad un lessico familiare,
popolato di forme colloquiali, su cui possono innestarsi neoformazioni ironiche.

Cornelio Nepote

L’opera sui “Personaggi illustri”


L’unica opera parzialmente conservataci è il De viribus illustribus, una raccolta di biografie in almeno
16 libri, raggruppate per categorie: sovrani, generali, storici, oratori, grammatici, poeti. Noi
possediamo il libro dedicato ai condottieri stranieri, perlopiù greci (Pausania, Alcibiade, Epaminonda
ecc). Degli storici romani ci sono rimaste le vite di Catone il Censore e di Attico. Le vite non hanno
una struttura standard: Nepote ricorre spesso all’aneddoto per dettagliare il quadro della singola
personalità, secondo un procedimento diffuso nel mondo antico. Nello stendere le biografie di stranieri
(greci), Nepote deve confrontarsi con realtà estranee alla mentalità e al patrimonio di valori di Roma,
comprensibili unicamente in relazione al mos di ciascun popolo. Caratteristico è il ritratto che fa di
Annibale, estraneo al generale sentimento di ostilità nei riguardi del condottiero cartaginese che tanto
odiava Roma: ne esalta prudentia e fortitudo. Nepote ritiene la biografia un genere poco impegnativo
e mira a riprodurre l’immagine di una vita. Quella dell’amico Attico è la biografia più ampia tra quelle
pervenuteci (vengono esaltate humanitas e prudentia). La Vita di Catone è la versione abbreviata di
una biografia autonoma, composta su suggerimento di Attico.

Il carattere dell’opera
Nelle biografie di Nepote si può rilevare una predilezione per quei personaggi che, come Annibale,
fondarono i propri successi sull’avvedutezza, e si può individuare come “filo conduttore” il richiamo
alla moderazione, a non fidarsi troppo della gloria individuale. Accanto a questi valori individuali,
l’accento è posto sulla libertas, nell’accezione aristocratica di sottomissione alla legge e all’autorità
costituita, e sulla civitas, come opposta al prevalere del singolo. Lo stile di Nepote è semplice, anche
monotono, senza particolari pretese artistiche; la sua prosa è lontana dalla raffinatezza delle opere

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ciceroniane e presenta forma arcaiche e colloquiali.

Opere perdute e frammentarie

I 3 libri dei Chronica, i 4 libri degli Exempla.

Sallustio

La vita
L’episodio dell’adulterio con la moglie di Milone gli stroncò la carriera politica, iniziata nel 55 a.C.
con la questura. Nel 47 Cesare lo incaricò di sedare i tumulti scoppiati in Campania tra le truppe; in
seguito venne mandato dallo stesso in Numidia, dove avrebbe dovuto rivestire la carica di governatore.
Fallì in entrambe le occasioni e quindi si ritirò definitivamente dalla vita politica. Terminò la sua vita
in una lussuosa dimora tra il Pincio e il Quirinale.

Sallustio e la concezione della storia


Per Sallustio non fu tanto importante la documentazione, quanto l’interpretazione degli eventi e la
riflessione che ne scaturisce: egli “rilegge”, in fatti, gli eventi passati secondo un sistema di valori
fondato sulla centralità della virtù. In questa prospettiva, rispetto alla forma annalistica, in cui il
resoconto segue l’ordinamento cronologico, la monografia è, infatti, maggiormente selettiva e
privilegia il racconto di quei fatti che servono ad illuminare valori e disvalori dei protagonisti e rendono
possibile un giudizio etico, storico- sociale e storico-letterario. Sallustio si propone di narrare
compiutamente, per monografie, le imprese del popolo romano secondo che… parevano meritevoli di
memoria. Il flusso del racconto è scandito da alcuni excursus che sagomano alcune sezioni narrative
interne. Una posizione “centrale” è occupata da due excursus di particolare rilievo: quella sulla
decadenza politica di Roma nel De coniuratione Catlinae, e quello sulla conflittualità tra fazioni nel
Bellum Iugurthinum. Sul Sallustio storico esercitò una grande influenza Tucidide, lo storico ateniese
del V secolo a.C. che aveva descritto nella Guerra del Peloponneso la parabola della patria dal suo
massimo splendore militare e politico alla sottomissione a Sparta. In Sallustio convivono l’indirizzo
“pragmatico”, l’impostazione etica e la tendenza alla drammatizzazione, propria di certa storiografia
ellenistica.

La Congiura di Catilina
Composta dopo la morte di Cesare, attorno al 42. Argomento dell’opera è la congiura di Catilina (63
a.C.), che aveva esposto a gravi rischi la solidità della compagine statale romana. Aristocratico
corrotto, dopo aver sperperato il patrimonio familiare e aver presentato per tre volte di seguito la
propria candidatura al consolato con un programma finalizzato a indebolire l’oligarchia senatoria,
ordisce un complotto eversivo per impadronirsi illegalmente del potere. Venuto a conoscenza dei piani
dei congiurati, il console Cicerone riesce a sventare il complotto. Catilina fugge in Etruria, dove il suo
esercito viene sconfitto dalle truppe regolari; i congiurati, rimasti a Roma, vengono arrestati,
condannati a morte e giustiziati senza il diritto di appellarsi all’assemblea del popolo.
Sallustio individua i segni della degenerazione in vizi morali come l’avaritia e la lux uria, che si
uniscono alla superbia; al presente degenerato viene contrapposto il passato dei boni mores. La svolta,
con l’inizio della crisi, va individuata – secondo Sallustio – nella fine del timore per Cartagine, unica
potenza in grado di contrastare Roma: dopo la definitiva sconfitta della potenza avversaria, infatti, alla
concordia tra i cittadini subentrò la brama di potere e di ricchezza. Quello di Catilina è un ritratto
paradossale, che racchiude in sé, l’uno accanto all’altro, aspetti positivi (famiglia nobile, il vigore fisico
e spirituale) e negativi (l’ingegno maligno e perverso). Catilina possiede anche quella duritia
(resistenza fisica) che si concretizza nella capacità di sopportare disagi come fame, freddo, veglie.
Questi aspetti, uniti a qualità diaboliche come la straordinaria capacità di simulare/dissimulare

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l’avidità, l’ardore delle passioni, colorano l’immagine di Catilina di tinte fosche, contribuendo a
enfatizzare la gravità del pericolo corso dallo stato.
L’azione di Catilina trovò un terreno ideale nella corruzione morale e politica che seguì il periodo della
dittatura sillana, momento di stravolgimento delle regole sociali. La monografia si chiude con Catilina
che si mostra nelle vesti del perfetto uomo d’armi: sta in prima fila e colpisce il nemico. Inoltre, si
propone come imperator e come miles. Altro indizio dell’eroismo di Catilina è la presenza del suo
cadavere tra quelli dei nemici.

La Guerra di Giugurta
Qui le vicende di politica estera si intrecciano costantemente con problematiche relative alle dinamiche
interne di potere dello stato romano. Argomento dell’opera è la guerra combattuta tra il 111 e il 105
contro Giugurta, pretendente al trono, poi re di Numidia. Dopo la narrazione delle vicende del regno
numidico da Massinissa a Giugurta, Sallustio descrive le lotte tra Aderbale e Giugurta, l’intervento dei
Romani in funzione di mediatori e la loro corruzione ad opera dello stesso Giugurta, il quale si
impadronisce del potere dopo aver ucciso Aderbale. Quando Roma dichiara guerra a Giugurta, Metello
(inviato in Africa) ottiene successi significativi, ma non riesce a piegarlo definitivamente.
Giugurta, tradito da Bocco, re di Mauritania, viene consegnato ai Romani; condotto a Roma, è
trascinato in catene davanti al carro trionfale di Mario. L’eroe del Bellum Iugurthinum è Mario, il capo
dei populares, che oppone orgogliosamente la propria condizione di homo novus alla superbia della
nobiltà. La virtù personale, le doti dell’ingenium appaiono qui come la condizione per l’ascesa sociale
e uniscono idealmente un principe diseredato come Giugurta a un homo novus come Mario. Dopo il
primo, breve ragguaglio sulla nascita, Sallustio passa a considerare l’adolescenza di Giugurta, il
momento delle scelte significative. Giugurta si dedica con passione alle discipline qualificanti nel
codice culturale della sua gente, i Numidi: cavalca, tira con l’arco, corre. Giugurta dimostra di
possedere le qualità di un capo: coagula attorno a sé il consenso generale, ma non si vanta o assume
superbia. Tra le sue doti si segnala il coraggio: affronta bestie feroci durante sessioni di caccia, che
rivelano anche una sua natura “barbara”. La monografia si chiude con l’entrata in scena del giovane
Silla, alla cui azione diplomatica si deve la cattura finale di Giugurta.

L’opera più matura: le Storie


Dei 5 libri dell’opera ci sono giunti circa 500 frammenti di trazione indiretta, oltre a 4 discorsi (Emilio
Lepido/Marco Filippo/Aurelio Cotta/Licinio Macro) e 2 lettere (Pompeo/ Mitridate). Dopo il proemio,
l’opera indugiava sulla situazione successiva alla dittatura di Silla e doveva contenere una retrospettiva
su una questa figura di “tiranno”; seguivano poi la guerra contro il ribelle Sertorio, contro Mitridate
re del Ponto, la rivolta servile di Spartaco in Italia e le diverse iniziative prese per porre rimedio alle
incursioni dei pirati.

Lingua e stile
La brevitas comporta il ricorso all’ellissi, l’uso di asindeti e di zeugmi, la varietas cioè il mutamento
di costrutto che evitare un fluire troppo uniforme del periodo, infine la sintassi spezzata. Questi aspetti
vengono comunemente indicati con il termine inconcinnitas (asimmetria). Lo storico è ricordato per
la sua estrema attenzione nella scelta di vocaboli precisi e adatti allo scopo, ma anche per il suo
linguaggio arcaizzante, plasmato sulla prosa degli storici latini del passato, in particolare quella di
Catone il Censore.

Cesare

La vita e la stesura dei Commentarii


Alto di statura, carnagione chiara, occhi nei e vivaci, volto pieno, calvo. Nacque a Roma tra il 101 e il
100 a.C., da una famiglia (gens Iulia) fatta risalire ad Anco Marzio e Venere e imparentato per via

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paterna con Caio Mario. Cesare mostrò presto di avere il necessario talento per affrontare la carriera
forense. Fu infatti in veste di avvocato che nel 77 a.C., egli esordì sulla scena politica accusando di
concussione Cornelio Dolabella, un fidato seguace di Silla. Abbiamo 14 orazioni, compresi i due elogi
funebri in onore della moglie Cornelia e della zia Giulia. A partire da questo momento la sua vita è
segnata dal raggiungimento di una serie di traguardi ambiziosi. 67: questura in Spagna; 65: edilità:
63: pontefice massimo; 62: pretore; 60: consolato + triumvirato con Pompeo e Crasso; 58: proconsole.
Ai 7 libri dei Commentari de bello Gallico Cesare affida il resoconto delle vicende militari del periodo
compreso tra il 58 e il 52. Nel 58 Cesare trionfa sugli Elvezi e su Ariovisto (libro I); nel 57 porta a
termine la campagna contro la popolazione della Gallia belgica (libro II); nel 56 hanno luogo gli
scontri marittimi contro i Veneti e le spedizioni in Armonica/Aquitania (libro III); il 55 è l’anno della
strage degli Usipetie e dei Tencteri, della prima campagna di Germania e della prima sterile
spedizione in Britannia (libro IV); nel 54 il secondo attacco alla Britannia ha esito favorevole (libro
V); nel 53 il luogotenente Labieno dirige le operazioni contro i Treviri e ha luogo la seconda, più
fortunata campagna di Germania (VI); nel 52 i Galli insorgono sotto la guida di
Vercingetorige, fino alla capitolazione definitiva alla roccaforte di Alesia (libro VII). Possediamo
anche un ottavo libro, riguardante gli anni 51-50, di dubbia paternità. L’epico passaggio del Rubicone
da parte di Cesare e del suo esercito segnò l’inizio di una cruenta e sanguinosa guerra civile. Fu subito
manifesta l’inferiorità strategica di Pompeo, sbaragliato a Farsalo in Tessaglia (48) e poco dopo ucciso
in Egitto dal re Tolomeo (fratello di Cleopatra). Attorno al 45 va collocata la redazione dei 3 libri di
Commentarii de bello civili, accurata narrazione delle vicende relative alla guerra civile fino alla morte
di Pompeo che, con sottile sagacia, mira a ritrarre Cesare come colui che ha sempre agito nel pieno
della legalità, mostrandolo nel ruolo di portatore di pace e uomo clemente nei confronti dei nemici
vinti. Il libro I riferisce della discesa di Italia nel 49, della fuga di Pompeo a Brindisi; nel libro II
troviamo la fine dell’assedio di Marsiglia e la sconfitta africana di Curione, luogotenente di Cesare;
nel libro II, Cesare attraversa l’Adriatico e combatte contro Pompeo in Epiro, fino alla vittoria di
Farsalo con la fuga e la morte del condottiero rivale (48). Dopo che Cesare ebbe ottenuto nel gennaio
del 44 la nomina di dittatore a vita, una congiura pose fine alla sua vita alle idi di Marzo.

Cesare generale e scrittore


Il lessico dei Commentarii è ridotto e univoco dal punto di vista semantico; la sintassi semplice,
dall’andamento monotono e talvolta tedioso, finisce per confermare l’impressione di un dettato che è
perspicuo, ma per nulla avvincente.

I commentarii come genere letterario


Cosa sono i commentarii? La compilazione di semplici appunti come promemoria, privi dell’ornato
retorico indispensabile a farne un’opera letteraria a pieno diritto. Cicerone li commentò così: “sono
schietti, pieni di grazia, senza alcun ornamento di frasi, come un corpo senza veste; nella storia non
vi è nulla di più gradevole che una brevità semplice e chiara”.

La ricezione dei Commentarii


Asinio Pollione insinuava che la redazione dei Commentarii fosse inficiata da un manto rispetto della
verità storica e dal credito accordato a informazioni non di prima mano; accusava l’autore di aver agito
con negligenza. Quale le reazioni dei contemporanei? Da una parte sappiamo che gli venivano
rimproverati i metodi sbrigativi utilizzati nei confronti di alleati o innocue popolazioni barbariche,
dall’altra i successi in Gallia suscitarono reazioni entusiastiche. Si trattava pur sempre di un’opera
propagandistica, il cui fine era quello di giustificare tanto la attuata espansione nelle Gallie quanto la
presa di posizione contro il senato e Pompeo, all’origine di una luttuosa guerra civile. Cesare ricorre
all’espediente già usato da Senofonte – di narrare non in prima persona, bensì in terza, creando così
l’illusione che il Cesare scrittore sia altra persona rispetto a Cesare imperator.

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Espressione e ideologia dei Commentarii
Cesare porta avanti la linea, difensiva e propagandistica al tempo stesso, della giustificazione
dell’intervento armato, al fine di evitare pericolosi sconfinamenti delle popolazioni galliche in territori
prossimi al dominio romano e al fine di diffondere presso popolazioni barbare e bellicose un
“messaggio di civiltà” fatto di cultura e diplomazia. In maniera molto abile, Cesare fa passare l’attacco
agli Elvezi come “legittima difesa” nei confronti della Provenza, provincia romana da molto tempo.
L’identikit dell’alleato degli Elvezi, l’’eduo Dumnorige, è minaccioso, una caratterizzazione calibrata
allo scopo di far intuire al lettore romano la pericolosità della situazione. Trattando invece degli
avvenimenti della guerra civile, Cesare indossa le vesti di chi combatte per liberare i cittadini romani
dall’oppressione e dallo sfruttamento di pochi individui eccessivamente potenti. Cesare è quanto
mai abile nella caratterizzazione dei personaggi: il lettore intuisce che tutti i suoi avversari hanno a
cuore solo i propri interessi e non quello dello stato. A Catone, fiero anticesariano che preferirà morire
suicida a Utica piuttosto che sottomettersi a Cesare, nell’occasione si attribuisce un atteggiamento
polemico motivato da una sconfitta elettorale, attribuita alle manovre di Cesare. L’accenno a Lentulo,
che si sarebbe vantato della sua aspirazione a divenire il nuovo Silla, è ugualmente funzionale a rendere
il personaggio odioso agli occhi del lettore romano, che non poteva aver dimenticato il sangue che il
dittatore aveva versato con le sue liste di proscrizione. Egli non ricorre ad accuse eclatanti: procede
a una descrizione apparentemente obiettiva ma al tempo stesso capace di provocare acute riflessioni
nel lettore. Il ricorso all’espediente retorico del
Cesare scrittore e del Cesare imperatore poteva consentirgli di animare il resoconto che rischiava di
essere scarno, asciutto, monotono. Grande efficacia possiede la manipolazione dell’ordine del
racconto, operata allo scopo di offrire una successione dei fatti più favorevole a esprimere le ragioni
di chi espone. Ma la lezione appresa alla scuola di retorica non si esaurisce qui. Egli sapeva bene
quale effetto letterario poteva trarre se avesse avuto a disposizione un personaggio odi spicco, da fare
agire come coprotagonista nel suo racconto storico: questo ruolo toccò, nel DBG, a Vercingetorige. La
sua presentazione si sviluppa ab externis rebus: alle tre apposizioni del soggetto corrispondono
requisiti davanti dal genus (figlio di Celtillo), dalla civitas o dalla patria (Arverno), e dalle divitiae
(giovanetto tra i più potenti). Non ci sono dubbi sul fatto che la caratterizzazione del capo gallico sia
quanto mai curata da Cesare- scrittore, perché la celebrazione del rivale getta ancora più luce su Cesare
imperator. Le mosse poste in atto da Vercingetorige eguagliano il suo statuto a quello di un imperator
romeno, o quantomento, la diligentia e la severitas che egli mostra sono peculiarità di stampo romano.
Dopo aver citato Vercingetorige per nome ben 42 volte, al termine del DBG Cesare lo presenta cnel
momento in cui, riconosciuta la sconfitta, pone virilmente il proprio destino nelle mani del vincitore.

Le opere perdute e il Corpus Caesarianum


Abbiamo scritti poetici, come il Laudes Herclusi e l’Oedipus; ci sono poi pamphlets politici, come
l’Anticato, opera in due libri in cui rispondeva polemicamente all’elogio di Catone l’Uticense espresso
da Cicerone nel suo Cato; un’opera grammaticale come il De Analogia, una sincera professione di
fede nei confronti della purezza della lingua e del rispetto delle sue norme.

Lingua e stile
Il dettato di Cesare si distingue per chiarezza e precisione, anche a discapito della brevità; è una lingua
“di cose”, fattuale, che non tende a effetti patetici, mentre rinuncia a immagini, metafore e
comparazioni. Il vocabolario di Cesare è limitato: per garantire precisione evita l’uso di termini
sinonimi, mentre utilizza con frequenza un po’ ripetitiva formule quali certior factus est e simili. La
crescente tensione narrativa viene sottolineata volentieri con il ricorso all’infinito storico.

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L’eta augustea

Virgilio

Gli anni della formazione


Di modeste origini: il padre era un figulus, un vasaio. La prima formazione scolastica ebbe luogo a
Cremona. Suo primo maestro sarebbe stato un certo Ballista, un bandito da strada. In seguito arrivò a
Roma, poco dopo la morte di Lucrezio. Qui ebbe modo di completare gli studi di retorica con Epidio,
che fu maestro anche di Ottaviano. A Napoli Virgilio frequentò il filosofo epicureo Sirone; si deve alla
sua influenza se Virgilio volle dare un orientamento didascalico alla sua poesia. Fu certamente Sirone
a suggerirgli la passione per i problemi scientifici e ad additargli la filosofia come risorsa di salvezza
rispetto ai problemi dell’esistenza, a differenza della vuota, astratta dialettica verso la quale
indirizzavano piuttosto gli studi di retorica.

La carriera poetica
Nel periodo successivo alla morte di Cesare, Virgilio si dedicò alla composizione delle Bucoliche (42-
39), poi delle Georgiche (37-30) e dell’Eneide (iniziata nel 29). Quest’ultima rimase incompiuta per
la sopravvenuta morte del poeta: un malore costrinse il poeta ad interrompere il viaggio in Grecia e a
tornare a Brindisi, dove morì 52enne poco dopo (19). Virgilio aveva già letto ad Augusto alcuni libri
dell’Eneide e l’imperatore incaricò Vario e Plozio di curarne la pubblicazione.

Le Bucoliche
Secondo le fonti antiche Virgilio si dedicò nel 42 alla raccolta di 10 Bucoliche, ovvero poesie di bovari,
altrimenti note come Ecloghe (scelta).
Ecloga I: 83 esametri. Si consuma il malinconico dialogo tra due pastori, Titiro e Melibeo:
quest’ultimo, rivolgendosi a Titiro tranquillamente sdraiato all’ombra di un ampio faggio e intento a
suonare la sua zampogna, lamenta la sua triste sorte, dal momento che ha perduto la sua terra e si
appresta a vivere la dolorosa espereienza dell’esule. Non è così per l’amico, il cui podere è stato salvato
grazie all’intervento di un benefattore, che egli onora al pari di un dio.
Ecloga IV: 63 esametri. È dedicata ad Asinio Pollione che, in qualità di console, fu artefice dell’accordo
di Brindisi tra Ottaviano ed Antonio, che fermava temporaneamente le ostilità (40). L’auspicio di un
fecondo periodo di pace suggerisce a Virgilio l’idea di annunciare l’avvento di una nuova età dell’oro,
segnato dalla nascita provvidenziale di un puer, di cui non si fa il nome (18-25 d.C.). Sono state
avanzate varie ipotesi: Asinio Gallio, figlio di Pollione, o Giulia, figlia di Ottaviano e Scribonia.
L’esordio dell’ecloga ha valore di programma poetico: in particolare l’invocazione alle Muse di Sicilia
suona come un richiamo alla poesia pastorale del siciliano Teocrito.
Ecloga V: 90 esametri. Due pastori, Mopso e Menalca, celebrano Dafni, pastore anch’egli mitico
fondatore della poesia bucolica. L’ispirazione qui è fortemente
teocritea, non solo per l’appartenenza al genere pastorale, ma anche perché Teocrito aveva cantato
l’infelice sorte del bellissimo Dafni, che, avendo disprezzato l’amore di Afrodite, fu da lei condannato
a una passione rovinosa. Menalca si cimenta nel compianto per la morte di Dafni, che culmina in un
carmen funerario. Mopso invece celebra l’apoteosi di Dafni, assunto in cielo e lì fatto oggetto di onori
divini.
Ecloga VI: 86 esametri. Anche l’esordio di questa è programmatico: Virgilio rinuncia formalmente
alla poesia epica, nonostante gli inviti in tal senso di Alfeno Varo
(governatore della Cisalpina dopo Asinio Pollione) e conferma la propria scelta a favore della poesia
bucolica, di stampo teocriteo. Protagonista dell’ecloga è Sileno, personaggio del corteo di Dioniso,
costretto dallo scherzo di due pastorelli a cantare la formazione del mondo ma anche miti d’amore e
di metamorfosi.
Ecloga X: 77 esametri. Ambientata in Arcadia, è dedicata al poeta Cornelio Gallo, disperato per la fine

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della sua relazione con Licoride, disposta a patire i disagi della vita militare pur di seguire il miles di
cui si è invaghita. Il paesaggio arcade, con la sua caratteristica vegetazione e i suoi abitanti divini, fa
da corona al lamento di Gallo.
È possibile che Viriglio si accingesse a queste sue due prime composizioni all’età di 28 anni, ma
allusioni a eventi contemporanei nelle Bucoliche fanno presumere che la stesura abbia richiesto circa
un triennio (42-39).

Il mondo delle Bucoliche


Virgilio non si limita a tradurre il modello teocriteo, ma lo fa rivivere trasfondendovi la sua italicità e
romanità, cioè facendo ricorso alle vicende politiche e sociali che interferivano con la sua vita, ai
personaggi della Roma impegnata culturalmente e politicamente. Il mondo di pastori e contadini era
comune denominatore tra l’esperienza teocritea e quella virgiliana, un ambiente fatto non solo di figure
e di alberi, ma anche di vita semplice, di linguaggio vivace e improvvisato, di scambi di battute argute
ed incalzanti. Accanto alle suggestioni talvolta convenzionali che derivano a Virgilio dal modello
teocriteo, accanto al riemergere di tratti familiari del paesaggio padano, prende corpo nelle Bucoliche
una dimensione ideale dello spazio: è l’Arcadia, un nome cui nella realtà corrisponde una regione
arretrata della Grecia, che Virgilio non vide mai di persona, ma che nella sua persona si trasfigura in
un’ideale plaga di serenità, abitata da popolazione di primitiva semplicità, dominata dal monte Liceo,
governata dalla benefica presenza del dio campestre Pan, l’inventore del flauto a 7 canne. Le sofferenze
d’amore di Gallo sullo sfondo del paesaggio arcade danno la misura dell’originalità di Virgilio: il
modello teocriteo, che pure garantiva una serie di spunti per introdurre la tematica amorosa
nell’incantato e rasserenante mondo bucolico, denuncia qui il suo più obiettivo superamento.

Le Bucoliche e i problemi della lingua


Alle prese con il mondo pastorale, Virgilio trovò a confrontarsi con le difficoltà legate all’integrazione
nella lingua poetica di una terminologia naturalistica non ancora assurta a dignità letteraria, e alla
necessità di adottare un impasto lessicale che riflettesse la rusticitas e simplicitas degli uomini dei
campi. Si trattava in questi casi di rispettare il tenore di un linguaggio parlato che, trapiantato nel rus,
mostrava tracce di conservatorismo nella fonetica e nella sintassi.

La composizione delle Georgiche


Dopo Cornelio Gallo, Alfeno Varo e Asinio Pollione, ora è Mecenate che, apprezzando il talento di
Virgilio, intende finalizzarlo a alla propaganda di una ideologia che assicuri una rinnovata adesione a
valori e ideali civili, come luogo di incontro e di armonia dopo i disastri delle guerre intestine.
Mecenate presenta Virgilio ad Ottaviano e organizza a Roma un circolo di intellettuali allo scopo di
fissare e diffondere un programma di restaurazione politica e morale, di cui si farà garante il futuro
princeps.
Libro I: proemio che si articola in propositio (programma dell’opera), dedicatio e invocatio (alle
divinità agresti). Il poeta può quindi dedicarsi allo sviluppo dell’argomento dell’opera: lavoro dei
campi, i tempi dell’agricoltura, le tecniche dell’aratura, la concimazione, l’irrigazione, la difesa degli
animali nocivi. Poi passa dai campi seminati alle costellazioni. Le stagioni si avvicendano, il sole e la
luna determinano il giorno e la notte, ma anche i diversi ritmi di lavorazione e non solo: dagli stessi
possiamo trarre presagi sui cataclismi che porteranno rovina ai campi e agli uomini (alle idi di Marzo
del 44 ci fu un’eclissi).
Libro II: protagonista della propositio e dell’invocatio è qui il dio della vite, Bacco, mentre la dedicatio
(a Mecenate) è presente più in là. Una prima sezione del libro è dedicata alla classificazione degli
alberi e alle tecniche per farli riprodurre, mentre la seconda è specificatamente destinata alla vite e
all’ulivo. In questo secondo libro il clima è più gioioso: Bacco apporta la sua festosa gaiezza
partecipando alle operazioni di vendemmia e pigiando personalmente l’uva nei tini. L’elogio
dell’Italia (vv 136-176) vibra di una passione patriottica sincera, così come sincera è la fede nel favore

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divino che protegge questa terra, concedendole fecondità e sicurezza, meraviglie e tesori. In seguito
celebra la vita del contadino. Virgilio conclude che grande è la fortuna di chi sceglie la vita dei campi.
Libro III: si parla dell’allevamento degli animali, in primo luogo quelli dotati di magna corpora (bovini
ed equini), in seguito quelli di taglia più piccola (pecore e
capre). Invocatio, propositio e dedicatio hanno qui spazio ridotto. Virgilio sottolinea degli animi il
gusto per la vita, specie quando è movimento, amore e passione, segnala l’amarezza e la nostalgia che
essi provano quando devono rinunciare alle gioie o cedere alla sconfitta, malattia o morte.
Libro IV: è caratterizzato dalla combinazione di materia didascalica ed elementi poetici di gusto
alessandrino, ovvero la leggenda dell’origine delle api e il racconto
mitico che ne scaturisce direttamente. Narra che le api siano nate dalla carcassa di un bue morto e che
ciò sia stato osservato dal mitico pastore Aristeo. Costui, dopo aver perduto il proprio alveare, si era
rivolto al dio marino Proteo, che gli rivelò la causa dell’ira delle ninfe: Aristeo era colpevole di aver
causato, senza volerlo, la morte della bella Euridice, caduta vittima del morso letale di un serpente
mentre lui la inseguiva, mosso dalla passione. Ovviamente il tutto viene correlato alla figura di Orfeo,
che con la dolcezza del suo canto poetico aveva ottenuto dagli dei infernali di far tornare Euridice, la
sua amata, dall’aldilà. Il seguito è noto: Orfeo non rispettò il divieto imposto dagli dei di voltarsi a
guardarla, sicchè Euridice dovette tornare per sempre nell’Aldilà e Orfeo fu fatto a pezzi dalle donne
dei Ciconi.
Le Georgiche e le ragioni di una scelta
Mecenate, col suo programma culturale, e Virgilio, con la sua vena poetica, concorsero a creare
un’immagine della campagna italica come terra ideale, dove la sana e tranquilla vita dei campi
costituiva un richiamo irresistibile per quanti aspirassero alla quiete. Questa Italia è una plaga invidi
abilissima, lontana dalla realtà di una terra sfiancata dalle guerre e costretta a dipendere da altre
regioni per i rifornimenti; il suo “eroe” è il piccolo proprietario terriero, alle prese con i lavori della
terra, soddisfatto di quanto le sue stesse mani riescono a procurargli, diffidente nei confronti dellla
manodopera servile.

Gli haud mollia iussa di Mecenate e le costrizioni della retorica


Servio considerò le Georgiche come un trattato didascalico e riconobbe in esse i tratti caratteristici del
genere. Mecenate è presente in tutti e quattro i libri, secondo una ben calcolata strategia di collocazione.
Nel libro III la figura di Mecenate assurge al doppio ruolo di suggeritore-committente di un’opera
didascalica così impegnativa, e insieme come ispiratore della imminente fatica che (libro III) che
vuole trattare dell’allevamento degli animali. Virgilio scrive: “continuiamo a percorrere i boschi delle
Driadi, secondo i tuoi comandi non leggeri (haud mollia iussa)”. La litote “non leggeri” alluderà al
“peso” dell’impresa letteraria che attende Virgilio e, per valutare correttamente la situazione, non si
dovrà dimenticare che il richiamo agli iussa non è isolato nelle sue opere.

I modelli e l’epoca di composizione delle Georgiche


Servio dice: Virgilio nelle sue opere ha seguito diversi poeti; Omero nell’ Eneide, Teocrito nelle
Bucoliche, Esiodo nelle Georgiche. Virgilio si propose di diffondere a Roma e in Italia il canto di
Esiodo, poeta di Ascra, autore delle Opere e giorni, libro che contiene i precetti con cui sono da
coltivare i campi e le stagioni in cui farlo. La composizione delle Georgiche coprì il periodo 38-30 a.C.

Dalle Georgiche all’Eneide


Virgilio aveva da tempo in mente di scrivere un poema epico che avesse come tema le vittoriose gesta
del princeps e che quest’ultimo dovesse appartenere alla casa Iulia, la cui leggendaria discendenza da
un’illustre stirpe troiana era da tempo divenuta motivo della propaganda politica. Virgilio poté così
affermare il legame della gens Iulia con Enea, figura che, a sua volta, poteva funzionare come polo
d’attrazione per “convogliare” nel racconto una serie di leggende correlate. La saga di Enea è diventata
l’argomento centrale del poema, mentre i riferimenti all’attualità storica si integrano nell’opera su un

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piano secondario, in forma di richiami occasionali: nella descrizione dello scudo di Enea, a partire
dalla descrizione dello scudo di Achille nel Canto 28 dell’Iliade, si colgono allusioni alla recente
battaglia di Azio (libro VIII). Virgilio torna ad esaltare la virtù nazionale romana e chiama Enea a farsi
portare di un’esemplare humanitas, unita a una moralità straordinariamente elevata. La transizione dal
poema didascalico a quello epico a volte può apparire perfino naturale e se da un lato introduce i germi
della novità, dall’altro mantiene chiari legami con l’impianto ideale delle Georgiche. Basti leggere il
testamento spirituale di Enea al figlio Ascanio. Il discorso è strutturato sullo schema degli elogia
funebri, secondo cui, in una prospettiva aristocratica, chi viene dopo è tenuto a ripetere e a superare
le gesta di chi lo ha preceduto. Ma accanto alla virtus, figura il labor quale tramite con l’ideologia delle
Georgiche. Il labor rappresenta la disponibilità al sacrificio e alla fatica, ma insieme l’aspirazione alla
quiete e alla pace che solo la vita agreste sa dare. L’Arcadia tanto vagheggiata dal poeta viene ora
trapiantata nel Lazio dell’Eneide.
L’originalità del racconto epico di Virgilio si rivela anche nella scelta di inserire una vicenda amorosa,
la passione infelice della cartaginese Didone per Enea, che viene narrata con tratti alessandrini e ha
valore eziologico, in quanto serve a spiegare l’origine della rivalità tra Roma e Cartagine.

Forma e contenuto dell’Eneide


Composto dal 28 al 19, il poema (9895 versi) non ebbe l’ultima rifinitura per l’improvvisa morte di
Virgilio. Virgilio, in una lettera ad Augusto, parla del “mio Enea”, facendo subito capire la sua
centralità nella materia trattata. L’eroe Enea non era ignoto a poeti e scrittori, e al loro pubblico:
nell’Eneide viene salvato dalla morte per volontà divina; nel V degli Inni di omero egli è indicato
come il figlio di Afrodite. Libro I Enea, con la flotta troiana decimata da una tempesta suscitata da
Giunone, approda alle coste africane.
Ospitato a Cartagine, da poco fondata da Didone, esule da Tiro, trova quasi tutti i compagni che
credeva morti. Per intervento di Venere, madre di Enea, la regina si innamora dell'eroe e gli chiede di
raccontare la fine di Troia. Libro II Enea narra la finta ritirata dei nemici, l'abbattimento delle mura
per introdurre l'enorme cavallo di legno nella città, la fuoriuscita nella notte dal suo ventre dei guerrieri
achei, la strage, la morte del re Priamo e l'incendo della città. Solo Enea, con il padre Anchise, il figlio
Ascanio e pochi compagni, si salva dal disastro e salpa in cerca di una nuova patria. Libro III I
fuggiaschi giungono in Tracia, da dove ripartono su consiglio di Polidoro, trasformato in arbusto. Dopo
aver consultato l'oracolo di Delo, sbarcano a Creta, ma sono costretti a riprendere il mare a causa di
una pestilenza. Sbarcano alle Strofadi, dove si scontrano con le Arpie, in Sicilia, nell'isola dei Ciclopi
e a Drepano, luogo in cui muore Anchise; infine la tempesta che li porta a Cartagine.Libro IV In
seguito a un accordo tra Giunone e Venere, Enea si unisce a Didone; ma Giove, invocato da Iarba
che aspira alla mano della regina, ordina al troiano di andarsene. Didone, dopo aver invano pregato
Enea di restare, si toglie la vita, mentre guarda le navi troiane allontanarsi. Libro V Gli esuli ritornano
a Drepano, dove tengono dei giochi in onore di Anchise. Giunone brucia loro le navi, ma una pioggia
mandata da Giove spegne l'incendio. Enea riparte, lasciando a terra i compagni stanchi di errare per
mare. Durante la navigazione Palinuro cade in acqua di notte e muore. Libro VI Sbarcato a Cuma,
Enea si reca dalla Sibilla che gli consiglia di scendere nell'oltretomba. Qui incontra le anime di
Deifobo, Didone, Palinuro e, nei Campi Elisi, di Anchise. Il padre gli mostra i futuri eroi romani, tra
cui Cesare e Augusto. In seguito riprende il mare alla volta di Gaeta. Libro VII Enea è ormai alla fine
del viaggio: giunto alle foci del Tevere, risale il fiume fino a Laurento, dove Latino, re del Lazio, lo
accoglie amichevolmente, gli concede di fondare una città e gli promette in sposa la figlia Lavinia.
Giunone, tramite la furia Aletto, fomenta contro i troiani Amata, la moglie di Latino, e il principe dei
rutuli Turno, promesso sposo di Lavinia. Scoppia la guerra. Libro VIII Su suggerimento del dio
Tiberino, Enea si reca a chiedere aiuto al re di Pallanteo, Evandro, che mette a sua disposizione dei
cavalieri, guidati da suo figlio Pallante; un altro sostegno gli viene dai popoli etruschi. Dalla madre
Venere poi riceve un'armatura forgiata da Vulcano, che sullo scudo racconta le future vicende di Roma.
Libro IX Comincia la battaglia: i troiani sono in difficoltà per l'assenza di Enea e decidono di cercarlo.

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Incaricati della missione sono i due giovani volontari Eurialo e Niso che vengono uccisi mentre
stanno facendo una strage nel campo nemico. Turno riesce a penetrare nel campo troiano, ma costretto
alla fuga, si salva gettandosi nel Tevere. Libro X Giove ordina
agli altri dei di non intervenire nella contesa. Intanto ritorna Enea, che risolleva le sorti della battaglia.
L'uccisione di Pallante, da parte di Turno, fa infuriare il troiano che, non riuscendo a trovare il principe
dei rutuli, uccide il suo più forte alleato, il tiranno Mesenzio. Libro XI Il momento della tregua per
seppellire i caduti dura poco. Turno manda all'attacco la cavalleria sotto il comando di Messalo e di
Camilla, regina dei volsci; ma la morte della fanciulla fa disunire i latini ed Enea riesce facilmente a
giungere con gran parte dell'esercito fino a Laurento. Libro XII Turno sfida Enea a duello; durante la
tregua la ninfa Diuturna, incitata da Giunone, fa riaccendere la battaglia, nella quale Enea è ferito e
guarito da Venere. Tornato nella mischia, egli assalta la città di Laurento: la regina Amata, disperata,
si toglie la vita. Accorre Turno, che era stato allontanato con un trucco, affronta Enea, ma è sconfitto
e ucciso.

Virgilio, Omero e il proemio dell’Eneide


Il debito più grande per Virgilio rimane quello nei confronti di Omero, sulla cui presenza
nell’architettura dell’Eneide già i commentatori antichi non avevano dubbi, indicando come
“odissiaca” la sezione comprendente i libri I-VI dell’Eneide (dove prevale il tema del viaggio
avventuroso e dell’amore) e come “iliadica” quella dei libri VII-XII (occupati dal racconto della
guerra). Per quanto riguarda l’incipit, merita di essere sottolineata la pregnanza del nesso arma
virumque, in cui possiamo cogliere una traccia dell’ideologia militare dei Romani: la menzione del vir
evoca le armi, e la presenza delle armi richiama immediatamente l’immagine di un vir (paradigma
ideale dell’eroe). Scegliendo poi di dire cano laddove Omero faceva appello alla Musa, Virgilio pone
in atto un’autentica rivoluzione culturale, in quanto contrappone il poeta alla Musa.

Virgilio epico e i suoi modelli


Virgilio attinse anche al lirico Pindaro, ai tragici Eschilo, Sofocle e Euripide, all’epico ellenistico
Apollonio Rodio. Il caso più noto riguarda l’infelice storia d’amore tra Didone ed Enea raccontata nel
libro IV, per la quale Virgilio si ispirò al libro III delle Argonautiche di Apollonio, trasferendo sulla
coppia Didone/Enea l’intensa passione della coppia Medea/Giasone.

Enea e il significato del viaggio


Enea è eroe romano “pio”, per la dolente sensibilità mostrata di fronte al dolore dei suoi, per la sua
devozione verso gli dei della patria, i Penati, per cui la cura filiale nei confronti del padre Anchise,
ma anche per la disponibilità ad assecondare la volontà del fato. E si distingue da Ulisse. Quest’ultimo
torna nella sua Itaca, e il racconto del nostos lascia trasparire la maturazione interiore, la sete di
conoscenza dell’uomo che, attraverso mille peripezie, torna al punto di partenza. Enea invece va verso
l’ignoto, ha perso la sua patria e procede verso una meta, forte solo della consapevolezza del disegno
provvidenziale di cui è strumento.

Lingua e stile dell’Eneide


C’è una patina arcaica; evidente è anche l’influsso di Ennio; abbondante è l’uso delle similitudini
(sottolinea passaggi ad alto tasso di pateticità e drammaticità) e assoluta è la padronanza dell’esametro
(calcolata successione nel verso di dattili e spondei).

Appendix Vergiliana
I carmi sono trentatré, di varia lunghezza e valore, e costituiscono più un prodotto di gusto
intellettuale che non di grandezza poetica.
Aetna (Etna): Composto da 646 versi, d'argomento scientifico. Concerne i fenomeni vulcanici e
segue lo schema di poesia didascalica, che era di moda nell'alto impero. eticamente corretto e

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giusto, animato da pietas e giustizia. La legge morale interna potrà così vincere anche le difficoltà
più dure non solo della natura, ma della vita stessa.
Catalepton (Alla spicciolata): un "contenitore" di piccoli testi. Il titolo è attestato già nella poesia
greca di età alessandrina. I quindici componimenti della raccolta sono di origine diversa, oltre che
di vario tema e metro, alcuni sono uniti solo dal fatto che si presentano esplicitamente come opere
virgiliane. Si tratta di testi di modesto valore poetico.
Ciris (Airone): Composto da 540 versi, è un poema mitologico che narra di una storia d'amore. Il
Re di Megara, Niso, ha ricevuto un dono dagli dei: la sua città non sarebbe stata presa fino a che
lui avrebbe portato in testa un capello d'oro, del quale nessuno, con l'eccezione della figlia Scilla,
conosceva l'esistenza. Minosse attacca la città. Scilla, dall'alto delle mura, s'innamora di lui.
Riesce ad incontrarlo, e in un momento d'amore gli dice il segreto del padre. Minosse le ordina di
strappare il capello al padre. Nottetempo, lei riesce nel suo compito e Minosse conquista la città. Il
padre capisce di essere stato tradito dalla figlia, la quale era corsa incontro a Minosse. Tuttavia,
l'uomo la ripudia poiché non si fidava di una persona capace di tradire il proprio padre e la propria
città. Niso vorrebbe uccidere Scilla ma lei viene trasformata in un airone bianco dagli dei, mentre
il padre diviene un'aquila nera.
Copa (Ostessa): Breve idillio di ispirazione campestre, 38 versi in distici. Descrive un'osteria sulla
strada, dove il viandante si ferma a ristorarsi, allietato dalla presenza di una giovane ostessa.
Culex (Zanzara): è un epillio, concepito come una parodia, dell'epica più seria. Composto da 414
versi, è prettamente alessandrino. Vi viene trattata la concezione dell'oltretomba e dell'immortalità,
del bene e del male. All'inizio troviamo un pastore addormentato all'ombra di un albero, che sta
per essere ucciso da un serpente, proprio in quel momento una zanzara lo sveglia con la sua
puntura. Il pastore si salva, ma la zanzara da lui schiacciata, gli compare in sogno. Gli descrive le
sue pene di creatura insepolta, destinata a vagare nelle tenebre. Il pastore ne viene impietosito e le
dona una onorata sepoltura.
Dirae (Maledizioni): Le Dirae o "imprecazioni" sono poesia "di invettiva", sul genere dell'Ibis
ovidiana. Composta da 183 versi, questa tenue operetta in esametri sembra costituire una
variazione sul tema delle confische dei campi che era popolare come soggetto letterario, a causa
delle Bucoliche virgiliane. Alle Dirae i manoscritti fanno seguire un lamento d'amore pastorale,
dedicato a una donna di nome Lydia, che è nominata anche nelle Dirae. I due componimenti sono
accostabili per il loro sfondo bucolico. I due carmi composti non oltre l'età augustea, sono una
prima testimonianza del filone bucolico post-virgiliano più tardi ripreso ai tempi di Nerone.
Le Elegiae in Maecenatem: sono un testo di notevole interesse storico-culturale, poiché rievocano
la morte e la personalità del più influente consigliere politico e letterario di Augusto, Gaio Cilnio
Mecenate. Divise in due parti: 144 versi la prima, 34 versi la seconda. Scritte dopo la morte del
grande protettore di poeti. Nella prima viene difeso Mecenate dalle accuse rivoltegli di essere un
manifesto epicureo, che indulgeva al vivere comodo e fastoso. Nella seconda Mecenate, sul punto
di morire, riafferma la sua devozione alla casa regnante d'Augusto. Poiché Mecenate è morto dopo
Virgilio, quest'opera è sicuramente non virgiliana.
Moretum (Focaccia): Breve idillio di ispirazione campestre, 122 versi in esametri. Descrive la
sveglia di un contadino all'alba. Appena alzato si prepara, aiutato dalla schiava, una colazione
rustica a base di aglio, che mangia con appetito. Terminato il pasto, si reca al lavoro.
Priapea (Canti a Priapo): Tre componimenti rusticani, composti in onore del dio Priapo, custode
degli orti, che viene presentato in atteggiamenti osceni.

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Orazio

La vita
Nacque nel dicembre del 65 a.C. a Venosa. Il padre, esattore delle aste pubbliche e proprietario di un
piccolo podere nel paese natio, curò con vivo affetto, buon senso e onestù sincera l’educazione del
figlio. Si trasferì a Roma, affinchè il giovane Orazio avesse modo di frequentare scuole migliori. Qui
ebbe come maestro il grammaticus Orbillo. Compì il percorso educativo tipico dei rampolli romani
e si recò ad Atene, rinomata per gli studi filosofici e retorici. Qui lo raggiunse la notizia della morte di
Cesare. Orazio abbracciò la causa repubblicana e seguì l’esercito di Bruto in Asia. I suoi sogni
politici crollarono con la disfatta a Filippi: Cassio e Bruto si uccisero, Orazio fu schiavizzato da
Antonio.
Ottenne l’amnistia e tornò a Roma, dove perse tutti gli averi ma riuscì ad entrare nell’ufficio dell’erario
come scriba questorius. L’incontro con mecenate provocò nel 37 una svolta decisiva nella vita e
carriera politica di Orazio. Quando la sua fama come poeta si era affermata, Augusto gli conferì
l’incarico ufficiale di comporre un’ode corale per la celebrazione dei Ludi Saeculares del 17 a.C.

Le Satire
Dei 2 libri, il primo (10 componimenti) fu pubblicato intorno al 35 ed è dedicato a Mecenate, mentre
il secondo (8 componimenti) prese corpo in contemporanea con la stesura degli epòdi. Il modello più
vicino è naturalmente Lucilio: vede in lui il padre della satira e lo considera poeta comis et urbanus
(gradevole e raffinato). Chiusa definitivamente nella forma esametrica, la satira oraziana, scaturita
dall’acuta osservazione della vita, diventa un’arma per colpire i vizi e dare luogo a riflessioni sui difetti
della gente: tra massime di carattere generale, brevi dialoghi, aneddoti di vita quotidiana, prende corpo
il tema centrale di ogni satira, in cui trovano spazio le problematiche morali della filosofia popolare.

La filosofia popolare greca e il contenuto delle Satire


Orazio ripropone nelle Satire luoghi comuni e singoli motivi propri di quel genere letterario di
“predicazione” filosofica che la tradizione faceva risalire al greco Bione di Boristene, sfruttandone le
vivaci movenze espressive, semplicità e immediatezza. I temi diatribici della metriòtes e della
autarkeia si traduranno, nell’animo oraziano, nella ricerca di un modus capace di definire una realtà
alternativa, priva degli inconvenienti causati dalla scontentezza, dall’invidia e dall’insaziabilità.
Nella prima Satira del libro I Orazio fa rivivere il repertorio convenzionale della diatriba per
contrapporre all’infinito l’affaccendarsi degli uomini scontenti o avidi la moderazione di chi vive
secondo natura. Nessuno potrà mai dirsi soddisfatto della propria condizione e dunque continuerà a
invidiare la sorte altrui e ad affannarsi per superarla, credendo di poter raggiungere la felicità. La
Satira I, 2 contrappone l’adulterio alla frequentazione delle prostitute e conclude a favore di
quest’ultima, in quanto meno rischiosa per chi la pratica. In I, 3 Orazio usa indulgenza nel valutare i
piccoli difetti degli amici. In I, 4 si rivolge a chi gli rimprovera la scelta della poesia satirica. In I, 5 si
racconta un viaggio a Brindisi, cui partecipò anche Mecenate. In I, 6 esprime riconoscenza a Mecenate
per aver accolto nel suo entourage il poeta, figlio di un liberto. In I, 7 c’è un episodio di discordia tra
due personaggi a giudizio presso Bruto. In I, 8 la statua lignea del dio Priapo raccont come ha messo
in fuga le streghe intente a compiere alcuni malefici. La Satira I, 10 difende il giudizio già espresso
su Lucilio nella 4 e la scelta di un pubblico selezionato.
La prima Satira del libro II si presenta come dialogo tra il poeta e il giurista Trebazio; in II, 2 il
contadino Ofello loda un’alimentazione semplice e modesta; in III, 3
vede Damasippo farsi portavoce delle idee del filosofo Stertinio, che lo ha avviato sulla via dello
stoicismo; in II, 4 Cazio impartisce a Orazio una serie di solenni precetti gastronomici, mentre è
l’indovino Tiresia (5) che rivela a Ulisse le arti del cacciatore d’eredità; la più nota è senz’altro la
Satira II, 6, in cui Orazio elogia la vita di campagna appoggiandosi alla testimonianza della favola del
topo di città e del topo di campagna. Lo schiavo Davo (Satira II, 7) rimprovera a Orazio la sua

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incoerenza di vita:a Roma desidera la vita in campagna, in campagna la città; in II, 8 Fundanio descrive
con dovizia di dettagli il banchetto di cui è stato ospite in casa di Nasidieno, un uomo ricco ma poco
fine.

I Giambi
Una ventina ‘d’anni dopo la composizione dei Giambi, il poeta potrà affermare orgogliosamente
d’avere riprodotto a Roma la forma e lo spirito mordace e virulento della poesia giambica greca, il cui
esponente più famoso era Archiloco. Diciassette sono in tutto quelli che il poeta indicherà appunto
come iambi, e che i grammatici chiamarono epòdi. Il greco Ipponatte sarà un’altra grande fonte di
ispirazione per il nostro. La struttura metrica degli Epòdi effettivamente si ricollega alla tradizione
giambica: I-X alternano trimetri e dimetri giambici; XI trimetri giambici ed elegiambi; XII-XVI
sono distici (esametro + verso giambico); XVII presenta trimetri giambici in serie. L’aggressività e la
virulenza dei modelli greci non solo sono ridimensionate, bensì anche filtrate dalla personale
sensibilità oraziana, e condizionate da un contesto sociale che, rispetto alla Grecia arcaica, riduce gli
spazi e la libertà dell’attacco personale. Si scelga di chiamarlo verismo, espressionismo o realismo,
Orazio mostra un gusto spiccato per la rappresentazione vivida e schietta, da non ridurre a semplice
“posa” letteraria, bensì da leggere come originale modo di sentire e di osservare il mondo circostante.

La composizione delle Odi


L’intento del poeta è di entrare a far parte dei lyrici vates è espresso nel componimento proemiale che
apre il primo dei 3 libri di Odi, pubblicati nel 23 a.C. A questi si aggiunge un quarto libro (15 odi),
pubblicato intorno al 13 a.C., quando la sua fama poetica era stata oramai riconosciuta e ufficialmente
sancita dopo il Carmen Seaculare. Orazio si mostra orgogliosamente certo dell’immortalità della sua
opera lirica, al punto che nel libro III prende congedo dal lettore facendo intendere di aver portato a
compimento la propria esperienza di poeta nella piena realizzazione dell’obiettivo che si era posto.
Per le Odi dichiarò di essersi ispirato ai canti di Saffo e Alceo, ma non fu insensibile a quanto
potevano offrirgli altri poeti lirici greci, quali Anacreonte e Simonide e, in particolare nel libro IV,
Pindaro. Per quanto riguarda le strutture metriche, sono privilegiate le strofe saffiche minori e quelle
alcaiche, pur in una generale varietà ritmica in cui rientrano anche strofe saffica maggiore, sistemi
archilochei, asclepiadei, uno ipponatteo, uno ionico.

Orazio poeta dell’amore e dell’amicizia


Spesso è l’amore che prende il poeta e si impone nel suo canto. Dalle prime avventure giovanili,
durante il soggiorno ateniese, alle successive esperienze della maturità, egli ha sperimentato la
precarietà delle gioie dell’amore e guarda con ironico sorriso e distacco a Venere. Di donne infedeli e
capricciose, crudeli e incostanti, il poeta celebra la semplicità, una caratteristica che ben si accorda
con il sentimento tutto oraziano della fugacità della vita. A 50 anni, distaccato e ironico verso la vita,
ma non per questo immune dal rimpianto e dalla tristezza melanconica, determinato a rinunciare
all’amore, supplica Venere di risparmiarlo. Ma Venus non desiste, ed egli sarà preso da una nuova
straziante passione, non corrisposta, per Ligurino. Le passioni assalgono il poeta, talora lo travolgono,
ed egli le vive in piena coscienza della loro caducità, a causa dell’esistenza che fugge capricciosa,
o del destino che rapisce gli anni più belli e tronca le gioie umane, vanificandole nella lugubre morte.
Non si può considerare Orazio alla stregua di un filosofo, ma certo egli vanta una preparazione
filosofica e si rivela spesso debitore di dottrine greche, da quella epicurea a quella stoica. Orazio finisce
per sorridere di sé o per avvinghiarsi al presente con l’inquietudine di chi ama la vita, con l’ansia di
chi sa quanto è fugace la gioia, con l’insicurezza di chi non ha certezze. Tanto più stringente si fa
allora l’invito al carpe diem. Orazio esorta ad approfittare dei piaceri della vita, dalle gioie della
giovinezza e dell’amore, a quelle del convito e del vino, magari allietate dalla presenza di un amico.
Tra i valori autentici Orazio riconosce l’amicizia, sentimento schietto, profondo e duraturo, fonte di
gioia e serenità, che scaturisce dalla comunanza intellettuale e dalla comunione spirituale di un élite

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di uomini legati da quella fiducia reciproca, sicurezza, lealtà e sollecitudine. All’apprezzamento per la
vita sobria della campagna si accompagna tuttavia in Orazio un’autentica sensibilità per la natura. La
terra italica, l’Ofanto, i boschi, gli armenti, i profumi della primavera colorata, il cupo inverno, sono i
personaggi del paesaggio oraziano. Orazio riflette sulla circolarità delle stagioni, sullo scorrere del
tempo, sulla necessità di ancorarsi ai valori della semplicità di vita.

Orazio poeta ufficiale: il Carme secolare


Il Carmen saeculare è una preghiera distesa e solenne, è un’invocazione alla tutela divina, perché Roma
risplenda gloriosa e salda, nella pace nella prosperità, in serenità ed onestà di costumi, grazie al
consensus degli dei e alla benefica azione del pius Augusto. Nel suo ruolo solenne di cantore ufficiale,
il poeta è ormai consacrato vates e può intercedere presso gli dei. Il Carmen si rivolge agli dei, ai quali
chiede la pax in vista di un rinnovamento morale che ricalca il programma augusteo di restaurazione
degli antichi valori. Si affaccia una nuova epoca felice, per merito di quell’Augusto le cui lodi si fanno
sempre più frequenti nel IV libro delle Odi. Il deus Augusto ha il grande merito di aver promosso la
pace e di attuare una politica che guarda alla tradizione avita per il ripristino dell’equilibrio e del
benessere dello Stato. A Orazio spetta come poeta di eternare tali glorie, perché il silenzio non
condanni all’oblio le gesta di uomini dopo la morte.

Le Epistole
Orazio, non più giovane, aveva conservato intatto il suo estro di poeta, che lo portò a pubblicare,
intorno al 20 a.C., il primo dei due libri delle Epistole (20 componimenti), seguito verso il 13 dal
secondo (2 componimenti ad Augusto e a Floro). Le 20 Epistole esametriche del Libro I, in cui Orazio
si rivolge a molteplici destinatari, ci restituiscono le confessioni del poeta, le intime convinzioni, le
esperienze di vita, le riflessioni sull’uomo, un’analisi introspettiva che rivela l’animo di una personalità
inquieta, ripiegata in sé. Insegnamenti di morale, consigli, richieste, risposte, il tutto raccolto in un
discorso poetico spesso venato di ironia, perlopiù garbato e raccolto, non aggressivo, come è proprio
della conversazione pacata e confidenziale tra amici. Vir bonus e sapiens è per lui chi pratica la
rettitudine senza ipocrisia ed evita il male non in considerazione del giudizio della gente, delle pene
da scontare, o delle calunnie che fanno paura solo a chi nasconde la colpa, ma per amore della virtù.
Un’ansia mai sopita di serenità interiore spinge Orazio verso quella saggezza ceh potrebbe condurre
alla felicità e che comunque non può essere confusa con un moralismo totalizzante. Soltanto il rispetto
della misura potrà impedirci tanto di cadere in passioni smodate, quanto di perderci in astratti rigorismi,
indifferenti rispetto alla natura del singolo individuo e per questo manchevoli. Uno stato di torpore ed
ansia spinge l’uomo allo sconforto, alla ricerca dell’aequus animus virtus, della condizione del sapiens.
Tutta interiore è la conquista della serenità, del modus distintivo di chi gode della sua condizione:
non le ricchezze possono garantire la pace, ma la semplicità di vita. In campagna, immerso nella
natura, Orazio trova dunque sollievo
dalle sue angosce esistenziali. Ma egli ama anche il convinto, spazio chiuso all’ambiente esterno. Nel
convito molteplici fattori (tempo/luogo/leggi simposiache) hanno come effetto di unire i partecipanti
in un legame che è ben più forte di quello che può risultare dal semplice assumere cibi e bevande in
comune. Il convito frugale dell’Epistola I, 5 fa propria l’istanza di riduzione del lusso e di sobrietà che
ispira la riforma etica di Augusto e nel contempo esemplifica nel concreto i valori del satis e del modus.
Le problematiche letterarie si fanno più frequenti nel libro II, che si apre con un’Epistola indirizzata
ad Augusto. Il princeps, si era lamentato col poeta di non essere stato menzionato. La seconda Epistola
è indirizzata invece a Floro, letterato amico di Orazio che aveva seguito il futuro imperatore Tiberio
nella spedizione di Armenia.

L’Arte Poetica
Alle Epistole del libro II ne fu successivamente aggiunta una terza che Orazio indirizzò ai Pisoni,
indicata con il nome di Ars Poetica. Secondo il commentatore Porfirione, Orazio qui raccolse i precetti

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di Neottolemo di Paro sull’arte poetica, i più rilevanti. Del grammatico greco Neottolemo di Paro
possediamo solo misere testimonianze. Orazio si inserisce così nel solco della riflessione sui problemi
di poetica impostata da Aristotele e perseguita in età ellenistica, ma non rinuncia a un’autonomia critica
che gli dà il modo di guardare alla precettistica preesistente attraverso il filtro delle proprie convinzioni
e orientamenti di giudizio. La mancanza di arte è causa di difetti del poeta: la brevità diventa oscurità,
la semplicità piattezza, la sublimità enfasi, la ricerca di varietà distrugge il carattere unitario del poema.
Al poeta sarà lecito impiegare parole nuove e fare calchi dal greco, come era concesso agli antichi, che
molto arricchirono la lingua latina: il bisogno è arbitro della lingua, sua unica norma. L’interesse si
sposta poi sul teatro. La caratterizzazione del personaggio dovrà essere coerente con il suo status e la
sua disposizione d’animo: in caso contrario, la gente riderà. Non vanno deluse le aspettative del
pubblico: Achille dev’essere inesorabile, Medea spietata, Oreste afflitto. Bisogna sapere che i Greci
sono particolarmente dotati di ingenium e capaci di esprimersi con proprietà, mentre i Romani hanno
una mentalità pratica. L’arte non è fine a se stessa: il poeta deve anche insegnare qualcosa. Questi
insegnamenti devono essere brevi e facili da comprendere. In ogni caso la verosimiglianza, l’aderenza
alla vita contribuisce molto alla credibilità dell’opera. Il buon poeta dovrà unire alle doti naturali
(ingenium) la preparazione tecnica e cultura (ars).

Lingua e stile
Orazio è vario nelle figure e felice novatore di termini. Ha a sua disposizione un ricco equipaggiamento
retorico: la sua poesia è vivacizzata ora dal discorso diretto, ora dal ricorso all’interrogazione retorica;
possiamo aggiungere il procedimento della comparazione, l’antitesi, l’ossimoro e la ripresa a breve
distanza di termini meritevoli di particolare evidenza. Mostra poi una grande sensibilità verso la
metonimia. I grecismi lessicali e sintattici possono servire a rendere l’atmosfera greca delle Odi. Forme
arcaiche appaiono prevalentemente nelle Satire. Il poeta è estremamente sensibile al problema di
adeguare il tono del dettato a seconda del genere letterario praticato dalle circostanze. Il lirismo solenne
delle Odi è lontano dall’invettiva di matrice giambica degli Epodi; le une e gli altri si distinguono
dalla poesia delle Satire e delle Epistole. Un denominatore comune dell’esperienza poetica di Orazio
si può forse ritrovare in quel tono medio che gli consente di esprimere la propria vita e propri pensieri
in uno stile che, come evita il sublime, così evita volgarità e sciatteria.

L’elegia romana

Origini e modelli dell’elegia romana


Callimaco e Fileta di Cos sono riconosciuti dai romani come ideali precursori. Ma l’elegia affonda le
sue radici ben prima dell’età ellenistica: già a partire dal VII secolo a.C. troviamo componimenti in
distici elegiaci (esametro + pentametro), il cui nome, elegos, è probabilmente da ricollegare al termine
frigio per il “flauto”, che accompagnava canti di lutto e di lamento. La complessità e la varietà di questa
produzione poetica non basta comunque a spiegare origine e carattere marcatamente soggettivi
dell’elegia latina, prevalentemente incentrata su temi amorosi. Per quanto abbia un carattere
fondamentalmente amoroso, l’elegia romana non si esaurisce nella trattazione di tematiche erotiche: il
poeta elegiaco non sdegna di rileggere la tradizione della poesia bucolica, mitologica e della
ricostruzione poetica delle origini di miti, usi culturali e rituali, istituzioni civili, a conferma del
carattere raffinato di questa produzione poetica.

La rivoluzione elegiaca
I poeti elegiaci riformulano il mondo, definendo nuovi valori, codici comunicativi, schemi
comportamentali di cui si dichiara la diversità e l’autosufficienza: l’elegiaco, infatti, contrappone al
suo inverso privato (dominato dalla figura dell’amata, domina), l’universo degli altri, organizzato
intorno ai valori codificati dal mos maiorum, ossia l’impegno politico e la guerra, verso i quali egli
proclama il suo rifiuto. Al centro di questo universo c’è appunto l’amante- poeta, vittima dell’amore

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per una donna spesso volubile e capricciosa, fonte di gioia e di sofferenza; un amore destinato a soffrire
di conflittualità e delusioni, rinunce ed esclusioni in virtù di una scelta, esistenziale e poetica insieme,
che conduce l’innamorato a una vita dissipata, in cui l’amore è vissuto come schiavitù dolorosa. La
poesia degli elegiaci è scandita nei suoi contenuti dai ritmi della seduzione e dell’amore: troviamo il
corteggiamento, il lamento del poeta sulla porta chiusa dell’amata, la gioia inebriante delle ore felici,
le gelosie, le liti, le scaramucce, i tradimenti, la rottura.

Cornelio Gallo

La poesia
Gallo soffre per una donna bella e infedele, Licoride, pseudonimo dietro il quale si cela la famosa
mima Citeride, che fu amante di personaggi di spicco della vita politica alla fine della repubblica. A
lei dedicò una raccolta di elegie in 4 libri. È certo che questa fosse poesia erudita e raffinata, di stampo
“calcidico” con chiara allusione allo stile di Euforione di Calcide.

Tibullo

Tibullo e il “circolo” di Messalla


Al pari di Mecenate, anche Messalla accordò protezione e sostegno a letterati come Tibullo, Sulpicia,
Ligdamo e l’allora esordiente Ovidio, ricevendone in cambio gratitudine e stima. Mecenate era un
esponente del ceto equestre che doveva il suo prestigio sociale e il suo potere ad Augusto; Messalla
proveniva dall’oligarchia senatoria schierata con i cesaricidi fino alla battaglia di Filippi.

Il Corpus Tibullianum
Raccolta eterogenea di elegie in 3 libri. In realtà soltanto i primi due libri (rispettivamente di 10 e 6
elegie) sono riconosciuti come tibulliani; il terzo raccoglie componimenti di diversi poeti del circolo
di Messalla. Nelle elegie del libro I è l’amata Delia a occupare i sentimenti e le attenzioni del poeta.
Secondo Apuleio, Delia sarebbe il calco greco di Plania. Nella scelta del nome fittizio possiamo
osservare una continuità rispetto a Catullo: Delia, come Lesbia, evoca un toponimo greco. La scelta di
Delia può essere stata suggerita dal fatto che nell’isola di Delo era nato Apollo, dio della poesia.
Accanto alle cinque elegie (su dieci) rivolte a Delia, Tibullo ne dedica tre alla passione per il giovane
Marato; è questo l’unico esempio di amore omosex nell’elegia latina, ma con il significativo
precedente del Giovenzio catulliano. Più composito il libro II, in cui tre componimenti (su sei) sono
dedicati a Nemesi, con ogni verisimiglianza una cortigiana che sostituì Delia nel cuore e nella poesia
di Tibullo. Le elegie 1-6 del libro III sono versi d’amore composti dal poeta Ligdamo per la sua donna
di nome Neera, che ricalcano luoghi comuni e modalità espressive della tradizione della poesia
d’amore. Nel Panegirico di Messalla si celebrano, in 211 esametri anonimi, le doti oratorie e militari
di questo illustre personaggio pubblico. Le ultime due elegie della raccolta vengono perlopiù
attribuite allo stesso Tibullo, che ripropone il tema del foedus amoroso e, rifiutando di prestare fede
alle insinuazioni circa il tradimento della sua donna, si dichiara rassegnato al servitium amoris. Chi è
Ligdamo? Molti dicono uno schiavo, molti altri Tibullo, molti altri Ovidio.

La scelta di vita di Tibullo


Tibullo proclama il rifiuto degli affanni causati dalla ricchezza e l’adesione all’ideale della autarkeia,
intesa come limitazione dei bisogni, sia spirituali che materiali. Tuttavia, in Tibullo il disagio
esistenziale appare così acuto che neppure il rifugio, sperato e attuato, nella piccola proprietà di
campagna basta a placarlo. L’evasione lo porta verso un passato lontano e irrevocabile, l’età in cui
non c’erano guerre perché non c’era brama di guadagno. La sua religiosità risulta permeata di spirito
prettamente romano, nel richiamo alle divinità agricole (Cerere, Priapo) ma soprattutto ai Lari.

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La vicenda personale di Tibullo
Tuttavia l’esperienza d’amore porta con sé delusione e sofferenza: il poeta, che si era illuso di poter
sopportare la fine della relazione con Delia, a un certo punto si trova a fare i conti con una profonda
sofferenza. Tibullo sognava di poter vivere con Delia fino alla morte, ma il momento della separazione
giunge molto prima. In principio traspare la risolutezza del poeta a troncare la relazione: con Delia si
era mostrato asper, e ne faceva parola agli altri, vantando la capacità di resistere. In breve però, il vanto
è soppiantato dalla consapevolezza che lo statuto di vir fortis non ha più ragione di appartenergli, e
l’apparente inamovibilità lascia il posto alla similitudine della trottola, che ruota vorticosamente e non
ha più una stabile posizione. L’amante deluso può allora prendere coscienza delle vane costruzioni
mentali del passato, allorchè, folle d’amore aveva coltivato il sogno impossibile di una vita felice con
la sua puella. Superata l’amarezza, Tibullo trova la forza di voltare pagina per rivolgere le proprie cure
di amante ad un’altra puella, Nemesi, il cui nome greco evoca appunta l’idea di vendetta, ma anche lei
si rivelerà un vero e proprio tormento, per la sua incapacità di resistere al fascino del denaro e del
lusso. Il poeta deve dolorosamente rinunciare anche a lei: lui è più per l’amore e la poesia, che per la
lussuria. Il discidium segna anche la fine della relazione con il puer Marato. L’amore del puer si è
rivelato falso perché posto in vendita come un oggetto. Lo scelus di cui Marato si rende colpevole è la
violazione dei foedera sanciti nel nome della divinità, ma qui si affaccia anche la rassegnata
consapevolezza che spergiuro e falsità appartengano irrimediabilmente al rapporto d’amore.

La poetica
Nell’opera di Tibullo si nota la quasi totale assenza di spunti di riflessione e polemica letteraria. Tibullo
non ricercò formule più o meno elaborate per significare la propria adesione alla poesia elegiaca e la
contestuale rinuncia a forme di poesie diverse, che vengono lasciate ad altri (recusatio). La recusatio
riflette un’unità sostanziale tra scelta poetica e scelta di vita; dovremmo pensare che la mancata
affermazione della scelta elegiaca corrisponda alla volontà di Tibullo di non prendere parte attiva a
quel processo di maturazione della coscienza di quanti con quella scelta avevano voluto manifestare
apertamente la loro ostilità a una tradizione di pensiero e di letteratura. La rinuncia alla poesia epica
ed epico-didascalica si appoggia sull’idea di fondo che la poesia ha come scopo primario la conquista
del favore della donna. Accanto al valore estetico, i carmina possiedono un valore strumentale come
mezzo di corteggiamento, che determina allora la scelta obbligata della musa leggera, di una poesia
che possa fungere da specchio della passione, di cui il poeta-amante è, insieme, vittima e protagonista.

Properzio

La vita
A Roma conobbe Cinzia, la donna a cui avrebbe dedicato per intero la sua vita e la sua opera poetica:
la prima raccolta di elegie risale al 28 a.C:. Secondo Apuleio, Cynthia sarebbe uno pseudonimo per
Hostia. La pubblicazione del libro I delle Elegie (22 componimenti) gli procurò un immediato successo
e gli aprì le porte del circolo di Mecenate.

Il libro I delle Elegie


L’ideale unità di vita e arte che caratterizza i poeti elegiaci appare chiara già nel primo componimento
del libro, che assolve a una finzione programmatica ed esibisce temi e mortivi che caratterizzeranno
l’intera raccolta. Non un amore consueto, ma eccezionale, una passione trasgressiva che porta alla
pazzia e assume le caratteristiche di un asservimento (servitium); Properzio desidera la fuga dal
mondo, odia quelle castae pullae cui normalmente un giovane di buona famiglia aspira e si colloca in
questo modo ai margini della compagine civile. Il poeta-amante conosce soltanto la militia al seguito
del dio Amore. In questo modo Properzio smantella i cardini della vita sociale romana e la sua scala
di valori, rinnegati in nome di un’esistenza all’insegna dell’individualismo e dell’otium. Insieme
all’impegno politico e militare, alla gloria, Properzio rinuncia anche alla ricchezza con i suoi affanni,

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preferendole la paupertas. Ma è lo stato di infelicità per la difficile storia d’amore ad animare la
maggior parte delle elegie del libro I. Preponderante è il motivo della facilità con cui Cinzia tende a
rompere il foedus amoris, il sacro patto tra innamorati, e a tradire il poeta. Nel momento in cui fa
coincidere il proprio programma poetico con una precisa opzione esistenziale, la poesia non è più
occasione di sfoggio virtuosistico, bensì ideale luogo in cui trasferire l’esperienza dolorosa del proprio
amore: la consapevolezza della realtà della materia del canto fa nascere in lui la speranza di ottenere
gloria eterna tra i giovani che, dalla lettura dei suoi versi, potranno trarre consigli.

Il libro II delle Elegie


L’aspirazione a un amore unico ed eterno rimane viva anche nel libro successivo, composto dal poeta
quando era già stato accolto nel circolo di Mecenate. Nell’elegia iniziale il poeta precisa che la donna
amata non è soltanto l’argomento della sua poesia, ma anche “musa” ispiratrice del poeta. Il servitium
amoris viene ancora una volta sottoscritto dal poeta e ulteriormente nobilitato, se è vero che la gloria
sarà più grande se c’è dato godere di un unico affetto. Rispetto al primo libro, i temi amorosi sono
sviluppati in forma più complessa, sicchè l’espressione poetica esprime il passaggio repentino da
momenti di euforia e passione ad altri di gelosia e sospetto nei confronti di tutti coloro che entrano in
contatto con Cinzia, siano essi giovani, bambini, amiche o sorelle. E arriva perfino a temere che sotto
vesti femminili si possa nascondere un rivale. Cinzia lo fa talmente penare che il poeta arriva addirittura
a pensare alla morte e a cosa dovrà esserci scritto sulla tomba. Lo spazio che il poeta si sente di riservare
alla lode di Augusto è ritagliato all’interno di carmi d’amore e finisce col creare un effetto stridente
rispetto al contesto: l’elogio per l’azione pacificatrice di Augusto può venire così a trovarsi trai lamenti
per il ritorno del rivale i rimproveri rivolti alla donna.

Il libro III delle Elegie


Il libro si apre con tre elegie in cui Properzio rinnova la recusatio verso l’epica in virtù di una scelta di
vita all’insegna dell’amore e della pace. La volontà di dare ancora voce al suo canto d’amore si
sviluppa tuttavia lungo una direzione diversa: sebbene Properzio si attardi ancora sulla passione per
Cinzia, sembra che l’interesse si sposti piuttosto sulla propria condizione di poeta d’amore, sullo stile
di vita e sul proprio ruolo nella società. Vestendo con maggior convinzione i panni del poeta “vate”,
Properzio introduce riflessioni di carattere sapienziale e gnomico, in cui troviamo espressa la
condanna per l’avidità, per il lusso sfrenato, per la libido delle donne di facili costumi. Si dichiara
rinsavito mentalmente dopo il discidium con Cinzia. Properzio ammette gli errori commessi: “mi
vergogno” segna il passaggio dalla sudditanza nei confronti della donna al completo recupero della
sua dignitas. Properzio, servo d’amore che ha trovato la salvezza, si paragona al marinaio che, dopo il
rientro al porto, va a rendere grazie alla divinità cui deve l’aver avuto salva la vita (nel suo caso,
Mens Bona). Nella seconda parte dell’elegia il poeta si muove su uno scenario popolato da altre
persone ed è esposto al pubblico giudizio: pur deriso e oggetto di pettegolezzi, egli ha saputo resistere,
mostrando determinazione a non cedere. Il distacco è accompagnato da lacrime e accuse: nell’atto
finale, troviamo sancita la definitiva separazione.

Il libro IV delle Elegie


Sul modello dell’elegia eziologica di tipo callimacheo, Properzio si propone di celebrare il lontano
passato di Roma. Al gruppo delle elegie eziologiche possiamo ascrivere IV,2 (il dio Vertumno spiega
l’origine del suo nome e delle sue prerogative), IV,4 (una parte del Campidoglio prende il nome dalla
leggendaria figura di Tarpea), IV,9 (origine di un tabù rituale, l’interdizione alle donne del culto
dell’Ara Maxima) e IV,10 (origine del nome di Giove Feretrio). Il Properzio poeta di valori tradizionali
appare anche in IV,3 e 11, che esaltano le virtù della matrona romana, in particolare l’amore coniugale.
Accanto al filone eziologico ve n’è uno erotico. L’astrologo Horos interviene all’interno di un
discorso per certi versi oscuro per richiamare Properzio al monito che gli era stato rivolto da Apollo
tanti anni prima, di coltivare l’elegia d’amore. Il servitium amoris, dunque, che sembrava rimosso dalla

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vita, come dalla poesia di Properzio, riappare prepotentemente. L’amore e la figura di Cinzia sono
ancora ben presenti nel libro IV. La donna è morta da poco tempo e il poeta la fa rivivere,
materializzandola in un’atmosfera di sogno.

La poesia di Properzio
Nell’esaltazione dell’amore per un’unica donna si coglie l’influenza della recente produzione neoterica
(di Catullo) e dei poeti alessandrini più recenti, primo tra tutti l’epigrammista Meleagro. La tecnica
compositiva di Properzio è di matrice ellenistica: ne utilizza i motivi tipici, ma al contempo ama
introdurre variazioni originali in temi e contesti consueti (variatio), talora predilige miti poco noti, ha
uno stile elaborato, anche difficile. L’influsso di Callimaco comincia a farsi percepire nel libro II e
cresce progressivamente nei successivi, al punto che al principio del libro IV Properzio non esiterà a
presentarsi come il Callimaco Romano.

Lingua e stile
Grecismi, sermo quotidianus, ambiguità espressiva.

Ovidio

La vita
Nasce a Sulmona nel 43 a.C. Figlio di un’agiata famiglia di cavalieri, fu avviato agli studi di retorica
e frequentò a Roma le lezioni dei maestri più i n voga, Arellio Fusco e Porcio Latrone. Ovidio mostrò
fin da subito una spiccata propensione per la poesia. Cominciò a frequentare, dopo aver abbandonato
la carriera politica, i circoli letterari dell’epoca, stringendo rapporti con personaggi che più tardi
definirà “vates” (Properzio, Orazio, Virgilio). I suoi componimenti, le elegie degli Amori, erano ispirati
alle sue vicende sentimentali, al suo cuore tenero vittima di Cupido e di Corinna, lo pseudonimo con
cui indicò la donna amata. Dopo la “prima edizione” di essi (5 libri che saranno ridotti a 3), il successo
come poeta continuò con le opere successive; il poeta però non fu altrettanto felice nella vita privata,
segnata da un secondo matrimonio di breve durata. Ovidio trovò la serenità soltanto con la terza
moglie, sposata intorno al 5 a.C. Nel 8 d.C. fu esiliato da Augusto a Tomi. Ovidio scrisse l’Arte
d’amare. Morì a Tomi nel 18 d.C.

Gli Amori
L’Ovidio poeta d’amore vuole collocarsi nell’ambito della tradizione elegiaca romana. In quest’opera
il poeta-amante racconta in prima persona il suo amore per Corinna, una donna bella, capricciosa e
volubile. Si susseguono elegie programmatiche e letterarie, poesie sul trionfo di Amore o sulla militia
amantis, messaggi d’amore, promesse di immortalità alla donna amata, carmi che contengono spunti
didascalici, conquiste amorose, rifiuti, separazioni e conciliazioni, casi di lamento sull’uscio
dell’amata (paraklausitiuron), rivalità, doppi amori, infelicità, fallimenti, infedeltà, fino a toccare
tematiche come l’aborto e l’impotenza. Corinna è personaggio dai tratti indefiniti, talora evanescenti
e Ovidio non avrà problemi ad affermare di aver bisogno di due donne o perfino di sentirsi attratto da
ogni donna bella. L’amore, per Ovidio, diventa un gioco piacevole e perde il significato ideale e
rivoluzionario dell’amore elegiaco visto come valore centrale nella vita del poeta.

L’Arte d’amare
Tra il I a.C. e il I d.C. appare il primo trattato didascalico ovidiano, ossia i 3 libri dell’Ars Amatoria.
Qui il poeta assume il ruolo di un disincantato magister amoris che raccoglie e sistema gli spunti
didascalici dispersi qua e là nell’elegia romana, ma anche nella commedia e nella cultura greca. In
questo modo il poema didascalico cede ora spiritosamente i suoi moduli all’Ars amatoria, indice
significativo dello sperimentalismo ovidiano in poesia. Ovidio impartisce ad un anonimo discepolo le
tecniche per districarsi nel mondo sfuggente e imprevedibile dell’amore, dominarlo e giocare con esso.

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Il destinatario ideale del messaggio è da identificare nella gioventù maschile (libri I-II) e nelle giovani
donne della società augustea (libro III). Il libro I insegna le tecniche della conquista della donna da
parte dell’uomo. Si afferma la necessita della fiducia in se stessi, dei regali, delle lettere d’amore,
della cura della bellezza. Il libro II contiene le regole per poter rendere duraturo l’amore conquistato:
serve obbedienza e dedizione, al pari della vita del soldato (servitium amoris). Nel libro III le fanciulle
vengono sollecitate alle gioie e ai piaceri della vita, istruite circa l’uso della cosmesi e dell’arte della
seduzione. Il poeta si rivolge con autorevolezza agli ideali allievi, ponendosi come esperto maestro di
Amore. L’uso di un adeguato vocabolario e della conoscenza e dell’apprendimento testimonia la
volontà di erudire l’allievo con una trattazione sistematica della materia, dalle enunciazioni di carattere
generale alla casistica specifica più varia; troviamo parti espositive, anticipazioni, digressioni ed
esemplificazioni, blocchi riepilogativi. La tradizione della poesia didascalica si infrange tuttavia nella
scelta del distico elegiaco in luogo
dell’esametro: in questo modo il poema ovidiano denuncia la sua provenienza specifica dal patrimonio
elegiaco, di cui vengono riproposti motivi, topoi, espressioni. La sincerità, l’autenticità e la
spontaneità della poesia elegiaca risultano di fatto capovolte, diventano esperienze da riformulare
secondo la logica della trasgressione e della finzione, della recita e dell’apparenza, perché bisogna,
più che amare, rivestire i panni dell’amante. Perché si possa assumere lo statuto di amante, le
esperienze tipiche dell’elegia devono essere apprese dall’esterno, dal precettore d’amore, ed essere
riversate in tattiche di corteggiamento, messe in opera chi è cosciente delle proprie qualità, ha intùito
per cogliere le occasioni più appropriate e la spigliatezza per confrontarsi con la donna. La guida
ovidiana agli amori extraconiugali risultava dissacrante rispetto ai prisci mores, assunti a riferimento
ideale dalla legislazione matrimoniale di età augustea; su di essi Ovidio interviene con il sorriso
dell’uomo di mondo, per rivalutare l’amore come tale, fino a proporre una paradossale legittimazione
dell’adulterio stesso. Il pubblico di Ovidio è raffinato, dotto ed elegante, intenditore di lettere e capace
di riconoscere richiami e allusini ad altri autori, ma quest’opera si rivolge anche a un pubblico di
cultura media.

I Rimedi contro l’amore


Composti in distici, essi si rivolgono a un interlocutore per istruirsi sui modi per liberarsi di un amore
infelice. Il risultato è un nuovo tipo di trattato in versi, che, nella struttura didascalica e scientifica
propria di una prescrizione terapeutica, svolge una tematica erotica, tra stilemi tipici del linguaggio
didattico, sententiae, paratassi, asindeti e termini medici. Ovidio propone una cura basata sulla sua
esperienza, da cui ha ricavato utili insegnamenti, e si giova inoltre di autorevoli casi esemplari tratti
dalla mitologia. Il poeta medico invita con erudizione, distacco e auto-ironia, il malato a intervenire al
momento opportuno, con terapie miranti a rimuovere ozio e inoperosità, per impegnarsi nell’attività
forense, politica o militare, rurale o venatoria. Il discorso didascalico è ricco di metafore e immagini:
l’amore è una malattia, è come un fuoco o una corrente marina. Bisogna rifiutare l’otium e impegnarsi
in attività estranee alla militia amoris. I Rimedi per la bellezza delle donne Ovidio utilizza i moduli
espressivi e le convenzioni del genere didascalico per insegnare alle donne l’arte di farsi belle con i
ritrovati della cosmesi. Ovidio svaluta così l’arcaica rusticità delle matrone di un tempo, cotte da sole
e costrette ai lavori domestici, mentre propone il cultus (trucco, cura di sé) come esercizio
imprescindibile per le eleganti puellae della società contemporanea.

Le Lettere di eroine
Heroides è il titolo di una raccolta di 15 lettere in versi che si immaginano inviate da eroine del mito
ai loro mariti o amanti, cui vanno aggiunte tre coppie di lettere, risalenti a un momento successivo,
in cui la missiva dell’eroe è accompagnata dalla risposta della sua donna. Le lettere si succedono in
quest’ordine: Penelope a Ulisse (I), Briseide ad Achille (III), Arianna a Teseo (X), Medea a Giasone
(XII), Saffo a Faone (XV); le lettere doppie: Paride ad Elena, Elena a Paride – Leandro a Ero, Ero a
Leandro – Aconzio a Cidippe, Cidippe ad Aconzio. Ovidio cerca di rivitalizzare la tradizione

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dell’universo elegiaco con la scelta di una forma originale, quella dell’epistola poetica. Il risultato è
una poesia con un elevato coefficiente di intertestualità, ricca di allusioni e richiami a testi-modello.
Le eroine della tragedia, dell’epica e dei racconti mitici ci danno così un resoconto in prima persona
delle vicende amorose che le hanno viste infelici protagoniste: sfogano il loro dolore, la nostalgia,
l‘ansia, le recriminazioni, le paure, i sospetti.

Le Metamorfosi
Nei 15 libri delle Metamorfosi (2-8 d.C.) Ovidio si propone di ripensare la tradizione del poema epico:
il nucleo ispiratore dell’opera è la metamorfosi, che guida il poeta attraverso un intero repertorio di
favolose leggende allineate l’una all’altra a formare come una lunga catena. Si snodano e si intrecciano
una decina di leggende che la fantasia del poeta seleziona in base alla loro capacità intrinseca di stupire,
di suscitare meraviglia. La inesauribile vena creativa del poeta si esprime in un caleidoscopio di storie
di metamorfosi, in cui troviamo Dafne mutata in alloro, Adone trasformato in anemone alla sua morte,
Io mutata in Giovenca, Aracne in ragno e così via. Le metamorfosi hanno spesso sfondo erotico. Il
gusto del dettaglio mitologico, la doctrina, la varietà di contenuti, le connessioni sciolte tra i vari
spezzoni di racconto che costituiscono il tessuto dell’opera rinviano alla tradizione poetica
alessandrina, in particolare agli Aitia di Callimaco. Un altro modello potrebbe essere Ennio con i suoi
Annali, in cui si racconta della trasformazione di Omero in pavone.

I Fasti
Di fronte al compito di cantare le solenni ricorrenze del calendario romano, Ovidio avverte due
sostanziali difficoltà: la prima è l’eredità dell’elegia, che si concretizza nella scelta del distico, il cui
procedere altalenante non appariva in grado di farsi carico di tam vasta triumphi, come Ovidio indica
la materia trattata; la seconda è rappresentata dalla dichiarazione di inadeguatezza del poeta, una
professione di modestia consueta e formale. Il risultato è poesia epica nei modi e nelle forme coerenti
con la tradizione alessandrina, e come Callimaco aveva raccontato le origini prime di rituali, usanze
e istituzioni, così Ovidio si propone di ripercorrere le cause, le origini di antiche feste e riti seguendo
la traccia del calendario romano. Ovidio propone interpretazioni sue, con commenti e prese di
posizione personali. Unico problema? Ovidio non può vantare nel campo della religione romana la
stessa dottrina esibita in materia amorosa. I Fasti rimasero incompiuti ai primi 6 libri, dedicati ciascuno
ad un singolo mese dell’anno, da gennaio a giugno. L’esilio causò l’interruzione di quest’opera
laboriosa.

Le Tristezze
Il confronto tra il passato e il presente, tra la vita spensierata nella Roma mondana e la desolazione di
Tomi è un tema frequente, quasi ossessivo, dei 5 libri di elegie dal titolo Tristia, in cui la nostalgia, il
malessere e l’inquietudine di Ovidio si traducono in aperta insofferenza per la stessa natura della
regione, dipinta con i colori poetici aspri e foschi del locus horridus, l’opposto del locus amoenus.
Ma il poeta non ha ancora perso la speranza di tornare a Roma, e per questa ragione esorta più volte la
moglie perché interceda in suo favore: Ovidio attinge di nuovo al mondo della mitologia, ma questa
volta per trarne esempi di donne celebri per l’assoluta fedeltà al consorte. Alcesti, Laodamia,
Penelope sono proposte come modello di condotta. L’opera fu cominciata durante il viaggio da Roma
a Tomi, e le parti più antiche conservano tracce più evidenti della speranza di poter ottenere il perdono
di Augusto attraverso formali dichiarazioni di pentimento (parla di un error non definito) ed
adulazione. Con una vera e propria ammissione di colpevolezza, Ovidio riconosce che l’ira di Augusto
è senz’altro legittima, ma non irreversibile. Man mano che passano i giorni la speranza del ritorno cede
il posto, nel cuore del poeta, a una stanca rassegnazione, confortata soltanto dal pensiero di pochi
amici fedeli e dall’amore della sposa lontana, compagna fedele e affettuosa anche nei giorni dell’esilio.

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Le Epistole dal Ponto
Amarezza e delusione costituiscono la nota distintiva anche delle Epistulae ex Ponto, una raccolta di
elegie in 4 libri, in forma epistolare: ognuna di queste lettere è indirizzata ad un destinatario preciso,
e nel complesso esse mostrano il formulario e i motivi comunemente ricorrenti nella scrittura
epistolare. Nelle Epistole affiorano segnali di cupo pessimismo. I temi sono quelli della vecchiaia che
giunge anzitempo, della morte incombente, dell’insofferenza per l’esilio, del senso d’inutilità della
propria esistenza, della sensazione che la vena poetica vada incontro ad un inevitabile inaridimento.

Le altre opere
Al periodo d’esilio risale anche un’invettiva in distici elegiaci (642 versi), dal titolo Ibis, direttamente
ispirata a un’operetta omonima di Callimaco, in cui il rivale (chi?) del poeta era paragonato
all’immondo uccello ibis. Controversa è l’attribuzione a Ovidio di un poema didascalico sulla pesca,
gli Halieutica. Abbiamo anche un’elegia di nome Nux (182 versi), dove un albero di noce lamenta in
prima persona di essere fatto oggetto di lanci di pietre, senza che abbia alcuna colpa

Lingua e stile
Paratassi, figure retoriche, pause, ossimoro, stile scorrevole.

Livio e la storiografia in età augustea

Struttura e contenuto della Storia di Roma


Livio scrisse di retorica e di filosofia, ma di questi scritti non c’è rimasto nulla. L’opera cui dedicò
tutta la vita fu l’immensa Storia di Roma, che nei codici medievali porta il titolo Ab Urbe Condita
Libri. Dagli inizi di Roma il racconto giungeva fino al 9 a.C., ma è probabile che il progetto di Livio
prevedesse la conclusione in corrispondenza con la morte di Augusto (14 d.C.). L’opera originaria
comprendeva 142 libri, ma gran parte di essa è andata perduta. Sono conservati per intero: libri I-X,
che vanno dalle origini di Roma (753 a.C.) alla distruzione della città da parte dei Galli nel 390 a.C.,
quindi con una prefazione al libro VI, fino alla terza guerra sannitica (293 a.C.); libri XXI-XXX, che
trattano della seconda guerra punica, dal 219 al 201 a.C.; libri XXXI-LXV che contengono il racconto
delle guerre condotte dai Romani in oriente contro Antioco, Filippo V di Macedonia e il figlio Perseo.
Il contenuto dei libri perduti è parzialmente ricostruibile grazie a un certo numero di frammenti, alle
periochae ed epitomi, tra cui risulta particolarmente utile quella redatta da Anneo Florio.

La prefazione dell’opera e la concezione liviana della storia


Le linee programmatiche dell’intera opera sono delineate nella praefatio che apre il libro I. In essa
Livio afferma di volersi concentrare sul passato, per dimenticare gli orrori del presente, le guerre civili,
che aveva vissuto nella sua adolescenza. Per la ricostruzione delle vicende relative ai tempi antichi
Livio promette di distinguere tra mito e storia, disinteressandosi di ciò che gli sembra creazione
fantasiosa. Ma l’atteggiamento predominante nell’opera liviana sembra essere quello del né
confermare né confutare: egli riprende antiche leggende e riporta notizie di prodigi, senza preoccuparsi
di sancirne l’autenticità con l’autorevolezza dello storico. La rassegna delle vicende della storia
romana può chiarire le cause della attuale crisi che, nella sua visione moralistica della storia, Livio
interpreta come una decadenza rispetto ai mores e ai valori antichi, una decadenza che ha gradualmente
alterato il carattere originario del popolo romano. L’importanza dei fattori morali all’interno di questa
concezione della storia determina la frequenza con cui nell’opera liviana vengono presentati casi
esemplari (exempla) di azioni buone o cattive, che devono stimolare all’ammirazione, all’emulazione.

L’ideologia liviana
Attraverso le gesta esemplari dei suoi rappresentanti più illustri vengono celebrate le virtù tipicamente
romane della fides, della iustitia, della clementia, della vita sobria, della pudicitia. I successi ottenuti

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dai Romani testimoniano inequivocabilmente della benevolenza degli dei e della predestinazione del
dominio di Roma: una sorte favorevole accompagna Roma nella sua ascesa. Ma non è stato un percorso
privo di ostacoli: fattori interni (come la rottura della concordia tra i ceti sociali o l’aspirazioni di alcuni
personaggi senza scrupoli al potere assoluto) ed esterni hanno messo a repentaglio le sorti di Roma.
Fra questi ultimi, il posto di maggior rilievo spetta ad Annibale, l’antagonista principale di Roma, abile
stratega, ma crudele per natura e segnato dalla perfidia, a differenza del suo avversario Scipione, che
incarna l’ideale della pietas romana.

Lingua e stile
La prosa liviana è caratterizzata dalla lactea ubertas, da un modulo espressivo copioso e fluente. Sa
comporre periodi lunghi, di ampio respiro, ma ricorre anche a frasi brevi, incalzanti, per accrescere la
concitazione; con una certa frequenza ritroviamo l’oratio obliqua, o discorso indiretto.

Vitruvio

Sull’architettura
Poco dopo il 27 a.C., Vitruvio mise a frutto le sue esperienze nella composizione del De architectura
(10 libri). Per Vitruvio l’architettura si divide in 3 parti, costruzione, gnomonica, meccanica; la
costruzione si divide a sua volte in due settori (edificazione di mura e pubblici edifici su suolo pubblico
e realizzazione di edifici privati). Le opere pubbliche si suddividono inoltre in tre categorie: quelle
destinate alla difesa, quelle riservate al culto e quelle di pubblica utilità, come piazze, portici, bangi
ecc. Il trattato nel complesso risente dell’atteggiamento di chi si sforza di trasmettere determinate
competenze, dando loro una veste letteraria adeguata, pur nell’inevitabile dipendenza da un gergo
tecnico che ml sia accorda con l’intento di delectare il pubblico. Sulla base dell’assunto che l’arte
architettonica imiti la natura, Vitruvio propone il suo ideale di architetto versato in molteplici campi
del sapere, riscattandolo dal pregiudizio di chi vuole relegare questa figura nei limiti di un tecnicismo
empirico. Egli deve essere: versato nelle lettere, abile disegnatore, esperto di geometria, conoscitore
di fatti storici, filosofici, medici, musicali, giuridici, astronomici. Deve essere perfetto.

Da Tiberio ai Flavii

Il contesto storico

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Nel 14 d.C. muore Augusto. Tiberio diventa imperatore fino al 37 d.C. Gli succederà Caligola fino al
41. Nello stesso anno suo zio, Claudio, diventa imperatore e lo sarà fino al 54 d.C., quando le redini
dell’Impero verranno ereditate dal suo figlioccio, Nerone. Quest’ultimo morirà nel 68. Vespasiano
diventa imperatore fino al 79. Il mandato di Tito sarà molto breve: solo due anni in carica (79-81). Gli
succederà Domiziano, che cadrà nel 96, vittima di una congiura.

Fedro

Le Favole
La tradizione ci ha consegnato 5 libri di Fabulae, ma la dimensione ridotta dei libri II e V rispetto agli
altri fa pensare che ci siano giunti incompleti. Una trentina di favole ci sono tramandate soltanto in
un’opera miscellanea, detta Cornucopia, dell’umanista Niccolò Perotti. Il contenuto di altre favole
perdute può essere ricostruito a partire da parafrasi in prosa di epoca medievale. Fedro si propose di
inaugurare un genere mai trattato nella letteratura latina, la favola con protagonisti animali, come
emulo del celebre favolista greco Esopo. Ma Fedro non è imitatore pedissequo e si stacca dal modello
greco: le sue Favole sono scritte in senari giambici invece che in prosa. Dalla tradizione esopica, Fedro
attinge il procedimento allegorico, per cui vizi e difetti tipicamente umani vengono mascherati in veste
animale, al servizio di una visione del mondo consapevole dei soprusi e delle vessazioni cui sono
sottoposti i più deboli. Emerge così una variegata galleria di tipi: in cui ogni vizio trova la sua
immagine: il leone prepotente, la volpe furba, il lupo arrogante, l’agnello debole. La struttura narrativa
della favola di Fedro è semplice e schematica: in genere avviene che la natura negativa di un
personaggio si trovi ad essere smascherata e punita. Tranne nel caso della favola che vede contrapposti
lupo e agnello, dove la verità è mostrata in tutta la sua impotenza contro l’uso della forza. La favola
racconta una storia di valore universale, e il particolare insegnamento offerto da ciascuna favola è reso
esplicito dal poeta stesso. I luoghi appositamente deputati a illustrare la “morale” sono l’inizio o la
fine della favola: promitio ed epimitio.

L’atteggiamento spirituale del poeta


La saggezza messa continuamente alla prova costruisce l’elemento uniformante dell’intera raccolta.
Al di là del contenuto morale, è significativo l’animus che le pervade, la cifra spirituale dominante
del testo, cioè il pessimismo del vinto, il disagio del debole e dell’onesto in un mondo popolato da
scaltri e violenti. La consapevolezza dell’ingiustizia e del sopruso non si traduce nella sollecitazione
a un pronto riscatto o alla ribellione, quanto in un invito alla saggia sopportazione, al vivere col minor
danno. La favola è una forma di filosofia morale popolare dal marcato aspetto pratico, influenzata dalla
riflessione cinica. Ma questa rassegnazione non esclude lo sforzo di adattamento, il tentativo di
ritagliarsi un proprio spazio eludendo la forza e l’astuzia altrui. La capacità di uscire da situazioni di
difficoltà contando sulle proprie risorse spirituali era detta dai latini sollertia.

Lingua e stile
Brevitas e varietas. La lingua delle favole è quella della viva conversazione quotidiana.

Seneca il Vecchio e la retorica a Roma

La Storia di Roma
Opera mai pubblicata. A giudicare dagli scarsi frammenti in nostro possesso, Seneca mostrerebbe una
tiepida adesione al principato, visto come esito di un’inarrestabile decadenza e insieme come necessità
politica prova di reali alternative. Nel proemio dell’opera la vicenda storica di Roma viene
significativamente assimilata alla vita di un uomo: Roma trascorse la sua infanzia con Romolo, visse
la puerizia e l’adolescenza sotto i re e la successiva repubblica, fino allo scontro con Cartagine,
occasione in cui l’adolescenza ebbe termine. Divenuta adulta, allungò le mani dovunque per terra e

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per mare finchè, soggiogati tutti i re e tutti i popoli, si diede a fare cattivo uso delle sue forse per
distruggere se stessa. La vecchiaia iniziò quando, straziata dalle guerre civili e oppressa da un male,
ricadde sotto un regime di potere personale.

Le scuole di retorica
Esse divennero più numerose e frequentate allorchè Cesare, assunta nel 49 a.C. la dittatura, concesse
la cittadinanza romana ai maestri delle arti liberali e, quindi, anche ai retori, superando così anche
l’ultima barriera al diffondersi di questi insegnamenti che divennero il fondamento dell’istruzione. Tali
esercitazioni preparatorie vennero indicate con il termine complessivo di declamationes e furono
distinte al loro interno in due gruppi: suasorie e controversiae. Nella suasoria il declamatore si rivolge
idealmente a un personaggio della storia o del mito per convincerlo ad operare una scelta, esponendone
le ragioni. Nella controversia, invece, la discussione si sposta sul terreno dello specifico giudiziario: il
declamatore, che svolge le parti della difesa/accusa, deve applicare un determinato principio giuridico
a una situazione specifica, valutandone presupposti, conseguenze e implicazioni. Le situazioni
proposte erano complicate ad arte per trasformarle in casi-limite, in cui si misurava l’abilità del
declamatore: troviamo dunque casi di contese, innamoramenti, rapimenti, adulteri ecc. La struttura
delle declamazioni ricalca la divisione normativa del discorso in 4 parti: esordio, esposizione,
argomentazione, epilogo; ma i momenti caratterizzanti della declamazione sono rappresentati da
divisio, color e sententia. Nella divisio il declamatore analizza razionalmente lo stato della causa per
individuare le questioni giuridiche e morali che essa implica; al color corrisponde la scelta di una
particolare presentazione del caso, che si realizza nell’esporre fatti/ personaggi/moventi in maniera
favorevole, tale da rendere più solida la propria posizione; le sententiae sono frasi a effetto, in grado
di fissare con efficacia icastica punti nodali del caso in questione.

Seneca e le declamazioni
In vecchiaia Seneca lavorò ad una raccolta antologica di saggi di declamazione, dal titolo Oratorum et
rhetorum sententiae, divisiones, colores, in cui presenta uno spaccato del mondo delle scuole di
retorica, soffermandosi sulle figure più significative. Non si tratta di semplici appunti, ma di una
raccolta organica, che comprende esempi di declamazione di circa 170 retori, corredati di osservazioni
critiche. L’opera giunse quindi a comprendere 10 libri di Controversiae e 2 di Suasoriae, ma ci è giunta
frammentaria. Ogni Controversia è divisa nelle tre sezioni canoniche: sententiae, divisiones e colores.
In ogni caso, all’inizio è riportato il thema, ovvero un breve schizzo dell’argomento.

Lingua e stile
Lo stile è misurato e sobrio.

Velleio Patercolo

L’opera storiografica
Velleio dedicò a Marco Vinicio la sua Storia di Roma. Il libro I si apre con la notizia del ritorno da
Troia di Epeo (costruttore del cavallo) che fonda Metaponto, ma il principio del’opera è andato
perduto, al pari della sezione che correva dalla fondazione di Roma alla Terza guerra macedonica (171-
168). Il libro si chiude con una breve storia della cultura greca e romana. Nel libro II continua la
trattazione cronologica della materia storica, per giungere all’età a contemporanea, cui è dedicata una
trattazione più diffusa e dettagliata. Si segnalano anche gli excursus sull’origine delle singole province
romane e sulla letteratura. Velleio si mantiene sempre fedele al principio della cronaca annalistica, ma
ama introdurre degli exempla degni di essere ricordati e indulge talora alla descrizione biografica,
poiché concepisce la storia come determinata dalle grandi personalità.

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Le ragioni dello storico
Anche per Velleio la crisi di Roma ha avuto un aspetto morale preponderante, è la storia di un degrado
di costumi, che può essere sanato soltanto con il ritorno al mos del tempo passato. Ma la crisi politica
e morale di Roma si è conclusa con il principato di Augusto e Tiberio, celebrati da Velleio anche con
il ricorso alla falsificazione storica per smussare gli aspetti più crudeli delle loro azioni ed esaltarne il
ruolo e l’importanza. Velleio è il tipico esponente della nobiltà italica che si fa portavoce
dell’importanza della laboriosità e della fides.

Le fonti
L’elenco degli autori consultati da Velleio potrebbe comprendere Catone (Origini), Quinto Ortensio
Ortalo (Annales), Cornelio Nepote (Chronica), Pomponio Attico (Liber annnalis), Varrone
(Disciplinarum libri) e Tito Livio.

Lo stile
La brevitas tipicamente sallustiana si combina a slanci di inattesa abbondanza espressiva, creando un
andamento drammatico e teso; l’uso talvolta esasperato della metafora, dell’iperbole, delle antitesi
concettuali, di sententiae a effetto, dell’espressione astratta, e una lingua talora venata di forme
arcaizzanti e di grecismi, ma anche di neologismi danno vita a uno stile che risente dell’ostinato sforzo
di combinare la ricchezza e la pregnanza dell’espressione con una forma possibilmente originale.

Valerio Massimo

Il libro dei Fatti e detti memorabili


Questa raccolta si apre con la dedica a Tiberio, invocato con la supplica di assistere lo scrivente e di
guidarlo nell’esecuzione di un compito così gravoso. L’imperatore prende qui il posto che
tradizionalmente la Musa ha presso i poeti: la fede nell’imperatore come in una divinità, il cui assenso
e la cui presentia sono indispensabili per operare con buon esito. L’autore ha ricercato, selezionato e
riunito azioni e detti celebri, casi esemplari che vale la pena ricordare. Non si tratta tuttavia di un
semplice manuale: è al tempo stesso un testo di storia “concentrata”, mostrata attraverso il
comportamento di molteplici personaggi nelle più varie circostanze; le parole, le azioni, sottratte al
loro contesto immediato, vengono colte nel loro valore intrinseco, nella loro esemplarità educativa. I
gruppi di exempla sono ordinati per categorie di contenuto, o rubriche: pero ogni rubrica, agli exempla
tratti dal mondo romano seguono quelli relativi ad altri popoli.
Il libro I ha come tema complessivo la religione; il libro II le più antiche istituzioni civili e militari; il
libro III si concentra sulle virtù pubbliche, il IV su quelle private; il V considera le relazioni sociali; il
contenuto dei libri VI-VII-VIII verte su categorie morali e tematiche diverse; il libro IX riguarda forme
di eccesso vizioso. Il principio in base al quale gli episodi vengono uniti in gruppi può non essere
rigoroso, e le transizioni possono risultare forzate, ma l’autore mira a creare un flusso narrativo
ininterrotto, capace di coinvolgere il lettore senza risultare noioso o ripetitivo. Un tratto ideologico
dell’opera è rappresentato dalla circostanza che casi esemplari di bontà, generosità, lealtà ecc sono
testimoniati in prevalenza da figure di Romani, che si distinguono per il loro grado di civiltà rispetto
ad altre genti. Lingua e stile: presenti evidenti influssi retorici.

Curzio Rufo

L’opera
Le Historiae Alexandri Magni si estendevano in origine per 10 libri, di cui sono andati perduti i primi
due e parte del terzo. Nel suo stato attuale, il testo ripercorre la biografia di Alessandro Magno a partire
dal 333 a.C.: perdute quindi le parti riguardanti la nascita, l’educazione, le imprese dell’eroe macedone
in Grecia e la prima parte della spedizione contro la Persia. La trattazione comincia dall’episodio del

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nodo fatale di Gordo, la battaglia di Isso e la cattura della moglie e della madre del re nemico, Dario.
Quindi Alessandro prosegue il suo cammino di conquista fino in Egitto, dove interroga l’oracolo di
Ammone e fonda Alessandria. Alessandro conquista Babilonia e Persepoli; il satrapo Besso uccide
Dario con una congiura. L’ozio e gli svaghi di Alessandro in Persia accrescono il malumore
dell’esercito. Pretende di essere onorato come un dio: nasce una congiura nei suoi confronti, sventata
per tempo. In India consegue una cruenta vittoria sul re locale Poro. In seguito Alessandro cerca di
sedare una ribellione dei suoi soldati; poco dopo il re muore, a Babilonia (323, e la salma viene
trasportata ad Alessandria. L’intero racconto è incentrato attorno ad un unico personaggio. Curzio
Rufo è senz’altro influenzato da quella storiografia ellenistica così portata alla drammatizzazione,
anche a discapito della precisione del dato storico. Lo scrittore non perde occasione di impiegare le
tecniche messe a sua disposizione dalla formazione retorica ricevuta per suscitare pathos, orrore,
compiacimento o stupore. Rufo riconosce ad Alessandro indubbie
doti naturali e qualità morali, ma ne viene anche stigmatizzata l’eccessiva ambizione e la pretesa di
onori semidivini, annoverando tra le virtù un’incredibile forza d’animo e un’eccessiva capacità di
sopportare la fatica.

Curzio Rufo e l’arte del racconto


Accanto alla narrazione epica (ci sono evidenti richiami all’Achille omerico, quando presenta
Alessandro in tenuta da battaglia) trova ampio spazio il discorso oratorio, poiché il perfetto imperator
non può essere debole nel parlare in pubblico: i discorsi di Alessandro sono ora saggi, ora invece
servono a chiarire la sua indole e le sue aspirazioni. Dal testo di Curzio Rufo emerge comunque
un’immagine di Alessandro “a tutto tondo”, appaiono tratti di un giovane ambizioso, assetato di gloria
e di onori divini: tanto negli atti di forza che nei gesti di misericordia, Alessandro impone la propria
personalità, il proprio carisma, fino all’eccesso. Rufo sfrutta appieno le possibilità drammatiche di
questa personalità contraddittoria. I diversi scenari sui quali si dispongono le molteplici imprese
militari di questo eroe in perenne movimento (Medio Oriente, Egitto, Scizia, India ecc) avvicinano il
racconto all’epica dell’Odissea: usi, costumi, particolari esotici, meraviglie dei luoghi e delle genti con
cui Alessandro viene in contatto servono all’autore per sollecitare la curiosità del suo pubblico e per
rispondere a un bisogno di “evasione” attraverso la letteratura.

Lingua e stile
Scrittura retorica. Sintassi armoniosa, lessico regolare, interrogative retoriche, ripetizioni espressive.
Andamento drammatico.

Seneca

La vita
Nacque in Spagna da una famiglia di rango equestre, tra il 4 e il 1 a.C. Il padre lo condusse con sé a
Roma, dove frequentò Papirio Fabiano, che lo introdusse nella scuola dei Sestii, la quale combinava
uno stoicismo rigidamente ascetico con interessi neopitagorici per la natura e la scienza. Trasferitosi
in Egitto a 30 anni per curare la salute cagionevole, intraprese la carriera politica intorno al 31 e
divenne senatore. Nel 41 fu vittima di una trama di palazzo e, accusato di adulterio con la sorella di
Caligola, Lavilla, fu esiliato in Corsica dal nuovo imperatore, Claudio. L’esilio durò dal 41 al 49. Tornò
a Roma grazie alla protezione di Agrippina, moglie di Claudio. Quando quest’ultimo morì, Nerone salì
al potere. Nel 65 fu sventata una congiura senatoria ai danni di Nerone, guidata da Calpurnio Pisone;
Seneca non riuscì a sfuggire al sospetto di avervi preso parte e, condannato a morte dall’imperatore,
non ebbe altra scelta che il suicidio.

Le opere in prosa
De clementia, De beneficiis, Naturales quaestiones, Epistualae morales ad Lucilum, Dialogi.

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Le Consolazioni
Mostrano alcune tematiche guida del pensiero senecano, come la meditazione intorno alla morte e alla
natura dell’universo. La Consolatio ad Marciam si rivolge alla figlia dello storico Cremuzio Cordo,
addolorata per la morte del figlio. Le altre due Consolazioni vennero composte da Seneca durante il
periodo del’esilio ed è percepibile l’intensa partecipazione emotiva di chi si trova a sua volta nella
situazione psicologicamente difficile dell’esiliato. Nella Consolatio ad Helviam matrem Seneca
ricorda la dolcezza degli affetti lontani con un coinvolgimento autobiografico insolito negli antichi: gli
incontri con la madre, in cui poteva trovare la serenità dell’infanzia, le tenerezze del nipotino Marco,
l’amore quasi paterno per la nipote Novatilla e l’amore quasi filiale per la zia. La Consolatio ad
Polybium si rivolge ad un potente e odiato liberto di Claudio, al quale era morto il fratello.

Le altre opere appartenenti ai Dialogi


Ad Anneo Sereno, che abbandonò la filosofa epicurea per aderire allo stoicismo, si rivolge il De
costantia sapientis. In quest’opera Seneca tratta della saldezza interiore che appartiene al saggio: le
sue doti morali lo pongono al riparo da qualsiasi manifestazione di ostilità venga a lui rivolta. La
proposta operativa di alternare impegno politico attivo all’otium sulla base delle contingenze esterne
è delineata nel dialogo sulla “serenità dell’anima” (De tranquillitate animi). In essa Seneca dà spazio
a considerazioni sulla ricchezza come fonte di inquietudine per l’umanità, e a consigli per il
conseguimento della tranquillitas, uno stato d’animo di placida, imperturbabile serenità che consegue
dalla consapevolezza di aver intrapreso la via della virtù e di possedere la forza morale per procedere
su di essa. Anche il De otio era dedicato a Sereno: in esso Seneca individua nell’ozio un momento che
consente di dedicarsi alla ricerca della verità e di venire incontro a quel desiderio di sapere che è insito
nella natura umani al pari dell’impulso ad agire. Al fratello maggiore Lucio Anneo Novato è
dedicato il De ira, in 3 libri. Il tema dell’iniuria appare qui all’interno di una visione più realistica
della società umana, dilaniata dall’odio e dalla violenza: è l’iniuria, l’offesa che genere l’ira, dando
inizio così a una catena di rancori e vendette. Anche il De vita beata è dedicata al fratello. Seneca
affronta qui il problema di cosa sia la vera felicità e lo risolve indicando nella virtù (e non nel piacere)
l’unico bene da perseguire per raggiungere la felicità stessa. Nel De providentia dedicato a Lucilio,
Seneca parla delle sofferenze come viatico per accrescere le capacità spirituali dell’individuo: di
conseguenza il fato divino fa soffrire chi è valente, affinché possa mettere alla prova la sua virtù. Nel
De brevitate vitae Seneca riflette sul rapporto dell’uomo col tempo. L’esistenza umana non è affatto
breve, siamo noi che la rendiamo tale, perché sprechiamo tanto tempo inattività inutili e viviamo nella
costante aspettativa del futuro dimenticando il presente.

Il trattato Sulla clemenza


I 3 libri De clementia si rivolgono al Nerone, esortandolo a usare con moderazione il suo potere
illimitato e ad astenersi da vendette pubbliche e private. Nel libro I Seneca insiste sul valore della
clemenza, posta a contrasto con la crudeltà tirannica. Emerge chiara da questo trattato la concezione
politica di Seneca, che mostra di accettare il principato, purchè detenuto da un saggio.

Il trattato Sui Benefici


7 libri. Seneca analizza la natura del beneficio, della gratitudine e le modalità in cui devono esplicarsi
(I a III), e sostiene l’idea che il beneficio non vada offerto in considerazione dell’utile che può venirne
(IV). Il beneficio deve essere consapevole? Possono bastare le buone intenzioni a saldare un debito di
riconoscenza? (V a VII).

Le Questioni naturali
Opera della vecchiaia in 7 libri, è dedicata all’amico Lucilio. Ha un contenuto naturalistico e carattere
“scientifico”. Dopo un proemio introduttivo la trattazione comincia dai fuochi celesti e comprende

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l’arcobaleno, le meteore (libro I), tuoni/fulmini/lampi (libro II), le acque terrestri (libro III), le piene
del Nilo (IV a), le nubi e le precipitazioni (IV b), i venti (V), i terremoti (VI), la natura e il moto delle
comete (VII). La definizione di trattato scientifico è comunque riduttiva: Seneca prende spunto dalla
materia per considerazioni di carattere moralistico, sulla cupidigia che guida gli uomini sotto terra alla
ricerca di metalli preziosi, sul degrado morale che li tiene lontani dalla scienza e dalla filosofia, e nelle
sue riflessioni viene a toccare i punti più cari alla sua filosofia, come la natura di dio e dell’uomo, la
paura della morte, il destino dell’anima ecc.

Le Lettere a Lucilio
Raccolta costituita da 124 lettere ordinate in 20 libri: sono considerate il capolavoro artistico di Seneca
e l’espressione più matura della sua riflessione filosofica. La forma epistolare dava moda a Seneca di
affrontare problematiche filosofiche di vario genere e di sviluppale nei modi e nell’estensione ritenuti
più opportuni, senza i vincoli di una trattazione organica e sistematica imposti dalla forma del trattato
filosofico. Ora Seneca esprime il desiderio di fornire praecepta morali, norme pratiche di
comportamento, consigli; ora invece affronta questioni dottrinali, introducendo anche analisi
dettagliate. L’obiettivo è la crescita morale dell’umanità in generale, non soltanto di Lucilio, il
dedicatario.

Il messaggio filosofico delle Lettere a Lucilio


La tematica che più frequentemente affiora è quella della vita ritirata. In essa Seneca vede l’opportunità
di recuperare il tempo perduto, di prendersi cura della propria spiritualità, di coltivare la filosofia e
di far progressi lungo la via della saggezza. Recede in te ipsum, ritirati in te stesso. La conscientia è da
intendere come consapevolezza del bene e del male, connaturata nell’individuo e giudice delle azioni
e dei pensieri: chi commette cattive azioni non può in alcun modo sfuggire alla coscienza, che ingligge
la terribile pena del rimorso e della paura. Nel suo ripiegamento in se stesso, egli scopre l’elemento
divino che risiede nell’animo dell’uomo, una presenza divina che lo stoico descrive con i tratti di una
figura paterna. Anche il messaggio del filosofo circa il trattamento da riservare agli schiavi mostra una
sensibilità cristiana. Il sentimento di humanitas del filosofo Seneca è pronto a concedere allo schiavo
tutta la dignità di uomo che l’etica comune gli nega, mostrando come la distanza che lo separa dal
padrone sia solo l’esito di una situazione contingente. In Seneca la morte fa da costante contrappunto
alle manifestazioni di vitalità. È legge di natura che, chi è nato muoia, sicchè è vano cercare di
sottrarvisi. Compito dell’uomo è prepararsi alla morte mediante una riflessione su di essa, per poterla
affrontare con serenità, come fecero Socrate e Catone l’Uticense. Seneca non volle vincolarsi troppo
rigidamente a una scuola filosofica: possiamo considerarlo uno stoico, ma egli si accostò anche alla
dottrina platonica e pitagorica e attinse largamente anche all’insegnamento di Epicuro.

La satira in morte di Claudio (Apokolokyntosis)


Un’acre invettiva, composta poco dopo la morte di Claudio (54) e che ha come obiettivo proprio il
defunto imperatore, vittima di funghi velenosi. Il titolo potrebbe significare zucchificazione: la
trasformazione in una zucca mette in parodia la deificazione dell’imperatore, divinizzato postmortem.
Il genere letterario della satira era stato inaugurato dal cinico Menippo di Gadara, di cui non
possediamo nulla. L’Apokolokyntosis ha caratteristiche ascrivibili alla satira menippea: alternanza di
prosa e versi, lingua con tratti solenni e volgari. La trama è estremamente semplice: Claudio, spietato,
stupido, balbuziente, claudicante, giunge sull’Olimpo, ma il concilio degli dei lo manda giù negli
Inferi, dove il suo destino è diventare schiavo di un liberto.

Le tragedie
Hercules furens: mentre Ercole è negli Inferi, il suo regno a Tebe è usurpato da Lico. Quest’ultimo
cerca addirittura di sposare la moglie dell’eroe, Megara. A questo punto appare Ercole, che uccide
Lico. Nel mentre sta preparando un sacrificio agli dei per il sangue versato, Ercole perde il senno per

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colpa di una stregoneria di Giunone: uccide figli e moglie. Al risveglio da questo raptus, vorrebbe
uccidersi, ma le preghiere di Teseo e Anfitrione lo convincono ad accettare la propria vulnerabilità di
fronte a forze superiori. Troades: dopo la caduta della città, le donne troiane hanno perso i loro uomini
e ora attendono di seguire, come schiave, i vincitori che stanno per fare ritorno in Grecia. Gli dei, però,
sono irati, e per placarli i Greci dovranno sacrificare la giovane figlia del re Priamo, Polissena, e il
piccolo Astianatte, figlio dell’eroe troiano Ettore. La tragedia raggiunge il suo acme quando vengono
a confrontarsi Ulisse e Andromaca, madre del piccolo, che cerca invano di salvare la vita al piccolo.
Phoenissae: incompiuta. Antigone dissuade il padre Edipo dal suicidio; Giocasta si dispera per la
disputa tra i figli Eteocle e Polinice; Giocasta cerca di evitare lo scontro fratricida.
Medea: ripudiata da Giasone, che sta per sposare Cresea, medita un’atroce vendetta. Prepara dunque
un filtro magico che farà morire la giovane sposa tra atroci sofferenze, e pur dilaniata da un aspro
conflitto interiore tra l’amore materno e l’odio per l’uomo che l’ha tradita, uccide freddamente i figli
suoi e di Giasone, sotto gli occhi di ques’ultimo, fuggendo poi su un carro alato.
Phaedra: Fedra è sconvolta da un’irresistibile ma incestuosa passione per Ippolito, figlio di suo marito
Teseo. Quando decide di confessargli il suo amore, il giovane la respinge con sdegno. Fedra racconta
a Teseo che Ippolito l’ha violentata: il marito le crede e invoca la vendetta divina, che non tarda ad
arrivare. Presa dai sensi di colpa, Fedra ammette la verità e si uccide.
Oedipus: il re Edipo si rivolge all’oracolo per comprendere le cause della peste che infuria su Tebe: il
contagio cesserà quando sarà stato punito l’assassino del re precedente, Laio. Dopo una lunga indagine,
Edipo scopre che Laio era suo padre, che è stato lui ad ucciderlo e che ha sposato sua madre, Giocasta.
Sconvolto da queste rivelazioni, Edipo si acceca, mentre Giocasta si uccide.
Agamennon: Agamennone torna a Micene dopo la guerra di Troia e porta con sé la sua concubina
Cassandra. I due saranno accolti con grandi onori dalla moglie di lui, Clitemnestra, ma Cassandra
profetizza la propria morte e quella del suo amante. Ciò avviene, per mano di Clitemnestra e del suo
amante Egisto. Oreste, figlio della coppia, è portato in salvo dalla sorella Elettra, mentre Cassandra
viene condannata a morte.
Thyestes: Atreo intende vendicarsi del fratello Tieste, che ne ha insidiato la moglie e il regno. Simula
una riconciliazione, ma al ritorno in patria di Tieste ne uccide i figli e li fa servire in tavola al fratello.
Di fronte a questa empia mostruosità, il sole inverte il suo cammino e il cielo si oscura a mezzogiorno:
alla fine Atreo rivela a Tieste quanto è avvenuto.
Hercules Oetaeus:la sposa di Ercole, Deianira, è gelosa della sua concubina Iole; per questa ragione
invia ad Ercole una tunica intrisa del sangue del centauro Nesso, che ella ritiene un filtro d’amore, ma
che in realtà è un potente veleno. Ercole ha le convulsioni e Deianira si suicida.
Octavia: Nerone ripudia Ottavia, figlia di Claudia. Nonostante i tumulti popolari in favore di Ottavia,
Nerone è irremovibile nel farla deportare e uccidere.
Le tragedie di Seneca presentano la struttura tipica del dramma “classico”, ma più che al palcoscenico
erano probabilmente destinate alla lettura in occasione di quelle recitationes di moda in età imperiale.
Per delineare i suoi personaggi Seneca non si sofferma molto sulla loro dimensione esteriore, ma
svolge una forte introspezione psicologica, umanizzandoli. Perciò, più che re e regine, eri e semidei,
ci appaiono uomini e donne nel pieno della loro carica di sentimenti e di affetti. Il mondo degli eroi
senecani, devastato dagli odi e dagli inganni, è quello della famiglia; non è il fato a spingerli all’azione,
ma sentimenti e pulsioni che scaturiscono da rapporti interpersonali, come la rivalità tra fratelli per il
regno, o il risentimento per il vincolo matrimoniale tradito. Su questa cupa rappresentazione di drammi
familiari può aver pesato il momento autobiografico: alla corte imperiale, con cui Seneca fu a lungo a
stretto contatto, era facile trovare risentimenti e antagonismi tra partenti, con i loro risvolti più
sanguinosi. Seneca scava nell’animo dei suoi personaggi per mettere in luce quelle forze che possono
condurre ad azioni tanto efferate: le passioni estreme, il furor. Tende ad enfatizzare l’aspetto truce e
macabro al fine di amplificarne la natura perversa: un esempio è rappresentato dalla morte della moglie
e dei figli di Ercole, in cui c’è la descrizione del cervello che schizza fuori dal cranio.

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Lingua e stile
Destrutturazione della frase, che si frammenta in serie di brevi e concentrate proposizioni, in serie di
brevi cola (membri), spesso ritmati dall’anafora o da altre figure di suono (allitterazione, assonanza,
omeoteleuto), oppure variati a livello di suono o di lessico, a sottolineare le antitesi concettuali. Il
pensiero si concentra nel giro della sententia, quest’ultima collocata alla conclusione di un
ragionamento, rafforza e rende più incisivo il pensiero stesso. Lo stile è conciso (brevitas) e mostra
una tendenza all’enfasi, a una magniloquenza tipicamente declamatoria.

Lucano

La vita e le opere perdute


La fama del suo talento raggiunse Nerone che lo chiamò a corte; con il suo appoggio ottenne anzitempo
la questura e la cooptazione del collegio degli auguri. Presto, tuttavia, i rapporti con l’imperatore si
incrinarono. Lucano si era illuso che il giovane principe potesse realizzare una difficile conciliazione
tra principato e libertà; di fronte all’involuzione del suo governo, imboccò la strada dell’opposizione
aperta e rimase coinvolto nella congiura dei Pisoni (65). Lucano fu autore prolifico, ma, a parte il
Bellum civile, nulla è giunto fino a noi. Delle opere perdute fanno parte l’Iliacon, il Catachtonion, il
De incendio urbis, Laudes Neronis, Silvae, Medea e libretti per pantomimi.

Lucano poeta epico


Il Bellum civile è un poema di argomento storico che si riallaccia alla tradizione di Nevio e soprattutto
di Ennio, ponendosi invece in aperta contrapposizione con l’indirizzo più recente dell’epica romana,
rappresentato dal poema a sfondo mitologico di Virgilio. Il poema copre gli avvenimenti tra il
passaggio del Rubicone (49) e la rivolta di Alessandria contro Cesare (48), ma la narrazione ha il suo
centro ideale nella battaglia di Farsalo, che appare come l’episodio decisivo del conflitto. Tant’è vero
che un altro nome dell’opera è Pharsalia. L’opera è divisa in 10 libri, ma si crede che sia rimasta
incompiuta, dal momento che l’ultimo libro ha dimensioni ridotte e la narrazione si interrompe in modo
innaturale. Il racconto comincia con il passaggio del Rubicone da parte di Cesare, apertura formale
delle ostilità. A Roma si diffondono panico e pessimismo (libro I); Catone e Bruto discutono sulla
posizione da prendere e decidono di schierarsi con Pompeo, che fugge dall’Italia (libro II); durante
il viaggio a Pompeo appare il fantasma di Giulia, figlia di Cesare e sua prima moglie, che gli
preannuncia imminenti sciagure – Cesare assedia Marsiglia (libro III); Cesare assedia Ilerda e
cattura i soldati fedeli a Pompeo (libro IV); Cesare e Pompeo arrivano quasi a contatto nell’Epiro
(libro V); i due eserciti si spostano in Tessaglia, teatro degli eventi decisivi (libro VI); la battaglia si
conclude con la disfatta di pompeo, che fugge, mentre le truppe di Cesare saccheggiano gli
accampamenti (libro VII); Pompeo cerca rifugio in Egitto ma viene decapitato appena sceso dalla
nave (libro VIII); sdegno profondo di Cesare, giunto in Egitto, quando gli viene presentata la testa del
rivale (libro IX); Cesare si rifugia sull’isoletta di Faro e qui si interrompe il poema (libro X).

Lucano, Virgilio e la storia di Roma


L’intero poema è percorso da una profonda vena pessimistica. Lucano vede nella storia degli uomini
la precarietà, ma non ha la percezione di una logica superiore, provvidenziale, che regoli l’ordine delle
cose. Il Bellum Civile celebra l’anti-mito di Roma: esso rievoca non gli inizi, l’esemplare passato
remoto, sotto gli auspici degli dei, ma il tracollo recente di Roma, il declino e la dissoluzione della res
publica. Non c’è più la consueta invocazione alle Muse e per mettere in moto il meccanismo narrativo
non c’è bisogno dell’interferenza di una divinità e la materia mitologica lascia il posto al passato
recente di Roma. Lucano non si identifica nel cantore epico spersonalizzato, che si limita a registrare
i fatti in maniera oggettiva, ma vivacizza il racconto, intervenendo frequentemente con semplici
esclamazioni o più articolati giudizi. Ma il pessimismo di Lucano sembra incrinarsi nell’elogio di
Nerone, collocato in apertura del poema, dove le guerre civili sono presentate come un triste passaggio

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voluto dal fato lungo il cammino che porta all’avvento di Nerone; alla sua morte, l’imperatore sarà
assunto in cielo, e darà inizio a una nuova età d’oro per l’umanità. Riesce difficile credere che Lucano
abbia voluto fare dell’ironia; probabilmente questo elogio riflette la fiducia iniziale del poeta nella
possibilità che il giovane imperatore volesse indossare gli abiti del re-filosofo, seguendo gli
insegnamenti di Seneca.

I protagonisti del Bellum Civile


I personaggi si muovono su uno scenario che rivela anche in dettagli marginali la presenza della morte:
case crollate, cumuli di macerie, lande desolate, sterpaglie e ruderi accomunano paesaggi dell’Oriente,
dell’Occidente dell’Africa in un’unica prospettiva di rovina cosmica. Il degrado delle cose, come di
consueto, serve a tradurre in immagini il degrado morale. Non c’è un protagonista ben definito. È tutto
molto corale. Ad ogni modo, uno dei motori della vicenda è fin dall’inizio la contrapposizione tra
Cesare e Pompeo. Cesare appare guidato nelle sue azioni dal furor e dall’ira, è istintivo e fatica a
dominarsi: sotto questo aspetto l’immagine di Cesare viene a coincidere con il ritratto sallustiano di
Catilina, che ha incanalato la propria vitalità verso il soddisfacimento di pulsioni e aspirazioni
personali, incurante del bene della res publica. Il Cesare di Lucano è duro e deciso, si muove senza
troppi scrupoli ed esibisce quella smania di potere che appartiene alla tipologia convenzionale del
“tiranno”. In confronto a lui, Pompeo è l’eroe sconfitto, la vittima del Fato, veramente tragico nel suo
improvviso precipitare dalla grandezza alla rovina; ma bisogna anche ricordare che egli si presta a
difendere la formale regalità repubblicana e che, insieme a lui, precipita anche il destino di Roma.
Catone viene descritto come pio, rigoroso, risoluto, virtuoso.

Lingua e stile
Con il suo stile patetico e veemente Lucano ha intesto rendere la crisi della cultura romana
contemporanea e dei suoi schemi di lettura della realtà, osservandola attraverso il filtro di un
surrealismo allucinato e fantastico, di un espressionismo letterario che deforma immagini, parole e
rapporti sintattici. La sua scrittura è impregnata della concezione “tragica” di un’esistenza dominata
dall’irrazionale, quale quella che egli è andato maturando, in parallelo con l’involuzione del principato
neroniano. A volte lo scandaglio profondo delle più intime sfumature espressive causa oscurità,
sfociando in una densità di significato difficile da cogliere a una prima lettura. In altre circostanze,
Lucano cede al gusto per l’amplificazione e la sovrabbondanza, con un flusso torrenziale di parole e
immagini dall’aspetto paradossale. La ricerca dell’effetto si avvale di tutti gli strumenti della retorica
– iperboli, antitesi, metafore, invocazioni, sentenze, esclamazioni, color, amplificazione del particolare
– per dare voce allo stridente contrasto che il poeta avverte nella realtà delle cose. Il gusto dell’orrido
e del macabro si manifesta nelle dettagliate descrizioni di stragi, massacri e prodigi, nonché in scene
di morte e sofferenza fisica, ove il poeta indugia nel rappresentare, deformandola sino al grottesco,
l’espressione stravolta del moribondo nell’attimo del trapasso. Lucano predilige le tinte del rosso e del
nero, del pallore terreo della morte e dello scolorimento il riflesso accecante della luce.

Persio

La vita
La tappa fondamentale della sua vita fu l’incontro con Anneo Cornuto, uno stoico che Persio considerò
maestro di vita e di filosofia. Grazie a lui, Persio riuscì a non smarrire la retta via negli anni incerti
dell’adolescenza ed ebbe inoltre modo di conoscere personalità prestigiose nel campo della politica e
della cultura romana dell’epoca, come Trasea Peto, Lucano e Cesio Basso. La morte precoce impedì
a Persio di curare personalmente l’edizione delle sue opere, di cui si occupò Basso con la
collaborazione di Cornuto. Quest’ultimo consentì soltanto che fossero pubblicate le Satire, mentre non
volle che fossero divulgate le prime prove poetiche dell’allievo, come una praetexta dal nome Libro
di viaggi e alcuni versi d’elogio per la moglie di Cecina Peto.

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Le Satire
Possediamo la raccolta di sei Satire in esametri, accompagnate da un brano di 14 versi Coliambi,
un’invettiva nella quale il poeta polemizza duramente contro le mode letterarie del suo tempo. Nella
Satira I il poeta, rivolgendosi ad un interlocutore fittizio, attacca la letteratura contemporanea, viziata
da vuota ampollosità, cattivo gusto, narcisismo, esibizionismo e insaziabile brama di guadagno. La
Satira II è rivolta contro la religiosità falsa e superstiziosa di quanti rivolgono preghiere ipocrite agli
dei, per ottenerne vantaggi meschini. La Satira III contiene i rimproveri a un giovane ozioso e
dissoluto, e l’esortazione a seguire la filosofia stoica, per abbandonare i vizi e realizzare la propria
libertà interiore. La Satira IV comincia con Socrate che rimprovera al giovane Alcibiade di dare
troppo peso ai beni esteriori, e da qui lo sviluppo di una riflessione da parte di Persio sul conoscere
se stessi. Nella Satira V il poeta rievoca l’incontro con Cornuto, che lo ha avviato alla filosofia, mentre
nella seconda parte è sviluppata l’idea stoica della libertà interiore del saggio. La Satira VI condanna
il desiderio smodato di guadagno e prende di mira i due vizi opposti dell’avarizia e della prodigalità.
La satira di Persio è caratterizzata dall’estremo rigore moralistico, che si traduce in un atteggiamento
aspro e aggressivo, in una lotta aperta contro il vizio in tutte le sue possibili manifestazioni.
Persio si erge a maestro di virtù, a medico dello spirito: fustiga il vizio, combatte la mollezza,
aggredisce, attacca, inveisce. Questa satira risulta diversa dalla censura sorridente operata da Orazio
(di cui è comunque debitore). Il fatto di prendere coscienza del male suscita naturale disprezzo e
ripugnanza.

La poetica di Persio e i Coliambi


Nei Coliambi è adombrato un vero e proprio programma poetico. Il primo punto su cui si sofferma
Persio è la propria estraneità rispetto alla tradizione del poeta “vate”, che vanta un’ispirazione
superiore, di natura divina. Perso non ha mai bagnato le labbra alla mitica fonte Ippocrene, né mai ha
sognato sul Parnaso dalle due cime, entrambi atti simbolici dell’iniziazione poetica: egli si proclama
semipaganus, ossia poeta rozzo.

Lingua e stile
Lo stile oscuro di Persio è voluto: vuole aggredire il lettore, non dilettarlo. La sua è una lingua di cose,
scabra, che ammette forme popolari, gergali e onomatopeiche, e grecismi. Persio mira alla brevità
espressiva, ma a una brevità densa, immaginifica, concettosa e allusiva, poiché solo un lettore colto e
raffinato può comprendere la sua poesia in tutte le sfumature.

La poesia minore

I Priapea
Raccolta di 80 carmi, verisimilmente opera di un unico poeta, da collocare dopo Marziale. I
componimenti, perlopiù brevi, celebrano in vari metri (endecasillabo falecio, distico elegiaco,
coliambo) la figura di Priapo, divinità di cui si tenevano rozzi simulacri in orti e giardini e il cui segno
distintivo era un enorme membro virile. Nei Priapea il dio è protagonista di situazioni erotiche che
portano costantemente in primo piano la sua potenza virile, ma il poeta cerca di sfuggire al rischio
della ripetitività dando vita a composizioni di vario tipo. L’oscenità è diffusa, il tono è spesso grottesco
e talvolta scivola nella pornografia.

Petronio

La vita
Come lo descrive Tacito “Egli trascorreva le giornate dormendo, la notte attendendo alle faccende e ai
piaceri; tuttavia, come proconsole di Bitinia e più tardi come console, si mostrò energico e all’altezza

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dei suoi compiti; ricaduto poi nei vizi, venne accolto tra i pochi intimi di Nerone; arbitro d’eleganza a
tal punto che l’imperatore non riteneva buono se non quello che Petronio gli avesse fatto gustare; di
qui l’odio di un servo invidioso, Tigellino”. Dopo la calunnia di quest’ultimo, decise di tagliarsi le
vene.

Il Satyricon
Dell’opera sono rimaste brevi citazioni di eruditi e grammatici e una serie di estratti di varia lunghezza
organizzati in 141 capitoli. Tali estratti ci son pervenuti in due gruppi: gli excerpta maiora, ovvero una
redazione ampia che comprende tutto quanto sopravvive dell’opera, ad eccezione del celebre episodio
della Cena Trimalchionis; gli excerpta minora, così detti perché noti da un numero maggiore di
testimoni, che riportano stralci più brevi, con una preferenza per le massime morali e le parti in versi.

La struttura e l’intreccio del Satyricon


Il racconto ruota intorno alla vicenda d’amore omosessuale di Encolpio e Gitone, che vuole riprodurre
le vicissitudini amorose di cui erano protagonisti giovani e fanciulle nel romanzo sentimentale
ellenistico, prima di giungere a un’unione stabile e definitiva. Nel Satyricon l’ira divina, il caso, le
manovre ostili di personaggi antagonisti danno vita ad una serie ininterrotta di peripezie e la vicenda
dei due amanti procede con ritmo incalzante e frenetico, tra separazioni forzate e lieti ricongiungimenti.
La narrazione è affidata allo stesso Encolpio, giovane scanzonato, capace di episodici exploit
culturali, nonché di intense esperienze d’amore; suoi degni compagni sono Ascilto e Gitone, il giovane
amato. La sezione del romanzo che ci è giunta vede questi gaudenti coinvolti in una serie di
disavventure, spesso a sfondo boccaccesco, sullo sfonda di una Graeca Urbs (Napoli): all’origine c’è
una non meglio chiarita colpa commessa nei confronti del dio Priapo, la cui vendetta si attua nella sfera
sessuale. Dopo uno spregiudicato festino nella casa di Quartilla, i tre partecipano a una cena offerta da
Trimalchione, un ex schiavo che ama fare sfoggio di sé non solo di fronte ai suoi pari, ma anche a
intellettuali in miseria che si trovano tra i suoi convitati. La Cena Trimalchionis costituisce il segmento
più lungo del testo petroniano a noi giunto e si snoda lungo una grottesca successione di esibizioni di
cattivo gusto, dalle portate faraoniche alle rozze trovate con cui Trimalchione vuole sorprendere i suoi
ospiti. Nei 52 capitoli della Cena, Petronio traccia un ritratto degradato della società romana, in
particolare del ceto dei liberti, di cui vengono portate in primo piano le carenze psicologiche, colte nel
penoso tentativo di riscattare le
modeste origini facendo mostra dei segni esteriori del successo. Esaurito l’episodio della cena,
compare un altro discutibile personaggio, Eumolpo, poetastro caratterizzato da un’incontenibile vena
e dagli intensi trascorsi amorosi. La scena si sposta su una nave diretta a Crotone, dove i personaggi
giungono dopo essere scampati ai pericoli del mare; qui essi riprendono la loro vita improntata alla
simulazione e all’inganno. Encolpio, che si fa chiamare Polieno (e per l’occasione recita la parte di
uno schiavo) ha una relazione con una matrona del luogo di nome Circe e con la sua ancella. Il romanzo
si chiude con la lettura della clausola testamentaria disposta da Eumolpo con l’intenzione di far
desistere i cacciatori di eredità: chi vorrà i suoi beni dovrà fare a pezzi il suo cadavere e cibarsene in
pubblico.

Le “novelle” nel Satyricon


Nel Satyricon la narrazione è spezzata in 4 punti dall’inserzione di parentesi a carattere novellistico,
veri e propri racconti nel racconto. Durante il banchetto offerto da Trimalchione il liberto Nicerote
narra l’incredibile avventura che ha vissuto quando un uomo che lo accompagnava in un suo viaggio
si trasformò in un lupo e scomparve nel bosco; più tardi lo ritrovò con una ferita ricevuta quando aveva
assalito un pollaio. Tocca dunque a Trimalchione rievocare un episodio della sua giovinezza, quando
vennero le streghe a sottrarre i visceri di un giovane morto da poco, lasciando il cadavere impagliato.
Hanno invece sfondo erotico e mostrano anche tratti salaci i racconti di Eumolpo, che narra di come
riuscì a sedurre una giovane fingendosi una persona morigerata e attacca i costumi delle donne

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portando come esempio la celebre vicenda della matrona di Efeso. Un soldato, posto a guardia di
alcuni cadaveri, era riuscito a fatica a confortare una donna, che vegliava la salma del marito morto,
e l’aveva sedotta; nel frattempo, tuttavia, il cadavere di uno dei ladroni era stato sottratto dalla croce
dai familiari, per dargli sepoltura: nel timore che il soldato fosse punito con la morte, la donna suggerì
di appendere sulla croce lasciata vuota la salma del marito.

La poesia nel Satyricon


Nel tessuto del Satyricon troviamo di frequente brevi inserti di poesia, che producono una multiforme
varietà di ritmi, toni e colori narrativi. La commistione di prosa e poesia (prosimetro) è un tratto tipico
della satira menippea. Ma c’è un personaggio per il quale l’esibizione poetica rappresenta una vera e
propria malattia: Eumolpo. A lui Petronio fa pronunciare le due “tirate” di poesia più lunghe, in sé due
piccoli poemi: la Troiae halosis e il lungo brano sul Bellum Civile. La prima ricorda Seneca per la
forma e lo stile, ma anche Virgilio per il tema, mentre il secondo ci rimanda per i contenuti al poema
epico di Lucano sulla guerra civile tra Cesare e Pompeo ed è introdotto da una riflessione di Eumolpo
sulla decadenza della poesia: ai nuovi poeti che hanno alle spalle un tirocinio oratorio egli oppone
l’antica immagine del poeta vate, della poesia come furentis animi vaticinatio.

Il protagonista-narratore
Il racconto del Satyricon dipende dalla “voce” narrante di Encolpio: oggetto del discorso è il suo stesso
viaggio, spesso paradossale e grottesco. Il lettore può riflettere sui caratteri e i valori della società con
cui l’“eroe” viene a contatto nel suo peregrinar: il romanzo si presta a essere una convincente
documentazione di una società corrotta e depravata. Tuttavia il viaggio di Encolpio, simile a quello di
Ulisse, non diventa occasione di presa di coscienza, o di maturazione personale dell’eroe: non si avvia
mai a diventare una persona autentica, non riesce ad elaborare in positivo una sua personalità
consapevole, ma si lascia coinvolgere nelle vicende senza pervenire a una visione oggettiva e distante
delle stesse. Anche quando la situazione si fa drammatica, l’Encolpio petroniano preferisce sfuggire a
tali dilemmi, senza attivare un meccanismo di riflessione autentica e profonda: preferisce rifugiarsi in
luoghi comuni e imitazioni di personaggi “tragici”.

La morte
Tra gli invitati della Cena ci sono un impresario di pompe funebri e un marmista, con il quale
Trimalchione discute del proprio monumento funebre; a tavola si parla dei funerali cui i convintati
hanno appena partecipato; affiorano sentenze di tono filosofico sulla caducità dei mortali. La rilevanza
che la morte acquista nei loro discorsi corrisponde a quella che ha nella loro esistenza. La continuità
tra morte e vita si realizza nell’atto testamentario. A Roma era tristemente nota la figura del captator
(cacciatore di testamenti) che diventa modello per la paradossale caratterizzazione dei Crotoniati: a
parlare è un vilicus (contadino) che mette in guardia i protagonisti scampati al naufragio, raccontando
che a Crotone tutti si dividono in due categorie: i raggirati e i raggiratori. In questa città nessuno
riconosce i figli, perché chiunque annovera eredi legittimi non viene ammesso a cene/spettacoli, ma
viene escluso da ogni svago. Quelli che invece non hanno moglie e non possiedono parenti prossimi
conseguono gli onori più alti.

Il caso, l’inatteso e l’incredibile


Trimalchione organizza durante il banchetto una piccola lotteria: l’attenzione per ciò che è
sorprendente, la disponibilità a rimettere tutto nelle mani di un caso che può esaltare o distruggere
l’individuo, non riguardano il solo Trimalchione, ma fanno parte del patrimonio dell’intera classe dei
liberti, che all’arbitrio del caso devono il riscatto dalla loro umile origine. Esibire, per loro, significa
essere. L’ostentazione, a sua volta, genera attesa di cose nuove e suggerisce nuove opportunità di
esibizione: alla sorpresa segue il compiacimento, quindi la ricerca di nuovi effetti ancor più
sorprendenti, come i mirabolanti cibi disposti a imitazione dello zodiaco, l’improvvisa irruzione nella

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sala di cani da caccia o il cinghiale sul vassoio da portata, dal cui ventre aperto si alza uno stormo di
uccelli.

Valerio Flacco

Valerio Flacco e l’epica mitologica


Le Argonautiche sono un poema epico a carattere mitologico che, in 8 libri di esametri, racconta
l’avventura degli eroi partiti sulla nave di argo per la Colchide, alla ricerca del vello d’oro di un
leggendario montone: l’usurpatore Pelia, infatti, ha imposto a Giasone quest’impresa. Dichiarazione
del tema del canto e proemio, invocazione a Vespasiano, preparativi per la partenza (libro I);
nell’isola di Lemno gli Argonauti sono accolti dalle Amazzoni (libro II); continuano le peregrinazioni
marine e a Cizico si trovano a
combattere con il re locale, in Misia Ercole viene abbandonato mentre è alla ricerca dello scomparso
Ila (libro III); la nave Argo attraversa gli scogli delle Simplegadi (libro
IV); arrivo in Colchide e accoglienza del re locale Eeta, che chiede aiuto militare in cambio del vello
(libro V); Giunone e Venere si alleano per far innamorare Medea, la figlia di Eeta, di Giasone (libro
VI); Medea mette a disposizione di Giasone le sue arti magiche (libro VII); Giasone, padrone del
vello, fugge portando con sé Medea, ma Absirto (fratello di lei) li insegue, chiedendo la restituzione
della donna (libro VIII). A questo punto, dopo 467 esametri, si interrompe il racconto. Valerio segue
da vicino il racconto di Apollonio Rodio, pur filtrandolo attraverso i moduli espressivi dell’epica
virgiliana: la caratterizzazione dei personaggi è esemplata sulle figure dell’Eneide. La riscrittura di
Valerio non è mera traduzione, ma introduce innovazioni, dilata e contrae le sezioni del racconto,
insiste sugli elementi patetici. È il segno di un’epica che ha imboccato la strada del romanzesco.

I personaggi
La Medea valeriana è una donna impressionabile, dall’esasperata sensibilità, esperta negli incantesimi
e, insieme, intensamente femminile. Su di lei, lacerata tra l’amor verso Giasone e il pudor, incombe
una serie di tristi connotazioni che lasciano presagire gli amari sviluppi della vicenda. Giasone è
rappresentato come un novello Enea alle prese con una missione divina, che lo mette in condizione di
intrattenere un rapporto privilegiato con le divinità e di assurgere a protagonista del racconto; Giasone
non è sovrumano, ha sentimenti e debolezze come tutti gli uomini, e avrà pure bisogno della magia di
Medea per superare gli ostacoli che si frappongono al compimento dell’impresa.

Silio Italico

La vita
Possedeva parecchie ville e collezionava libri, opere d’arte e ritratti. Vittima di un male incurabile, si
lasciò morire di fame.

Il poema sulla Seconda Guerra Punica


17 libri. Compie un compromesso tra il classico Virgilio e il moderno Lucano: il suo poema tratta
eventi storici, ma non l’episodio infelice e tragico delle guerre civili, bensì l’epoca più l’epoca più
gloriosa di Roma, quella dello scontro vittorioso con Annibale e i Cartaginesi (219-202 a.C.). Annibale
giura odio eterno verso Roma, e in Spagna stringe d’assedio Sagunto dando inizio alla guerra (libro
I); la città alleata cade nelle mani del nemico e molti suoi abitanti scelgono la morte volontaria (libro
II); Annibale penetra in Italia e sconfigge più volte i Romani, Ticino/Trebbia/Trasimeno (libro III a
V); Quinto Fabio Massimo è nominato dittatore e adotta una tattica di prudente attesa e logoramento
del nemico (libro VI-VII); battaglia di Canne e grave sconfitta dei romani (libri VIII a X); Annibale
rimane in Italia ma non riesce a ottenere la vittoria decisiva (libri XI-XII);intanto i Romani
riconquistano Capua, ma sul fronte spagnolo muoiono i due Scipioni (libro XIII); Claudio Marcello

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ottiene un’importante vittoria a Siracusa (libro XIV), cui ne seguono altre fino al successo definitivo
si Scipione Africano a Zama, seguito dal trionfo (libri XV a XVII). Il poema è una celebrazione delle
risorse del popolo romano, non ancora intaccato dal degrado morale in cui l’opinione comune vedeva
la causa del successivo declino. Con qualche cautela, possiamo parlare di una riscrittura in chiave epica
virgiliana della materia della terza decade di Livio.
I personaggi
La figura divina più rilevante è quella di Giunone, inflessibile nemica di Roma, con tratti a volte
tenebrosi, che ricordano la figura della maga in Lucano. All’inizio del poema troviamo descritta la
macabra soddisfazione della dea che nella sua preveggenza pregusta le sconfitte destinate ad abbattersi
sui Romani: davanti ai suoi occhi si profilano in orrida successione gli scenari delle battaglie, dal
Trebbia fino a Canne. Assieme a Giunone appaiono altre divinità e le personificazioni di Virtus e
Volputas che appaiono a Scipione, ponendolo di fronte alla scelta tra una vita di sofferta gloria e una
di comodo godimento. Per quanto riguarda i personaggi umani, non si trova nei Punica un
protagonista in senso assoluto, che accentri su di sé l’intero racconto, e lo stesso Scipione ha un ruolo
di rilievo soltanto nella parte finale. Attilio Regolo è l’eroe duro e severo, che non si lascia piegare
dalle insistite suppliche della moglie e degli altri congiunti, ma, secondo la parola data, riprende il
mare per tornare a Cartagine, dove lo attende il destino di una morte dolorosa. Di una valenza
altrettanto esemplare, ma di segno opposto, è caricato Annibale, l’eroe negativo, espressione piena del
furor barbarico e strumento dell’odio di Giunone. Nel delineare la figura di nemico odioso ed empio,
Silio procede a un’esasperazione fino al grottesco dei dati tradizionali. Ad esempio, il celebre episodio
del giuramento di odio eterno contro Roma prestato da Annibale, ancora bambino, al padre Amilcare
è riproposto da Silio in un’atmosfera cupa e orrida, tra busti marmorei che trasudano, spiriti che vagano
per aria, fuochi che brillano sugli altari ecc.

Papinio Stazio

La Tebaide e la scelta dell’epica


La prima delle opere conservateci è un poema epico di argomento mitologico, in 12 libri, la Tebaide,
che richiese dodici anni per l’elaborazione. Il tema è offerta dalla lotta fratricida dei figli di Edipo e
Giocasta, Eteocle e Polinice, che si contendono il potere sulla città greca di Tebe: Polinice, ritenendosi
defraudato, stringe alleanza con la città di Argo e guida una celebra spedizione militare (7 contro Tebe)
contro la propria patria. Alla fine, entrambi i fratelli trovano la morte. Edipo compiange il destino dei
figli mentre Giocasta si toglie la vita. La leggenda tebana ebbe una grande diffusione letteraria
nell’antichità. La composizione staziana ha un debito con i grandi modelli dell’epica classica, Omero
e Virgilio. Nello stesso tempo non è estranea l’influenza di Lucano e di Seneca tragico, riscontrabile
nella propensione ad evidenziare gli aspetti più truci e macabri.
Proprio questi due autori, d’altra parte, hanno fornito il modello del “barocco” staziano, che risulta in
un gusto marcato per immagini cariche fino al limite del grottesco (come la descrizione della vendetta
di Tideo verso un nemico, a cui mozza la testa). L’atmosfera luttuosa dell’opera riflette la “teologia”
staziana: nonostante il pantheon sia quello virgiliano, esso è culturalmente diverso, sicchè le forze di
un cieco Fato e del male assumono un rilievo particolare e lo stesso Giove non appare benevolo nei
confronti dell’umanità. L’universo staziano è retto da una logica di morte e distruzione, in cui il Fato,
Giove e le forze degli Inferi sono gli artefici, mentre gli uomini fanno la parte delle vittime. Uomini
che appaiono in gran parte rigidi e irremovibili sulle loro posizioni, pronti a farsi valere con le armi,
invasati da un furor bellico che li spinge alla rovina.

La poesia delle Selve


Le Selve sono una raccolta di poesie d’occasione per un totale di 32 componimenti divisi in 5 libri.
All’inizio di ogni libro si trova un’epistola in prosa, che contiene la dedica. Le poesie sono scritte
prevalentemente in esametri, ma non mancano esempi di metri diversi (strofe saffica e alcaica,

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endecasillabo falecio). Molte le tematiche: descrizioni retoriche di edifici, oggetti, animali; elogio,
consolazione, composizione funebre, epitalamio, celebrazione del compleanno, poesia per
accompagnare il viaggio e altro ancora. Parliamo di poesia leggera, che scaturisce a caldo da
circostanze occasionali. Per Quintiliano, con silvae si indicherebbe una raccolta di componimenti a
uno stato parzialmente “grezzo”, in attesa di una più compiuta elaborazione. L’elemento unificatore
della poesia staziana, il legame che unisce il canto epico al componimento d’occasione, si può
individuare nella pervasiva presenza della doctrina, che si manifesta nello sfoggio di erudizione (parole
rare o usate in nessi “preziosi), nell’abbondante apparato retorico e nella riproposizione dei luoghi
comuni delle diverse tipologie poetiche rappresentate. L’insistenza del poeta sulla rapidità della stesura
non starebbe ad indicare quindi approssimazione, quanto piuttosto il carattere occasione dei carmi,
legati a circostanze contingenti. È poesia cortigiana, che mira alla gratificazione immediata in una
circostanza precisa e a conquistare popolarità a corte. La poesia delle Selve è brillante e stimolante al
pari degli oggetti e delle circostanze da cui trae ispirazione: quand’anche si tratti di cose futili o banali,
esse sono nobilitate con un raffinato uso dell’amplificazione retorica.

L’epica romanzesca dell’Achilleide


Stazio dedicò gli ultimi anni della sua vita a un nuovo poema epico, l’Achilleide, interrotto all’inizio
del libro II dalla morte del poeta. Il racconto non inizia con la guerra di Troia, ma con la prima
giovinezza dell’eroe, che appare con un’immagine più umana e delicata, non come guerriero dalle
intense passioni. È difficile stabilire con certezza le fonti di quest’opera; d’altra parte è proprio
nell’elegia latina che vengono maggiormente alla luce i tratti sentimentali dell’eroe (lettera di Briseide
ad Achille, terza delle Heroides ovidiane). Tetide apprende da una profezia che Achille morirà a
Troia, ergo chiede a Giove di modificare il corso dei fatti; si reca in Tessaglia dove il figlio
adolescente viene educato dal centauro Chirone; lo conduce a Sciro e lo fa travestire da fanciulla,
affinchè possa confondersi tra le damigelle reali. I Greci si inventano uno stratagemma per scovare
Achille tra di esse, portando dei doni: tutte scelgono diademi o cembali, lui lo scudo di Ulisse, e quindi
viene smascherato. Dopo 167 versi del libro II, il poema si interrompe. Achille viene presentato come
fiero ma anche infantile. L’Achille staziano vive il conflitto tra eroismo e amore (per Deidamia), in
un’epica dai colori chiari e luminosi (molto distante dalle atmosfere della Tebaide), aperta a temi
sentimentali e romanzeschi.

Marziale

La vita
Uomo ricco d’ingegno, fine, penetrante, mordace. Nacque a Bilbilis, in Spagna. Poco dopo i vent’anni,
si trasferì a Roma, già meta dell’illustre famiglia di Seneca, ma estese le sue conoscenze ad altre
personalità di rilievo come Calpurnio Pisone e altri. Nell’80 d.C., quando Tito inaugurò l’anfiteatro
Flavio, Marziale gli dedicò una raccolta di epigrammi legati proprio a quell’occasione, il Liber de
spectaculis. In questo modo conquistò la benevolenza dell’imperatore, che gli conocesse il ius trium
liberorum e l’onorificenza di tribunus. Alla fama non seguì il benessere: durante il periodo di
Domiziano, fu costretto all’umiliante vita del cliens, che si reca di buon mattino alla casa del patronus
per il rituale del saluto: quest’esperienza, accompagna dal contatto diretto con ambienti corrotti e
personaggi ipocriti e immorali, andò a costituire il centro ispiratore della sua poesia e l’alimento
continuo di un crudo realismo. Agli anni tra l’85 e il 97 risalgono i 12 libri di Epigrammi, ai quali è
legata la fama di Marziale. Qui Roma assume i contorni di un luogo invivibile. Fa eccezione Imola,
dove si era recato per avere un po’ di quiete. Nel 98 il poeta torna in Spagna. A Bilbili la ricca vedova
Marcella gli donò un podere con villa annessa, così che il poeta potè finalmente godere di quella
tranquillità spesso vagheggiata durante il soggiorno romano. Morì nel 103.

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Marziale e l’epigramma
Ben presto Marziale indirizzò la sua poesia verso il genere che lo avrebbe portato ad essere il più
celebre autore di epigrammi della letteratura romana. All’inizio intendeva forse dedicarsi a una poesia
dai contenuti e dai toni più elevati, di cui è “spia” rivelatrice lo spazio concesso alla mitologia nella
sua prima opera, il De spectaculis. Le figure del mito rappresentano modelli generali con i quali il
poeta pone a confronto avvenimenti e gesti quotidiani. Convenzionale, ad esempio, è l’accostamento
della matrona Levina alla casta Penelope prima, quindi all’adultera Elena. Rispetto all’epica,
l’epigramma consentiva a Marziale di far spaziare la propria ispirazione in un orizzonte più vasto,
prestandosi duttilmente a registrare i moti più delicati dell’anima, ma anche a rendere un approccio
meno lirico, più direttamente realistico al mondo esterno, compresa la sfera sessuale.
Breve poesia scritta per un’occasione specifica o “biglietto” letterario che accompagna un dono,
l’epigramma era da tempo svincolato dalla primitiva funzione votiva che lo legava indissolubilmente
a un supporto concreto. A Roma l’epigramma si era per lo più specializzato sulla tematica amorosa,
ma non erano escluse altre aree tematiche e talora la penna del poeta poteva orientarsi sui modi della
satira, prevalenti in Marziale. L’opera di Marziale comprende 1561 epigrammi, raccolti in 15 libri, per
un ammontare complessivo di 9787 versi. Liber de spectaculis, Xenia e Apophoreta, Epigrammi
(dodici libri).

Il Liber de spectaculis, Xenia e Apophoreta


Il Liber de spectaculis (33 epigrammi) è giunto incompleto, dal momento che non vi si trovano
registrati tutti gli spettacoli che furono tenuti per l’inaugurazione dell’anfiteatro Flavio nell’80 d.C.;
l’ultimo epigramma, attacco a Domiziano, disonore della dinastia dei Flavi, fu composto dopo la sua
morte, e la sua collocazione in questo libro è ingiustificata. Si tratta di poesia celebrativa della casa
imperiale, che presuppone la ricerca di uno stretto contatto tra il poeta e la corte, ma per noi moderni
può rappresentare una presa diretta sul vibrante mondo degli spettacoli che a quei tempi avevano
come cornice il Colosseo, una testimonianza privilegiata sulla vita reale di Roma antica.
L’epigramma dì apertura si propone di esaltare la magnificenza del nuovo anfiteatro. Per
l’inaugurazione si possono trovare a Roma uomini delle genti più lontane. Seguono descrizioni di
giochi dell’arena, e di mimi a tema mitologico, di un combattimento di gladiatori e perfino di una
battaglia navale, con l’arena colmata d’acqua. Le due raccolte Xenia e Apophoreta hanno nomi greci,
che indicano i doni da inviare agli amici e quelli offerti agli ospiti da portare a casa. Si tratta anche in
questo caso di poesia d’occasione, che ci riporta alla prassi di scambiarsi doni nella ricorrenza dei
Saturnali. Durante questa festa, tenuta in onore di Saturno (padre di Giove), si annullavano le distanze
tra schiavi e padroni, che mangiavano alla stessa tavola, quando addirittura non si assisteva a uno
scambio di ruoli! In questo clima gioco era prassi offrire e ricevere gli amici a pranzo e scambiarsi
doni di varia natura secondo le possibilità del donatore.

Gli Epigrammi
I 12 libri degli Epigrammi, composti in rapida successione, ci rivelano che il pubblico di Roma sa
apprezzare la poesia di Marziale: una poesia d’intrattenimento, ricca di spunti autobiografici, che
rivolge i suoi strali contro bellimbusti e gaudenti, pervertiti e immorali, parvenus e pezzenti, parassiti
e cacciatori di dote, avari e dissipatori, mostrandoceli solo nelle loro manie e ipocrisie. Tecnica
epigrammatica molto utilizzata in quest’opera dal poeta è l’amplificazione alla rovescia, in virtù del
quale il cinghiale del bosco calidonio è ridotto alle dimensioni di un topo, e alla paronomasia, il gioco
verbale tra parole come praedium e prandium; si osservi anche come lui fissi la propria attenzione su
un qualcosa (ad es., un podere) scomponendolo in una molteplicità di immagini particolari, che
vengono presentate in rapida successione. In altri casi il poeta si affida alla battuta breve,
all’affermazione inattesa, seconda la tecnica del aprosdoketòn (colpo di scena). Anche il gioco di
parole è una risorsa importante di ridicolo, nelle diverse forme e che esso può assumere, dall’ambiguità
semantica, alla paronomasia, al vero e proprio bisticcio. Gli epigrammi di Marziale assumono spesso

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carattere satirico o di aperta derisione: egli non esita a soffermarsi sugli amori suoi e altrui, a mettere
a fuoco nella sua poesia la vita di matrone solo apparentemente caste. Il poeta non risparmia alcuna
classe sociale, ma anche qui il bersaglio del poeta è il “tipo”, quella figura di cui sono messi in
evidenza, ingigantiti, i tratti che attestano la sua appartenenza a una categoria più generale. L’oscenità
è la cifra poetica più caratteristica della produzione di Marziale.

Lingua e stile
Alternanza di registri stilistici sublimi e bassi. Richiami a motti celebri. Figure retoriche, come
metonimia, enallage e ripetizione.

Plinio il Vecchio

La vita e le opere perdute


La produzione letteraria di Plinio fu vasta e differenziata, ma presenta un’impronta ora didascalica ora
educativa: accanto a una biografia dell’amico Pomponio Secondo scrisse un trattatello sulla tecnica
equestre del giavellotto, un’opera sulla formazione dell’oratore e una di linguistica. Sono ricordati
anche due lavori storici: i Bella Germaniae (20 libri) che narravano le guerre condotte contro i Germani
dall’età di Cesare al 47 d.C.; e i 31 libri A Fine Aufidii Bassi, che si riallacciavano all’opera dello
storico Aufidio Basso, coprendo un arco di tempo compreso tra il 50 e il 71. Tutti questi scritti sono
andati perduti.

La Storia della natura: forma e caratteri


A Plinio dobbiamo una vastissima raccolta del sapere scientifico dell’antichità, la Naturalis historia
(37 libri). Questa grande sistemazione erudita ha origine in un’inesauribile sete di sapere dell’autore,
che avrebbe consultato circa 2000 volumi in latino e in greco, nella convinzione che non ci fosse libro
che non contenesse indicazioni utili. Lo sforzo di selezionare e disporre i materiali in un’esposizione
ordinata, il voler conferire all’opera un carattere enciclopedico, serviva a riscattare quella minore
dignità personale che si poteva concedere al sapere tecnico. Anche nell’opera pliniana domina un
impianto metodologico di tipo deduttivo, che limita fortemente la portata e la funzione della pratica
sperimentale. Importante per Plinio fu l’opera di Varrone, anch’egli raccoglitore e sistematizzatore di
nozioni. Di cosa parla l’opera? Di regno animale, botanica, minerali.

Plinio filosofo, moralista e scienziato


Nella concezione pliniana la natura rappresenta un’unità unitaria, globale, un luogo del divino che gli
scienziati devono indagare in tutti i suoi aspetti. Plinio persegue una conoscenza della legge universale
che possa corrispondere ai bisogni umani. Così, se anche per lui vale l’idea diffusa che l’andar per
mare trovi le sue motivazioni nell’avaritia, non potrà peraltro esimersi dal fornire utili ammaestramenti
perché possa essere meno rischioso. Il principio dell’utilità si allinea sul piano sociale alla politica dei
Flavi di contenimento del lusso e degli eccessi caratteristici dell’età neroniana: Plinio è uomo di
fondamentale moralità, convinto che Roma sia tuttora coinvolta in un processo di generazione, che
avrebbe avuto inizio a metà del II secolo a.C. quando, conquistata la Grecia e sconfitta Cartagine, oro
e argento penetrarono nell’Urbe in gran quantità. L’agire umano è ispirato da colpevole lux uria et
avaritia, che spingono a procacciarsi di nuovi oggetti di godimento, arrivando ad usare anche violenza
contro la natura. Ma Plinio è nello stesso tempo consapevole che si tratta di un costume ormai radicato
e impartisce indicazioni e consigli anche a chi è interessato a beni di lusso, o ama gustare funghi ecc.
Bisogna conoscere la natura per capire cosa possa offrire di positivo all’uomo. Ma anche di negativo,
come le malattie. Contro di esse, Plinio schiera le armi della medicina.

Columella, Pomponio Mela e Celso


Columella, spagnolo, scrisse i Libri rei rusticae (12 libri) in cui parla di coltivazione dei campi,

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arboricoltura, allevamento del bestiame, orticoltura, ricette di cucina. Pomponio Mela, spagnolo anche
lui, scrisse il De corographia (3 libri), opera di geografia in cui descrive (secondo lo schema del
periplo, ossia, viene seguito l’immaginario percorso di una navigazione costiera) lo stretto di
Gibilterra, Scizia, Tracia, Macedonia, Grecia, Italia, Gallia, Spagna, Germania, India, Mar Rosso.
Celso compose il De medicina (8 libri), che si propone come pronto rimedio per bisogni concreti ed
impellenti.

Quintiliano

La vita
Di Calagurris, soggiornò a Roma dove potè studiare presso il grammatico Palemone e il retore Domizio
Afro. Tornato in patria, esordì come maestro di retorica. Fu precettore dei nipoti di Domiziano.
Perdette prematuramente la moglie 19enne e i due figli. Morì prima del 100 d.C.

L’Institutio oratoria
Ampio trattato di retori cadi 12 libri, preceduta da un’epistola al suo editore, Trifone. L’opera è
dedicata a Marcello Vitorio, alto funzionario di corte. L’autore prende in considerazione il sistema
educativo romano, con l’insegnamento elementare della grammatica (libro I) e della retorica (libro
II); vengono precisati i fini e l’utilità della retorica (libro III). Segue la trattazione delle diverse parti
del discorso: inventio, ossia individuazione degli argomenti (libri IV a VI); dispositio, la loro
collocazione in una struttura discorsiva ordinata e compiuta (libro VII); elocutio, la tecnica
dell’ornamento del dettato attraverso le figure retoriche (VIII a IX). Quintiliano riflette poi sulla
facilitas, la disinvoltura dell’espressione, che si consegue attraverso la lettura (libro X); esame delle
parti del discorso, ossia memoria e actio (libro XI). Delinea infine la figura del perfetto oratore (libro
XII).

La pedagogia di Quintiliano
Quintiliano mostra una particolare sensibilità per il problema dell’educazione, una sensibilità maturata
dall’esperienza di un lungo insegnamento. Egli è convinto che la personalità possa essere plasmata
in modo decisivo attraverso un’educazione appropriata, prolungata ma graduale, che educhi
intelligenza e volontà tramite un lavoro di applicazione costante. L’educazione non comincia dalla
scuola. Per questo Quintiliano consiglia di trovare nutrici di onesti costumi e dotate di un buon eloquio
e di utilizzare altrettanta cautela nella scelta del pedagogo cui veniva affidato il fanciullo dai 6 ai 16
anni, allorchè, deposta la toga praetexta, indossava la toga virilis. La figura del padre è centrale
nell’educazione di un figlio, che non deve ritenere separate famiglia e scuola in questo processo. Nella
pedagogia di Quintiliano non mancano intuizioni moderne, come l’educabilità estesa ai primissimi
anni, la funzione positiva del gioco nell’apprendimento, l’impulso che deriva all’educazione dalla
socialità e la rinuncia alle pene corporali, in favore di un’intesa aperta e di una fattiva collaborazione
tra maestro e discepolo. L’insegnante ideale deve possedere le qualità dello psicologo per comprendere
l’indole dell’alunno, e indirizzarlo verso studi che possano affinare la sua intelligenza. Il Quintiliano
pedagogo si esprime anche a proposito della scelta tra scuola “pubblica” e “privata”: c’erano, infatti
publici praeceptores e praeceptores domestici. Egli ritiene preferibile la scuola pubblica e sottolinea
come favorisca i rapporti sociali e stimoli l’allievo a definire il proprio comportamento in relazione al
gruppo.

Quintiliano e la formazione dell’oratore


Anche per Quintiliano l’oratore si identifica con il perfetto cittadino, è vir bonus dicendi peritus e
armonizza in sé competenze tecniche, qualità morali e culturali. Nel libro X dell’Istituzione oratoria,
egli propone una selezione di autori giudicati particolarmente rappresentativi alla formazione
dell’oratore. Quest’ultimo deve porsi come obiettivo l’imitazione (aemulatio) del suo modello,

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arrivando addirittura a gareggiarci contro.

Quintiliano e la letteratura
Il modello insuperato dell’oratore è Cicerone, che costituisce per l’oratoria latina un punto di
riferimento imprescindibile, al pari di Demostene per quella greca. Quintiliano mostra buon gusto nella
sua veste di critico letterario. Come tale, è pronto a riconoscere la superiorità della commedia greca su
quella latina, per la maggiore purezza linguistica e per la libertà del comico nella critica dei costumi.
La produzione elegiaca romana, ai suoi occhi, regge il confronto con quella greca.

Lingua e stile + Le opere perdute e spurie


Arcaismi lessicali, sententiae, stile colloquiale e decoroso. Tra le opere perdute abbiamo il De causis
corruptae eloquentiae. Tra quelle non autentiche, abbiamo Declamationes maiores e Declamationes
minores.

Dagli Antonini al Tardo Impero

Il contesto storico

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96-98 d.C.: Nerva imperatore; 98-117 d.C. Traiano imperatore (guerre daciche, contro i Parti); 117-
138 d.C.: Adriano imperatore (costruzione del vallo in Britannia , rivolta giudaica); 138-161 d.C.:
Antonino Pio imperatore (costruzione del vallo in Britannia); 161-180 d.C.: Marco Aurelio imperatore
(guerra contro i Parti, Quadi, Marcomanni, Sarmati); 180-192 d.C.: Commodo imperatore; 192 d.C.:
assassinio di Commodo.

Giovenale

La vita
Nato ad Aquino nel 60 d.C. La disinvoltura con cui egli si muove tra le tecniche della retorica ci
garantisce che ebbe una formazione scolastica completa. Venne etichettato da Marziale come
facundus, che fa pensare all’attività di avvocato.

La produzione poetica
Giovenale compose 16 Satire, per un totale di circa 4000 esametri, distribuite in 5 libri. Satira I: la
dilagante corruzione della società, tra delatori, cacciatori di testamenti, magistrati disonesti, scandali,
adulteri, brama di denaro e delitti, giustifica l’indignatio del poeta e la scelta di scrivere satire sui
vizi degli uomini; al fine di evitare risentimenti, Giovenale parlerà dei morti per colpire i vivi. Satira
IV: l’arricchito e corrotto Crispino, che compra a peso d’oro una triglia, suscita il ricordo di un
episodio avvenuto sotto Domiziano: un pescatore offrì all’imperatore un enorme rombo e subito
convocarono i senatori per discutere sul tegame per il pesce; la seduta si s sciolse dopo che fu
decretato di costruirne uno su misura. Satira V: il cliente seduto alla tavola del ricco patrono offre
un triste spettacolo di ridente contrasto; per Trebio non è una fortuna essere invitato a cena dal
patrono, infatti, in cambio di mille servigi, riceverà vino di pessima qualità servito in bicchieri crepati,
pane stantio e cibo di nessun valore, mentre il ricco signore godrà di vivande pregiate. Satira VII:
nel generale declino degli studi non è semplice la vita dei poeti, caduti in una povertà che non giova
alla loro ispirazione; non più felice è la situazione degli stoici, degli avvocati o dei grammatici, a
cui si offrono magri compensi. Satira X: pochi uomini sanno distinguere il vero dal falso bene; l’onore,
la ricchezza, la potenza, la gloria militare sono mete ambite, ma spesso causa di sventure; agli dei
si richiedono lunga vita o bellezza, anche se queste portano con sé dei svantaggi; unico vero
desiderio da confidare al dio è la sanità fisica e mentale. Satira XIV: senza alcuna forma di rispetto
e di tutela, i vizi dei genitori si trasmettono ai figli; dilapida il
patrimonio il figlio di chi spreca i suoi beni, il figlio dell’uomo avido è sottoposto a continue lezioni
di rapacità; solo la saggezza dona la felicità e rende sereni, insegnando ad accontentarsi di poco. Il
manifesto poetico di Giovenale è nella Satira I, laddove egli prende le distanze dalla moda di comporre
poesia mitologica. Apparentemente i motivi della sua poesia satirica ricalcano quelli della diatriba
cinico-stoica, orientata verso la denuncia delle depravazioni morali e sessuali, dell’avidità e
dell’avarizia, della rincorsa di vane e futili soddisfazioni. In Giovenale c’è un sentimento vivamente
nostalgico per la moralità, la religiosità, l’attaccamento alla Roma del passato, che rivive attraverso
personaggi illustri: l’ideale del poeta si sostanzia nel mos maiorum. La Satira VI è interamente dedicata
alla denuncia del malcostume e della vanità delle donne romane. Per Giovenale il mito non è oggetto
di poesia, ma può diventare termine di paragone ideale: Domiziano è implicitamente assimilato
all’incestuoso Edipo della tragedia per aver avuto una relazione con la nipote. La produzione più
recente di Giovenale (Satire VIII-XVI) ha un timbro differente: alla indignatio del primo Giovenale fa
seguito l’opzione letteraria per il riso, arma con cui combattere vizi e passioni.

Tacito

L’Agricola
Pubblicato nel 98, dopo l’ascesa di Traiano. Tacito compone uno scritto in onore di Agricola, il suocero

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che non aveva potuto commemorare con un elogio funebre ufficiale. Fin dalle prime prove nella milizia
in Britannia, Agricola cercava di conoscere la provincia e di farsi conoscere dall’esercito, di imparare
dagli esperti, di imitare i migliori. La penna di Tacito insiste sul suo ritorno a Roma, sul felice
matrimonio, sui primi successi politici. Tacito ritrae il suocero personalmente impegnato nelle
operazioni in Britannia, vigile nei rapporti col suo seguito e in quelli con il nemico sempre sedato,
magari prima atterrito e poi trattato con indulgenza, e conquistato con le dolcezze, i piaceri e il
benessere della pace, dell’urbanizzazione e della civilizzazione. Domiziano, invidioso per la risonanza
dei suoi successi, non placò i suoi avversi sentimenti quando Agricola tornò a Roma. Agricola rifiutò
il proconsolato d’Asia o d’Africa, fino al 93, anno della sua morte, a 53 anni compiuti. Nell’Agricola
è evidente la presenza della tradizione storiografica politico militare (Cesare), con andamento
cronologico annalistico. Interessi etnografici emergono poi dall’excursus sulla Britannia, mentre i
generi della laudatio funebris e della consolatio, lasciano traccia nei capitoli finali. Ci troviamo dunque
dinanzi a un’opera composita e dalle numerose influenze. Tacito esalta la moderatio di Agricola, la sua
onestà nonché la sua disponibilità al servizio e al dovere, utili al bene dello stato più che all’imperatore.
Lo scrittore loda dunque e insieme giustifica l’operato del suocero, presentando la sua prudentia e il
suo silentium, come virtù derivata dall’educazione ricevuta.

La Germania
Tacito si dedica nel 98 a Germania. Opera che presenta un disegno organico e sistematico, in cui si
riconoscono facilmente due sezioni, alla prima parte (1-27) in cui Tacito tratta della geografia dei
luoghi, delle origini mitiche, degli abitanti, delle risorse, dell’organizzazione militare, giuridica e
civile, della religione, delle consuetudini e degli usi in guerra ed in pace; segue una seconda (38-46),
in cui, partendo dalla zona del Reno e avanzando verso l’interno, si danno notizie specifiche sulle
istituzioni e i riti dei singoli popoli. La Germania si riconnette alla tradizione etnografica augurata da
Erodoto e ha una chiara valenza ideologica, che trascende la quantità e la qualità dell’informazione
etnografica fornita. Fieri e coraggiosi, i Germani amano la libertà e godono di un’incontaminata
semplicità di vita, la stessa che aveva permesso alla Roma antica di raggiungere il primato. Tra i
Germani i bambini crescono in ogni casa nudi e sudici, eppure acquistano quelle membra, quelle
corporature che noi guardiamo con meraviglia. Tutti vengono allattati dalla propria madre. I Germani
disprezzavano la poligamia, a differenza dei Romani. Ritenevano l’aborto una pratica infame. C’è
un’incondizionata esaltazione dei Germani, della loro virtus. La Germania costituisce un mondo
diverso, isolato, inospitale, rigido, inaccessibile, un’infelicità geografica a cui corrisponde
necessariamente un preciso carattere degli abitanti: i Germani autoctoni appartengono a un mondo
altro rispetto ai Romani.

Il Dialogus de oratoribus
Opera di dubbia paternità. I fatti si svolgono nel 75. Marco Apro e Giulio Secondo, luminari del foro
nonché maestri per Tacito, fanno visita a Curiazio Materno. Apro biasima Materno perché rinuncia
alla pratica oratoria, occupazione proficua, piacevole, che permette di acquistare notorietà a Roma e
presso tutti i popoli dell’impero. Si snoda quindi una prima disputa tra il valore dell’oratoria,
sostenuto da Apro, e quello della poesia, di cui Materno si fa portavoce. Sopraggiunge Vipstano
Messalla, che dà il via ad un dibattito sull’eloquenza antica e su quella moderna. Apro propende per
l’oratoria moderna, Messalla invece si sofferma sul declino di quest’ultima. Materno invita ciascuno
a godere dei vantaggi del proprio tempo, senza dire male di altri tempi, e chiude la conversazione
rinviando allusivamente alla pace garantita dall’optimus Traiano.

Le Storie
30 libri. L’inizio delle Storie, in linea con le norme del genere annalistico, è fissato al 1° Gennaio del
69, a morte di Nerone ormai avvenuta; Tacito doveva giungere al 96, anno della morte di Domiziano.
L’atteggiamento con cui si pone di fronte agli avvenimenti è “senza amore né odio”, con cui prende le

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distanze da quegli storici del principato che prima di lui scrissero con ignoranza, adulazione o
dispregio, senza curarsi della posterità. Tacito fu senz’altro testimone diretto di almeno parte delle
vicende riferite ed ebbe modo di ascoltare personaggi impegnati, da Agricola a Virginio Rufo, per
non parlare degli stessi protagonisti del Dialogus. Le fonti dovettero essere varie, come egli stesso
lascia intendere. Tra gli autore possiamo annoverare Vipstano Messalla e Plinio il Vecchio, autore di
Historiae perdute, che aggiornavano l’opera del predecessore Aufidio Basso. Accanto a reminescenze
liviane si riscontrano paralleli con Svetonio e storici greci più o meno contemporanei, che condivisero
le sue stesse fonti. Come procede Tacito? Fa una cernita dei dati acquisiti, sceglie la fonte più
attendibile, corregge gli elementi poco credibili ed esclude quelli secondari. In questa operazione egli
si mostrerà sempre attento a cogliere i sentimenti, i moti, le reazioni psicologiche degli individui, i
meccanismi collettivi e i rapporti di potere, nella ricerca delle cause più vere e nascoste degli
eventi. Tematica centrale dell’opera è la stabilità dell’impero. Grande è l’efficacia e la nettezza di tratti
con cui Tacito profila le figure dei grandi e dei potenti, sia nel male sia nel bene; ovvia è la speranza
di avere come re medium un buon imperatore; ma se così non fosse, meglio tollerarlo. Non auspicabili
sono le insurrezioni. Tacito sa bene che fondamentale è il successo riscosso presso le masse: per questo
egli si volge con sguardo pieno di disprezzo verso il vulnus, avvezzo ai teatri, facile da accattivarsi
nella sua stoltezza, indolente, volto ad adulare il nuovo tiranno. Vittima di sarcasmo sono anche i
soldati e il senato, visti come promotori di valori negativi quali lassismo, luxuria e depravazione.

Gli Annali
Ultima impresa letteraria di 16 libri. Tacito attinse a una tradizione vasta: Fabio Rustico. Cluvio Rufo,
Plinio il Vecchio, Aufidio Basso. Il risultato è una tragica riflessione sulla storia di Roma, che diviene
storia di individui, segnatamente degli imperatori Giulio-Claudii, accomunati da una progressiva
degenerazione. Tiberio riveste la figura del tiranno ipocrita, ambiguo e perverso; all’inizio esibisce
moderatio e liberalitas, apparendo così rispettoso del senato e nemico dell’adulazione; ma poi rivela
una crudeltà sempre crescente. Il resoconto del principato di Caligola non ci è pervenuto. La storia di
Claudio è quella di un imperatore debole e indolente, succube dei liberti e delle mogli, un uomo
dall’animo rude e scontroso; dedito agli studi e impegnato in questioni amministrative e culturali,
anch’egli subisce una progressiva degenerazione, marcata dalle nozze con la nipote Agrippina Minore.
Nerone, dopo una fase iniziale in cui esercitò il potere nel rispetto del senato, manifestò la sua natura
criminale con comportamenti dissoluti, scandali e uccisioni, prima tra tutte quella di Britannico e
poi di Agrippina; è mostro di ferocia e istrionismo. Esponente della storiografia senatoria, che guarda
al principato come all’effetto di una perduta libertà, Tacito sa che la sua materia non riuscirà dilettevole
e potrà suscitare risentimenti, ma ritiene che essa porterà giovamento nella rivalutazione dei più
profondi nessi causali degli eventi. Nel solco di una tradizione che vede nell’utilitas il fine della
scrittura della storia, Tacito propone esempi di virtus, perché è compito dello storico preservare
dall’oblio le azioni virtuose: accanto agli ambiziosi Seiano e Tigellino, alla dissoluta Messalina, ad
Agrippina troviamo la positiva moderazione di un Emilio Lepido, oppure la forza d’animo della moglie
del ribelle germanico Arminio, che non piange e non si umilia nella supplica. All’esaltazione della
virtus si presta in modo particolare l’exitus, il momento supremo della morte, in grado di riscattare una
vita e darle nuovo significato. La posizione dello storico di fronte agli atteggiamenti di aperto dissenso
e opposizione non è comunque netta: se da una parte rende onore alla morte di Trasea Peto, dall’altra
giudica politicamente infelice il suo gesto plateale di andarsene dal senato mentre i colleghi rendevano
omaggio a Nerone, creando per sé una ragione di pericolo senza che ciò comportasse per gli altri un
principio di libertà. Gli orizzonti mentali di Tacito non sono ristretti: egli sa infrangere i vincoli della
struttura annalistica incorporando ampie riflessioni su temi di vivo interesse e sulle istituzioni
politiche. La sua simpatia va ai valorosi condottieri cui si devono i trionfi di Roma, come Germanico
e il valente Corbulone, mentre non approva le cautele di Tiberio in politica estera. Vigile e attento,
Tacito continua ad interrogarsi sui fatti e lascia percepire uno scorrere del tempo verso il male, in una
visione della vita che si chiude in un cupo pessimismo e con una profonda sfiducia nell’aspetto

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costituzionale, in cui perfino le leggi sono soggette alla decadenza.

Lingua e stile
Arcaismi, forme poetiche, asindeti, ellissi, paratassi, iperbati, antitesi, brevitas.

Plinio il Giovane

L’epistolario
L’opera più importante è la raccolta delle Epistole, in 10 libri, che forniscono un quadro vivace e
dettagliato della contemporanea vita politica e culturale di Roma, documentando nello stesso tempo i
travagli e le soddisfazioni dell’esperienza di Plinio come scritto, avvocato e pubblico amministratore.
Il libro X (121 lettere) non è omogeneo rispetto ai primi nove, perché Plinio non voleva divulgare la
corrispondenza con Traiano, e quindi non la rielaborò; la successione delle lettere, diversamente dagli
altri libri, è cronologica. Per converso, la cura formale dell’autore è percepibile nei libri I-IX, nei quali
l’ordine cronologico è sacrificato a favore di un accostamento stimolante di argomenti e registri di stile
differenti, in omaggio al criterio della varietas. Il modello romano della scrittura epistolare è Cicerone:
Plinio aspira essere un alter Cicero, per guadagnarsi una duratura celebrità. Lungi dal rappresentare un
prodotto letterario fine a se stesso, le lettere pliniane hanno un intento parenetico o educativo,
proponendo comportamenti esemplari o gettando luce su distorsioni da evitare. Nelle lettere di Plinio
troviamo il riflesso di un’epoca che ha sostituito vecchi valori con nuovi modelli di comportamento e
di giudizio. Esempio. Rispetto ai tempi di Cicerone l’assegnazione delle cariche dipende ora dalla
volontà del senato e dell’imperatore, sicché l’antica organizzazione clientelare manovrata dall’alto
viene sostituita da un meccanismo di patronato politico esercitato da chi occupa una posizione sociale
più elevata.

L’attività poetica e oratoria: il Panegirico a Traiano


Plinio si dilettò anche di poesia, come passatempo: compose una tragedia in greco (a 14 anni) e distici
elegiaci sul mar Egeo; più tardi una raccolta di Hendecasyllabi. L’attività oratoria fu senza dubbio
intensa. L’unica orazione giunta sino a noi è il Panegirico a Traiano, un discorso d’apparato previsto
dal cerimoniale di corte quando il nuovo console entrava in carica, in forma di ringraziamento
all’imperatore. Il Panegirico pliniano si spinge anche oltre i limiti del genere, intrecciando all’elogio
notazioni più congrue a un trattato politico, nelle quali il nuovo console insiste perché Traiano non
venga meno alla sua ormai abituale prassi di buon governo. Domiziano, che nel Panegirico appare
screditato, è il modello da non imitare. Agli occhi di Plinio, Traiano rappresenta l’avvento della
scuritas, il ritorno della libertas, il trionfo di un nuovo modello di pater patriae.

Lingua e stile – tono medio e omogeneo, varietas, sermo cotidianus.

Svetonio

Le opere
Biografo di grande prestigio. A Roma, nel campo della biografia, era stato preceduto da Varrone,
Cornelio Nepote e Igino.

L’opera sui Personaggi Illustri


L’opera doveva abbracciare almeno cinque sezioni, dedicate rispettivamente a grammatici e retori, a
poeti, a oratori, a storici, a filosofi: sopravvive integra solo la prima di questa, che comprende 20
brevissime vite di grammatici e 5 di retori romani. La parte dedicata ai grammatici esibisce una serie
di luoghi comuni letterari, tra cui quello del maestro mal retribuito, eccessivamente pieno di sé, o che
maschera un’apparenza rispettabile di studioso. Riguardo alla retorica, Svetonio afferma che essa fu

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dapprima ostacolata, ma ci si rese poi conto della sua utilità quando si trattava di esporre i propri
argomenti o di confutare quelli altrui: tra i retori più significativi abbiamo Lucio Voltacilio Pluto,
Marco Epidio, Marco Fabio Quintiliano. Il resto dell’opera è parzialmente ricostruibile per via indiretta
grazie ad autori come Girolamo. Lo schema era pressoché costante, e comprendeva notizie su origine
e nascita, particolarità fisiche e caratteriali, successi e amicizie, elenco delle opere e aneddoti, anche
piccanti.

Le biografie degli imperatori


L’opera maggiore di Svetonio è rappresentata dalle Vite dei Cesari. Essa si articola in 8 libri, che
comprendono 12 biografie, cosi disposte: Cesare, Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone, Galba,
Otone, Vitellio, Vespasiano + Tito + Domiziano. La raccolta era dedicata al prefetto Setticio Claro. La
parte iniziale dell’opera – proemio, dedica e principio della Vita di Cesare – non si è conservata fino a
noi. Alcune Vite, come quelle di Cesare o di Augusto, sono più corpose delle successive: è possibile
che, andando avanti col lavoro, Svetonio abbia avuto difficoltà ad accedere alle fonti documentarie.
Ogni biografia prende avvio con una sorta di “sommario”, una scheda anagrafica con i dati relativi alla
famiglia dell’imperatore, all’anno e al luogo di nascita, ai prodigi che accompagnarono l’evento;
seguono poi notizie sugli anni della fanciullezza e dell’adolescenza, fino al momento in cui il
personaggio arriva al potere. A questo punto, l’andamento cronologico si interrompe, lasciando il
campo a una serie di “rubriche” che fanno luce sul pubblico e sul privato dell’imperatore (imprese
militari, leggi promulgate, vita matrimoniale e sessuali, costituzione fisica, carattere). Questo metodo
– per species (rubriche), favorisce una ricca descrizione di singoli aspetti della vita del personaggio,
ma nuoce a una visione d’insieme sulla sua personalità; infatti si perde la valutazione globale
dell’incidenza dell’imperatore sul governo della potenza romana. In conclusione, poi, la biografia
riprende l’originale andamento cronologico: si dà la notizia della morte dell’imperatore, delle esequie,
del testamento. Svetonio ritiene che un buon princeps debba avere certe caratteristiche: la clemenia,
la liberalitas, la parsimonia, la severitas.

Lingua e stile
Sobrietà espressiva.

I minori

I poetae novelli
Scuola poetica latina, che sarebbe fiorita a Roma nel II secolo d.C., precisamente all'epoca
dell'imperatore Adriano (117-138), autore egli stesso di componimenti raccolti sotto questa "scuola.
La loro poesia è raffinata, di matrice ellenistica, fatta di immagini ricercate e graziose, dal sentimento
lieve e superficiale. In campo metrico, vanno alla ricerca di soluzioni originali: accanto a sistemi
anapestici e giambici, a coriambi e gliconei, troviamo distici reciproci o falisci. Di questa significativa
esperienza poetica conserviamo scarsi frammenti. Tra i novelli possiamo annoverare: Anniano,
autore di Falisca e Fescennini; Settimio Sereno, autore di Opuscula ruralia; Allfio Avito; Floro. Alcuni
studiosi assegnano a questa cerchia di poeti il poemetto Pervigilium Veneris.

Adriano
Assetato di sapere, Adriano amò circondarsi di filosofi, grammatici, artisti e fu egli stesso poeta,
filosofo e scrittore sia in greco che latino, riflesso di un’epoca in cui questi due mondi vanno
progressivamente confondendosi.

Floro
Fu in rapporti amichevoli con Adriano. A lui vengono attribuiti un dialoghetto mutilo (Virgilio oratore
o poeta) su un tema scolastico, da cui apprendiamo che era africano, e l’Epitoma, una sintesi

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dell’immensa storia liviana. L’opera di Floro non si segnala soltanto perché mostra una forma
alternativa rispetto all’annalistica o alla monografia, ma anche per l’adozione del modello cosiddetto
biologico per spiegare la storia di Roma, che è assimilata al processo di sviluppo e di crescita di un
essere vivente: all’infanzia di Roma (la monarchia) segue l’adolescenza (la prima repubblica), quindi
la iuventas che culmina con la pace di Augusto, e poi la senectus, il declino, con i primi imperatori. A
rigor di logica, la decadenza dovrebbe continuare progressivamente, ma Floro è ottimista nei riguardi
del riassetto politico amministrativo proposto da Traiano e Adriano. Lo stile di Floro tende alla
semplicità e alla linearità suggerite dalla forma compendiaria, ma non è piattamente uniforme: le
descrizioni di paesaggi fanno trasparire un’intonazione lirica, le scene belliche possono prendere un
colorito epico. Dal dettato di Floro non sono assenti gli ornamenti della retorica.

Frontone

L’epistolario
Le epistole a Marco Aurelio, Lucio Vero e altri amici, trattano della salute, della retorica, di
avvenimenti storici. Da esse traspare l’immagine di un autore estremamente attento all’uso della
lingua, che cerca di rinnovare attingendo all’antico lessico latino. L’insegnamento di Fronte invita ad
attingere al repertorio dei vocaboli arcaici, intrisi di un significato genuino, allo scopo di rendere al
meglio un concetto e si sorprendere l’uditorio assetato di novità. Frontone sceglie l’arcaismo per
rinnovare la lingua; di qui l’importanza della lettera Ad Marcum Caesarem, che contiene i principi
della elocutio novella, fondata su latinitas, elegantia e diligentia.

Frontone e l’eloquenza imperiale


Frontone non usa circonlocuzioni vaghe, ma, tramite un gioco metaforico in cui tuba e tibia alludono
a una forma di comunicazione verbale, esprime efficacemente il carattere dell’allocuzione imperiale.
Il paragone con la tromba, portatrice di segnali e ordini, focalizza efficacemente i modi della
comunicazione imperiale: l’eloquentia Caesaris ha il corrispettivo del suono deciso della tromba.
L’adozione di un registro modulato come quello del flauto causerebbe perdita di chiarezza e
attenuazione di imperiosità.

Lo stile
Al culto della parola, Fronte affianca la ricerca dell’eleganza linguistica e della chiarezza, raggiunte
attraverso parallelismi, antitesi, metafore, similitudini.

Gellio

Le Notti attiche
La fama letteraria di Gellio è legata ai 20 libri delle Notti Attiche, opera di varia erudizione pubblicata
dopo il 170, e giunta fino a noi priva del libro VIII. I molteplici argomenti sono discussi all’interno di
una cornice narrativa unitaria, mentre nella praefatio l’autore indica le motivazioni e gli obiettivi
dell’opera. Il lavoro d Gellio ha come tratti più caratteristici l’assenza di sistematicità e la curiositas,
la sete di conoscenza dell’autore, che prende nota di tutto ciò che può stimolare il proprio interesse3 e
lo ripropone al suo pubblico. Gli argomenti contemplati sono molteplici: questioni grammaticali,
lessicali, giuridici, filosofici, scientifici, letterari. Il significato del titolo? L’aggettivo “attiche”
rimanda all’alta qualità greca dei suoi studi, mentre il sostantivo “notti” ad un probabile labor notturno.
Quest’opera non può essere inquadrata in un genere letterario ben definito. Dal punto di vista del
contenuto e delle aspettative del pubblico, invece, le Notti Attiche possono essere comprese tra le opere
che si propongono di docere senza rinunciare alla delectatio, attraverso una presentazione artistica
degli argomenti e della loro varietà, come antidoto alla noia. Nelle Notti Attiche un posto privilegiato
spetta a retorica, grammatica, linguistica, filologia e critica letteraria. Per questione di lessico Gellio

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si rifà spesso a Elio Stilone, per questioni linguistiche a Nigidio Figulo e Marco Terrenzio Varrone.
Nel dirimere le questioni di lingua, Gellio si affida volentieri a un’auctoritas, e per questo scopo
definisce un canone di boni autore, letterari del periodo arcaico (Catone), ma anche più vicini nel
tempo (Cicerone, Virgilio e altri), di cui sono lode la munditia, la puritas, la dignitas e la suavitas.

Apuleio

La vita
Africano d’origine (di Madaura). Fu viaggiatore instancabile. A Cartagine sposò la ricca Pudentilla: i
suoi parenti lo accusarono di averla stregata per farsi sposare. Apuleio si difese con l’abilità di un
consumato avvocato, alternando un fine senso dell’umorismo a una veemenza forense, degna del
miglior Cicerone, e ottenne l’assoluzione.

La produzione letteraria
Poliglotta, Apuleio scrisse in greco e in latino i più svariati argomenti e si cimentò anche nella poesia,
ma gran parte di questa produzione non si è conservata fino noi. I componimenti in versi sono quasi
completamente perduti, a eccezione di pochi resti dei Carmina e dei Ludicra incorporati nell’Apologia.
Dall’elenco delle opere in prosa possiamo farci un’idea della vastità dei suoi interessi scientifici ed
eruditi. Sono invece giunti fino a noi alcuni scritti di carattere filosofico.

Gli scritti filosofici


De mundo, parafrasi del Sul Mondo aristotelico e il De Platone, trattatello sulla filosofia platonica (lui
amava definirsi un Platonicus). Il primo è un chiaro esempio della tendenza medio-platonica ad
appropriarsi delle teorie fisiche e naturalistiche dell’aristotelismo, conciliandole con l’indagine
teologica e con l’idea di un determinismo di impronta stoica. Il De Platone compendia in 2 libri le
teorie fisiche ed etiche di Platone. Il De deo Socratis offre una dettagliata rassegna del pensiero degli
antichi su quest’argomento: i demoni appaiono come esseri che svolgono un’azione mediatrice tra il
mondo degli uomini e quello degli dei, per fare dell’universo un continuum di vita e di esperienze,
popolato da presenze attive ed operanti, pur invisibili per l’uomo.

Le opere oratorie
Sotto il titolo di Florida troviamo raccolti in forma antologica i pezzi più brillanti estratti da conferenze
cartaginesi: sono 23 brani di varia estensione che mostrano la vena creativa del neosofista Apuleio.
Egli affronta vari argomenti, ricorrendo ad una prosa traboccante di artifici retorici per tenere viva
l’attenzione del pubblico: accanto agli elogi di persone e cose troviamo aneddoti storici, mitologici,
etnografici e moraleggianti attinti al repertorio della prassi declamatoria. L’Apologia è l’unica arringa
tramandataci dall’età imperiale, un’epoca in cui le autentiche orazioni giudiziarie avevano perduto
interesse letterario a vantaggio delle controversiae scolastiche; l’orazione, suddivisa in due libri,
rielabora il discorso pronunciato in occasione del processo per magia dell’anno 158, e costituisce una
prova indiretta della vittoria di Apuleio, che difficilmente avrebbe pubblicato un’arringa risultata
fallimentare. Sul piano strettamente giudiziale la difesa di Apuleio è convincente. Procedendo in ordine
di crescente gravità, egli prima ridicolizza le accuse di minore importanza (lo accusano di portare i
capelli lunghi per vanità), quindi passa a confutare l’accusa di maggior rilievo, quella di aver operato
sortilegi su Ponziano e sua madre. Riesce a dimostrare che nessun interesse economico avrebbe
potuto spingerlo a sedurre la donna per poi liberarsi di lei o dei legittimi eredi del suo patrimonio.
L’accusa ci presenta Apuleio nelle vesti di un mago. L’atteggiamento ambiguo assunto nel discorso
di autodifesa non ci aiuta a capire: da un lato rifiuta con fermezza l’accusa di magia, dall’altra non
nega di essere stato iniziato a numerosi culti misterici e di essere un esperto di demonologia. Forse non
riusciva ad operare una distinzione tra tali ambiti.

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Il romanzo delle Metamorfosi
11 libri, unica opera pervenutaci nella sua interezza. La storia del protagonista Lucio mutato in asino
ha paralleli nella tradizione letteraria e rientra negli schemi della favola di ogni tempo. Un uomo di
nome Lucio, trasformato in asino a causa di un’errata pratica di magia e costretto a una lunga serie di
peripezie, costituisce il tema anche di un breve romanzo in lingua greca, Lucio o l’asino, conservato
tra gli scritti di Luciano, ma di dubbia autenticità. Lucio, il protagonista, è un giovane greco di buona
famiglia, discendente da Plutarco. Sviluppa sin da subito una certa curiositas verso la magia. Giunto
a Ipata, anche Birrena, sua parente, lo mette in guardia dai pericoli di quest’ultima. Lucio, che
alloggia in casa di Milone, entra in intimità con la schiava Fotide, che una sera gli annuncia
l’imminente trasformazione in uccello della sua padrona Panfila, potentissima maga. Lucio la spia
di nascosto, poi chiede alla serva di aiutare a sperimentare questa sbalorditiva magia. Spalmatosi
l’unguento (sbagliato), Lucio diventa un asino. Fotide, desolata, rassicura il malcapitato che
l’indomani gli farà mangiare delle rose, come antidoto. Però un gruppo di briganti rapisce l’asino
(Lucio) e lo trascina fino al proprio covo. In posizione centrale del romanzo si colloca la fabula più
importante, quella di Amore e Psiche. Indispettita dalla bellezza di Psiche, Venere decide di punire la
fanciulla e chiede al figlio Amore di darla in sposa al’uomo più povero della terra. Invaghitosi di
lei, Amore decide di trasgredire l’ordine materno e fa sì che la fanciulla giunga in una palazzo
incantato dove, col favore delle tenebre, la raggiunge per unirsi a lei. Una notte Psiche decide di
ignorare l’ordine impartitole da Amore di non voler mai conoscere la
sua identità. Accosta quindi una lucerna al suo volto, ma Amore, colpito da una goccia di olio bollente,
si sveglia e abbandona Psiche. Lucio cerca di fuggire ma viene catturato. In seguito, l’asino verrà
acquistato da un pasticciere, e diventerà un fenomeno da baraccone. Liberatosi anche di questo
“problema”, Lucio giunge al porto di Cencrea, dove immerge 7 volte la testa nelle onde. La notte
stessa gli appare in sogno la dea Iside, che lo rassicura sulla sua imminente metamorfosi in uomo,
avvenuta durante una processione in suo onore. Le peripezie di Lucio mutato in asino alludono al
travagliato cammino dell’anima, costretta ad affrontare nel corso della sua esistenza terrena
innumerevoli prove che la separano dalla condizione di massima purezza.

Il Tardo Impero

Il contesto storico
193-235: dinastia dei Severi; 212: Constitutio Antoniana; 285-305: Diocleziano imperatore; 312:
regno di Costantino; 313: Costantino e Licinio concedono libertà di cult per i cristiani; 324: Costantino
sconfigge Licinio, si torna all’imperatore unico; 361-364: Giuliano Apostata imperatore; 379-395:
Teodosio imperatore; 380: editto di Tessalonica, il cristianesimo diventa religione ufficiale
dell’impero; 395: morte di Teodosio e divisione dell’impero tra i figli di Onorio e Arcadio; 402-406:
vittoria di Stilicone sui barbari; 410: uccisione di Stilicone; 423: morte di Onorio e inizio dell’anarchia;
452: Attila invade l’Italia; 455: Genserico saccheggia Roma; 476: Odoacre depone Romolo Augustolo.

Ausonio

La vita
Ebbe origini galliche. Fu collaboratore di Valentiniano. Al fianco dell’opera maggiore, la Mosella,
possiamo individuare 4 gruppi di scritti: di ispirazione cristiana, di ispirazione classica, per la scuola,
di virtuosismo tecnico-formale.

La Mosella
Componimento in 483 esametri che descrive un viaggio compiuto dal poeta da Bingen a Treviri, città
bagnate dalla Mosella. Possiamo considerarla a metà strada tra il poema odeporico, l’idillio e l’epillio.
La descrizione del viaggio occupa solo i primi 23 versi; per il resto Ausonio descrive il fiume, i colori

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delle acque e della vegetazione, la lotta mitologica tra Satiri e Ninfe, le gare di barche a remi, la pesca,
gli affluenti, la varietà del paesaggio circostante. Alla fine un accenno l fiume di Bordeaux, la Garonna.
Il poemetto è uno dei primi esempi di poesia fluviale.

Claudiano

I panegirici
Tra essi merita una menzione particolare la Laus Serenae, composta in esametri indirizzato alla nipote
dell’imperatore Teodosio, cristiana devota, sposa di Stilicone; è un elogio profano di una donna potente
e ambiziosa, primo encomio poetico latino ad avere un soggetto femminile. Il componimento, destinato
a una recitazione pubblicata, esalta indirettamente anche il marito della donna, Stilicone; vengono
esaltati temi come la fides e la pudicitia. Con i panegirici, scritti in esametri, Claudiano diffonde la
prassi greca del panegirico in versi. Grazie a questi, incontrò un successo tale che l’antico panegirico
in prosa scomparve. Dal punto di vista della struttura, i panegirici di Claudiano riprendono il modello
del basilico logos, l’encomio regale, nel quale all’elogio della stirpe del personaggio seguiva il
racconto della sua formazione, delle sue azioni, delle sue virtù.

I poemi epici
De bello Gildonico: in questo poema Claudiano celebra la vittoria di Stilicone sul principe africano
Gildone che, disconoscendo il governo di Roma, aveva sospeso l’invio di frumento alla città. Nel De
bello Getico si narra la guerra sostenuta da Stilicone contro i Goti di Alarico e conclusasi con la vittoria
del primo nel 402 a Polenzo (Piemonte).

Invettive, epitalami e produzione epico-mitologica


Le invettive, anch’esse in esametri, riprendono categorie dell’encomio, volgendone al negativo i
motivi, secondo la struttura degli psogoi retorici. In Rufinum e In Eutropium sono dirette contro i
ministri d’Oriente. Rufino, prefetto del pretorio di Arcadio, era nemico di Stilicone, assistente e
consigliere di Onorio. Eutropio era l’eunuco ciambellano di Arcadio, succeduto a Rufino. Entrambi
vengono presentati come un pericolo per la pace di cui godeva l’Occidente: Rufino è descritto come
un uomo potente e crudele, Eutropio come avido e ambizioso. Gli epitalami sono componimenti poetici
destinati alle celebrazioni nuziali. Abbiamo quello in onore di Onorio e Maria e quello in onore di
Palladio e Celerina. Particolarmente apprezzata è la produzione epico-mitologica di Claudiano. Il De
raptu Proseprinae, operai n 3 libri, e la Gigantomachia, sono poemi di argomento mitico; il primo
narra il rapimento di Proserpina, figlia della dea Cerere, ad opera di Plutone, dio degli Inferi, mentre
il secondo propone il mito della guerra tra gli dei olimpici e Giganti, figli di Gea eUrano. Il poeta
indugia sul loro aspetto esteriore, sullo stato intimo, sulle parole pronunciate.

I Carmina minora
La versatilità e la duttilità dell’ingegno e dell’arte di Claudiano emergono anche nei Carmina minora.
Sono componimenti poetici di varia forma: programmi, lettere, biglietti da visita, poesie d’occasione
di vario contenuto. Nel De ave phoenice, Claudiano assume il mitico uccello come simbolo
dell’aspirazione dell’uomo all’eternità. Tra i Carmina minora è conservato anche un breve
componimento in esametri d’argomento cristiano indirizzato a Onorio, il De Salvatore, che affronta
la questione della verginità di Maria.

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La poesia tra il IV e il V secolo

Rutilio Namaziano
L’unica opera di cui si abbia notizia è il De redito suo, poema in distici elegiaci che descrive il viaggio
del poeta dall’Italia alla Gallia. Appartiene al genere della letteratura odeporica o di viaggio, che aveva
insigni precedenti nell’Iter Siculum di Lucilio, nell’Iter Brundisinum di Orazio, nella descrizione del
viaggio di Ovidio a Tomi, nella Mosella di Ausonio. L’opera si apre con un elogio della città etenera
e la richiesta di un felice viaggio di ritorno. La narrazione del viaggio è solo un pretesto letterario, una
cornice narrativa entro la quale si collocano osservazioni di carattere antiquario, riflessioni del mito,
riflessioni sulla realtà politica/sociale/religiosa del tempo. Il motivo conduttore del De redito suo è
l’esaltazione di Roma come simbolo di vita e giustizia, come città che splende per la bellezza dei suoi
monumenti, prospera per il suo clima temperato e parla al cuore dei visitatori con la grandezza della
sua storia. Tutta l’opera appare nostalgicamente tesa al recupero del grande passato di Roma. La sua
venerazione lo spinge ad assumere atteggiamenti critici anche nei confronti del cristianesimo, che
propone modelli di comportamento e valori alternativi a quelli tradizionali, disgregando la società e
sottraendo forze giovani alla lotta contro l’invasore. A livello stilistico, frequente è l’uso di parallelismi
ed antitesi, di allitterazioni e assonanze; limitato è l’uso dell’enjambement.

Poeti minori
Tiberiano fu autore di 4 componimenti poetici tramantadi nell’Anthologia Latina: uno è la descrizione
di un paesaggio agreste in tetramenti trocaici catalletici, gli altri sono carmi moraleggianti. Abbiamo
anche Avieno, autore di Aratus, parafrasi in 1325 dei Fenomeni di Arato; a Naucellio sono attribuiti
alcuni componimenti della raccolta nota come Epigrammata Bobiensia, costituita da 72 poesi perlopiù
in distici elegiaci. Ad Aviano è attribuita una raccolta di 42 favole in distici elegiaci scritta nel 430
circa e dedicata a un certo Teodosio.

Ammiano Marcellino e la tarda storiografia pagana

I Rerum gestarum libri


Sono l’ideale continuazione delle Storie di Tacito. I libri I-XIII, che arrivavano fino all’anno 352, sono
andati perduti, ma è probabile che inessi siano stati affrontati per sommi capi gli eventi storici sino alla
morte di Costantino (337). Nei libri che restano (XIV – XXXI) Ammiano affronta il periodo più
recente, a partire dal 353, anno della vittoria dell’imperatore Costanzo sull’usurpatore Magnenzio.
Molto spazio è dedicato a Giuliano l’Apostata. La disposizione della materia segue un ordine
cronologico, anche se non annalistico, in quanto l’estensione dell’impero costringe a procedere in base
ai teatri d’azione.

Il metodo storiografico di Ammiano


Simile a quello di Tacito: nararre la storia con verità, obiettività e imparzialità (spesso non riesce in
questo intento). Predilige la brevitas. Ha una concezione pessimistica della storia, che ritiene governata
da entità sovrannaturali, come la Fortuna e il Fato, e da forze irrazionali, magiche e demoniache.
Concezione alimentata da intrighi di potere e corruzione, precaria condizione economica delle
province, diffusone di pratiche magiche, costante minaccia dei barbari. Ultimo dei grandi storici di
Roma, Ammiano ha un modo di narrare pieno di fascino, accresciuto anche dal gran numero di
digressione di carattere erudito, soprattutto geografico. Nel disegnare i ritratti degli imperatori, segue
uno schema fisso: alla narrazione delle virtù e dei vizi succede il giudizio sulle scelte di carattere
politico e religioso e la descrizione dell’aspetto fisico; per quanto riguarda i loro discorsi, sono tutti
stenuti da Augusti o da Cesari davanti all’esercito riunito e sono ad esso rivolti per ottenerne il
consenso in situazioni di particolare gravità o solennità.

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Lingua e stile
Ricchezza di arcaismi, neologismi, grecismi, volgarismi. Sintassi caratterizzata da strutture complesse,
come ablativo assoluto. Stile tacitiano, intriso di variatio, inconcinnitas (asimmetria) e termini poetici.

Storici minori
Eutropio, retore di origine gallica, autore edel Breviarum ab Urbe condita, in 10 brevi libri, in cui narra
la storia di Roma dalla findazione al 364, anno in cui morì Gioviano e salì al trono Valente; limitato
è il numero degli aneddoti e dei passi descrittivi, e non vi è alcun cenno al cristianesimo. Lo stile del
Breviarium è limpido e scorrevole, privo di figure retoriche artificiose. Autore di un Breviarium (rerum
gesta rum populi Romani) è Rufio Festo, un sintetico compendio di storia romana che va dalla
fondazione di Roma fino al 364. Celebri sono anche le Periochae di Livio, brevi riassunti della Storia
di Roma: sono preziose, in quanto ci consentono di conoscere il contenuto dei libri di Livio che sono
andati perduti e di ricostruire così il piano generale dell’opera. Il Liber de Caesaribus, scritto da
Aurelio Vittore, tratta della storia dell’impero da Augusto all’anno che precedette la morte di Costanzo
II (360); affronta la storia di Roma seguendo le biografie dei singoli imperatori, senza offrire una
trattazione completa ed equilibrata, ma focalizzando l’attenzione su alcuni episodi esemplari; Vittore
apprezza la politica di Diocleziona e di Costantino; tra le fonti del Liber ci sono Svetonio, Tacito e
Ausonio.

L’Historia Augusta
Serie di 30 biografie degli imperatori romani da Adriano a Numeriano e Carino, fatta esclusione delle
vite di Filippo l’Arabo, Decio. Treboniano e Emiliano. Si presenta come lavoro collettivo di sei autori
(Lampridio, Sparziano, Vopisco, Capitolino, Gallicano, Pollione), anche se la loro esistenza non è
accertata. Esistono problemi anche in termini di datazione: 361-363 o 379-395? L’ipotesi più
caldeggiata è la seconda. Le biografie presentato una strutturazione svetoniana, con ricostruzione
cronologica dei fatti fino al momento in cui il personaggio divene imperatore, poi suddivisione per
categorie (vita pubblica/privata, attività in guerra/pace, in patria/estero), e nell’ultima fase di vita,
ritorno al criterio cronologico. È un’opera di scarsa attendibilità, ricca di anacronismi e incogruenze,
confusione di dati ecc. A livello stilistico, presenta una certa trascuratezza. Più interessante è l’aspetto
linguistico, dato che sono presenti termini del latino tardo, colloquialismi e tecnicismi non attestati
altrove.

La prosa tra il IV e il V secolo

I Panegyrici Latini
L’umanista Giovanni Aurisa scoprì a Magonza un codice contenente una raccolta di 12 discorsi
celebrativi in onore di imperatori. Ilpprimo della serie è il Panegirico a Traiano di Plinio il Giovane,
che servì da modello agli altri autori. Gli altri undici sono stati scritti tra il 289 e il 389 e si susseguono
in ordine cronologico inverso. I Panegyrici Latini presentano tutti una struttura simile: si parte con la
descrizione della patria e dell’educazione dei destinatari, per passare poi alle prime imprese e alle virtù,
accompagnando il discorso con exempla storici e mitologici.

Simmaco
Ci sono giunti 10 libri di Epistole, 49 Relationes, 8 orazioni. Le Epistole, circa 900, furono pubblicate
dopo la morte dell’autore dal figlio, che rispettò il modello dell’epistolario di Plinio il Giovane e
raccolse nel libro X la corrispondenza con gli imperatori. Nei libri I-IX sono invece riunite le lettere
di carattere privato, per lo più salutatoriae, cioè di saluti e convenevoli, e commendaticiae, cioè di
raccomandazione. La produzione epistolare si contraddistingue per la brevità, l’assenza di narrazioni
di una certa ampiezza, la povertà di contenuti, assumendo quindi valore storico limitato. Molto curato
è lo stile, ricercato e prezioso, ricco di allusioni ai classici. Le Relationes sono documenti ufficiali,

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rapporti inviati all’imperatore nell’anno in cui fu praefectus urbi; particolarmente interessante è la
terza Relatio, quella legata alla battaglia per la ricollocazione dell’altare della Vittoria nella Curia
romana; Simmaco appare estremamente legato alla religione pagana, ma è anche conscio di come il
cristianesimo sia praticamente in rampa di lancio, infermabile.

Macrobio
Di Macrobio ci sono giunte 3 opere: il Commentarius in Somnium Scipionis, i Saturnalia e il trattato
De differentiis et societatibus Graeci Latinique verbi. La prima, in 2 libri, è opera di carattere erudito,
un commentario di tipo filosofico alla sezione finale del libro VI del De re publica di Cicerone, nella
quale Scipione l’Africano appare in sogno al nipote Scipione l’Emiliano, rivelandogli il suo destino
di gloria e quello della patria; Macrobio non commenta il testo ciceroniano dal punto di vista
grammaticale, ma fornisce una serie di interpretazioni di stampo filosofico, inserendo digressioni
neoplatoniche su sogni, sulle proprietà dei numeri, sulla natura dell’anima, sull’astronomia, sulla
musica, sulla cosmologia, sulla geografia. I Saturnalia, in 7 libri, sono una raccolta di dialoghi
ambientati nel 384, durante la festa pagana dei Saturnali in cui si tenevano banchetti in onore di
Saturno. La cornice ricorda quelle dei dialoghi platonici: il narratore racconta ad un amico notizie
riferitegli da un testimone oculare, il retore Eusebio, a proposito delle discussioni di un gruppo di
senatori ed eruditi. Per quanto riguarda il trattato grammaticale De differentiis et societatibus Graeci
Latinique verbi, esso rivela le differenze che intercorrono tra il verbo greco e quello latino: vengono
analizzati i modi, i verbi impersonali, incoativi e frequentativi.

La letteratura cristiana

I primi documenti della letteratura cristiana


La letteratura cristiana
Si sviluppò in ritardo rispetto a quella in lingua greca, a causa del prestigio di cui quest’ultima godette
durante i primi secoli dell’impero. I testi sacri cristiani erano stati scritti in greco (Nuovo Testamento
e una parte dell’Antico Testamento). Ciò comportò che venissero redatti in greco anche i primi testi
cristiani di ambiente romano.

Le versioni della Bibbia in greco e in latino


Quando aumentò il numero dei credenti in Occidente e numerosi erano quanti non conoscevano il
greco, la diffusione del cristianesimo si scontrò con i problemi legati alla ricezione del suo messaggio.
L’esigenza di volgere in latino la Bibbia fu soddisfatta solo parzialmente da traduzioni sparse di singoli
libri. Le prime versioni integrali furono realizzate in Africa attorno al 230 e in Italia attorno al 250: a
queste redazioni si dà il nome di Vetus Latina (Antica Bibbia latina). Basata sul testo dei Settanta, la
Vetus Latina rivela uno scrupolo notevole rispetto al modello ed evita rielaborazioni, attenendosi alla
traduzione letterale.

Gli Acta, le Passiones, le vite dei santi


Oltre alle versioni latine della Bibbia, il secolo vide il fiorire di opere lettrerarie composte direttamente
in latino, che si possono considerare l’atto di nascita di un genere letterario che ebbe fortuna nel
medioevo: l’agiografia. I primi documenti vengono indicati comunemente con il nome di Atti dei
martiri. Tra questi, distinguiamo gli Acta, veri e propri resoconti in forma dialogata dei processi ai
martiri, e le Passiones, racconti con andamento di facile narrazione che offrono a chi li compone
maggiori possibilità d’intervento personale. Sono entrambi scritti in uno stile semplice e riflettono la
venerazione delle antiche comunità cristiane per coloro che hanno testimoniato con la morte la fede in
Cristo. Acta più importanti: quelli dei martiri di Scilla, di Cipriano, di Massimiliano. Passioni più
importanti: quella di Perpetua e Felicita. Nel III secolo abbiamo anche testimonianza dell’apparire di
una vera e propria letteratura biografica, sotto forma di vite di vescovi, asceti, monaci: il prototipo di

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questi testi è la Vita Cypriani di Ponzio, testimone oculare della sua morte.

Tertulliano
Lo scrittore cristiano più importante nell’Africa di fine II – inizio III secolo è senz’ombra di dubbio
Tertulliano. Di lui abbiamo notizie grazie a “Gli uomini illustri” di Girolamo. Sappiamo per esempio
che si convertì in età adulta, che fosse un personaggio estremamente integralista e rude, che si fosse
avvicinato alla setta dei Montanisti (cristiani con costumi austeri) e che poi avesse fondato una sua
setta personale. Morì in età molto tarda, a 70 anni circa.
Tertulliano è sintomo di rigidità, integralismo e chiusura. Ritiene che non ci sia proprio paragone tra
cultura classica e cristiana. La seconda è un’ombra della prima. Si staccò per un breve periodo dalla
dottrina cristiana per abbracciare il montanismo, fondato da un teologo turco, poiché secondo lui
abbracciava meglio le sue esigenze religiose.

Le opere apologetiche
Ai pagani è uno squisito preludio all’opera più ampia in questo ambito, l’Apologetico. Nella prima
abbiamo un’accorata difesa del cristianesimo e un attacco molto veemente al paganesimo; nella
seconda invece c’è una difesa estremamente aggressiva del cristianesimo e dei cristiani, perseguitati
solo ed esclusivamente perché di una religione diversa da quella dell’impero, unita alla richiesta
formale di una revisione totale delle leggi vigenti. Condannare delle persone denunciate senza provare
la loro colpevolezza rappresenta un crimine contro l’umanità, un qualcosa di imperdonabile. Ne La
Lettera a Scapula, proconsole d’Africa e persecutore dei cristiani, Tertulliano chiederà allo stesso di
porre fine a questa situazione. In La testimonianza dell’anima, Tertulliano vuole dimostrare che
nell’anima umana sia innata l’idea di Dio.

Le opere dogmatico-polemiche
Contro Ermogene: Tertulliano difende la dottrina cristiana della creazione del mondo ad opera di Dio
e va contro l’eresia di Ermogene, il quale sosteneva che il mondo derivasse alla materia. Nel Contro
Marcione Tertulliano confuta la tesi dell’eretico Marcione, che riteneva che il Dio del vecchio
testamento fosse inferiore a quello del nuovo, affermando che non è così, visto che si parla sempre
della medesima entità divina. Nel Contro Prassea egli confuta l’eresia del teologo Prassea e difende
la dottrina trinitaria, affermando che il Figlio e lo Spirito Santo non sono due entità individuali, ma
due elementi dipendenti e viventi nel Padre, da cui traggono l’immagine. Introduce così i termini di
trinitas e di substantia. Nelle opere dogmatiche (Carne di Cristo e l’Anima) sottolinea la sacralità
della carne e la sua indissolubile unione con l’anima.

Le opere ascetico-disciplinari
Sono delle vere e proprie operette morali, in cui Tertulliano evidenzia quella che è la sua opinione a
riguardo di alcuni aspetti concernenti la morale cristiana. Si parte da Il battesimo, dove si sottolinea
l’importanza del sacramento e la necessità di non impartirlo ai bambini, poiché incapaci di
comprendere il significato; ne I spettacoli Tertulliano si scaglia contro gli spettacoli teatrali, che
costituiscono una sorta di idolatria. Questo concetto è ripreso ne La idolatria, dove egli ritiene che
ogni aspetto della società sia permeata da essa, ergo per cui servirebbe isolarsi dal mondo per non
uscirne contaminato; ne L’abbigliamento delle donne, condanna il lusso e elogia la sobrietà delle
donne.
In Esortazione alla castità + L’unico matrimonio c’è una fortissima condanna delle seconde nozze e
un’esortazione veemente alla castità. Ne La Corona esige che ogni cristiano si astenga dalla guerra,
in quanto elemento fortemente contrastante con la morale cristiana. Ne Il mantello, Tertulliano cessa
di indossare la toga del cittadino romano e veste il pallium, il mantello tipico dei filosofi cinici.

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Minucio Felice
Minucio Felice è ricordato per la sua unica opera, l’Octavius, un protrettico sotto forma di dialogo in
cui ritroviamo le tematiche dell’esistenza di un unico Dio, della resurrezione della carne e della vita
eterna. Essa rappresenta un’opera elegante e di gradevole lettura, completamente diversa
dall’Apologetico di Tertulliano, in cui la tensione era l’elemento principale. I riferimenti alla Bibbia e
a Gesù Cristo sono impliciti, poiché l’opera era destinata ad un pubblico pagano. Cecilio, protagonista
dell’opera, rivolge a Ottavio le solite accuse verso i cristiani (immoralità, crudeltà, antropofagia di
bambini, ignoranza, mancanza di formazione filosofica). Ottavio risponde che non si possono accusare
i cristiani di ignoranza solo perché di umile condizione. In seguito sottolinea la valenza del monoteismo
(senza mai fare cenno alle sacre scritture), desumibile dalla perfezione del creato. Egli si dilunga molto
su questo aspetto, ma non riporta mai passi biblici, anzi prenderà spunto in più parti dal De Natura
Deorum di Cicerone. In quest’opera risiede anche una forte componente anti-romana: Minucio afferma
che il prestigio di Roma non derivi certo dalla sua religiosità, ma bensì dalla violenza perpetrata ai
popoli conquistati.

Cipriano
Di Cipriano non conosciamo nulla che riguardi la sua vita prima della conversione. Gran parte delle
informazioni che abbiamo di lui arrivano dal suo Epistolario, inesauribile fonte di notizie sull’autore.
Ammirava follemente Tertulliano, che chiamava spesse e varie volte “maestro”, tant’è vero che prese
spunto da lui per alcune opere, come l’Ad Donatum, in cui egli informa l’amico della sua avvenuta
conversione alla nuova religione, abbracciata dopo una crisi spirituale piuttosto veemente, dovuta alla
decadenza e allo squallore raggiunto dalla società.
Un episodio estremamente significativo nella vita di Cipriano fu la persecuzione di Decio.
L’imperatore ordinò che tutti i cittadini compissero un atto di preghiera rivolta agli dei per ottenere la
salute sua e della sua famiglia. Entro una certa data ogni cittadino doveva partecipare ai vota publica:
l’autorità annotava su un registro i cittadini che partecipavano e che quindi si dimostravano non
essere cristiani. Coloro che non si presentavano, venivano torturati o ammazzati. Cipriano ci racconta
che a Cartagine tutti i cristiani abiurarono la loro fede per non fare una brutta fine. Alla fine delle
persecuzioni, gli apostati chiesero furbescamente di essere riammessi nella comunità cristiana. Alcuni
confessori concessero la comunione agli apostati senza il beneplacito del vescovo Cipriano, che rimase
fortemente deluso da questa insubordinazione dei suoi sottoposti, annotando il tutto ne Gli apostati e
ne L’Unità della chiesa: nella prima parla con tono sarcastico di un uomo tradito dai suoi sottoposti,
mentre nell’ultima chiede che tutti gli ecclesiastici vadano nella stessa direzione, affinché essa possa
rimanere unita. Ne La condizione mortale dell’uomo, Cipriano confuta le tesi di coloro che affermano
che il mondo stia finendo a causa dei cristiani, rei di aver fatto infuriare gli dei pagani.
Altre opere sono: Gli idoli non sono degli dei (pagani che venerano uomini divinizzati da altri uomini)
e Sul modo di vestire delle vergini, in cui lo scrittone elogia le donne che hanno indirizzato la propria
esistenza sulla via della castità. Il suo è uno stile chiaro, morbido, fluido, armonioso; utilizza la
paratassi e mescola citazioni classiche e bibliche.

I primi documenti della letteratura cristiana

Arnobio
La grande cultura dell’Africa cristiana ebbe un degno epilogo con Arnobio. Convertitosi al
cristianesimo, scrisse, durante le persecuzioni di Diocleziano, Contro i pagani, opera composta da ben
7 libri. All’interno del primo egli confuta le accuse ingiuste e deliranti che sono rivolte ai cristiani; nel
secondo tratta di Cristo e dello scandalo dell’incarnazione; nei restanti 5 passerà in rassegna teorie
sul destino dell’anima, critiche feroci ai pagani e ai loro riti e elogi al cristianesimo, che lui non
concepisce come una mera religione, ma come una filosofia superiore a tutte le altre. Il suo è un
cristianesimo piuttosto confuso e pessimistico, poiché riteneva che l’anima fosse mortale e che fosse

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una bestemmia affermare che Dio avesse creato gli uomini, in quanto questi ultimi sono la causa del
male che c’è nel mondo.

Lattanzio
Lattanzio porta al culmine l’apologetica cristiana con il suo operato. Anch’egli si convertì al
cristianesimo relativamente tardi. Dopo la persecuzione del 303, venne invitato da Costantino a
indottrinare il figlio Crispo. Egli cercò di difendere il cristianesimo attraverso alcune opere. La prima
da menzionare è L’opera creatrice di Dio, dove Lattanzio afferma che la struttura del mondo e la
perfezione del corpo umano dimostrano l’esistenza di un Dio perfetto, tra l’altro senza introdurre
alcuna citazione biblica. Questa fu un’opera poco apprezzata dai Padri della chiesa, in quanto questi
ultimi sostenevano che non insegnasse nulla. L’opera principale di Lattanzio è rappresentata da Le
istituzioni divine. All’interno di essa Lattanzio sviluppa un nuovo modo di applicare l’apologetica,
caratterizzato prima dalla difesa della religione cristiana, poi dall’esposizione di essa. Il cristianesimo
non è una religione empia e dannosa, ma uno straordinario messaggio di salvezza. Anche quest’opera
venne ritenuta piuttosto gracilina dal punto di vista contenutistico. Lattanzio valuta positivamente
anche qualche autore pagano, come Virgilio (4a ecloga, in cui sembra annunciare tra le righe l’avvento
di un messia). A livello dottrinale Lattanzio è ai limiti dell’ortodossia: egli non distingue lo Spirito
Santo dal Figlio e contrappone al Figlio lo spirito del male, anch’esso creatura del Padre.
L’Ira di Dio è un’opera in risposta agli epicurei e agli stoici. Era opinione diffusa infatti, che Dio fosse
completamente disinteressato delle questioni umane o che possedesse solo bontà. Non è così: Dio
segue le vicende umane SEMPRE e fa sviluppare eventi negativi sulla Terra affinchè l’uomo capisca
ciò che è bene e ciò che è male.
Con La morte dei persecutori del cristianesimo e la Fenice concludiamo il discorso inerente a
Lattanzio. La prima opera testimonia come tutti coloro che perseguitano i cristiani facciano
sistematicamente una brutta fine (partirà da Nerone e concluderà con Diocleziano): più che un’opera
storica, si tratta di un pamphlet. Nella seconda c’è un parallelismo tra la leggendaria creatura della
Fenice e Gesù Cristo. La prima muore e risorge dalle sue ceneri, simbolo della resurrezione di Cristo
e dell’uomo.
Ritenuto il Cicerone cristiano, Lattanzio è un personaggio dalla prosa ampia e ben compagni nata,
ricca di raffinatezze poetiche e retoriche tipiche del suo tempo.

Novaziano
È stato un importante sacerdote di Roma. È famoso per La Trinità, opera in cui riprende palesemente
le tematiche trattate all’interno del Contro Prassea di Tertulliano. In essa affronta il rapporto tra padre
e figlio, affermando la compresenza di natura umana e divina nel figlio. Poi abbiamo il De Cibis, in
cui contesta i divieti dell’Antico Testamento in merito ad alcuni cibi e il De Spectaculis, dove condanna
come immorali gli spettacoli pagani. Era una personalità estremamente rigida e ciò non piaceva ai
piani alti dell’ecclesia romana, tanto è vero che gli furono preferiti personaggi più tolleranti per quanto
riguarda la corsa alla carica di vescovo di Roma.

Ambrogio
Fu vescovo di Milano.

Le opere dottrinali
Ambrogio era molto più duro nei confronti delle eresie di quanto non lo fosse verso il paganesimo. Fra
le sue opere appositamente composte per contrastare le teorie ariane e per sostenere la dottrina nicena
sulla fede trinitaria e cristologica sono destinate alla catechesi dell’imperatore Graziano il De Fide e il
De Spiritu Sancto, in cui tratta espressamente dello Spirito Santo. Scrisse anche il De paenitentia, dove
prende di mira gli abusi diffusi nella Chiesa contemporanea riguardo alla pratica della penitenza. Nel
De sacramentis vi è un’esposizione in sei discorsi sui sacramenti ricevuti dai neofiti nella notte di

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Pasqua: battesimo, cresima, eucarestia.

Le opere ascetiche e disciplinari


Più volte ripreso è il tema della verginità (circa 4 opere a riguardo), anche se siamo lontani dal
rigorismo di Tertulliano. Nel De viduis apprezza la morigeratezza delle donne acui è mancato il marito,
alle quali sconsiglia le seconde nozze. Primo trattato di etica cristiana è invece il De officis
ministrorum, una raccolta di esortazioni morali rivolte al clero, ma valide per tutta la comunità.

Le orazioni
Testimoniano lo sforzo di Ambrogio di adattare le forme dell’oratoria epidittica al nuovo messaggio
religioso. Egli ha appreso le regole classiche alle scuole di retorica e sa variare lo stile in base alla
destinazione dei singoli testi. Particolarmente abile risulta la descrizione di ambienti, fatti, persone.

Le opere esegetiche
Il capolavoro di Ambrogio è l’Hexamenon, un commento ai sei giorni della creazione in 6 libri e 9
discorsi. Girolamo accusa Ambrogio di plagio (verso Basilio di Cesarea e Ippolito Romano): in realtà
l’opera di Ambrogio risulta più vivace stilisticamente e ricca di poeticità per la presenza di metafore e
simbolismi. Ispirato allo stoicismo è il parallelismo simbolico tra animali e vegetali da un lato e virtù
e vizi umani dall’altro. Le altre opere hanno per oggetto argomenti dell’Antico Testamento ricondotti
il più delle volte alla situazione politica e sociale contemporanea all’autore: il De Tobia parla
dell’usura, il De Iacob esalta la vera felicità che risiede in Dio ecc.

Le Epistole
Esse gettano luce sulla sua spiritualità, sulla sua protesta contro le sperequazioni sociali, sulle sue
concezioni politich,e sul suo ruolo di capo di una sede episcopale di prestigio, sul suo impegno contro
il paganesimo. Famose sono la 17 e la 18, che costituiscono la risposta alla relazione con cui Simmaco,
prefetto dell’Urbe, chiedeva il ripristino dell’ara della Vittoria nel senato e la reintroduzione dei sussidi
pubblici per la celebrazione dei culti pagani. Nell’epistola 18, Ambrogio afferma l’inutilità dei culti
tradizionali, giacchè gli dei pagani non erano stati in grado di proteggere Roma dalle disgrazie che
su di essa si erano abbattute (invasione dei Galli e sconfitte contro Annibale). La struttura e lo stile
dell’epistolario rivelano particolare cura. Per la struttura il modello fu Plinio. Scopo della
pubblicazione delle lettere all’imperatore fu mostrare al reggente Stilicone e ai figli di Teodosio
l’accordo esistente tra potere politico e potere vescovile.

Gli Inni
Il tema prevalentemente sviluppato negli inni è quello dell’ora della preghiera, ma vengono celebrate
anche le grandi solennità e le feste liturgiche. Possiamo attribuire ad Ambrogio l’inno sul canto
mattutino, quello sull’ora della crocifissione di Cristo, quello sul canto della sera, quello sul canto di
Natale. Sono composti in dimetri giambici, articolati in strofe di quattro versi.

Girolamo

La vita
Egli nacque a Stridone, in Croazia, ma compì la sua formazione culturale a Roma, dove portò avanti
studi di carattere classico e filosofico. Qui fondò insieme all’amico Rufino una comunità monastica,
salvo poi trasferirsi in Siria per condurre vita eremitica nel deserto. Insoddisfatto, lasciò il deserto per
Costantinopoli, salvo poi tornare a Roma, dove iniziò a svilupparsi un certo malumore attorno alla sua
figura, soprattutto per quelli che erano i suoi insegnamenti troppo intrisi di messaggi cristiani. SI
rifugiò a Betlemme, dove fondò alcuni ordini monastici.

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Le opere di carattere erudito
In seguito al sacco di Roma, scriverà il Chronicon, opera che prende palesemente spunto da La Cronaca
di Eusebio di Cesarea, a cui aggiungerà però le notizie e gli eventi sino a quel momento (378);
sorregge l’opera l’idea di una storia universale come successione provvidenziale di eventi, in cui
incontri e accadimenti sono interpretabili come segni della presenza divina e ammonimenti di
comportamento. Gli uomini illustri, in cui si serve sempre di Eusebio e della sua Storia della Chiesa
per stilare vita e opere di ben 135 scrittori, latini, greci + Seneca.

Gli scritti polemici e le opere agiografiche


Abbiamo senz’ombra di dubbio Contro Elvidio, in cui si azzuffa con quest’ultimo sulla questione della
verginità della Madonna dopo il parto; Contro Gioviniano, che riteneva che Dio gradisse il matrimonio
quanto la verginità. Celebre è anche il Contro Origene, in cui il nostro attacca le teorie origeniane
ritenute eretiche: la subordinazione del Figlio al Padre, la preesistenza delle anime rispetto ai corpi, la
salvezza finale destinata a tutti i viventi. Molto importanti sono anche le opere agiografiche, tra cui
annoveriamo La vita di San Paolo, la vita di San Malcio.

Le traduzioni
La fama di Girolamo è legato soprattutto al mastodontico lavoro di revisione e traduzione che fece
delle Sacre Scritture: nei Vangeli, egli eliminò tutti i grecismi e gli eccessivi letteralismi, che
rendevano il tutto troppo plastico e ampolloso; poi si dedico all’Antico Testamento: ignorò il Settanta
(traduzione greca del testo) e compì il suo lavoro d’esegesi sull’originale ebraico, che in seguitò
accompagnò ad alcuni opuscoletti concernenti l’onomastica e la toponomastica ebraica. Tutto questo
lavoro prese il nome di Vulgata, interamente scritta in latino. Per la Chiesa Romana, questa fu la Bibbia
autentica e ufficiale, che durò fino al Concilio Vaticano II.

Gli scritti esegetici


Sulle modalità con cui affrontare l’esegesi, il nostro Girolamo ci sembra alquanto confuso: ne
l’Epistola a Pammacchio, egli dice che una traduzione letterale è sempre insoddisfacente, in quanto si
ferma in superficie. Ma quando intraprenderà il lavoro di traduttore delle opere esegetiche di Origene
(I principi, omelie su Geremia, Ezechiele, Isaia, sul Vangelo di Luca ecc), spesse e varie volte utilizzerà
una traduzione volutamente letterale.

Epistolario
Ed infine, abbiamo l’Epistolario, composto di 125 lettere autentiche che molto ci dicono della vita del
santo, dei suoi turbamenti interiori e degli aspetti storici della Roma pagana/cristiana del IV secolo.
Vari sono i temi affrontati, tra cui le questioni esegetiche, pedagogiche e di metodologia della
traduzione. Egli era solito utilizzare l’invettiva e un periodare breve e drammatico.

Agostino

La vita
Agostino nacque a Tagaste nel 354. Dal punto di vista grammaticale e retorico, la sua formazione
avvenne tra Madaura e Cartagine, dove venne istruito anche nello studio dei classici. A quei tempi
nutriva parecchi dubbi sulla bibbia, vista come un’opera superficiale e priva di significato. Cambiò
radicalmente idea quando venne introdotto da Ambrogio nell’ambiente milanese cristiano, dove scoprì
un’insolita bellezza di quella bibbia che tanto aveva sdegnato e il neoplatonismo, che gli insegnò che
esisteva un solo Dio, e che il suo Logos è somma sapienza.

Le opere
A Cassiciacum scrisse Contro gli accademici, un dialogo contro le posizioni scettiche della Nuova

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Accademia, i cui membri sostenevano che la verità fosse irriconoscibile; scrisse La vita felice, un
dialogo sul modo di raggiungere la felicità, che consta nel conoscere Dio; poi arrivò l’Ordine, in cui
afferma che l’ordine dell’universo è la prova dell’esistenza di Dio. Agostino fu battezzato nella
settimana santa del 387 e questo evento segnò la rottura col manicheismo e l’unione totale con il
neoplatonismo. In seguito, tornò a Tagaste, dove condivise con alcuni amici una vita di studio,
preghiera e povertà. Opere di questo periodo: La vera religione (cristianesimo, compimento della
filosofia), Il maestro (Cristo, che parla all’anima umana e radica in essa i concetti di buono e giusto),
Il libero arbitrio (l’uomo è artefice delle sue azioni, soprattutto quando compie azioni cattive, ma ci si
può sempre risollevare grazie all’aiuto di Dio). Nel De Catechizandis Rudibus (opera a cui si rifece
Martino di Braga) egli spiega, con linguaggio semplice e discorsi concisi, i fondamenti del
Cristianesimo ai semplici. Interessante è anche la polemica che lo vide contrapposto ai pelagiani.
Celestio rimise in discussione la necessità del battesimo: i bambini non devono riceverlo, in quanto
non sono macchiati da nessuna colpa; l’uomo può raggiungere la salvezza con le sue forze, perché non
esiste un peccato che derivi dalle colpe di Adamo. Agostino rispose che il peccato di Adamo ricadeva
su tutti i suoi discendenti, per questo è necessario battezzare i bambini. Nell’uomo è presente la
concupiscenza, una predisposizione naturale verso il peccare, ecco perché la grazia di Dio è
fondamentale. Continuò a beccarsi con Pelagio e i suoi scagnozzi per
molto tempo, a colpi di pamphlet.

Il De doctrina Christiana
In 4 libri, vuole insegnare a leggere e commentare i testi sacri. I primi 3 libri affrontano l’ermeneutica
dei contenuti (res) e delle parole (signa), il quarto detta le norme per una corretta esposizione (proferre)
delle verità della Bibbia. Per i contenuti, Agostino sostiene che l’attendibilità di ogni ipotesi
interpretativa vada verificata sulla base della sua rispondenza al precetto del duplice amore di Dio e
del prossimo, cui si ispira la Sacra Scrittura. Riguardo alle parole, solo quelle sconosciute e ambigue
possono impedire la corretta interpretazione del testo: le sconosciute possono essere spiegate grazie al
confronto col greco ed ebraico e con l’ausilio delle scienze naturali e di altre discipline; a quelle
ambigue si può ovviare ricorrendo al testo originale o altra traduzione latina. Inoltre Agostino tratta
della differenza tra frui (realtà durevoli, di cui l’uomo gode, come la trinità, la verità, la fede e la
morale) e uti (realtà passeggere di cui servirsi, come il sapere umano); l’anima, il prossimo, il corpo,
vanno utilizzati per amare Dio. L’attenzione dell’autore si sposta sui signa linguistici che indicano le
cose. Ed infine parla della retorica, fondamentale nella predicazione e nell’insegnamento della cultura
cristiana.

Le Confessioni
Agostino mette d’accordo tutti soprattutto su una questione: le Confessioni sono di gran lunga la sua
opera più importante. Ritenerla un’opera autobiografica non è del tutto errato, ma c’è molto di più,
come l’elogio di Dio e la proclamazione della propria fede. L’opera è in forma dialogica (discorso con
Dio) ed è divisa in 13 libri: nei primi 6 troviamo la fanciullezza + la formazione culturale del santo
(difetti, carattere, sessualità, ribellione contro madre, la scelta del male, l’amore per l’antichità,
l’avvicinamento e allontanamento dalle dottrine manichee); nel 7° sottolinea la scoperta del
neoplatonismo; l’8° narrerà dunque della sua conversione; nel 9° parla delle visioni d’Ostia e della
morte della madre; nel 10° risponderà alle feroci critiche che sono piovute sul suo capo durante il suo
vescovato; 11-12-13 trattano di questioni varie di livello teologico.

La Città di Dio
Nella Città di Dio, opera di 22 libri, troviamo tutto il pensiero dottrinale di Agostino. L’opera è divisa
in 2 parti: la prima consiste in una confutazione della religione pagana, la seconda è una sorta di storia
universale dell’umanità dal punto di vista religioso e provvidenziale. Agostino delinea l’esistenza di
due città: una di Dio, ispirata all’amore, una terrena (Roma), ispirata allo sfrenato desiderio di potere;

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la genesi delle due città risale alla rivolta degli angeli ribelli contro Dio. L’opera si conclude con la
descrizione del destino delle due città: quella terrestre destinata alla dannazione, quella celeste alla
beatitudine.

Il De Trinitate
Un’opera che richiese una lunghissima gestazione fu La Trinità, opera che si articola in 2 parti: nella
prima si espone il dogma trinitario sulla base di passi della Sacra Scrittura; nella seconda si evidenzia
la presenza della Trinità in tutto l’universo, in particolare nell’animo umano, perché in esso ci sono la
coscienza, la conoscenza di sé e l’amore di sé.

La prosa cristiana tra il IV e il V secolo

Sulpicio Severo
Il diffondersi del monachesimo portò con sé il fiorire di opere letterarie, che esaltano la vita di coloro
che decisero di ritirarsi a vita eremitica. Oltre alla vita di Antonio, autore di una Vita di Martino d
Tours fu Sulpicio. Il fine del nostro è non solo quello di proporre Martino come ideale di vita ascetica,
ma anche di difenderlo dalle critiche che gli erano state mosse a causa dell’austerità del suo stile di
vita. Pur essendo ricca di elementi fantastici e meravigliosi (miracoli), la biografia di Martino assume
valore storico relativamente alla vita spirituale della Gallia del IV sec. Abbiamo anche 3 Lettere che
suggellano la Vita e i Dialoghi in due libri, che descrivono i fatti prodigiosi di Martino attraverso il
confronto con le azioni miracolose dei monaci d’Egitto.

Orosio e la storiografia cristiana


Particolarmente interessanti sono le Storie contro i pagani. Nei 7 libri l’autore affronta la storia
universale profana della creazione al 417, seguendo la successione degli imperi babilonese, macedone,
cartaginese e romano. Il testo di Orosio è la prima storia universale cristiana, anche se la maggior parte
dell’opera affronta la storia di Roma. Di matrice cristiana è la concezione della storia umana come
svolgimento lineare di eventi che hanno come principio la creazione del mondo e come fine il giudizio
universale. Questa concezione teologico e teleologica è opposta a quella ciclica, caratteristica della
mentalità pagana. Di particolare interesse è il fine apologetico di Orosio: egli vuole dimostrare ai
pagani che le sventure dell’Occidente non erano più gravi di quelle che avevano colpito Roma in
passato. Roma che ha un ruolo centrale nella concezione orosiana della storia. Vuole dimostrare come
il sacco ad opera di Alarico sia stata la conseguenza della decadenza dei costumi dei romani. Con
l’avvento di Cristo il dominio della morte è destinato a ridursi, fino a quando, con la fine del mondo,
verrà completamente annientato.

La poesia cristiana tra il IV e il V secolo

Prudenzio
Possiamo ricostruire le tappe salienti della vita di Prudenzio a partire da questa esile confessio
peccatorum di nome Peristephanon. Nato nel 348, era spagnolo, forse di Calagurris. Apparteneva
all’aristocrazia provinciale ed ebbe una carriera brillante grazie all’ascesa al potere di Teodosio. Di
quest’ultimo condivideva la lotta contro il paganesimo, la devozione personale al culto dei martiri,
l’apprezzamento dell’ascetismo. Il ritiro da ogni carica pubblica è dovuto proprio alla morte di
Teodosio. Nell’epilogo, Prudenzio esprime la speranza di aver guadagnato un proprio posto nella
dimora di Dio, attraverso i suoi versi. Il Peristephanon raccoglie 14 composizioni su 13 martiri: l’ottavo
canto contiene soltanto l’iscrizione per un battistero sorto su un luogo di martirio. Al di là della varietà
formale, la presentazione dei martìri segue quasi ovunque lo stesso schema tripartito con la parte
centrale narrativa preceduta da un’introduzione e seguita da una conclusione dedicate al luogo della
passione e alla descrizione del culto. Tutti terminano con preghiere rivolte ai martiri a favore della città

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o del poeta stesso. Martire e persecutore non sono rappresentati come individui ma come
personificazioni del bene e del male. Il martire non è una vittima: cerca la morte e provoca
sarcasticamente il persecutore. La sua gloria è direttamente proporzionale al numero e all’intensità
delle torture subite. Il Peristephanon concede un posto di rilievo al culto postumo del martire: il
pellegrinaggio alla sua tomba, i miracoli ottenuti, il luogo di culto. Un tratto caratteristico è
lo spazio dedicato alla descrizione di pictae immagine presenti accanto alla tomba del martire. Tutti
gli inni terminano con invocazioni che esprimono una grande fede nel potere intercessorio del martire,
potere che si fonda sul fatto che Cristo non potrebbe rifiutare nulla a coloro che l’hanno testimoniato
a prezzo della propria vita. Prudenzio sottolinea il rapporto speciale che sussiste tra il martire e la città
che ne accoglie le reliquie/gli ha dato i natali.

Paolino di Nola

Delle opere di Paolino sono conservate le Epistole ei Carmina.


Le 51 Epistole rivelano i contatti con personaggi come Agostino, Girolamo, Sulpicio e offrono
importanti informazioni sui maggiori centri di elaborazione della cultura cristiana. Le lettere più vive
della raccolta sono quelle in cui Paolino si rivolge agli amici, come quelle scritte a Sulpicio per ottenere
consiglio e conforto. I Carmina affrontano svariati temi; costituiscono un complesso omogeneo i 14
carmi in onore di Felice, di varia lunghezza; scritti per celebrare il giorno della morte del martire,
narrano la sua vita, l’arrivo a Nola, le feste in suo onore, i miracoli avvenuti dopo la morte, i
pellegrinaggi alla sua tomba. Anche in Paolino si fa strada la nuova concezione dell’arte come mezzo
di lode di Dio, come strumento di affermazione del vero e di elevazione morale per l’uomo.

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