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Fondazione Bruno Kessler

Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento


Quaderni, 83

1
I lettori che desiderano informarsi
sui libri e sull’insieme delle attività
della Società editrice il Mulino
possono consultare il sito Internet:
www.mulino.it
Dottrine e istituzioni in Occidente

a cura di
Luigi Blanco

Società editrice il Mulino Bologna

3
FBK - Istituto storico italo-germanico

Traduzioni di Monica Cioli, Elisa Ingordino, Anna Gianna Manca


e Maurizio Ricciardi

DOTTRINE
e istituzioni in Occidente / a cura di Luigi Blanco. - Bologna : Il
mulino, 2011. - 254 p. ; 22 cm. - (Annali dell’Istituto storico italo-germanico
in Trento. Quaderni ; 83)
Nell’occh.: Fondazione Bruno Kessler
ISBN 978-88-15-23403-2
1. Europa - Politica - Storia - Saggi 2. Politica - Teorie - Storia - Saggi 3.
Storia costituzionale - Saggi I. Blanco, Luigi

320.94 (DDC 22.ed.)

Composizione e impaginazione: FBK - Editoria


Scheda bibliografica: FBK - Biblioteca
Il presente volume è pubblicato con il contributo del Dipartimento di
Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università degli Studi di Trento

ISBN 978-88-15-23403-2

Copyright © 2011 by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono


riservati. Il file può essere utilizzato unicamente ad uso privato e personale,
nei termini previsti dalla legge che tutela il diritto d’autore e non può essere
caricato in siti internet.

4
Sommario

Introduzione, di Luigi BLANCO p. 7

Sul ruolo della città medievale in una storia costituzio-


nale europea, di Gerhard DILCHER 15

La polizia nella prima età moderna, di Michael STOLLEIS 35

Lo Stato «moderno» nell’esperienza storica occidentale:


appunti storiografici, di Luigi BLANCO 57

Stato e chiesa: passato, presente e futuro del modello di


cooperazione tedesco, di Christof DIPPER 87

La chiesa cattolica in Germania dopo la secolariz-


zazione: una nuova identità gerarchica, di Wolfgang
SCHIEDER 109

L’Italia del «risorgimento finanziario» tra scienza, dot-


trine e costituzione, di Raffaella GHERARDI 129

La monarchia costituzionale nell’Europa del lungo


Ottocento: da forma a strumento di governo, di Anna
Gianna MANCA 151

La forza della società: disciplina, morale e governo in


Émile Durkheim, di Maurizio RICCIARDI 185

5
Futurismo e fascismo: l’utopia tecnocratica, di Monica
CIOLI p. 211

Diritti, costituzioni e ordine mondiale, di Gustavo


GOZZI 235

6
Futurismo e fascismo:
l’utopia tecnocratica
di Monica Cioli

1. La mobilitazione totale

L’intuizione che Ernst Jünger esplicita in Die totale Mobil-


machung è che il XX secolo ha conosciuto non una semplice
trasformazione ma una «nullificazione» delle forme, degli ordini,
delle categorie politiche della modernità, cioè della mediazione
razionale fra Stato e società lungo le direttrici fondamentali
e plurisecolari del comando e dell’obbedienza1. Tale nullifica-
zione nasce all’interno dello stesso ordine moderno per opera
dei principali elementi della razionalità moderna, che sono la
tecnica e il progresso: si tratta di quella tensione tra modernità
e crisi che risale in Germania alla fine del XIX secolo, quando
anche la leggendaria Deutsche Wissenschaft assume un ruolo
di subalternità rispetto agli interessi «pratici», economici o
politici che siano, e la Bildung entra in una crisi irreversibile2.
La modernità è autodistruttiva là dove è più razionale, essa
non può essere contenuta e domata: come suggerisce il titolo
stesso del saggio – vero e proprio punto di partenza della
riflessione tedesca sullo Stato totale/totalitario3 –, caratteristica
centrale e qualificante dello Stato novecentesco sta nella sua
capacità di imporre ai propri cittadini una «mobilitazione

1
P. SCHIERA, Specchi della politica. Disciplina, melancolia, socialità nell’Oc-
cidente moderno, Bologna 1999.
2
Cfr. P. SCHIERA, Il laboratorio borghese. Scienza e politica nella Germania
dell’Ottocento (Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento. Mono-
grafie, 5), Bologna 1987, in particolare pp. 301 ss.
3
Cfr. G. RUOCCO - L. SCUCCIMARRA, Il concetto di totalitarismo e la ricerca
storica, in «Storica», 6, 1996, pp. 119-159, in particolare pp. 127 ss.

211
totale», trasformandoli in piccoli ingranaggi di un meccanismo
che trova senso soltanto nel proprio incessante funzionamento.
Il riferimento è alla sorte riservata all’esistenza individuale, al
suo «pieno scatenarsi» e al suo «spietato disciplinarsi»,
«coi suoi quartieri fumosi e ardenti, con la fisica e la metafisica del suo
traffico e dei suoi trasporti, dei suoi motori, dei suoi aeroplani e delle sue
gigantesche metropoli, per intuire, con una sensazione di piacere mista a
spavento, che qui non vi è neppure un atomo che ‘non’ sia all’opera, e che
noi stessi siamo totalmente impegnati, nel modo più profondo, in questo
furioso processo»4.

Si perviene così al risultato che ogni singola vita diventa


«sempre più inequivocabilmente una vita da operaio» inchiodata
sino all’ultima molecola nell’espletamento di una funzione al
servizio dello Stato. Una metamorfosi che consente all’ope-
raio di trasformare la sua stessa struttura morfologica, la sua
stessa Gestalt, in Stato: la totale Mobilmachung è destinata a
profilarsi nella tecnica, nell’economia, nei traffici o sui campi
di battaglia come «Feuer» o «Bewegung»5; essa «non tanto è
eseguita, quanto piuttosto essa stessa si esegue» e in pace e in
guerra «è l’espressione di una misteriosa e cogente esigenza, a
cui siamo sottomessi da questo vivere nell’epoca delle masse
e delle macchine»6. La razionalità moderna dunque, nel suo
sforzo di costruire forme che arginino il «nulla», contiene in
verità il germe del «nulla»: la «‘chiara anarchia’ del ludus»
viene sottomessa al dominio di un ordine elementare, espresso
da quello che Jünger chiama totale Mobilmachung o anche, si
potrebbe dire, dalla stessa «trascendenza della tecnica»7. Una
4
E. JÜNGER, La mobilitazione totale (1980), in «il Mulino», 5, 1985, pp.
753-770, qui p. 759.
5
Cfr. M. GHELARDI, Alcune osservazioni su Carl Schmitt ed Ernst Jünger,
in P. CHIARINI (ed), Ernst Jünger, un convegno internazionale, Napoli 1987,
pp. 93-107, qui p. 103.
6
E. JÜNGER, La mobilitazione totale, p. 759. Alle guerre dei cavalieri, dei
re e dei borghesi seguono infatti le «guerre degli ‘operai’, guerre della cui
struttura razionale e della cui spietatezza ci ha già dato un preannuncio il
primo grande conflitto del XX secolo».
7
F. MASINI, Mitografia dell’avventura, in P. CHIARINI (ed), Ernst Jünger,
pp. 31-39, qui p. 33.

212
visione, questa, che delinea la sostanza stessa della politica
contemporanea – dominata dalla trasformazione della vita in
energia e dalla qualificante presenza delle masse e delle mac-
chine – ma che non va vista come il risultato necessario di un
processo di sopraffazione individuale e collettiva proprio di
una feroce propensione autoritaria. Di più; Jünger prende atto
del rovesciamento, nella guerra, della teleologia del progresso
in un’assenza di fini: allora «l’impresa tecnologica di dominio
sulla natura» propria del razionalismo politico moderno mostra
una rivincita della natura, «cioè dell’oggettività estraniata,
sul principio umanistico. Ma il progresso ‘rappreso’ non ‘si
evolve’, sì ‘precipita’ nella mobilitazione totale»: si tratta di un
principio nuovo e altro rispetto alla semplificata pietrificazione
in cui riposa l’informe spirito del progresso che, «senza la
disponibilità alla mobilitazione, è solo grottesco».
La mobilitazione è il «magma vulcanico» in cui si è fusa la
pietrificazione del progresso, nulla di più e nulla di meno:
Jünger non denuncia il cristallizzarsi delle masse né la
morte dei valori della Kultur; nel suo pensiero è assente la
«critica della civiltà»8. Neanche un altro grande contempo-
raneo di Jünger, Carl Schmitt – al quale lo lega una intensa
relazione intellettuale – si associa al lamento dei critici del
tempo: «Ecce saeculum» esclama Schmitt in Aurora boreale
del 19169, e ciò risuona come esortazione ad attraversare il
secolo, a sperimentarne le laceranti contraddizioni e a sop-
portarne le conseguenze, a viverlo, insomma, come il proprio
destino10. Un concetto destinato a rafforzarsi in un famoso
scritto del 1929 dove per Schmitt ciò che davvero conta è la
«consapevolezza» della propria «situazione culturale e stori-

8
C. GALLI, Ernst Jünger: «La mobilitazione totale» e il nichilismo, in L.
BONESIO (ed), Ernst Jünger e il pensiero del nichilismo, Seregno (Monza)
2002, pp. 63-81, in particolare pp. 72 s.
9
C. SCHMITT, Aurora boreale. Tre studi sugli elementi, lo spirito e l’attualità
dell’opera di Theodor Däubler (1916), a cura di S. NIENHAUS, Napoli 1995,
p. 89.
10
Cfr. C. RESTA, Mondializzazione e tecnica nell’epoca del nichilismo. Due
prospettive a confronto: Ernst Jünger e Carl Schmitt, in L. BONESIO (ed),
Ernst Jünger, pp. 83-138.

213
ca»11, quella che – ribadirà Jünger nel 1950 – ci porta al
«rischioso confronto col niente»12.
Apparso la prima volta nel 1930, lo scritto su La mobilita-
zione totale centra questioni cruciali come tecnica, massa,
guerra o, in una parola, «modernità», che in Italia da almeno
vent’anni animano l’avanguardia futurista. Con i futuristi
l’intellettuale tedesco condivide l’ideologia (fascista) e l’im-
maginario tecno-logico, ma quest’ultimo ha esiti diversificati
se non addirittura opposti nel movimento fondato da Filippo
Tommaso Marinetti, sintomatici dei contesti materiali (politici
e sociali) di riferimento. La totale Mobilmachung serve qui
soprattutto per riflettere sulla diversa accezione – «positiva»,
in progress – che, nello stesso periodo della prima edizione
dello scritto, l’élite (fascista) futurista offre con l’aeropittura
della «civiltà meccanica»13.
Ma prima di passare a questo aspetto, vorrei richiamare
gli inizi del futurismo attraverso, di nuovo, la riflessione
di Jünger. L’ineluttabilità della sopraffazione macchinistica
dell’esistenza individuale e collettiva getta uno sguardo sini-
stro sulla guerra, in particolare sul primo conflitto mondiale
da lui stesso chiamato in causa e che costituisce un’acme di
tale annientamento, piuttosto stridente in verità con Nelle
tempeste d’acciaio pubblicato nel 192014. Al pari di molti intel-
lettuali europei del tempo, qui Jünger saluta la guerra come
rigenerazione totale della società, di tutto ciò che definisce in
senso dispregiativo con il termine «borghese»15, e celebra la
11
C. SCHMITT, L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni (1929),
in C. SCHMITT, Le categorie del politico. Saggi di teoria politica, a cura di G.
MIGLIO - P. SCHIERA, Bologna 1972, pp. 167-191, qui p. 167.
12
E. JÜNGER, Oltre la linea (1950), in E. JÜNGER - M. HEIDEGGER, Oltre la
linea, Milano 1989, p. 69.
13
Alla prima edizione della totale Mobilmachung del 1930 in un volume
collettaneo, curato dallo stesso Jünger con il titolo di Krieg und Krieger,
seguono altre sei edizioni principali. È all’ultima, apparsa nel 1980, che si
fa qui riferimento (cfr. supra, nota 4).
14
E. JÜNGER, Nelle tempeste d’acciaio (1920), Milano 1966.
15
Per lui borghese è il «terzo stato che ha represso, con la sua logica
irrazionalistica, le forze primordiali dell’esistenza»; borghese è l’individuo

214
violenza, il sangue, l’indifferenza, la morte, il coraggio, la gioia
di uccidere, la disciplina, il comando, l’autenticità originaria
restituita dalla guerra. Forse è più esatto dire che sono due le
guerre che osserva Jünger, o anche due tipi di trincee, quelle
della Grande guerra e quelle della «Grande crisi» degli anni
Trenta16: egli si affaccia a queste ultime intuendo la gravità di
certi problemi – la massificazione capitalistica o il rapporto tra
uomo e macchina – e, assumendo le sembianze del «conser-
vatore rivoluzionario», perde l’entusiasmo originario con cui
ha partecipato al conflitto e per il quale è decorato con croce
di ferro, medaglia d’oro, perfino con la leggendaria «Pour le
mérite», raramente concessa a ufficiali subalterni come lui e
che lo colloca nel novero degli eroi nazionali.
Un rapido confronto del contesto culturale tedesco con quello
italiano dà l’idea quanto meno di una sfasatura «temporale» dei
due ambiti: l’elogio che Jünger fa della violenza e della guerra
in Nelle tempeste d’acciaio è il frutto di riflessioni elaborate
dal soldato in guerra e pubblicate quando l’inno futurista alla
«guerra sola igiene del mondo» costituisce quasi una parte,
sia pur centrale, della «tradizione» del movimento. Ma non è
tanto il tema della guerra e della sua apologia a differenziare
le due realtà, quanto la centralità del dinamismo, dell’antici-
pazione temporale, vero elemento qualificante dell’avanguardia
italiana che con il nome di futurismo intende richiamare,
insieme, la misura futura del tempo e l’accelerazione dinamica
della contemporaneità17. Un retroterra immobile e arretrato
rispetto a quello di altri paesi europei come la Germania
offre all’Italia maggiori spunti tesi a unire libera creatività e

che «si avvolge in una rete di mediazioni intellettuali e moralistiche» per


incapacità e paura di vivere (cfr. C. MAGRIS, Lo stile e la giustizia, in P.
CHIARINI [ed], Ernst Jünger, pp. 25-29, qui p. 26).
16
Cfr. L. VILLARI, Ernst Jünger e la guerra come crisi intellettuale, ibidem,
pp. 43-50, qui p. 49.
17
Cfr. M. DE MICHELI, Le avanguardie artistiche del Novecento, Milano
200438; M. CIOLI, Avantgarden zwischen Kunst, Wissenschaft und Politik.
Der Fall Italien, in A. JÜNEMANN - E. RICHTER - G. THIEMEYER (edd), Italien
und Europa. Festschrift für Hartmut Ullrich zum 65. Geburtstag, Frankfurt
a.M. 2008, pp. 107-128.

215
progresso: vestendo i panni inediti dell’avanguardia, l’artista
futurista diventa il depositario del mutamento, il profeta, una
«eccezione segreta che agisce, che pone in serbo il pensiero
perduto»18. Diverso il discorso in Germania dove una realtà
già dinamica, urbanizzata spinge all’indagine psicologica e
intimistica degli espressionisti: il loro linguaggio restituisce una
realtà deformata, altera l’apparenza delle cose, la loro forma,
lo spazio che le contiene, a favore di una trascrizione forte-
mente emotiva della realtà dell’artista19. Anche per la Brücke
e per il Blauer Reiter l’arte non significa evasione dalla realtà,
esclusione della storia; ma l’ispirazione è Friedrich Nietzsche e
non il «ruggire» degli «automobili famelici» o la «buona melma
delle officine» dei futuristi20. Se la celebrazione della scienza
e della tecnologia serve a questi ultimi per esortare l’Italia al
mutamento politico generale, negli espressionisti prevale la
fede in una Entwicklung fatale, naturale, delle cose21. Nell’idea
del tempo, nella tensione a catturare il mutamento si compie
invece la «rivoluzione» futurista: è qui, cioè, che si realizza il
nesso tra il concetto di movimento temporale e il concetto di
movimento sociale, oramai principio politico fondamentale e
realtà incancellabile sulla scena politica22.

2. «Il Tempo e lo Spazio morirono ieri»

Lanciando il futurismo nel 1909 sul parigino «Le Figaro»,


Filippo Tommaso Marinetti intende colpire sia lo stato con-
giunturale della produzione artistica sia i grandi dispositivi
formali – il figurativo in pittura, l’umanismo in scultura,
la tonalità in musica –, che costituiscono punti consolidati
della cultura artistica europea. Esso si profila da subito come
18
A. BADIOU, Il secolo, Milano 2006, pp. 31 s.
19
Cfr. M. PASSARO, L’arte espressionista. Teoria e storia, Torino 2009.
20
F.T. MARINETTI, Fondazione e Manifesto del Futurismo («Le Figaro», 20
febbraio 1909), in F.T. MARINETTI, Teoria e invenzione futurista, a cura di
L. DE MARIA, Milano 2005, pp. 7-14, qui pp. 7-10.
21
Cfr. J. NIGRO COVRE, L’arte tedesca nel Novecento, Roma 1998, p. 28.
22
Sul concetto di rivoluzione cfr. M. RICCIARDI, Rivoluzione, Bologna 2001.

216
movimento profondamente aggressivo, con un forte gusto per
l’intervento pubblico e per lo scandalo; tuttavia, la provocazione
del futurismo non è tanto lo «schiaffo ed il pugno» delle serate,
dei manifesti, ma l’idea di fondo che è dietro tutto questo:
l’idea appunto del tempo, della spinta in avanti. C’è in loro
una vera e propria ossessione del mutamento:
«Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli! … Perchè dovremmo guar-
darci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’Impossibile?
Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, perchè
abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente»23.

Ad acceleratore schiacciato i futuristi collegano il progresso


della scienza al futuro:
«il trionfante progresso delle scienze ha determinato nell’umanità mutamenti
tanto profondi, da scavare un abisso fra i docili schiavi del passato e noi
liberi, noi sicuri della radiosa magnificenza del futuro»24.

Gli studi sul moto assoluto e relativo, sul dinamismo e la


simultaneità corrispondono all’intento futurista di afferrare
presente, passato e futuro e di dare una forma alla «velocità»:
la tecnica – «i treni, gli automobili, le biciclette, gli aeroplani» –
ha sconvolto la concezione contemplativa del paesaggio e
trasformato la sensibilità, soggetta alle innovazioni suggerite
dalle necessità della vita25. Il gesto non è più un «‘momento
fermato’ del dinamismo universale» ma, decisamente, la «‘sen-
sazione dinamica’ eternata come tale». Sulle tele non si deve
più fare la figura, bensì «farne l’atmosfera. Lo spazio non
esiste più: una strada bagnata dalla pioggia e illuminata da
globi elettrici s’inabissa fino al centro della terra». Contro la
tradizione accademica, i futuristi reclamano nell’arte
«una vivificante corrente di libertà individuale. Noi vogliamo rientrare nella
vita. La scienza d’oggi negando il suo passato, risponde ai bisogni materiali

23
F.T. MARINETTI, Fondazione e Manifesto del Futurismo, pp. 10 s.
24
U. BOCCIONI et al., Manifesto dei pittori futuristi, 11 febbraio 1910, in
Archivi del futurismo, Roma 1958, I, pp. 63-65, qui p. 63.
25
Cfr. U. BOCCIONI, Pittura scultura Futuriste: Dinamismo plastico (1914),
Firenze 1977, p. 83.

217
del nostro tempo; ugualmente l’arte, negando il suo passato, deve rispondere
ai bisogni intellettuali del nostro tempo»26.

La scienza non è solo o tanto il punto di riferimento di nuovi


schemi teorici e figurativi; di più, essa è recepita – anche solo
nel senso di pura suggesione o mimesi – e comunicata nelle
opere futuriste: nella città animata dalle officine, nelle piazze
concitate, nella velocità delle automobili. In questo inno al
movimento, all’anticipazione, al salto in avanti l’obiettivo di
fondo è trasmettere una necessità politica al cambiamento. I
futuristi ambiscono a svecchiare la realtà italiana, a formare
una nuova e solida coscienza nazionale, a rendere la nazione
in grado di essere nuovamente protagonista nella storia del
mondo, creatrice di una moderna civiltà. L’assunto deca-
dentista della «vita come arte» è così trasformato nell’ardita
proposta dell’«arte come vita»: il bello è spostato dal campo
dell’arte a quello della tecnologia, e dalla contemplazione alla
pratica dell’azione27. La formula «marciare e non marcire»
di Marinetti deve essere applicata all’«atmosfera stagnante»
dell’arte, della politica, della filosofia, della scienza, di tutta la
mentalità borghese, e l’arte costituisce il principale strumento
di rigenerazione28.
Nella convinzione di essere il movimento rivoluzionario per
eccellenza, i futuristi creano da subito una loro utopia politica:
quella di «performare» attraverso le opere d’arte, evidentemente
dirette a chi è in grado di accoglierle e recepirle (l’élite), una
nuova «aristocrazia» di tecnici, «la classe dirigente». Il pensiero
utopico dei futuristi può essere riassunto nella celebrata espres-
sione dell’«uomo futuro»: la creazione di un nuovo soggetto
storico, da costruire. Nel movimento marinettiano l’utopia

26
U. BOCCIONI et al., La pittura futurista. Manifesto tecnico, 11 aprile 1910,
in Archivi del futurismo, I, pp. 65-67.
27
Cfr. M. CALVESI, Attraverso Marinetti, in C. SALARIS, Filippo Tommaso
Marinetti, Firenze 1988, pp. 7-33, qui p. 7. Cfr. anche C. SALARIS, Marinetti.
Arte e vita futurista, Roma 1997; A. MASOERO - R. MIRACCO (edd), Futurismo
1909-1926. La bellezza della velocità, Milano 2003.
28
Cfr. A. GINNA, L’uomo futuro. Investigazione futurfascista, Prefazione di
S.E. MARINETTI, Roma [1933], p. 21.

218
non ha nulla del rapporto «volutamente incerto» fra il luogo
felice e il luogo inesistente insita nel nome artificiale coniato
da Thomas More29: la loro «città perfetta» coincide più con
quella di Karl Mannheim, che definisce utopie «tutte le idee
(e non soltanto, quindi, la proiezione dei desideri) trascendenti
una situazione data, le quali hanno comunque un effetto nella
trasformazione dell’ordine storico-sociale esistente»30. L’idea di
una società migliore, trascendente la realtà, realizzabile attra-
verso la rivoluzione dell’ordine esistente per mano degli artisti
è la vera, grande novità del futurismo: e qui va visto il forte
nesso tra arte, scienza, tecnologia e tecnica, che sottintende un
ruolo «positivo» e progressivo della «macchina», ben diverso
da quello attribuitole in Germania da Jünger.
Nella «ricostruzione futurista dell’universo»31 centrale è dunque
la scienza, intesa in stretta connessione con la tecnologia, sia
con il mondo delle macchine (le auto ma anche i telegrafi), sia
con l’accelerazione del lavoro industriale grazie all’applicazione
dell’«organizzazione scientifica» di Frederick W. Taylor. La
tecnologia della velocità domina l’immaginario collettivo, ma
altrettanto potente è l’ideologia utopistica connessa all’universo
tecnologico: per cambiare la società, le macchine devono
anzitutto modificare l’ambiente. Diverse sono le risposte alle
suggestioni dell’immaginario tecnologico di artisti e architetti
europei, un’influenza rilevabile soprattutto in Austria, più
tardi in Russia e in Francia, in Germania, dove le forze del
Deutscher Werkbund (1907) – miranti a unire libera creatività
e standardizzazione in una produzione di qualità, in linea con
l’espansione dell’industria tedesca sul mercato europeo – coe-
sistono con la protesta, la «fuga» nell’ideologia «antiurbana»
e il «rifiuto del progresso» della Brücke32. La creazione del

29
S. TESTONI BINETTI, La stagione dei maestri. Questioni di metodo nella
storia delle dottrine politiche, Roma 2006, p. 125.
30
K. MANNHEIM, Ideologia e utopia (1929), Bologna 1999, p. 202.
31
Cfr. G. BALLA - F. DEPERO, Manifesto Ricostruzione futurista dell’uni-
verso, Milano, 11 marzo 1915, in E. CRISPOLTI (ed), Ricostruzione futurista
dell’universo, Torino 1980, pp. 27 s.
32
Cfr. J. NIGRO COVRE, L’arte tedesca, pp. 23 s.

219
Werkbund tuttavia, nota Charles Maier, lungi dal significare
che nell’Europa centrale stiano prevalendo le esigenze della
modernità, indica che una consapevole ispirazione tecnologica
può «facilmente attecchire» là dove la società mostra «crepe
profonde e forti impulsi reazionari»33.
Un filone affine, ma dall’esito politico differente, è quello dei
futuristi italiani: i dipinti di Giacomo Balla e Gino Severini, le
sculture di Umberto Boccioni, i primi Manifesti del futurismo
trasudano una consapevole ispirazione tecnologica, prefigu-
rando al tempo stesso uno sviluppo cruciale della visione «inge-
gneristica» del taylorismo. Certamente, Taylor studia e teorizza
un modello nuovo di produzione, quello della produzione di
massa, della catena di montaggio, ma si riferisce anche a un
modello tecnocratico, osservato molto probabilmente anche dai
futuristi italiani: gli artisti come gli ingegneri sono intellettuali,
«tecnici», l’élite delegata a diventare, in questa fase prebellica,
classe dirigente. Un intento abilmente espresso da Boccioni in
Forme uniche della continuità nello spazio (1913) – una riuscita
mescolanza di uomo, energia e macchina – in cui la spinta in
avanti della figura è bilanciata dai polpacci modellati come
fiamme di scarico che rimandano alla velocità di movimento e
all’energia propulsiva proprie dell’uomo moderno. Totalmente
calato nel suo tempo (accelerato, dinamico, simultaneo) esso
diventa il soggetto storico ignoto, atteso, da costruire: l’uomo
futuro, o l’uomo nuovo fascista ante litteram.

3. Mito della macchina e idealismo cosmico

Senza soluzione di continuità con il primo futurismo, la nuova


generazione che cresce e si sviluppa con il fascismo mutua
e approfondisce il discorso tecnocratico, avviando la grande
stagione dell’«età meccanica»34. Il progetto della rivoluzione

33
C.S. MAIER, Alla ricerca della stabilità (1987), Bologna 2003, p. 40.
34
Punto d’avvio può essere considerato il Manifesto dell’arte meccanica:
cfr. E. PRAMPOLINI - I. PANNAGGI - V. PALADINI, L’Arte meccanica. Manifesto
futurista (Roma, ottobre 1922), in «Noi», 2 maggio 1923.

220
tecnica-tecnologica-tecnocratica si arricchisce con proposte
nuove e originali, perché innovativi sono i punti di riferimento
offerti dalle ‘scoperte’ della fisica, della matematica o della
psicanalisi. La constatazione della velocità costante della luce,
le teorie di Max Planck e Albert Einstein hanno mutato il
senso «classico» della velocità; il telegrafo, la radio, i nuovi
mezzi di trasporto hanno contratto le distanze. Si tratta di
dati consolidati che suscitano nuove curiosità: i futuristi si
avvicinano all’arte non più con l’ansia inventiva dei predeces-
sori e con l’ambizione di creare la loro tradizione35. Queste le
parole di Luigi Colombo «Fillia», uno dei grandi protagonisti
del secondo futurismo:
«Naturalmente tra i primi futuristi e noi la differenza è enorme: mentre
quelli, per loro stessa definizione, erano i primitivi di una nuova sensibilità,
noi siamo i realizzatori di una sensibilità rinnovata, con leggi d’ordine e
d’equilibrio definite. In conseguenza: sviluppo logico dei problemi plastici,
approfondimento o abbandono delle diverse ricerche, superamento dell’atto
polemico e teorico»36.

La scienza resta uno degli elementi centrali di ispirazione,


diventando però il viatico per il superamento, anzitutto morale,
della materia: i simboli tecnologici celebrati dal primo futuri-
smo – l’automobile, la città, le officine – lasciano la scena per
fare spazio al nuovo «idolo meccanico», l’aereo, interpretato
come strumento per la proiezione su un mondo ultraterreno
sia dell’artista che dello spettatore. Nell’infinito è trasferita la
«città perfetta», costruita su una altrettanto utopica aristocrazia
di ottimati: ma ora, durante il fascismo, il poeta-profeta futuri-
sta non costituisce più tanto la tecnica quanto, piuttosto, ha il
compito, ancora più importante, di formare (attraverso l’arte)
la nuova classe dirigente. Se nella prima stagione futurista le
teorie delle scienze fisiche e matematiche hanno stimolato nuovi

35
Sul tema S. EVANGELISTI, Futurismo e avanguardia europea tra le due
guerre, in S. EVANGELISTI (ed), Fillia e l’avanguardia futurista negli anni del
fascismo, Milano 1986, pp. 13-34.
36
FILLIA [Luigi Colombo], Il paesaggio nella pittura futurista («Oggi e
domani», Roma, 19 agosto 1930), in E. CRISPOLTI, Il secondo futurismo.
Torino 1923-1938, 5 pittori + 1 scultore, Torino 1962, pp. 282 s., qui p. 282.

221
principî estetici – compendiati nei concetti di simultaneità,
dinamismo, quarta dimensione – che esaltavano la «velocità»
del moderno e costruivano l’utopia di una nuova società, ora
le stesse scienze suggeriscono all’artista nuove realtà. La fisica
o la psicanalisi gli rivelano mondi nascosti, tendenti verso
l’assoluto, l’«introspezione», il mistero, sollecitando in alcuni
artisti «un’interpretazione lirica» dell’aeropittura, che ha alla
base «influenze metafisiche, incantate e magiche»37.
Con il Manifesto dell’Aeropittura del 1929 – compimento e
perfezionamento dell’arte meccanica – le tendenze spirituali e
cosmiche di artisti come Fillia, Pippo Oriani e Enrico Pram-
polini possono esprimersi al meglio. Il concepire un universo
in espansione, l’ampliamento della ricerca astronomica grazie
ai moderni telescopi, il poter pensare al fluttuare dei corpi
nell’atmosfera traggono ispirazione dalle scoperte scientifiche
moderne, sulla cui base questi artisti danno dell’aeropittura
piuttosto un’interpretazione lirica, rifiutando di concepirla
come mera descrizione di un paesaggio visto dall’alto. Un
interesse, quello dell’avanguardia per la scienza, non solo
italiano ma europeo: si avverte cioè in tutta Europa un forte
interesse per la fisica moderna, per le scoperte scientifiche sul
moto dell’universo, ed è indubbia una circolarità di queste
idee e riflessioni anche nei loro esiti estetici. Qui sta anche il
paradosso del futurismo che, movimento transnazionale per
eccellenza, si identifica con la nazione in modo simbiotico
tacciando le aperture europee di altre manifestazioni artistiche
come «esterofile»38.
Attraverso l’aeropittura i futuristi si fanno interpreti di una
moderna, nuovissima condizione dell’uomo e capovolgono la
visione tradizionale che non muove più dalla terra al cielo
ma dal cielo alla terra, coinvolgendo l’uomo nell’atmosfera
e proiettandolo nei cieli aperti alla ricerca di un modo di
concepire lo spazio liberato dagli angusti confini terrestri. Al
centro delle riflessioni futuriste è la «macchina» – intesa non
37
S. EVANGELISTI, Futurismo, p. 15.
38
Si veda ad esempio F.T. MARINETTI, Contro l’esterofilia. Manifesto futurista
alle signore e agli intellettuali, in «Oggi e domani», 57, 5 ottobre 1931.

222
come oggetto ma come «il complesso delle scoperte scientifiche
degli ultimi tempi»39 – che ha però una significatività e una
portata diverse dalla prima generazione futurista: essa diventa
una virtuale occasione di potenziamento non soltanto delle
facoltà creative dell’uomo ma anche e soprattutto di quelle
morali. Queste le parole di Fillia:
«Oggi noi, nessuno escluso, attendiamo dalla macchina il miracolo della
nostra felicità – il miracolo che deve liberarci dall’oppressione della vita
fisica ed innalzarci, in un prossimo domani, all’estasi ed all’eternità. Soltanto
interpretando lo spirito che sorge dalla civiltà meccanica è possibile realizzare
un’arte che ci parli: i nostri sentimenti, i nostri nervi, il nostro cuore, i nostri
occhi, il nostro cervello sono modificati … La civiltà meccanica provoca
un’atmosfera di mistero, di ignoto, di imprevedibile: ha tutti i caratteri di
una forza superiore a qualsiasi logica umana e domina la nostra vita»40.

Come già preannunciato dallo stesso artista nel 1925 con L’idolo
meccanico41, la macchina sarà in grado di perfezionare l’evolu-
zione umana, di creare l’uomo futuro: la civiltà è identificata
con la macchina-scienza, da un lato, e con l’arte, dall’altro, in
una prospettiva in cui l’artista d’avanguardia resta il demiurgo,
il profeta, l’interprete insomma della nuova civiltà meccanica
sulla cui base si fonda l’utopia della «città perfetta». Chiara
in tal senso la conclusione dello scritto:
«Ho cercato di spiegare come la nuova civiltà meccanica si basi non più
sulle leggi che regolavano un tempo la vita dell’uomo, ma su dei fattori che
trascendono l’attimo materiale e sono fonte di misteri, fattori di sogno, di
fantasia e di infinito. E intanto l’arte, maturata attraverso l’impressionismo
e le avanguardie, diviene l’espressione di questa modernità, ne subisce
le leggi e ne interpreta lo spirito. Difesa cioè in blocco della lotta delle
avanguardie artistiche che, pur con apparenti contraddizioni, hanno teso a
formare un’estetica in armonia col presente»42.

39
FILLIA [Luigi Colombo], Spiritualità futurista (Oggi e domani», Roma,
26 ottobre 1931), in E. CRISPOLTI, Il secondo futurismo, pp. 286-289, qui p.
288.
40
Ibidem, p. 288.
41
Cfr. FILLIA [Luigi Colombo], L’idolo meccanico («L’Impero», Roma, luglio
1925), in E. CRISPOLTI, Il secondo futurismo, pp. 274 s.
42
FILLIA [Luigi Colombo], Spiritualità futurista, p. 289.

223
La ricerca di una dimensione spirituale, sviluppata sulla scienza
non deve risolversi, dunque, soltanto in un bisogno, assolu-
tamente intimo e personale, dell’artista: l’arte deve avere una
dimensione anzitutto politica, come del resto era stato stabilito
sin da subito dai padri fondatori del futurismo43. L’artista ha il
compito d’intervenire politicamente, deve puntare a una sorta
di «moralizzazione culturale», ed è in questa dimensione che
tra futurismo e fascismo si stabilisce un legame: la formazione
dell’uomo nuovo vuole dire, per entrambi, creare la nuova
classe dirigente su basi, appunto, non materialistiche ma quasi
trascendentali, e certamente organiche, spirituali e funzionali44.
In questo senso il futurismo rappresenta un fattore costitu-
tivo dell’impianto dottrinario fascista, di uno Stato, cioè, che
si appoggia sulla leva formidabile della società civile, a sua
volta completamente immersa nella nuova realtà, psicologia
e sociologica, della massa e della mistica modernissima del
«movimento»45. Ma solo se si accoglie l’invito a osservare le
dottrine come fenomeni materiali e a considerarle una neces-
sità «funzionale» dei regimi politici è possibile individuare la
rilevanza «dottrinaria» e politica del futurismo. Perché le dot-
trine rivelano l’esistenza di una politicità «che non si esprime
necessariamente in termini politici. Esse vengono elaborate per
essere insegnate, cioè per essere trasmesse, diffuse, comunicate».
Accettando questa scommessa degli ultimi studi in materia, che
invitano a parlare di «politicità delle dottrine» piuttosto che
di «dottrine politiche», è possibile trovare il politico «anche
dove usualmente non se ne ricerca la presenza»46.
43
Molti sono gli interventi a questo proposito: cfr. i contributi di alcuni
futuristi in F.T. MARINETTI, Arte fascista. Elementi per la battaglia artistica,
Torino s.d. [1928?]; G. DOTTORI, Arte e politica, in «Futurismo», 18, 8
gennaio 1933; M. SOMENZI, Difendo il Futurismo, Roma s.d. [1937].
44
Su questi aspetti rimando a M. CIOLI, Il fascismo e la «sua» arte. Dottrina
e istituzioni tra futurismo e Novecento, in corso di stampa presso il MART
di Rovereto.
45
Cfr. P. SCHIERA, Totalitarismo, in R. GHERARDI (ed), La politica e gli Stati.
Problemi e figure del pensiero occidentale, nuova ed., Roma 2010, pp. 93-106.
46
P. SCHIERA - M. RICCIARDI, Per una storia delle dottrine: «Scienza & Po-
litica», in R. GHERARDI - S. TESTONI BINETTI (edd), La Storia delle Dottrine
Politiche e le Riviste (1950-2008), Catanzaro 2008, pp. 91-100, qui pp. 94 s.

224
4. Futurismo e fascismo

A partire dal 1924 il futurismo attenua pertanto l’aspetto


polemico e anti-istituzionale che lo ha caratterizzato e, in
perfetta sinergia con il fascismo, dà alla civiltà meccanica un
significato «futuristico»47. Alla base della relazione tra fascismo
e futurismo è la condivisione di valori e obiettivi ben centrati
dalle parole di Fillia:
«Questi vent’anni di lavoro hanno creato nelle generazioni giovani una
coscienza in armonia col proprio tempo – il trionfo dei principî futuristi
ha attenuato il bisogno di quell’intransigenza polemica che era necessaria,
nell’ambiente ostile dell’anteguerra»48.

L’Italia vive una nuova stagione inaugurata dal fascismo e con


una coscienza rinnovata i futuristi non avvertono più l’esigenza
di distruzione ma di costruzione dell’ordine: nel decennio che
va grosso modo dal 1924 al 1934-1935 essi condividono con
i fascisti l’ambizione a una rivoluzione «spirituale» con forti
risvolti eticheggianti. In una sorta di ripartizione delle funzioni,
il fascismo e il futurismo non solo aderiscono allo «spirito
del tempo» ma costituiscono elementi fondamentali di quello
Zeitgeist, finendo per formarlo tanto quanto lo condividono49.
Qui è, di nuovo, una forte differenza con la Germania, in
particolare con la critica che il «rivoluzionario conservatore»
Jünger rivolge al suo paese esortandolo alla mobilitazione

47
Del 1924 è, infatti, la pubblicazione del volume Futurismo e fascismo
di Marinetti con cui il leader futurista, che in conseguenza della rinuncia
di Mussolini alla pregiudiziale repubblicana e anticlericale aveva rotto con
il fascismo, rientra nella sua orbita (F.T. MARINETTI, Futurismo e fascismo
[1924], in F.T. MARINETTI, Teoria, pp. 489-572).
48
FILLIA [Luigi Colombo], Il paesaggio nella pittura futurista, p. 282.
49
Lo scritto Futurismo e fascismo di Marinetti costituisce una sorta di
Manifesto programmatico della partecipazione futurista nel regime, quasi
una divisione di compiti tra politica e arte: da un lato, il fascismo, che
«opera politicamente, cioè nell’ambito della nostra sacra penisola che esige
impone limita e vieta», è destinato a misurarsi con la Realpolitik; dall’altro,
il futurismo, che «opera invece nei dominî infiniti della pura fantasia», può
e deve «osare osare osare sempre più temerariamente» (F.T. MARINETTI,
Futurismo e fascismo, pp. 496 s.).

225
totale o, come la definisce lui stesso, «disponibilità» alla
mobilitazione: la mobilitazione totale vera, cioè, che non è
agita dalla razionalità rivolta a uno scopo ma che dell’assenza
di fini si crea uno scopo; una disponibilità che viene dopo
il progresso e non è un fatto ideologico, «ma la condizione
formale per contenuti differenziati». Da qui l’insistenza di
Jünger affinchè la Germania impari finalmente la lingua del
progresso, di questo tipo di «mobilità» del progresso e della
sua «pietrificazione tecnica», e non pretenda di opporre
«‘Kultur’ a ‘Zivilisation’, ideologia (perdente) ad ideologia
(momentaneamente vittoriosa)»50.
In Italia, la cultura espressa da (alcuni) fascisti e futuristi è
invece rivoluzionaria, anche se dagli esiti fallimentari; anzi, si
tratta di una cultura che non riesce a produrre una rivolu-
zione più che a farla fallire, come osservano due dei grandi
protagonisti di quella cultura, Giuseppe Bottai ma soprattutto
Camillo Pellizzi, parlando di una mancata, più che fallita,
rivoluzione51. Tuttavia, il regime tenta di dare un impianto
organico al sistema politico-culturale nel suo complesso –
dall’organizzazione scientifica all’arte, dal sistema filosofico a
quello corporativo – ponendo alla base una dottrina che ha
rilievo non solo nell’impianto teorico ma nella stessa dimensione
applicativa. Trattare il fascismo nella sua dimensione dottrinaria
ha senso veramente in questa dimensione «teorico-applicativa»,
o anche, si è detto, politica52, nel senso di riflessione mirante
a realizzare un progetto organico, sistematico. È proprio in
questa dimensione teorico-pratica che va anche contestualizzato
il rapporto tra fascismo e futurismo: l’endiadi teoria-prassi
non è che l’altra faccia dell’endiadi arte-vita, l’impegno del
futurismo a mettere in comunicazione i due termini. L’arte si
trasforma in azione e il bolide da corsa non è più un oggetto
da contemplare ma da catapultare nella velocità, un idolo di

50
C. GALLI, Ernst Jünger, pp. 72 s.
51
Cfr. G. BOTTAI, Vent’anni e un giorno (24 luglio 1943), Milano 1949, p.
45; C. PELLIZZI, Una rivoluzione mancata (1949), a cura e con Introduzione
di M. SALVATI, Bologna 2009.
52
Cfr. P. SCHIERA - M. RICCIARDI, Per una storia delle dottrine.

226
brevità; ma anche la dottrina è «intesa come azione» – dichiara
nella Premessa al Dizionario di politica (1940) il vicesegretario
del Pnf, Fernando Mezzasoma –, e così pure la «politica è
azione, lo Stato è azione, il pensiero politico stesso è azione,
movimento e volontà in trasformazione»53. Del resto, già nel
1925 Sergio Panunzio aveva parlato di concretezza dottrinaria
del fascismo dichiarando:
«Si dice: ‘Il Fascismo non ha una dottrina’. Rispondo: c’è, viva e vitale, una
dottrina generale del Fascismo, perché i veri, originari, nuovi e vorrei dire
unici movimenti, non solo dottrinari, ma spirituali, dell’Italia sono questi
due: il Sindacalismo e il Nazionalismo – ed entrambi sono sintetizzati ed
integrati dal Fascismo … Il Fascismo è una dottrina sostanzialmente, emi-
nentemente politica … una concezione generale dello Stato»54.

Non è allora forse neppure un caso che uno dei punti di


riferimento della scienza giuridica del regime, Santi Romano,
pronunci la famosa prolusione pisana su Lo Stato moderno e
la sua crisi nel 1909, proprio mentre da Parigi Marinetti lancia
il suo Manifesto di fondazione del futurismo. Se quest’ultimo
inneggia a una rivoluzione contro il passatismo e la staticità
del sistema liberale e borghese, il giurista siciliano evidenzia
il progressivo organizzarsi della società sulla base di interessi
particolari, come anche la mancanza di mezzi giuridici e isti-
tuzionali, da parte della società stessa, per far valere la sua
struttura all’interno dello Stato55. Romano riconosce nello Stato
un’organizzazione superiore in grado di armonizzare le organiz-
zazioni minori, sebbene poi si comprenderà che questa visione
organicistica è l’esatto contrario del pluralismo; che cioè armo-
nizzare, contemperare, unificare «vuol dire, alla fine, eliminare
il pluralismo (come tenterà di fare il corporativismo fascista,
qualche anno più tardi). Che vi è un’alternativa costituita dalla

53
Cfr. S. TESTONI BINETTI, La stagione dei maestri, p. 125.
54
S. PANUNZIO, Lo Stato Fascista, Rocca San Casciano (Forlì) - Trieste 1925,
pp. 47 s.
55
S. ROMANO, Lo Stato moderno e la sua crisi, discorso inaugurale dell’anno
accademico 1909-1910 nella Regia Università di Pisa, in S. ROMANO, Prolu-
sioni e discorsi accademici, Modena 1931, pp. 69-86, p. 84.

227
concorrenza e dal conflitto, regolati dall’ordinamento»56. Le
diverse voci dei giuristi – da Armando Volpicelli e Costantino
Mortati a Sergio Panunzio e Giuseppe Bottai – riconoscono
a Santi Romano (soprattutto a quello de L’ordinamento giu-
ridico57) il merito di aver analizzato la società non in base
all’inesistente individuo singolo, retaggio della Rivoluzione
francese, ma sotto il profilo dell’istituzione, cioè del gruppo
sociale organizzato. Ora, ciò che Romano non ha esplorato – e
che la scienza giuridica del Ventennio si accinge a fare – è il
problema del rapporto tra le istituzioni. A tale questione è però
la «politica» a offrire soluzione; è questa, per voce degli stessi
giuristi, deputata a rinnovare gli elementi costitutivi dello Stato
(sovranità, unità, stabilità, rappresentatività) e, per rinnovarli,
mantenendo costantemente aperti i canali verso il sociale58. Il
corporativismo deve allora essere regolato sulla base di principî
politici e non giuridici posti dallo Stato, riflessione questa che
fa riferimento, appunto, alla «praticità» della dottrina fascista,
di cui il corporativismo è parte integrante.
È questo il progetto su cui si incontrano fascismo e futurismo,
partecipandovi consapevolmente fino alla metà degli anni
Trenta. Non solo o non tanto perché i futuristi e, in generale,
gli artisti dell’età fascista chiedono anche per sé l’affermazione
del sistema corporativo e partecipano alle organizzazioni
sindacali; ma per l’intima adesione allo «spirito» che ispira
l’intero modello: l’utopica costruzione di una società priva di
conflitti costituisce la base imprescindibile per la formazione
dell’«uomo futur-fascista». L’adesione al regime degli artisti,
non soltanto dei futuristi, è immediata; dopo appena tre giorni
dalla costituzione del governo fascista, alcuni di loro, fiduciosi

56
S. CASSESE, Lo Stato, «stupenda creazione del diritto» e «vero principio
di vita», nei primi anni della «Rivista di diritto pubblico» (1909-1911), in
«Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 16, 1987,
pp. 506-518, in particolare pp. 507 s.
57
S. ROMANO, L’ordinamento giuridico, Pisa 1917-1918, Firenze 19462 (rist.
1962).
58
Cfr. I. STOLZI, L’ordine corporativo. Poteri organizzati e organizzazione
del potere nella riflessione giuridica dell’Italia fascista, Milano 2007.

228
che il nuovo sistema politico inaugurerà una nuova era dell’arte,
indirizzano a Mussolini il seguente messaggio:
«Con l’assunzione del giovane italiano Benito Mussolini al Governo, viene
finalmente sfasciata la mediocre mentalità che da tanti anni soffocava la
precipua qualità della razza: l’eccellenza dello spirito artistico.
Il Fascismo, carico di valori idealistici, viene applaudito da tutti coloro che
possono legittimamente chiamarsi poeti, romanzieri e pittori italiani. Noi
siamo sicuri di avere in Mussolini l’Uomo che saprà giustamente valutare le
forze della nostra Arte dominante sul Mondo»59.

L’adesione leale e convinta degli artisti al fascismo trova la


propria ragion d’essere nella speranza riposta in Mussolini e
nel suo sistema politico di rinnovare il paese, di riuscire a dare
all’arte ciò che i governi liberali – o «demoliberali», come spesso
con disprezzo vengono chiamati – non sono riusciti a dare. E
non fu un’«illusione»60, ma un atto di speranza non disatteso,
comprensibile soltanto se si periodizza la dittatura fascista che,
sia pur complessa, contraddittoria e conflittuale al suo interno,
mostra un’indubbia apertura nei confronti dell’arte e della
cultura in genere, come anche della riforma degli allestimenti
espositivi – dalla riorganizzazione della Biennale veneziana,
della Triennale di Milano, all’istituzione della Quadriennale
d’arte di Roma nel 1931 – aperte ai diversi indirizzi artistici,
dal futurismo a Novecento. A partire dall’inizio degli anni
Trenta queste manifestazioni subiscono una stretta accentra-
trice, che diventa sempre più asfissiante nella seconda metà
di quel decennio; tuttavia, fino al 1935 – anno della seconda
Quadriennale di Roma, forse la migliore manifestazione degli
anni Trenta61, e dell’inizio dell’impresa etiopica – le iniziative

59
Giuseppe Brunati, Mario Carli, Carlo Carrà, Bruno Corra, Ernesto
Daquanno, Mario Dessy, Achille Funi, Arnaldo Ginna, Salvator Gotta, Filippo
Tommaso Marinetti, Armando Mazza, [Emilio] Settimelli, Mario Sironi,
Mino Somenzi partecipano a Un omaggio a Mussolini di poeti, romanzieri
e pittori («Il Principe», 3 novembre 1922), ora in M. SIRONI, Scritti editi e
inediti, a cura di E. CAMESASCA, Milano 1980, p. 20.
60
Di «illusione» parla Ettore Camesasca nella nota critica al messaggio
del 1922 a Mussolini (ibidem, p. 20).
61
Oggi, è stato osservato, la seconda Quadriennale viene «addirittura vista –
e tutto sommato è il caso di concordare – come la più riuscita manifesta-

229
artistiche del regime sono numerose e di altissimo livello. Sin
dalle prime manifestazioni a guida statale è chiaro l’intento
di evidenziare la dimensione «spirituale» del futurismo, e
quindi del fascismo. Si pensi al 1932 quando, mentre a Roma
il regime celebra i suoi fasti dando vita alla mostra sul decen-
nale della rivoluzione fascista in cui l’aspetto laico, funzionale,
dell’ordinamento convive con quello mistico-religioso e propa-
gandistico, a Venezia si inaugura la XVIII Biennale con una
sala interamente dedicata all’aeropittura. Tra le opere esposte
figurano Maternità cosmica, Il Pilota dell’infinito, Forme-forze
nello spazio di Prampolini; Uomo e donna in pieno cielo, Pae-
saggio italiano, L’idolo del cielo, Spiritualità aerea, noto anche
come Spiritualità aerea n. 3, di Fillia62.

5. Epilogo

Il progetto spirituale dei futuristi e dei fascisti raggiunge l’acme


di elaborazione più o meno nel periodo in cui Jünger pub-
blica (1932) Der Arbeiter: Herrschaft und Gestalt, considerata
l’opera più illuminante della temperie del momento storico
da un filosofo come Martin Heidegger e da uno scrittore
e poeta come Gottfried Benn. Nello scritto Jünger offre la
sua versione dell’«uomo nuovo», un uomo che corrisponde
all’operaio, l’uomo della tecnica, l’uomo costruttore e mano-
vratore di macchina (e dunque esso stesso uomo-macchina),
l’uomo assorbito totalmente dal lavoro, dedito integralmente
alla mobilitazione totale dei materiali, l’uomo delle fabbriche
e della città del futuro63. Il terreno di questo uomo nuovo è,
sì, sempre il futuro, ma un futuro dominato dalla concentra-

zione artistica degli anni Trenta» (S. GUARINO, La Quadriennale: da mostra


periodica a struttura pubblica, in Il Palazzo delle Esposizioni. Urbanistica e
architettura. L’esposizione inaugurale del 1883. Le acquisizioni pubbliche. Le
attività espositive, Roma 1990, pp. 207-216, qui p. 208. Guarino si riferisce
a F. D’AMICO, Roma 1934 – vicende della pittura e della scultura alla vigilia
della II Quadriennale, in Roma 1934, Modena 1986, p. 9).
62
Cfr. M. CIOLI, Il fascismo e la «sua» arte.
63
Cfr. G.M. CHIODI, Forza elementare e forma in Ernst Jünger, in L. BONESIO
(ed), Ernst Jünger, pp. 13-62.

230
zione della tecnica (gli impianti elettrici, le pompe idrauliche,
i martelli pneumatici) di cui l’umanità ha bisogno ma da cui
è al tempo stesso travolta. Si tratta dell’attacco devastante
alla natura in nome del gigantismo economico e del prome-
teismo scientifico: l’accelerazione temporale, che nel primo
futurismo è un vero e proprio inno all’azione, culturale e
politica, e nel secondo muta in un più maturo e pacato, ma
sempre rivoluzionario, concetto di «educazione»64, si avvicina
invece per Jünger a una probabile catastrofe, in ogni caso «a
una trasformazione per la quale la cultura razionalistica non
possiede più strumenti di comprensione»65. Forse sarebbe più
esatto dire che l’intellettuale tedesco si limita a registrare, con
distaccato cinismo, la degenerazione, nel senso di ineluttabile
Entwicklung, dello Stato moderno66.
In verità, anche l’ambizioso progetto futurista e fascista di una
ricostruzione «morale» della nazione è destinato a restare ine-
vaso, rimpiazzato dalle mire imperiali, dalla corruzione e dalle
polemiche interne al regime. A fallire è anzitutto l’«utopia»
della pace sociale e della tecnica, di una nuova classe dirigente,
alla cui base sono posti anche la scienza e l’arte. Fallisce il
fascismo ma anche il futurismo, nel momento in cui abbandona
il vagheggiamento dell’uomo futuro – il nuovo soggetto della
storia, atteso, da costruire – per richiudersi nella celebrazione
entusiastica e retorica delle imprese del regime. A sfogliare
i cataloghi delle Biennali veneziane dopo il 1934 colpisce la
forte prevalenza di opere apologetiche del duce, dell’impresa
etiopica, del mito dell’Impero e colme di simboli militari e
fasci littori. Il richiudersi della significatività futurista è dunque
speculare al profondo mutamento di significato del progetto e
dell’esperienza fascista; si può parlare forse, per entrambi, di
64
Tuttavia, il concetto di educazione non è una «scoperta» del secondo
futurismo: sin dalla nascita obiettivo del movimento è la realizzazione di
una «rivoluzione antropologica per creare «il cittadino eroico» educato al
coraggio e all’amore del rischio, al pericolo, alla lotta» (E. GENTILE, «La
nostra sfida alle stelle». Futuristi in politica, Roma - Bari 2009, p. 78).
65
L. BONESIO, Introduzione, in L. BONESIO (ed), Ernst Jünger, pp. 7-11,
qui p. 8.
66
P. SCHIERA, Lo Stato moderno. Origini e degenerazioni, Bologna 2004.

231
una conversione della modernità in una anti-modernità. Pro-
babilmente non è neppure un caso che un altro intellettuale
tedesco, Walther Benjamin, scriva L’opera d’arte nell’epoca della
sua riproducibilità tecnica nel 1936 – nello stesso momento,
cioè, in cui fascismo e futurismo vanno reimpostando la loro
politica dirigendola in maniera più decisa alle masse piuttosto
che alla formazione della classe dirigente – additando il futuri-
smo come il movimento per eccellenza in grado di coadiuvare
il fascismo nell’intento, violento, di «estetizzare la politica».
Sebbene in tutt’altra prospettiva, anche nello scritto di Benja-
min, come in quello del 1932 di Jünger, sotto accusa è la tec-
nica, sia i rapporti di produzione sia l’elemento tecnologico più
direttamente connesso al processo produttivo. In particolare,
per Benjamin l’utilizzazione naturale delle forze produttive viene
frenata «dall’ordinamento attuale dei rapporti di proprietà,
l’espansione dei mezzi tecnici, dei ritmi di lavoro, delle fonti
di energia spinge verso un’utilizzazione innaturale». Questa
utilizzazione avviene nella guerra che, con le sue distruzioni,
fornisce la dimostrazione «che la società non era sufficiente-
mente matura per fare della tecnica un proprio organo, e che
la tecnica non era sufficientemente elaborata per dominare le
energie elementari della società»67. E conclude:
«‘Fiat ars-pereas mundus’, dice il fascismo, e, come ammette Marinetti, si
aspetta dalla guerra il soddisfacimento artistico della percezione sensoriale
modificata dalla tecnica. È questo, evidentemente, il compimento dell’arte per
l’arte. L’umanità, che in Omero era uno spettacolo per gli dèi dell’Olimpo,
ora lo è diventata per se stessa. La sua autoestraniazione ha raggiunto un
grado che le permette di vivere il proprio annientamento come un godimento
estetico di prim’ordine. Questo è il senso dell’estetizzazione della politica
che il fascismo persegue. Il comunismo gli risponde con la politicizzazione
dell’arte»68.

Traslando l’argomentare di Benjamin in senso più immedia-


tamente politico e applicandolo alla definizione che qui si è
data della macchina come prodotto, insieme, tecnologico e

67
W. BENJAMIN, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.
Arte e società di massa (1936), Torino 2000, pp. 47 s.
68
Ibidem, p. 48.

232
tecnocratico, è forse possibile desumere che anche lo Stato
dove il progetto tecnocratico viene elaborato non è adeguato
per fare della tecnica un proprio organo. Soprattutto, basare
quel progetto sul programma corporativo – vero deputato
alla quadratura del cerchio liberale e societario – non può
funzionare in un contesto privo di libertà.

233

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