Documente Academic
Documente Profesional
Documente Cultură
Nel cantico la prima parola umana è l’esclamazione d’ammirazione del primo uomo di
fronte alla prima donna: «Adesso sì! Questa è osso dalle mie ossa e carne dalla mia carne»
(Gen 2,23). E’ lo stupore purissimo del loro incontro iniziale; l’ingenuità della nudità origina-
ria. L’ultima parola della Bibbia neotestamentaria, poi, è ancora l’invocazione di un incontro,
rivolto da una donna a un uomo: «Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!” » (Ap 22,17). Con la
risposta finale di lui: «Sì, vengo presto!». In tutta la Bibbia, come nel Cantico, echeggia la
voce di Lui. Il cantico dei cantici è quindi il cantico dell’amore che apre e chiude la rivela-
zione.
Esso va letto anzitutto come poema dell’amore umano. Ma il credente, che legge il Canti-
co come parola divinamente ispirata dallo Spirito Santo, e non solo come il prodotto di
un’altissima ispirazione poetica e letteraria, non può non leggere la simbolica dell’amore u-
mano – come ha legittimamente fatto la tradizione giudaica e quella cristiana – come celebra-
zione dell’amore nuziale di JHWH per Israele; o come una storia dell’alleanza del Signore
con Gerusalemme; o come un poema dell’amore del Messia per la sua Chiesa; o come una
pagina del romanzo amoroso tra lo Spirito Santo e la Chiesa-sposa (Ap 22,17), in Maria (Lc
1,34-35); o come delle Canciones tra l’anima e lo Sposo divino. Solamente in queste tradi-
zioni, infatti, il Cantico giunge alla sua interna pienezza di senso, diventando il canto più pro-
prio del popolo e della prima e ultima alleanza, la canzone d’amore dell’Israele-Chiesa per il
suo Sposo, il canto del credente-innamorato- e come si potrebbe diventare credente senza es-
sere tale? Ed è appunto in questa prospettiva che proponiamo la seguente lettura.
2
nanza è colmata dall’unguento versato, quella lontananza viene colmata in modo tale da sta-
bilire una comunicazione di vita, che ci invade, mi invade, mi prende, mi conquista, mi tra-
sforma, mi rigenera, apre per me gli orizzonti della vita, quella vita verso la quale forse sospi-
ravo in modo confuso, caotico, disordinatissimo: quella vita a cui finalmente sono condotto.
Il versetto si conclude con una dichiarazione, nella sua semplicità, solennissima: «Per
questo le giovinette ti amano». Il tuo profumo per me è stato offerto anche all’umanità intera.
Vale per tutti gli uomini: le giovinette ti amano, per questo.
A quella nostalgia, di cui ci siamo resi conto leggendo il versetto 2, si congiunge nel ver-
setto 3 un presentimento infallibile: è passato di qua, ha lasciato dietro un’onda di profumo,
non sappiamo come afferrarlo, come raggiungerlo, ma è passato di qua. Cristo, l’Unto, ha
lasciato una traccia inconfondibile nel creato, nella storia degli uomini, in ogni persona, in
ogni angolo del mio vissuto, in ogni respiro per quanto affannoso sia. E’ passato attraverso la
morte, certo. Dovunque mi volga, in qualunque direzione proceda, a qualunque creatura mi
accosti, quale che sia la realtà con la quale devo fare i conti, quale passaggio sia necessario
che io affronti nel tempo e nello spazio della mia esistenza, fino alla morte: il suo profumo mi
precede, il suo profumo mi avvolge, mi viene incontro, anzi mi attende, mi invade e già spa-
lanca dinanzi a me e per me e per il mondo gli orizzonti di una infinita capienza di amore. Per
questo le giovinette lo amano.
Attirami! (1,4a)
«Attirami dietro a te, corriamo!». La relazione diretta, personalissima con lo sconosciuto,
con l’unguento svuotato non è minimamente disturbata dal fatto che ci siano altri e altri e altri
ancora e tutti, anzi, proprio l’opposto: nella mia esperienza personale riconosco quella che è
la realtà di tutti gli uomini. Viceversa: è proprio nell’esperienza altrui trovo modo di rispec-
chiarmi con quanto di più personale riguarda il mio vissuto. Attirami dietro a te, corriamo.
Attirami: un’implorazione, certamente, ma è quasi un ordine. E’ la forza con cui può e-
sprimersi un mendicante, come me, perché sono in uno stato di bisogno assoluto, eppure più
che mai convinto di potermi esprimere con la autorevolezza di chi certamente sarà esaudito:
attirami, dietro a te con gli altri.
In Gv 12,32 l’evangelista contempla il figlio crocifisso e intronizzato che in forza della sua
pasqua di morte e di resurrezione diventa protagonista di questa attrazione a cui nulla e nes-
suno può più resistere: «Quando sarò innalzato dalla terra attirerò tutto a me». Tutti corrono
in relazione al sepolcro: le donne e i discepoli corrono, si avvicinano, si discostano. E’ la cor-
sa che impegna da quel momento in poi i discepoli lungo tutte le strade del mondo, fino agli
estremi confini della terra, la corsa del Vangelo.
Anche Paolo, a più riprese, nella sua maniera di interpretare le cose, fa riferimento alla
corsa dell’evangelizzazione, la sua corsa personale, la corsa di altri, prima di lui, accanto a
lui: attirami dietro a te e noi correremo. E noi siamo in corsa proprio perché attirati da te e in
qualunque direzione ci stiamo inoltrando, verso qualunque orizzonte stiamo penetrando, noi
siamo in corsa perché attirati, perché sempre e dappertutto, fino alla pienezza finale, noi or-
mai siamo sigillati in forza di un vincolo di amore che ci unisce a te: noi apparteniamo a te.
3
in cui siamo impegnati è motivo di sollievo. E’ una corsa che invece di affaticarci sempre di
più, ci rallegra, ci abilita a gustare la gioia di un incontro che riempie il presente: siamo in
corsa e già ci rendiamo conto che è predisposto l’appartamento, è arredata la stanza, in cui
l’incontro con te ci trasmette una gioia traboccante: gioiremo, ci rallegreremo per te, ricorde-
remo le tue tenerezze più del vino.
Questo incontro misterioso con colui che è invisibile e irraggiungibile e che pure riempie
il presente, colui che è il motivo della corsa, perché stiamo inseguendo il suo profumo, colui
che già ci viene incontro e ci conferisce il gusto di una gioia traboccante, una gioia che è
condivisa in modo da fondare una comunione senza limiti, con tutte le creature, della terra e
del cielo.
Ebbene, è un dovere amarti, conclude il prologo. E’ un dovere, nel senso che la relazione
di amore che ci viene rivelata, che ci spiega come noi apparteniamo a te, è relazione di amore
in forza della quale noi siamo chiamati ad amarti. Noi amati, siamo messi in grado di amarti.
Non è un’occasione che subito sfuma, non è un’intuizione entusiasmante, ma inconcludente,
non è un sogno che svanisce nel nulla. E’ piuttosto la sapienza del cuore che mi svela dal di
dentro di me stesso come sono amato e come sono chiamato a fare della mia vita un servizio
di amore.
Primo poema
L’INVERNO DELL’ESILIO
La nascita dell’amore
(1,5-2,7)
4
a tutti gli inconvenienti della vita. La storia del passato non viene qui raccontata nei dettagli.
Ma il diletto, che già ha dato la vita per me, la conosce. Ed è lui che ricerca, lui che l’ha
guardata e l’ha amata, di colui che le ha attribuito una bellezza intramontabile, quella bellezza
di cui soltanto lui è consapevole
E’ evidente qualche accenno alla disfunzione che ha contrassegnato la sua storia passata:
«I figli di mia madre si sono sdegnati con me: mi hanno messo a guardia delle vigne; la
mia vigna, la mia, non l’ho custodita». Che cosa è successo? Gli è stata affidata una respon-
sabilità, ma non ha saputo assolvere al compito assegnato: custodire la sua vigna. Cos’è que-
sta vigna? E’ certamente un compito oggettivo che non ha svolto2; per questo i fratelli non la
sopportano più3. Ma è anche un compito di cura di sé, del proprio corpo e soprattutto della
propria interiorità: la custodia del cuore. Solo così anche ogni azione sarà coerente, e dunque
bella, con ciò che è nel cuore. La sua ricerca del diletto non può essere a discapito della cura
della propria interiorità. Insomma: non è sempre stata all’altezza della sua vocazione.
5
secare la ricerca della creatura sorpassandola; è una venuta che si pone ad un livello di gratui-
tà del tutto superiore ai tentativi svolti dalla creatura. Certo, la creatura si è lasciata educare,
si è lasciata coinvolgere nel viaggio di tutto un popolo di cercatori, ma adesso è lui che viene
a modo suo, manifestando la totale gratuità della sua iniziativa. Viene all’improvviso. Viene
sempre così.
«Alla (mia) cavalla del cocchio del faraone io ti assomiglio, amica mia».
E’ una irruzione strepitosa. E’ lui che esprime così la sua ammirazione per la creatura af-
fannata, ansimante, che arrancava di qua e di là, vagabonda, all’inseguimento di un pastore
inafferrabile, che portava su di sé i segni inconfondibili di una abbronzatura squalificante. E’
proprio il suo sguardo a rendere bella la creatura che egli ama. La paragona alla cavalla del
cocchio. Una comparazione un po’ ardita e un po’ stravagante ma certamente potente. Infatti
il cavallo con l’eleganza della sua silhouette, il fremito dei suoi muscoli, l’armonia della sua
corsa è un simbolo di perfezione e di bellezza. Il cocchio faraonico non poteva che essere ag-
giogato a cavalle selezionate4.
«Belle sono le tue guance fra i pendenti, il tuo collo fra i vezzi di perle». Che ci fossero
questi gioielli a sottolineare la bellezza di quella creatura noi non l’avevamo ancora compre-
so, anzi ci sembra poco adatta questa decorazione piuttosto spropositata per una pecorella,
per una pastorella, per una figliola che non ha custodito la vigna, esposta a tutte le intemperie
del mondo.. Eppure ancora una volta è lo sguardo del diletto che, mentre coglie la bellezza,
quella bellezza che egli stesso attribuisce alla creatura amata, sa anche come suscitare bellez-
za. Lo sguardo del diletto dona una bellezza di cui vuole compiacersi, è una bellezza che ri-
donda, che si effonde, che appare illumina la scena del mondo. Una bellezza ingioiellata: il
diletto la vede, se ne compiace, la valorizza in modo tale che tutto l’ambiente circostante ne
tragga vanto. E’ una bellezza in crescita: «Faremo per te pendenti d’oro, con grani
d’argento». E’ l’opera che la Parola del diletto, il Vangelo, compie in noi; parola vivente che
si incide nella nostra carne, nella nostra storia, come pure nella nostra Chiesa. Compie quello
che leggiamo anche in Is 61,10: «Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel
mio Dio, perché mi ha rivestito di vesti di salvezza, mi ha avvolto col manto della giustizia…
come una sposa che si adorna dei suoi gioielli»
6
creatura amata preferiscono simboli odorosi.
«Il mio nardo spande il suo profumo» dice la creatura. Il diletto è profumato, effonde
quell’odore misterioso che è in grado di pervadere l’universo e di attirarlo a sé. Adesso è la
creatura umana, proprio lei, che spande il profumo – quello del nardo, aroma raffinato ricava-
to da una specie di valeriana che fiorisce nel nord-est dell’India -. Lei stessa è messa in grado
di esalare profumo, profumo che è gradito alle narici del diletto, testimonianza di una intimità
che raggiunge in modo sempre più diretto e intrattenibile l’intimo dei cuori.
Nello stesso tempo: «Il mio diletto è per me un sacchetto di mirra, riposa sul mio petto»5.
Il diletto, stretto in un abbraccio, è simile a quel sacchetto di mirra che la donna porta sul se-
no. E’ abbandonato teneramente sul corpo della sua donna. C’è una fusione di profumi, una
comunione nel soffio, nel respiro: il profumo del diletto diventa respiro del suo respiro.
«Il mio diletto è per me un grappolo di cipro6 nelle vigne di Engàddi7». Come il profuma-
tissimo fiore di cipro, l’amore cresce sempre a forma di grappolo che, al pari di un grappolo
d’uva, si può condividere senza doverlo dividere: ognuno può prenderne un acino e ciascuno
potrà dire di aver mangiato dal grappolo. Vi è qui l’accenno ad un’ebbrezza che rende dolce
ogni esperienza della vita, ogni contatto con il mondo, un’ebbrezza che riscalda, infervora,
accende.
L’imbarazzo (1,15-2,7)
Qui è la voce del diletto: «Come sei bella, amica mia, come sei bella! I tuoi occhi sono co-
lombe». Il diletto è molto sobrio, essenziale, diretto: cerca gli occhi. Il volto della creatura è
effettivamente velato, cerca attraverso gli occhi l’espressione della libertà, lo sguardo è sa-
cramento del cuore. Non c’è dubbio: il diletto insegue quello sguardo, vuole carpirlo, vuole
afferrarlo, attirarlo a sé. Ma la creatura è imbarazzata, sta volando altrove («come colomba»)
in modo ancora inafferrabile. Eppure il diletto sa che quella creatura, perché innamorata, è
fedele: la colomba, come vedremo in 2,14, è il simbolo della fedeltà, dell’innocenza, della
tenerezza. La creatura è resa fedele dal Diletto. Nella mia ricerca del diletto mi sono accorto
che Egli, tramite il suo vangelo, cercava me; egli mi voleva veramente, mi amava, mi pren-
deva così com’ero, mi conquistava, si impossessava di me.
Di nuovo la creatura amata (1,16-2,1): «Come sei bello, mio diletto, quanto grazioso!».
Cerca di stare al passo, di ripetere pari pari quelle dichiarazioni di grande affetto, di stima, di
ammirazione che il diletto le ha rivolto.
«Anche il nostro letto è verdeggiante». Subito sposta lo sguardo, guarda le spalle: siamo
appoggiati, in quest’oasi di pace, su un letto verdeggiante, un prato verde. I re avevano letti
d’amore raffinati «con coperte soffici e tela fine d’Egitto» (Pr 7,16), con sponde d’avorio in-
tagliato (Am 6,4-6). Ben diversa è la situazione dei due amanti: il diletto rende nobile anche
questo tappeto di verde campestre, per essi quel giaciglio è lussuoso ed eccezionale. Sembra
quasi che la loro casa sia il mondo stesso. La creatura poi guarda in alto: «Le travi della no-
stra casa sono i cedri». I cedri sono maestosi8, tutto l’ambiente è testimonianza di una bellez-
za incantevole, la fecondità della vita, i colori dell’universo, la partecipazione festosa di ogni
creatura: «nostro soffitto sono i cipressi». Questa elevazione massimamente proiettata verso
5
La mirra – resina prodotta in Arabia, Abissinia ed India – era portata dalle donne in un sacchetto appeso tra i
seni così da avvolgere col suo profumo penetrante tutto il corpo.
6
Il cipro (scientificamente lawsonia alba) è affine alla canfora, un arbusto dai fiori a grappoli, esaltato anche dai
cananei per il suo profumo.
7
Esse erano una ricca osasi della costa occidentale del mar Morto, citata anche da Sir 24,14 per le sue palme, da
Plinio e da S. Girolamo ed evocata forse anche per il significato del nome, «fonte del capriolo», l’animale caro
al Ct (cf. 2,9.17; 8,14).
8
I cedri e i cipressi del Libano erano stati ampiamente usati dall’edilizia salomonica in particolare per la
costruzione del tempio di Gerusalemme e per il vicino palazzo reale. Una vera e propria foresta era passata dal
Libano al colle di Sion arricchendo pareti e soffitti. Anche per la ricostruzione del tempio dopo l’esilio
babilonese Is 60,13 dice: «La gloria del Libano (i cedri) verrà a te, cipressi, olmi e abeti abbelliranno il luogo del
mio santuario».
7
le altezze celesti è dovuta al fatto che la creatura amata sta divagando: come sei bello mio
diletto, quanto grazioso, guardiamoci attorno, guardiamo ad altro, parliamo d’altro. Quando
mi sono accorto che l’evangelo cercava me, ho guardato altrove.
«Io sono un narciso di Saron, un giglio delle valli» (2,1). La piana di Saron sta sulla costa
del Mediterraneo a nord di Giaffa. A primavera il suo verde è tutto costellato di fiori. Oh!
Quanti ce ne sono! Chi sarò mai io? Io sono soltanto un fiore povero, un narciso, fiore delica-
to ma dal profumo intenso. Il suo sguardo cerca poi, nell’interno della valle, un altro fiore:
altrettanto modesto e comune, il giglio dei campi. Un fiore semplice, dalle piccole corolle,
eppure dotato di una sua bellezza. Si tira indietro perché è umile? Perché è discreta? Perché si
rende conto dei suoi limiti? Queste sono mascherature, in realtà non ce la fa a reggere la rela-
zione.
E il diletto incalza: «Come un giglio fra i cardi, così la mia amata tra le fanciulle».
L’amato riprende l’immagine del giglio e la sviluppa con una “secca” contrapposizione.
Nell’inerno di un campo di cardi, spinosi, grigi, duri, è sbocciato un giglio. Dolcezza e durez-
za, amore e guerra, calore e freddezza si confrontano ma lo splendore del giglio trionfa. Que-
sto sei proprio tu!
«così la mia amata fra le fanciulle». La donna amata fa impallidire qualsiasi altra bellezza,
l’uomo innamorato non cerca che lei e tutto il mondo gli sembra un campo di cardi spinosi.
Solo lei ha profumo, colore, freschezza, delicatezza.
La nostra creatura annaspa. E’ di nuovo lei che prende la parola: «Come un melo tra gli
alberi del bosco, il mio diletto fra i giovani». «Alla sua ombra, cui anelavo, mi siedo e dolce
è il suo frutto al mio palato». L’amato è come il melo9 profumato, ricco di frutti colorati, do-
tato di foglie lucide, in mezzo agli alberi delle foreste, alberi aspri, contorti, cupi. Sotto que-
sto splendido melo la donna anela di rifugiarsi. L’ombra della sua chioma è come un abbrac-
cio di fecondità10. E i frutti dell’amore sono saporosi, dolci al palato, come quelli del melo.
Le sue parole (i suoi baci) hanno un gusto indimenticabile: «Quanto sono dolci al mio palato
le tue parole, più del miele per la mia bocca» (Sal 119,103).
Appare ora la casa del vino11. Sappiamo che il Cantico ama rappresentare le delizie e il fa-
scino dell’amore con il simbolo del vino: questa cella è, perciò, la camera nuziale in cui la
donna è introdotta per celebrare il convito dell’amore. Il diletto, quindi, non perde tempo, non
tergiversa, non rinvia. Una volta entrati egli inalbera il vessillo del grande trionfo, quello
dell’amore. Le bandiere di questa “guerra gioiosa” non sono insanguinate dall’odio ma pro-
clamano solo felicità. Le ferite, come dice il v. 5, sono provocate dai dardi dell’amore che
riescono a sfinire corpo e spirito: «Io sono ammalata d’amore» (cf. anche 5,8). Una malattia
che sfibra, ma una malattia dolce e desiderata. Tuttavia la nostra creatura sembra non farcela,
è ancora impreparata ad un incontro così intenso che le sembra insostenibile. Per questo chie-
de una medicina per essere sostenuta: «sostenetemi con focacce d’uva passa, rinfrancatemi
con pomi». Le focacce d’uva passa erano considerate dagli orientali un sostegno vitaminico
(ma anche un afrodisiaco)12. Chiede anche delle mele (o succo di mele) che sono, secondo
una credenza diffusa ancor oggi tra gli Arabi, stimolo efficace per l’appetito e per la forza
fisica.
«La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia». La sinistra dell’amato
9
Il melo è un albero spesso presente nella poesia erotica: «il mio melo porti frutti dalla sua corona», afferma un
poeta numerico in un inno alla dea della fecondità.
10
Il poeta non lascia cadere il gioco discreto delle allusioni. L’ombra nella Bibbia è il simbolo classico della
protezione divina che si stende sul popolo eletto (cf. Sal 17,8; 36,8; 57,2), è il segno del chinarsi di Dio
sull’uomo per una presenza e un dialogo di grande intimità (cf. Lc 1,35).
11
E’ un’espressione usata dal libro di Ester (7,8): si tratta di una cantina, di una cella per conservare il vino ma
anche di una capanna per la vendemmia nelle vigne o anche può essere una sala per banchetti in cui ci si può
inebriare di vini generosi.
12
Nella Bibbia esse sono descritte come offerte femminili votive idolatriche per ottenere la fecondità (cf. Os
3,1; Is 16,7; Ger 7,18; 44,19). In Mesopotamia sono venuti alla luce stampi metallici a forma di dea nuda coi
quali si confezionavano e si cocevano queste torte votive.
8
sta sotto il capo della donna mentre la destra la abbraccia in un gesto che esprime tenerezza,
affetto, delicatezza (cf. Gen 29,14), ma anche possesso, protezione (cf. Pr 5,20). La sinistra
solleva il volto amato mentre la destra stringe a sé il corpo desiderato. Questo abbandono to-
tale, nel quale è l’amato a sostenere l’amata, porta dolcemente quest’ultima al sonno. E così
resterà ancora per il seguente poema.
Il v. 7 chiude il primo poema. Prende la parola ancora il diletto, fermo, in veglia, al capez-
zale della creatura amata che dorme: «Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le gazzelle
o per le cerve dei campi: non destate, non scuotete dal sonno l’amata, finché essa non lo vo-
glia». Questo versetto comparirà tale e quale alla fine del secondo poema, in 3,5. E’ un ritor-
nello. Ricomparirà un po’ aggiustato in 8,5. E’ il diletto che veglia pazientemente. La creatu-
ra è malata d’amore, ma non era del tutto pronta; il diletto l’ha riempita, l’ha attraversata, l’ha
travolta. La creatura amata non è ancora in grado di corrispondere nella misura che il diletto
attendeva e desiderava. E’ lui che attende ancora, che desidera con intransigente sollecitudine
di amore. Tutto questo in vista del risveglio, quando finalmente la creatura amata sarà in gra-
do di rispondere pienamente all’amore del diletto. Per questo chiama a raccolta le figlie di
Gerusalemme, il coro in cui riconosciamo la presenza di tutta l’umanità: «per le gazzelle o
per le cerve dei campi non destate, non svegliate dal sonno l’amata».
Il diletto convoca tutto e tutti al capezzale dell’amata perché c’è un unico desiderio che e-
gli vuole perseguire e vuole realizzare. La creatura amata si sveglierà quando sarà in grado di
corrispondere pienamente alla sua intenzione di amore nella libertà di una offerta di amore:
«finché essa non lo voglia». Cioè finché non sarà pronta. L’amato rispetta pazientemente i
tempi dell’amata. Il vegliante è per antonomasia il vivente, è lui che sta vegliando al capezza-
le della nostra umanità, della nostra generazione, della nostra Chiesa, ancora in stato di malat-
tia.
Secondo poema
IN SOGNO È PRIMAVERA
Progressi dell’amore
(2,8-3,5)
9
cede nei sogni: un suono, e attorno a quel suono si sviluppa il sogno, si vedono immagini e si
elabora una vicenda. Il sogno è articolato, complesso, pieno di personaggi, con una sua sce-
nografia elaboratissima. Il punto di partenza è quella voce. E’ una voce che chiama, che parla
nella sua maniera inconfondibile: è il diletto. Nel sogno il diletto viene riconosciuto, viene
visto, contemplato nel suo movimento. «Eccolo, viene saltando per i monti, balzando per le
colline». Il diletto avanza, corre. La sua corsa aveva una meta desiderata sopra ogni cosa. Le
immagini esaltano la sua agilità: le montagne sono l’appoggio di salti acrobatici che gli con-
sentono di percorrere una distanza, di superare ogni asperità. La sua mobilità lo rende simile
a un capriolo o ad un cerbiatto, animali graziosi tanto cari alla simbolica del Cantico13. La
creatura è affascinata, incantata nell’osservare l’avvicinarsi del diletto che qui, nella sua vi-
sione, avverte in modo sempre più stringente: non soltanto viene ma si sta avvicinando a me.
E sta stringendo lo spazio attorno a me, è interessato a me, non è un muro qualunque, è pro-
prio il muro del nostro cortile, non è una finestra qualunque, è la finestra della nostra casa,
non sono inferriate qualunque, sono proprio quelle che sono state poste per costruire
l’elemento decisivo che impedisca l’ingresso degli indiscreti in casa nostra. Lui spia attraver-
so le inferriate. Quello che la creatura amata non era stata in grado di sostenere nella realtà
della veglia, è ora una evidenza inequivocabile. Certo, è il linguaggio del sogno, linguaggio
di una creatura che si è ritirata nell’intimo per ripararsi, ma è proprio nell’intimità della sua
vita che il diletto la sta inseguendo e la sta stringendo. Lì egli la raggiunge: la parola risuona
in una chiamata inequivocabile, una chiamata per nome, così come il pastore chiama le sue
pecore nel Vangelo secondo Giovanni. Quella voce chiama me, è ormai una eco che rimbom-
ba dal di dentro di me stesso, là dove, nell’intimo, è già depositata una promessa. Quella voce
che ha chiamato fin dall’inizio, adesso si fa riudire, ma nel contesto del sogno, dove suscita
nell’intimo della creatura l’eco inconfondibile di una promessa seminata inizialmente e con-
servata per tutto questo tempo. E’ una vocazione che la creatura constata essere il suo patri-
monio più radicale, la sua identità più profonda e che riaffiora in tutta la sua autenticità.
«Ora parla il mio diletto e mi dice. Alzati, amica mia, mia bella, e vieni!» Impara a vivere
nella speranza di chi appartiene a una promessa ancora non compiuta, eppure una promessa
confermata. E’ la primavera14, la campagna è in fiore, si ode il suono dei lavori agricoli (o,
per altri, dei canti che riecheggiano di valle in valle, di vigna in vigna) e il tubare della torto-
ra15. Alzati dunque e vieni, «il fico ha messo fuori i primi frutti e le viti fiorite spandono fra-
granza». Vite e fico sono simboli di pace e di benessere16. Questo è il tempo del diletto, que-
sta è la campagna in fiore. Il diletto conferma il valore di quella promessa, il dono di quella
vocazione, chiama la creatura a svegliarsi. Gesù, avvicinandosi a Gerusalemme, constata che
il tempo della sua fame, la fame del diletto, non coincide con il tempo dei fichi (cf. Mc
11,13b). Constatando che ancora c’è una distonia tra il tempo del Messia e il tempo del popo-
lo messianico. Ma la promessa è confermata. E’ ancora tempo da dedicare al sonno, sarà an-
cora necessaria una prolungata pedagogia tramite i sogni: la sua parola (il vangelo) eserciterà
nell’intimo dell’amata la sua efficacia, la risorgerà.
10
vie, là dove tenta di asserragliarsi, come questa colomba che va a cercare riparo nelle fenditu-
re della roccia, nei nascondigli dei dirupi. Il diletto non cerca soltanto il riscontro di una pro-
messa conservata e di una speranza irriducibile, ma invita la creatura a mostrare il proprio
volto: mostrami il tuo viso17. Non nascondere più il tuo volto, non cercare più il riparo om-
broso e sepolcrale nelle fenditure della roccia, non scappare più, non tirarti più indietro, non
temere, non dubitare del dono che ti è stato affidato. E’ un richiamo così affettuoso e così in-
tenso che la coinvolge dall’interno. Per quanto fugga, in qualunque anfratto roccioso andrà
mai ad infilarsi questa creatura, scopre che il diletto l’ha preceduta. Non solo la insegue, ma
l’ha già preceduta in qualunque profondità possa andare a rintanarsi, in qualunque nascondi-
glio voglia ancora isolarsi, scopre che la voce del diletto gli viene incontro, la presenza del
diletto la incalza, la mano del diletto la stringe e la promessa la avvolge. Non c’è luogo più
remoto, non c’è periferia più dispersiva, non c’è isolamento più eremitico in cui questa crea-
tura umana non sia in grado ormai di constatare che il diletto la chiama, la stringe, le mostra il
proprio volto. E’ il diletto che la sta evangelizzando per coinvolgerla in un unico disegno di
amore di portata universale e definitiva.
Adesso è di nuovo la creatura che sta reagendo a suo modo. Il suo sonno non è sereno.
11
l’approssimarsi di un’altra notte – di altre notti! – lontano dal suo respiro e privati della dol-
cezza del suo conforto? Ecco perché, ancora nel sonno, invoca: «Prima che spiri la brezza
del giorno e si allunghino le ombre, ritorna, o mio diletto, somigliante alla gazzella o al cer-
biatto, sopra i monti degli aromi» (3,1). Questo sperimentare l’assentarsi del diletto è inti-
mamente congiunto alla certezza che, altrettanto improvvisamente, egli possa rifarsi presente!
L’amata guarda verso occidente. I monti degli aromi sono i monti di Beter. A occidente di
Gerusalemme dove tramonta il sole c’è la cresta di una collina che chiude l’orizzonte. In
quella direzione la creatura sta guardando implorante: «Ritorna o mio diletto», ma il diletto
non è tornato. Sono passati due millenni e non è ancora tornato. Sì, quella voce, sì, quella
promessa, quella speranza, sì, quel fremito, quello slancio, sì, quella certezza di una intimità
di amore definitiva, quell’appartenenza indissolubile, sì, eppure è già sera. L’amato non è an-
cora qui. La nostra creatura sta passando da un sogno a un incubo.
12
Ma il diletto veglia: «Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le gazzelle e per le cerve
dei campi: non destate, non scuotete dal sonno l’amata finché essa non lo voglia». E’ sempre
sorprendente come il diletto si adatti ai tempi di maturazione dell’amata!
Così come il poema aveva avuto inizio, così si conclude. E’ ancora il diletto che con la sua
sapienza pedagogica si prende cura di questa creatura dormiente per educarla attraverso i so-
gni, perché di sogno in sogno, di incubo in incubo, finalmente si realizzi la promessa del di-
letto, sia all’altezza della sua vocazione, realizzi quell’unico disegno di amore che è presente
dall’eternità nel grembo del Dio vivente e che ci è stato rivelato.
Terzo poema
IL GUSTO DELL’ESTATE
La gioia delle nozze
(3,6-5,1)
13
del corpo. Si tratta di sessanta militari scelti, di altissimo addestramento (cf. 2Sam 10,7; 23,8-
9.16-17.22), che fungono ora da scorta ufficiale ora da parata. Armati fino ai denti sono
pronti ad affrontare ogni tipo di assalto e di incursione «contro i pericoli della notte»21. Il di-
letto è sempre pronto ad affrontare i pericoli e le minacce che continuamente e subdolamente
possono attentare all’amore che è sempre pronto a dare battaglia (cf. Ef 6,10-17).
La lettiga, intravista da lontano, ora appare in tutto il suo splendore: «Un baldacchino s’è
fatto il re Salomone, con legno del Libano. Le sue colonne le ha fatte d’argento, d’oro la sua
spalliera; il suo seggio di porpora, il centro è un ricamo d’amore delle fanciulle di Gerusa-
lemme».
Come il re Salomone, qui evocato, oltre a costruire il tempio costruì anche la propria reg-
gia, così sempre l’Amore offre all’amata un luogo adeguato e appropriato all’intimità a guisa
del baldacchino sotto il quale si celebrano le nozze in attesa che siano consumate nell’intimità
della tenda (cf. Gen 24,67). Al centro del baldacchino c’è un ricamo preparato con amore dal-
le ragazze di Gerusalemme. L’amore è sempre un ricamo fatto di fili sottili che si intrecciano
e si rincorrono in un diritto e in un rovescio e attraverso cui l’informità e la debolezza di cia-
scun filo si trasforma in forza e compattezza dell’insieme.
Il giorno delle nozze, quando la sposa è presentata allo sposo, coincide con il giorno della
sua incoronazione, dell’intronizzazione regale. Questa incoronazione immediatamente ci o-
rienta verso il giorno delle nozze che segna la svolta decisiva nella storia umana, quel giorno
in cui lo sposo è il crocifisso incoronato: «quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli ange-
li, lo vediamo ora coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché
per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti» (Eb 2,9).
Eccolo l’incoronato, ecco lo sposo che ruba, attrae a sé, rapisce per sé la sposa, ossia la
creatura umana, in forza di un amore geloso e vittorioso, che si esprime con il linguaggio del-
la vergogna condivisa fino alla morte. E’ incoronato e intronizzato. Lo sposo è intervenuto in
modo tale da conferire alla morte della creatura la testimonianza di un vincolo nuziale, la te-
stimonianza di un amore geloso che libera, che riscatta, che ormai apre strade nuove per gli
uomini, per la Chiesa, per la storia del mondo.
A questo spettacolo, a questa festa, a questa gioia – per quanto vissuta nell’intimità e nel
dono segreto di sé – nessuno può rimanere estraneo. Nessuno può rimanere chiuso in se stes-
so. L’invito si fa pressante: «Uscite figlie di Sion, guardate il re Salomone». Lo sposo che
prima era velato ora è visibile: si sono mosse le cortine della lettiga perché adesso è il mo-
mento in cui la sposa rapita viene introdotta nella lettiga. «Guardate il re Salomone con la
corona che gli pose sua madre, nel giorno delle sue nozze, nel giorno della gioia del suo cuo-
re».
14
nastro purpureo delle labbra23, in un contrasto provocante di colori, mentre la bocca si schiu-
de nell’armonia di una voce dolcissima («bocca» del v. 3 è letteralmente «parlare»). Dietro il
velo appaiono in tutta la loro bellezza anche le guance (o, per altri, le tempie) le quali evoca-
no per lo sposo il frutto del melograno.
Segue la descrizione del corpo della donna. Dal viso ora si passa al collo e dai simboli ru-
rali a quelli urbani (cf. v. 4). Il collo sottile e slanciato della donna è arditamente comparato
alla «Torre di Davide» che si staglia nel cielo tesissimo di Gerusalemme. Forse su questa tor-
re, la più alta (ma a noi ignota), venivano appesi gli scudi di legno delle mille vittorie24. Nella
trasparenza dell’immagine femminile gli scudi si trasformano negli ornamenti e nelle collane
che la sposa porta sul suo collo.
Lo sguardo ora si fissa con tenerezza e con delicatezza sui seni della sposa. Mobili e per-
fettamente gemelli, rimandano ad una coppia di cerbiatti che balzano, pieni di vitalità, su un
campo di gigli (cf. v. 5). Qui il poema allude alle due montagne che sono state considerate
per alcuni secoli come gli emblemi di uno scisma che ha fratturato la comunione all’interno
del popolo di Dio: le due montagne: il monte Sion e il monte Garizim, quello su cui i Samari-
tani edificarono un altro tempio in contestazione con il tempio di Gerusalemme. Sotto lo
sguardo del diletto che descrive la sua creatura, quella creatura è unificata: l’unità del popolo
non più fratturato, non più lottizzato.
Con un linguaggio erotico delicato, che non conosce volgarità, malizia ma neppure ipocri-
sia, lo sposo esprime il desiderio di giungere, «prima che spiri la brezza del giorno e si allun-
ghino le ombre» all’intimità con la sposa25. E’ giunto il momento dell’amore, dell’abbraccio
inebriante.
«Tutta bella tu sei, amica mia, in te nessuna macchia». Colei che all’inizio del Cantico si
riconosceva bruna, è come se fosse stata «smacchiata» attraverso il contatto con lo Sposo,
con l’Amore. La disponibilità da parte dell’amata a lasciarsi adombrare dalla Presenza
dell’Amore – dalla sua destra e dalla sua sinistra (cf. 2,6) – hanno cambiato la sua stessa na-
tura trasformata-trasmutata interamente, integralmente e durevolmente26.
15
l’Amore può e vuole farsi conquistare. «Quanto sono soavi le tue carezze, sorella mia, sposa,
quanto più deliziose del vino le tue carezze» (4,9). Inizialmente nel Cantico dei cantici era la
creatura amata, nel suo affanno, che diceva: le carezze del diletto sono più deliziose del vino;
adesso è il diletto che dice questo a riguardo delle carezze che va mendicando dalla creatura
amata.
«L’odore dei tuoi profumi sorpassa tutti gli aromi. Le tue labbra stillano miele vergine, o
sposa, c’è miele e latte sotto la tua lingua e il profumo delle tue vesti è come il profumo del
Libano».
Nei versetti che stiamo leggendo i segni della comunione sono sempre più intensi, appas-
sionati, penetranti. Oltre agli sguardi e alle carezze, in un’atmosfera di profumi – il profumo
della sposa, della sua anima che ora, rinnovata, sorpassa ogni altro profumo - abbiamo anche
i baci. Lo Sposo – dopo il lungo cammino della sposa – si pasce beatamente di tutta la bellez-
za e del gusto che le labbra e la lingua dell’amata sono ormai in grado di elargire nel massimo
di intimità e di comunione. Le labbra screpolate di colei che vagava per il deserto (1,7); le
labbra ghiacciate della donna quasi folle persa nella città notturna (3,2) alla ricerca
dell’Amore; le labbra aride di colei che era stata messa a guardia delle vigne (1,6) e che erano
state bruciate dal sole; quelle labbra ora «stillano miele vergine». Da quelle labbra l’Amore
può assaporare il frutto delizioso di tutto il lavoro segreto e misterioso che, nel frattempo, si è
operato nel cuore della sposa. Il corpo dell’amata è la Terra Promessa; dal suo corpo l’Amore
può attingere e gustare – fin sotto la lingua, che è la sede del gusto - miele e latte29.
Anche l’odorato – secondo una costante del Cantico – è coinvolto a causa degli aromi del-
la spos, dei profumi delle sue vesti (cf. Gen 27,27), cosparsi di essenze.
16
(4,16). Qui è la voce della creatura amata che riascoltiamo dopo tanto tempo, dopo il lungo
sonno. Aquilone e austro sono i due venti del nord. Ma tutti i venti così vengono convocati e
invocati. E’ una vera e propria epiclesi dello Spirito Santo: levati vento, vieni soffio, vieni nel
mio giardino e si effondano i suoi aromi. E’ proprio al soffio del vento che il giardino esalerà
il profumo.
«Venga il mio diletto nel suo giardino e ne mangi i frutti squisiti». L’oasi chiusa è aperta
dalla donna stessa; il sigillo della fonte è spezzato e lo sposo è chiamato a cibarsi dei frutti
squisiti ed esaltanti dell’amore.
Lo Sposo accoglie con gioia l’invito. Ora è nel giardino dell’amore: «Son venuto nel mio
giardino, sorella mia, sposa, e raccolgo la mia mirra e il mio balsamo; mangio il mio favo e
il mio miele, bevo il mio vino e il mio latte». A questa mensa egli invita i suoi amici a parteci-
pare alla sua gioia. I frutti che lo Sposo si aspetta da me sono offerti a tutti, fino a raggiungere
le componenti più marginali dell’umanità: «Mangiate, amici, bevete; inebriatevi, o cari».
Quarto poema
L’ESTATE DELLA DIFFERENZIAZIONE
La sofferta maturazione
(5,2-6,3)
17
l’amata, si presenta e le dice: perfetta mia, io sono alla ricerca della tua risposta non come
liturgia paludata, ma come liturgia di una presenza sollecita ad accogliere colui che viene a
visitarti, colui che è sempre nuovo nella visita, colui che insistentemente ti chiama ad una ri-
sposta, che non è mai espressa una volta per tutte e che ancora ti impegna fino alla consuma-
zione di te, della tua vita e della tua storia e della tua presenza di Chiesa in mezzo agli uomi-
ni.
«Mi sono tolta la veste; come indossarla ancora? Mi sono lavata i piedi; come ancora
sporcarli?». E’ proprio vero, questa creatura oramai si è abituata a un andazzo di cose che
non ammettono intrusioni, nemmeno quella dello Sposo, tanto è così convinta di averlo con
sé, in sé e per sé. Mica posso alzarmi a questo punto della notte! Meglio rimanermene assopi-
ta, alle prese con i miei sogni. Non solo non mi alzo, non posso alzarmi: il diletto comunque
sta qui con me.
Ma il diletto insiste: «Il mio diletto ha messo la mano nello spiraglio e un fremito mi ha
sconvolta». La voce non è sufficiente, il diletto calca la mano, preme, bussa, forza la porta
chiusa con il chiavistello, vuole entrare.
E’ una aggressione questa? E’ un ladro? Già leggendo il terzo poema abbiamo visto che il
diletto si è presentato come un ladro. E adesso il risveglio è provocato con una forza a cui la
creatura non può più sottrarsi: «un fremito mi ha sconvolta». Dunque un sussulto.
18
ti i mali di cui l’umanità soffre e con tutte le miserie che affliggono questa generazione. Pro-
segue nella sua corsa, non ha ancora raggiunto il diletto e non lo raggiungerà, ma intanto è
sempre più immersa nelle vicende dell’umanità e scopre di essere sempre più aperta a farsi
carico del comune patrimonio di malessere, di affanni, di ingiustizia, di dolori, di violenza del
mondo.
19
modo inconfondibile.
Quinto poema
L’AUTUNNO DEI FRUTTI
Amore ormai provato
(6,4-8,4)
20
E bisogna immediatamente aggiungere, 6,4b: terribile come schiere a vessilli spiegati.
Questa creatura, nella sua affascinante bellezza, appare dotata di una forza incontenibile, raf-
figurata con l’immagine di un esercito schierato a battaglia, un esercito che invade il campo e
con il suo solo apparire sgomina qualunque avversario. Questa bellezza è fortissima. Essa ha
tutte le caratteristiche di modestia, delicatezza, trasparenza, sobrietà che servono a caratteriz-
zare il fascino di una fisionomia riconciliata; ma nello stesso tempo questa bellezza è podero-
sa, è travolgente, dotata di una energia guerriera che domina il campo della storia umana. E’
il diletto che dice questo tra sé e sé, con quel linguaggio interiore che è comprensibile soltan-
to dalla creatura amata: tu sei bella amica mia, tu sei dotata di una forza travolgente e vitto-
riosa. Sempre il diletto prosegue:
«Distogli da me i tuoi occhi: il loro sguardo mi turba». Il diletto dichiara di essere inti-
mamente percorso da un fremito di amore che è suscitato in lui dallo sguardo con cui la crea-
tura amata gli si rivolge. Gli occhi della donna soggiogano e avvincono nel sortilegio
dell’amore (v. 5). Questo rapimento è comunque già avvenuto come testimonia la cascata di
immagini con cui la bellezza dell’amata è descritta. Ritroviamo molte tessere del mosaico
tracciato in 4,1-3: i capelli fluenti sono come un gregge che si disperde scendendo dal monte
Galaad, i denti sono candidi e lineari come pecore che escono appaiate dal bagno, la guancia
è uno spicchio di melagrana (vv. 6-7). A questo punto l’Amore abbandona l’enumerazione
classica e compone due bozzetti vivacissimi, quello dell’harem (vv. 8-10) e del giardino delle
noci (vv. 11-12).
21
inutile che tu cerchi, è inutile che tu vada inseguendo l’invisibile, l’irraggiungibile, chi sa mai
chi è, chi sa mai dove si è nascosto?
Adesso il coro degli amici è sbalordito: «Chi è costei che sorge come l’aurora, bella come
la luna, fulgida come il sole, terribile come schiere a vessilli spiegati?». Tutto è avvenuto alla
presenza del coro degli amici, che è stato spettatore di questa vicenda. Ha percepito, se non
proprio distintamente, il risuonare di quella voce, ha percepito lo svolgersi di una conversa-
zione nell’intimo della creatura amata. Si è reso conto che quella creatura è entrata nel dialo-
go cuore a cuore con la presenza invisibile e santa del Diletto. Si è consegnata nella unicità
definitiva di una relazione assoluta. Ma che è successo? Chi è costei? E il coro coglie la lu-
minosità di questa presenza che adesso la creatura amata può manifestare per il suo modo di
essere, per quel suo particolare coinvolgimento nella relazione cuore a cuore con il diletto. La
luce rinvia qui all’antico racconto della creazione: la prima creatura è la luce, tutte le creature
sono inserite nel contesto della luce, incastonate nella luce. Tutta la creazione viene illumina-
ta in rapporto alla presenza di questa creatura che sorge come l’aurora, bella come la luna,
fulgida come il sole. La bellezza della creatura amata illumina il mondo, illumina la storia
umana e rende prezioso il valore di ogni creatura nel tempo e nello spazio.
La danzatrice (7,1)
«Volgiti, volgiti, Sulammita, volgiti, volgiti: vogliamo ammirarti. Che ammirate nella Su-
lammita durante la danza a due schiere?». Il coro è stupefatto, incantato; prende nuovamente
la parola per dichiarare la propria ammirazione nei confronti di una creatura divenuta danza-
trice. Sulammita probabilmente è il femminile di Salomone, il pacifico. Questa creatura è pa-
cificata, tutto deriva da shalom, pace.
Questa creatura pacificata è impegnata nei passi, nei movimenti, nelle dinamiche che dan-
no forma a una danza sempre più raffinata. E’ proprio vero: dopo tutto quello che è accaduto,
questa creatura si è divenuta oramai esperta nella danza. E’ passata attraverso le sue corse, i
suoi affanni, le sue ricerche e le sue cadute, i suoi inseguimenti e i suoi smarrimenti, in ma-
niera sempre più devastante e tragica, ma ha imparato a danzare. D’altronde, cosa è mai la
danza se non un certo modo di cadere che trasforma l’evento rischiosissimo di chi scivola,
precipita, sprofonda nel vuoto, in una evoluzione armoniosa, in un salto disinvolto? Quella
caduta è trasformata in una evoluzione positiva che consente un progresso imprevedibile
nell’arte del movimento e nella possibilità della comunicazione. La danza è un perfeziona-
mento sempre più raffinato di quella che già è l’arte del camminare. Camminare è proprio
questo cadere nel vuoto in modo tale che la caduta si trasforma in avanzamento. Il bambino
impara a camminare cadendo, poi un passo dopo l’altro e la caduta è trasformata in una cre-
scita. Dal camminare si giunge al salto, alla danza, all’armonia raffinata, disinvolta, movi-
mento che pervade lo spazio, che attraversa i tempi. Questa creatura è una creatura danzante:
22
ha imparato a scendere e salire, ha imparato a vivere al ritmo della Pasqua: morte e resurre-
zione. Questa creatura ha trovato nell’incontro con il diletto lo slancio di un salto che la libe-
ra, che anzi la rende sempre più vivace e intraprendente in un disegno di vita che si dispiega
nelle misure del tempo e dello spazio. E’ la Pasqua del Signore, l’evento decisivo che sinte-
tizza tutto nella storia umana ed è il segno definitivo di una danza definitiva, così come il Fi-
glio è disceso ed è risalito, è morto ed è risorto.
Ora il ritmo della danza è stato imposto alla storia dell’umanità e la creatura amata si
muove ormai a questo ritmo, cade e sale a questo ritmo, muore e risorge a questo ritmo. E’
creatura immersa nel vortice danzante che l’evangelo ha suscitato una volta per tutte nella
storia degli uomini. E’ questo che il coro ammira in lei.
23
gerla a sé, di inebriarsi del suo profumo, di gustare i suoi frutti.
24
La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia». La creatura chiede al diletto
di starle accanto nella fraternità della carne umana; una fraternità che è sigillata in forza
dell’appartenenza ad un unico grembo, che genera per la vita che non muore più. Il sepolcro,
che accomuna nella morte, diventa grembo che genera per la vita che non muore mai. A que-
sto fratello la creatura amata potrà rivolgersi per essere informata circa quel maestro interiore
che sarà in grado di custodirla nella comunione con lo sposo nella fecondità dell’amore.
Questo è il linguaggio con cui Gesù durante l’ultima cena si rivolge ai discepoli e annun-
cia loro l’invio dello Spirito Santo, che insegnerà loro ogni cosa, così da renderli capaci di
accogliere, di custodire, di assimilare il vangelo dell’amore che ereditano da lui (cf. Gv
14,25; 16,13). Allora tutti gli uomini che muoiono saranno chiamati a condividere la vittoria
sulla morte del «fratello»: saranno chiamati a nascere come figli dell’unico Padre.
Avviene così che il Signore, risorto da morte una volta per sempre, si rivolga a Maria di
Magdala in questi termini: «Va’ dai miei fratelli e dì loro: Io salgo al Padre mio e Padre vo-
stro, Dio mio e Dio vostro» (Gv 20,17; cf. Mt 28,10). Ha inizio così la corsa
dell’evangelizzazione.
Alla fine del quinto poema, la creatura si consegna, si abbandona: «La sua sinistra è sotto
il mio capo e la sua destra mi abbraccia». Questo è un atto di consegna, un affidamento allo
Sposo. La creatura ha imparato a danzare, ha imparato a morire. Non si sta semplicemente
addormentando, sta consegnando la propria morte a colui che è fratello di tutti gli uomini
chiamati a nascere nella comunione con lui per la vita che non muore più.
E finalmente il diletto chiude il quinto poema con questa dichiarazione: «Io vi scongiuro,
figlie di Gerusalemme, non destate, non scuotete dal sonno l’amata, finché non lo voglia».
Un versetto che ci riporta ai versetti che concludevano il primo e il secondo poema (2,7 e
3,5). C’è però una variazione: da parte del Diletto questa è adesso una dichiarazione di fidu-
cia nella creatura che a lui si è affidata.
EPILOGO
(8,5-7)
Chi è? (8,5ab)
Il v. 5 si apre con un interrogativo che dobbiamo senz’altro attribuire alla voce del coro,
che è stato spettatore fin dall’inizio. Adesso ci invita a contemplare l’esito della grande av-
ventura: la creatura evangelizzata è ormai pronta per affidarsi all’amore che riceve e per offri-
re la libertà della propria risposta fino a morire e a risorgere nella pienezza dello Spirito San-
to, in comunione con il Figlio, benedetto per la gloria del Padre.
«Chi è colei che sale dal deserto, appoggiata al suo diletto?». L’interrogativo formulato
dal coro rievoca momenti della storia della salvezza esemplari: l’esodo, il viaggio attraverso
il deserto fino al Sinai e poi fino alla terra della promessa; il ritorno dall’esilio, dopo eventi
quanto mai drammatici e sconvolgenti: la terra invasa e devastata, la popolazione deportata, il
popolo di Dio disperso nei territori dei pagani. «Chi è colei che sale dal deserto?» Questa
traversata del deserto per risalire è la chiave interpretativa di tutta la storia umana. E’ la storia
dell’umanità che precipita fino alla morte? Storia di smarrimento, di schiavitù e di esilio?
Storia di perdizione? Non è così! Questa è storia di ritorno, questa è storia di risalita, questa è
la storia della conversione, storia di ritorno alla pienezza di vita. Il Diletto ha reso questa cre-
atura testimone che porta in sé i frutti della vittoria conseguita dall’Amato. Questa creatura
evangelizzata e redenta che sale dal deserto ha acquisito ormai una fisionomia missionaria.
L’epilogo ci aiuta a mettere a fuoco il dato ormai presente nella storia umana, il dato nuo-
vo e significativo della vita cristiana con le responsabilità che competono a ciascuno e che
competono al popolo cristiano nella sua interezza. La presenza di quella comunità di credenti
è identificabile solo in rapporto al Diletto in quanto appartenente a lui; alle braccia del diletto
25
quella creatura è «appoggiata», presente nella storia umana come testimone del vangelo.
26
Amato. Entrambi passeranno attraverso tutti gli «inferni» e tutte le paludi del dolore, della
crisi, della desolazione, conservando intatta la fiamma del loro amore che non conosce tra-
monto: «Chi ci separerà dunque dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la
persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?… In tutte queste cose noi siamo più
che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita,
né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né al-
cun’altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore»
(Rm 8,35-39).
Se questa è la potenza dell’Amore – invincibile – deriva pure che esso è impagabile. Non
c’è nulla che possa essere dato in cambio dell’amore.
APPENDICI
(8,8-14)
Ci sono tre appendici brevissime che, da diversi punti di vista, ci permettono di mettere a
fuoco alcune considerazioni ricapitolative di tutto il percorso che abbiamo compiuto.
27
duecento sicli per i custodi, se ne trae una ricchezza inesauribile. Ormai siamo entrati nel cir-
cuito si relazioni gratuite, per cui tutti i calcoli elaborati da Salomone sono radicalmente su-
perati, ormai è ben altra economia quella che è stata instaurata. Questa vigna è mia: acconten-
tiamo Salomone con i mille sicli e ce ne sarà per tutti i custodi.
28