Sunteți pe pagina 1din 28

Capitolo 43

Il Cantico dei Cantici

Nel cantico la prima parola umana è l’esclamazione d’ammirazione del primo uomo di
fronte alla prima donna: «Adesso sì! Questa è osso dalle mie ossa e carne dalla mia carne»
(Gen 2,23). E’ lo stupore purissimo del loro incontro iniziale; l’ingenuità della nudità origina-
ria. L’ultima parola della Bibbia neotestamentaria, poi, è ancora l’invocazione di un incontro,
rivolto da una donna a un uomo: «Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!” » (Ap 22,17). Con la
risposta finale di lui: «Sì, vengo presto!». In tutta la Bibbia, come nel Cantico, echeggia la
voce di Lui. Il cantico dei cantici è quindi il cantico dell’amore che apre e chiude la rivela-
zione.
Esso va letto anzitutto come poema dell’amore umano. Ma il credente, che legge il Canti-
co come parola divinamente ispirata dallo Spirito Santo, e non solo come il prodotto di
un’altissima ispirazione poetica e letteraria, non può non leggere la simbolica dell’amore u-
mano – come ha legittimamente fatto la tradizione giudaica e quella cristiana – come celebra-
zione dell’amore nuziale di JHWH per Israele; o come una storia dell’alleanza del Signore
con Gerusalemme; o come un poema dell’amore del Messia per la sua Chiesa; o come una
pagina del romanzo amoroso tra lo Spirito Santo e la Chiesa-sposa (Ap 22,17), in Maria (Lc
1,34-35); o come delle Canciones tra l’anima e lo Sposo divino. Solamente in queste tradi-
zioni, infatti, il Cantico giunge alla sua interna pienezza di senso, diventando il canto più pro-
prio del popolo e della prima e ultima alleanza, la canzone d’amore dell’Israele-Chiesa per il
suo Sposo, il canto del credente-innamorato- e come si potrebbe diventare credente senza es-
sere tale? Ed è appunto in questa prospettiva che proponiamo la seguente lettura.

Cantico dei cantici che è di Salomone (1,1)


E’ il cantico per eccellenza, non soltanto per la qualità poetica del testo con cui abbiamo a
che fare – quindi una splendida testimonianza di produzione letteraria -, ma soprattutto per-
ché è il è il cantico di Dio. Infatti, non soltanto si parla di Lui, ma viene percepita l’eco della
sua voce che canta, la voce misteriosa del Dio vivente. Qui la testimonianza proviene da chi
ha auscultato il cuore dell’Onnipotente: ecco i battiti che sono stati percepiti nell’intimo del
mistero, ecco come chi ha avuto a che fare con quella profondità impenetrabile ha recepito la
testimonianza di un linguaggio, di per sé ineffabile, e che trova voce, la povera voce umana,
che si rifà al linguaggio di quanti hanno cantato situazioni di amore. E’ la voce
dell’innamorato per eccellenza, per antonomasia, per definizione. Il Cantico dei Cantici ce ne
dà il riscontro, ce ne porge la testimonianza, ci invita ad auscultarne noi pure la eco.
Il Cantico dei Cantici viene attribuito a colui che è il patrono di tutta la tradizione sapien-
ziale, a Salomone. Qui, tuttavia, la prospettiva può essere ribaltata: non solo Salomone merita
di essere identificato come l’autore di un testo sapienziale più sapiente di ogni altro, ma Sa-
lomone è destinatario di una comunicazione di amore che fa di lui e farà di lui il sapiente. Ri-
cordiamo che Salomone nel sonno riceve una visita, sogna e sognando chiede la sapienza del
cuore, e la sapienza gli viene donata (1Re 3,4-15). Questo è il Cantico che fa di un uomo che
dorme, di un uomo che sogna il sapiente che sarà in grado di testimoniare quale sia il criterio
di tutto quello che è avvenuto, che avviene, che avverrà nella storia degli uomini, nella storia
di ogni uomo. Questo è il Cantico dei Cantici che farà di noi, e di ciascuno di noi, un Salo-
mone, il sapiente, che ci educa nel discernimento del sogno e nella accoglienza di quella sa-
pienza che dal cuore di Dio viene riversata nel cuore umano.

Qualcuno che respira a fatica (1,2a)


Il prologo si apre con un sussulto improvviso, un singhiozzo, un gemito: c’è una voce che
anela, testimoniando una difficoltà di respirazione: «Mi baci con i baci della sua bocca!».
C’è qualcuno che respira a fatica. Il Cantico dei Cantici si apre con questa improvvisa urgen-
za: la ricerca di uno spazio che consenta una respirazione adeguata alla vita. In bocca un ba-
cio. Il bacio è comunicazione di respiro, è tramite di una comunicazione di vita: fiato con fia-
to, bocca a bocca. Colei che respira a fatica avverte la necessità che qualcun altro introduca
fiato nella sua bocca, che qualcun altro porga la sua propria bocca per trasfondergli il respiro
di cui ha bisogno per vivere: «Mi baci con i baci della sua bocca!»: io non vivo, non respiro,
se non sono baciato. Chi? Lui? E chi è? Non è identificato. E’ lo spirito del Dio vivente che
viene qui invocato. Il Cantico dei Cantici si apre quindi con una epiclesi. Se la bocca del Dio
vivente non soffia su di me, trasmettendomi l’urgenza vitale del suo respiro, io non vivo.

Ricordo e nostalgia (1,2b-3a)


«Sì, le tue carezze sono più dolci del vino». La sua bocca, lui; le tue carezze, le carezze del
diletto. Chi si esprime così porta con sé l’esperienza indimenticabile di un passato che, ap-
punto in quanto passato, può ritenersi perduto, e che pure nella nostalgia invade il presente e
già prefigura l’avvenire. «Le tue tenerezze sono più dolci del vino», che cosa è avvenuto?
Perché mai quel passato è perduto? Eppure il ricordo di quel passato invade l’avvenire, de-
termina, passando attraverso la nostalgia prepotente che occupa il presente, l’avvenire.
«Le tue carezze sono più dolci del vino». L’immagine del vino allude qui a tante altre pre-
senze, a tanti altri riferimenti, a tante altre relazioni. Ma nulla e nessuno ha mai potuto egua-
gliare le carezze del diletto. C’è di mezzo una nota di nostalgia e di rimpianto. Tutto quel che
è stato serve a confermare il valore di una relazione vitale che supera tutti i livelli che mai
siano stati conseguiti percorrendo altri itinerari. La relazione con lui acquista il valore di una
certezza incrollabile. Non a caso ci si può rivolgere a lui in seconda persona singolare: tu. E’
il tu della mia vita, è il tu della mia storia, è il tu della storia umana: tu. Nel momento stesso
in cui viene denuncia dolorosamente la lontananza che ancora mi separa da lui. E’ nella rela-
zione con lui, che è il tu della mia vita, che io respiro. E’ la presenza che mi coinvolge alla
radice, nella intimità, nella verità assoluta della mia ricerca.

Unguento svuotato (1,3b)


Lo sconosciuto, presenza inafferrabile, non viene ancora nominato. Eppure quella presen-
za si esprime con un linguaggio inconfondibile. Nel v. 3 il linguaggio del profumo viene
messo in evidenza in modo straordinariamente efficace. Non riusciamo a vederlo, non riu-
sciamo ad afferrarlo, non siamo in grado di determinare la sua presenza, ma il suo profumo
già ci avvolge, ci riempie, già ci attraversa. Certo, il profumo è inafferrabile, ma è anche vero
che passa dentro di noi, attraverso di noi, in modo tale da invadere l’intimità più profonda.
Tutto il Cantico dei Cantici conferisce un risalto particolarmente significativo al senso
dell’odorato. «Per la fragranza sono inebrianti i tuoi profumi». Non so come rivolgermi a te,
non so come inserirti nel mio cosmo linguistico, nei miei pensieri, ma il tuo profumo mi in-
vade. Non so da dove venga e dove vada, ma mi attraversa, raggiungendo la profondità più
inesplorata di me stesso.
Il versetto prosegue: «profumo olezzante è il tuo nome». Ecco, se devo chiamarti per no-
me, essendo tu innominabile e sconosciuto, profumo olezzante (in greco: miron ekkenothen,
“unguento svuotato”). La traduzione greca richiama Filippesi 2, il cantico cristologico, “colui
che svuotò se stesso”: ekenosen eauton, è questo verbo, è l’“unguento svuotato”, “svuotò se
stesso” dice Paolo. “Tu sei un unguento svuotato”, ecco il tuo nome. Noi siamo in relazione
di vita con te: relazione di respiro con te, di fiato, di soffio; relazione di spirito con te che sei
unguento versato, svuotato, che sei spirito effuso.
Nei racconti della passione, in modi diversi, si attribuisce all’atto di spirare sulla croce di
Gesù, il Figlio, l’effusione del profumo: hai effuso il tuo profumo; spirò, consegnò lo spirito,
consegnò il suo respiro. Il Cristo è profumato ed è da lui a noi trasmesso il profumo, lo spirito
soffiato su di noi, trasmissione di vita, sigillo di comunione indissolubile. Proprio là dove la
situazione empirica della nostra esistenza denuncia una lontananza incolmabile, quella lonta-

2
nanza è colmata dall’unguento versato, quella lontananza viene colmata in modo tale da sta-
bilire una comunicazione di vita, che ci invade, mi invade, mi prende, mi conquista, mi tra-
sforma, mi rigenera, apre per me gli orizzonti della vita, quella vita verso la quale forse sospi-
ravo in modo confuso, caotico, disordinatissimo: quella vita a cui finalmente sono condotto.
Il versetto si conclude con una dichiarazione, nella sua semplicità, solennissima: «Per
questo le giovinette ti amano». Il tuo profumo per me è stato offerto anche all’umanità intera.
Vale per tutti gli uomini: le giovinette ti amano, per questo.
A quella nostalgia, di cui ci siamo resi conto leggendo il versetto 2, si congiunge nel ver-
setto 3 un presentimento infallibile: è passato di qua, ha lasciato dietro un’onda di profumo,
non sappiamo come afferrarlo, come raggiungerlo, ma è passato di qua. Cristo, l’Unto, ha
lasciato una traccia inconfondibile nel creato, nella storia degli uomini, in ogni persona, in
ogni angolo del mio vissuto, in ogni respiro per quanto affannoso sia. E’ passato attraverso la
morte, certo. Dovunque mi volga, in qualunque direzione proceda, a qualunque creatura mi
accosti, quale che sia la realtà con la quale devo fare i conti, quale passaggio sia necessario
che io affronti nel tempo e nello spazio della mia esistenza, fino alla morte: il suo profumo mi
precede, il suo profumo mi avvolge, mi viene incontro, anzi mi attende, mi invade e già spa-
lanca dinanzi a me e per me e per il mondo gli orizzonti di una infinita capienza di amore. Per
questo le giovinette lo amano.

Attirami! (1,4a)
«Attirami dietro a te, corriamo!». La relazione diretta, personalissima con lo sconosciuto,
con l’unguento svuotato non è minimamente disturbata dal fatto che ci siano altri e altri e altri
ancora e tutti, anzi, proprio l’opposto: nella mia esperienza personale riconosco quella che è
la realtà di tutti gli uomini. Viceversa: è proprio nell’esperienza altrui trovo modo di rispec-
chiarmi con quanto di più personale riguarda il mio vissuto. Attirami dietro a te, corriamo.
Attirami: un’implorazione, certamente, ma è quasi un ordine. E’ la forza con cui può e-
sprimersi un mendicante, come me, perché sono in uno stato di bisogno assoluto, eppure più
che mai convinto di potermi esprimere con la autorevolezza di chi certamente sarà esaudito:
attirami, dietro a te con gli altri.
In Gv 12,32 l’evangelista contempla il figlio crocifisso e intronizzato che in forza della sua
pasqua di morte e di resurrezione diventa protagonista di questa attrazione a cui nulla e nes-
suno può più resistere: «Quando sarò innalzato dalla terra attirerò tutto a me». Tutti corrono
in relazione al sepolcro: le donne e i discepoli corrono, si avvicinano, si discostano. E’ la cor-
sa che impegna da quel momento in poi i discepoli lungo tutte le strade del mondo, fino agli
estremi confini della terra, la corsa del Vangelo.
Anche Paolo, a più riprese, nella sua maniera di interpretare le cose, fa riferimento alla
corsa dell’evangelizzazione, la sua corsa personale, la corsa di altri, prima di lui, accanto a
lui: attirami dietro a te e noi correremo. E noi siamo in corsa proprio perché attirati da te e in
qualunque direzione ci stiamo inoltrando, verso qualunque orizzonte stiamo penetrando, noi
siamo in corsa perché attirati, perché sempre e dappertutto, fino alla pienezza finale, noi or-
mai siamo sigillati in forza di un vincolo di amore che ci unisce a te: noi apparteniamo a te.

Nelle stanze del Re (1,4b-e)


Questa corsa sta ormai diventando una corsa corale, che diventa occasione di incontro, di
comunione, di condivisione, sempre più universale: Attirami dietro a te, corriamo!
«M’introduca il re nelle sue stanze: gioiremo e ci rallegreremo per te, ricorderemo le tue
tenerezze più del vino. A ragione ti amano!». Singolarmente si passa dalla immagine della
corsa alla immagine della sosta in un luogo appartato, il luogo della intimità, il luogo
dell’amore: mi introduca il re nelle sue stanze. Si passa dalla seconda alla terza persona (mi
introduca il re), e poi di nuovo la prima persona plurale (gioiremo, ci rallegreremo per te, ri-
corderemo), e ancora la seconda persona singolare (le tue tenerezze).
«Le tue carezze più del vino…». Adesso siamo in grado di dichiarare che in realtà la corsa

3
in cui siamo impegnati è motivo di sollievo. E’ una corsa che invece di affaticarci sempre di
più, ci rallegra, ci abilita a gustare la gioia di un incontro che riempie il presente: siamo in
corsa e già ci rendiamo conto che è predisposto l’appartamento, è arredata la stanza, in cui
l’incontro con te ci trasmette una gioia traboccante: gioiremo, ci rallegreremo per te, ricorde-
remo le tue tenerezze più del vino.
Questo incontro misterioso con colui che è invisibile e irraggiungibile e che pure riempie
il presente, colui che è il motivo della corsa, perché stiamo inseguendo il suo profumo, colui
che già ci viene incontro e ci conferisce il gusto di una gioia traboccante, una gioia che è
condivisa in modo da fondare una comunione senza limiti, con tutte le creature, della terra e
del cielo.
Ebbene, è un dovere amarti, conclude il prologo. E’ un dovere, nel senso che la relazione
di amore che ci viene rivelata, che ci spiega come noi apparteniamo a te, è relazione di amore
in forza della quale noi siamo chiamati ad amarti. Noi amati, siamo messi in grado di amarti.
Non è un’occasione che subito sfuma, non è un’intuizione entusiasmante, ma inconcludente,
non è un sogno che svanisce nel nulla. E’ piuttosto la sapienza del cuore che mi svela dal di
dentro di me stesso come sono amato e come sono chiamato a fare della mia vita un servizio
di amore.

Primo poema
L’INVERNO DELL’ESILIO
La nascita dell’amore
(1,5-2,7)

Bruna ma bella (1,5-6)


Il poema si apre con la voce della creatura che arranca sospirosa ed incerta, impegnata in
una ricerca che ancora non è giunta a compimento, anzi una ricerca che per il momento sem-
bra essere assai lontana da una conclusione favorevole.
«Bruna sono ma bella, o figlie di Gerusalemme, come le tende di Kedar, come i padiglioni
di Salma».
Si rivolge alle figlie di Gerusalemme: c’è qualcuno che ha la pazienza di ascoltare i suoi
sospiri, i suoi gemiti, le sue invocazioni. Il Cantico ci sta interpellando in modo diretto ed e-
splicito. Si presenta «bruna sono, ma bella». Perché è bruna? Non c’è dubbio che il fatto che
si presenti in questo modo allude a degli inconvenienti che hanno scompensato lo svolgimen-
to della sua vita. E’ alle prese con una situazione di avvilimento, di smarrimento: è oscurata,
rabbuiata, imbrunita1. E’ la vicenda di una vita che si è caricata di molteplici storie, di un in-
quinamento piuttosto preoccupante. E tuttavia aggiunge subito: «ma bella, figlie di Gerusa-
lemme, come le tende di Kedar, come i padiglioni di Salma», come le tende dei beduini, che
sono nere, sotto le quali sopravvivono. Questa creatura che con totale sincerità dichiara il suo
stato di drammatico oscuramento, ma allo stesso tempo non ha alcuna incertezza di rimarcare
la bellezza di cui è dotata. Coraggiosa questa dichiarazione a testimonianza di una sincerità
profonda: per quanto oscurata dagli eventi della vita è intimamente convinta di essere dotata
di una bellezza incancellabile, una bellezza inconfondibile, ineliminabile, quella bellezza che
compete ad una creatura in quanto appartiene al Creatore. E’ lui che gli ha conferito una bel-
lezza che nessuna tragedia potrà mai eliminare.
«Non state a guardare che sono bruna, poiché mi ha abbronzato il sole». E’ bruna, ma
non fateci troppo caso. Il sole mi ha abbronzata: sono stata esposta alle intemperie del tempo,
1
In senso letterale, come poco sotto dirà (v. 6), è abbronzata semplicemente a motivo dei lavori agricoli. Gli
antichi poeti arabili oppongono il colorito chiaro delle ragazze nobili (qui le «figlie di Gerusalemme») a quello
delle schiave e delle serve che si occupavano dei lavori all’aperto.

4
a tutti gli inconvenienti della vita. La storia del passato non viene qui raccontata nei dettagli.
Ma il diletto, che già ha dato la vita per me, la conosce. Ed è lui che ricerca, lui che l’ha
guardata e l’ha amata, di colui che le ha attribuito una bellezza intramontabile, quella bellezza
di cui soltanto lui è consapevole
E’ evidente qualche accenno alla disfunzione che ha contrassegnato la sua storia passata:
«I figli di mia madre si sono sdegnati con me: mi hanno messo a guardia delle vigne; la
mia vigna, la mia, non l’ho custodita». Che cosa è successo? Gli è stata affidata una respon-
sabilità, ma non ha saputo assolvere al compito assegnato: custodire la sua vigna. Cos’è que-
sta vigna? E’ certamente un compito oggettivo che non ha svolto2; per questo i fratelli non la
sopportano più3. Ma è anche un compito di cura di sé, del proprio corpo e soprattutto della
propria interiorità: la custodia del cuore. Solo così anche ogni azione sarà coerente, e dunque
bella, con ciò che è nel cuore. La sua ricerca del diletto non può essere a discapito della cura
della propria interiorità. Insomma: non è sempre stata all’altezza della sua vocazione.

Dimmi o amore dell’anima mia (1,7-8)


Si rivolge in modo commovente a quel tale, l’invisibile, che l’ha guardata e l’ha amata
dall’inizio e che, per quanto sia irraggiungibile, è presente, incombente, più di ogni altro at-
tento a lei. «Dimmi, o amore dell’anima mia». Un’immagine tratta dalla vita pastorale: la no-
stra creatura è una pecora che sta belando all’indirizzo del pastore, è una pecora smarrita.
Questa immagine ritorna nell’Antico e nel Nuovo Testamento. E’ pecora belante, ed è pecora
che, all’insaputa di tutto, è comunque convinta che il pastore sta ascoltando quel belato, che il
pastore è attento a quella voce, è presente, anche se invisibile e inafferrabile.
«Dimmi o amore dell’anima mia, dove vai a pascolare il gregge, dove lo fai riposare al
meriggio, perché io non sia come vagabonda dietro i greggi dei tuoi compagni». Salmo 23:
«Il Signore è il mio pastore non manco di nulla...».
Le figlie di Gerusalemme (oppure i pastori beduini ai quali si è rivolta nella sua ricerca)
intervengono: «Se non lo sai, o bellissima tra le donne». C’è forse una nota ironica, ma è
un’ironia buona: bellissima. Possibile che tu bella come sei non sappia dove sta il tuo pasto-
re? «Segui le orme del gregge e mena a pascolare le tue caprette presso le dimore dei pasto-
ri».
Qui la pecorella è trasformata in pastorella: datti da fare, ci sono le orme del gregge, segui
quelle tracce. E’ un incoraggiamento rivolto alla creatura perché si fidi: quello che capita a te
non è un fenomeno unico ed eccezionale, già altri hanno percorso queste strade, già c’è un
tracciato, una tradizione; ci sono altri, c’è un gregge, un popolo, c’è una moltitudine che ti ha
preceduto. Il coro dà un buon consiglio: ti dai tanto da fare, ma alla fine dei conti non sai do-
ve andare; affidati al gregge, segui le orme; già altri sono passati e troverai il pastore.. C’è
una tradizione nel popolo di Dio, nella chiesa, nell’esperienza di altri ricercatori e poi belanti
pecore rimaste inchiodate in qualche zona del mondo, come te! C’è già una tradizione. E’ una
ricerca che, per quanto personale e di tutta una comunità, si inserisce in una storia. Fidati di
coloro che già hanno percorso questo itinerario. Un buon consiglio.

Amica mia… (1,9-11)


All’improvviso, per la prima volta, compare lui, il diletto. Il diletto viene in modo da inter-
2
In tutta la letteratura orientale la vigna ha un doppio senso di tono sessuale legato alla femminilità. Astarte, la
dea della fertilità, è colei che «custodisce la vigna». In un testo egiziano del XIV-XIII sec. a.C. si descrive
l’avventura di un ufficiale con una ragazza ritrosa «che custodiva la sua vigna». Perciò, dietro il simbolo
agricolo, la donna confessa l’esplodere del suo amore: il controllo e l’opposizione della famiglia sono stati
inutili; ella ha spezzato i legami ed ora è qui alla ricerca del suo amore. Nel v. 6 la donna pronuncerebbe, perciò,
una dichiarazione di autonomia nei confronti del suo corpo e del suo destino. Ella ormai – come si dice nel v. 7
– è pronta ad affrontare anche il rischio del disonore, dell’essere considerata “una donna velata” (la versione
latina di S. Gerolamo traduce «vagabonda»), cioè una prostituta (cf. Gen 38,14) o anche una donna disperata,
perché in Oriente il velarsi il viso è segno di disperazione e di tragedia.
3
Ha cioè abbandonato la vigna per correre dietro al suo amato suscitando, in tal modo, le loro ire.

5
secare la ricerca della creatura sorpassandola; è una venuta che si pone ad un livello di gratui-
tà del tutto superiore ai tentativi svolti dalla creatura. Certo, la creatura si è lasciata educare,
si è lasciata coinvolgere nel viaggio di tutto un popolo di cercatori, ma adesso è lui che viene
a modo suo, manifestando la totale gratuità della sua iniziativa. Viene all’improvviso. Viene
sempre così.
«Alla (mia) cavalla del cocchio del faraone io ti assomiglio, amica mia».
E’ una irruzione strepitosa. E’ lui che esprime così la sua ammirazione per la creatura af-
fannata, ansimante, che arrancava di qua e di là, vagabonda, all’inseguimento di un pastore
inafferrabile, che portava su di sé i segni inconfondibili di una abbronzatura squalificante. E’
proprio il suo sguardo a rendere bella la creatura che egli ama. La paragona alla cavalla del
cocchio. Una comparazione un po’ ardita e un po’ stravagante ma certamente potente. Infatti
il cavallo con l’eleganza della sua silhouette, il fremito dei suoi muscoli, l’armonia della sua
corsa è un simbolo di perfezione e di bellezza. Il cocchio faraonico non poteva che essere ag-
giogato a cavalle selezionate4.
«Belle sono le tue guance fra i pendenti, il tuo collo fra i vezzi di perle». Che ci fossero
questi gioielli a sottolineare la bellezza di quella creatura noi non l’avevamo ancora compre-
so, anzi ci sembra poco adatta questa decorazione piuttosto spropositata per una pecorella,
per una pastorella, per una figliola che non ha custodito la vigna, esposta a tutte le intemperie
del mondo.. Eppure ancora una volta è lo sguardo del diletto che, mentre coglie la bellezza,
quella bellezza che egli stesso attribuisce alla creatura amata, sa anche come suscitare bellez-
za. Lo sguardo del diletto dona una bellezza di cui vuole compiacersi, è una bellezza che ri-
donda, che si effonde, che appare illumina la scena del mondo. Una bellezza ingioiellata: il
diletto la vede, se ne compiace, la valorizza in modo tale che tutto l’ambiente circostante ne
tragga vanto. E’ una bellezza in crescita: «Faremo per te pendenti d’oro, con grani
d’argento». E’ l’opera che la Parola del diletto, il Vangelo, compie in noi; parola vivente che
si incide nella nostra carne, nella nostra storia, come pure nella nostra Chiesa. Compie quello
che leggiamo anche in Is 61,10: «Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel
mio Dio, perché mi ha rivestito di vesti di salvezza, mi ha avvolto col manto della giustizia…
come una sposa che si adorna dei suoi gioielli»

Nel giardino (1,12-14)


Nei versetti che seguono (1,12-2,7) c’è un dialogo. L’incontro è avvenuto e non ci si può
più sottrarre all’urgenza di un chiarimento. La scena, che prima era impostata in base alle
forme della vita pastorale, adesso è descritta al modo di un giardino nel quale avviene
l’incontro tra i due personaggi che sono configurati come il re e una principessa. Il re, il dilet-
to, si è presentato da se stesso e non possiamo più sottrarci alla pressione urgente e dolcissi-
ma della sua parola, della sua forza di amore. La principessa, la creatura amata, bruna ma bel-
la, pecora e pastorella vagabonda, è ora nel suo giardino.
Nel vangelo secondo Giovanni tutto si compie in un giardino. Lo stesso Gesù vivente, ri-
sorto dai morti, viene confuso con il giardiniere.
Nei vv. 12-14 è la creatura amata che parla, è lei che cerca di destreggiarsi nella situazione
così nuova e stupefacente che l’ha coinvolta. E’ la voce di una creatura che si sente valorizza-
ta, ricercata, gradita. Il recinto: una comunicazione intensa, coinvolgente nell’intimo come
questa, esige un ambiente adatto. Il recinto all’interno del quale avviene questo incontro non
è preclusivo, ma inclusivo. Se le parole del diletto erano legate a simboli visivi, quelle della
4
Tuttavia, nella corposa vivacità della poesia amorosa orientale non si deve neppure escludere un’allusione per
noi forse un po’ imbarazzante. «Alcuni commentatori, infatti, rimandano ad un episodio di una campagna
militare di Tutmose III registrato in un testo egizio. Il principe di Qadeš aveva liberato una cavalla meravigliosa
in un gruppo di stalloni; questi ultimi si erano talmente scatenati che un ufficiale fu costretto a trapassare con
una lancia la cavalla. L’immagine acquista allora un altro riferimento. L’amata, simbolo della bellezza
fulminante, quando appare, produce attorno a sé un’attenzione irresistibile»: G. RAVASI, Il Cantico dei cantici,
Paoline 1987, 63-64.

6
creatura amata preferiscono simboli odorosi.
«Il mio nardo spande il suo profumo» dice la creatura. Il diletto è profumato, effonde
quell’odore misterioso che è in grado di pervadere l’universo e di attirarlo a sé. Adesso è la
creatura umana, proprio lei, che spande il profumo – quello del nardo, aroma raffinato ricava-
to da una specie di valeriana che fiorisce nel nord-est dell’India -. Lei stessa è messa in grado
di esalare profumo, profumo che è gradito alle narici del diletto, testimonianza di una intimità
che raggiunge in modo sempre più diretto e intrattenibile l’intimo dei cuori.
Nello stesso tempo: «Il mio diletto è per me un sacchetto di mirra, riposa sul mio petto»5.
Il diletto, stretto in un abbraccio, è simile a quel sacchetto di mirra che la donna porta sul se-
no. E’ abbandonato teneramente sul corpo della sua donna. C’è una fusione di profumi, una
comunione nel soffio, nel respiro: il profumo del diletto diventa respiro del suo respiro.
«Il mio diletto è per me un grappolo di cipro6 nelle vigne di Engàddi7». Come il profuma-
tissimo fiore di cipro, l’amore cresce sempre a forma di grappolo che, al pari di un grappolo
d’uva, si può condividere senza doverlo dividere: ognuno può prenderne un acino e ciascuno
potrà dire di aver mangiato dal grappolo. Vi è qui l’accenno ad un’ebbrezza che rende dolce
ogni esperienza della vita, ogni contatto con il mondo, un’ebbrezza che riscalda, infervora,
accende.

L’imbarazzo (1,15-2,7)
Qui è la voce del diletto: «Come sei bella, amica mia, come sei bella! I tuoi occhi sono co-
lombe». Il diletto è molto sobrio, essenziale, diretto: cerca gli occhi. Il volto della creatura è
effettivamente velato, cerca attraverso gli occhi l’espressione della libertà, lo sguardo è sa-
cramento del cuore. Non c’è dubbio: il diletto insegue quello sguardo, vuole carpirlo, vuole
afferrarlo, attirarlo a sé. Ma la creatura è imbarazzata, sta volando altrove («come colomba»)
in modo ancora inafferrabile. Eppure il diletto sa che quella creatura, perché innamorata, è
fedele: la colomba, come vedremo in 2,14, è il simbolo della fedeltà, dell’innocenza, della
tenerezza. La creatura è resa fedele dal Diletto. Nella mia ricerca del diletto mi sono accorto
che Egli, tramite il suo vangelo, cercava me; egli mi voleva veramente, mi amava, mi pren-
deva così com’ero, mi conquistava, si impossessava di me.
Di nuovo la creatura amata (1,16-2,1): «Come sei bello, mio diletto, quanto grazioso!».
Cerca di stare al passo, di ripetere pari pari quelle dichiarazioni di grande affetto, di stima, di
ammirazione che il diletto le ha rivolto.
«Anche il nostro letto è verdeggiante». Subito sposta lo sguardo, guarda le spalle: siamo
appoggiati, in quest’oasi di pace, su un letto verdeggiante, un prato verde. I re avevano letti
d’amore raffinati «con coperte soffici e tela fine d’Egitto» (Pr 7,16), con sponde d’avorio in-
tagliato (Am 6,4-6). Ben diversa è la situazione dei due amanti: il diletto rende nobile anche
questo tappeto di verde campestre, per essi quel giaciglio è lussuoso ed eccezionale. Sembra
quasi che la loro casa sia il mondo stesso. La creatura poi guarda in alto: «Le travi della no-
stra casa sono i cedri». I cedri sono maestosi8, tutto l’ambiente è testimonianza di una bellez-
za incantevole, la fecondità della vita, i colori dell’universo, la partecipazione festosa di ogni
creatura: «nostro soffitto sono i cipressi». Questa elevazione massimamente proiettata verso
5
La mirra – resina prodotta in Arabia, Abissinia ed India – era portata dalle donne in un sacchetto appeso tra i
seni così da avvolgere col suo profumo penetrante tutto il corpo.
6
Il cipro (scientificamente lawsonia alba) è affine alla canfora, un arbusto dai fiori a grappoli, esaltato anche dai
cananei per il suo profumo.
7
Esse erano una ricca osasi della costa occidentale del mar Morto, citata anche da Sir 24,14 per le sue palme, da
Plinio e da S. Girolamo ed evocata forse anche per il significato del nome, «fonte del capriolo», l’animale caro
al Ct (cf. 2,9.17; 8,14).
8
I cedri e i cipressi del Libano erano stati ampiamente usati dall’edilizia salomonica in particolare per la
costruzione del tempio di Gerusalemme e per il vicino palazzo reale. Una vera e propria foresta era passata dal
Libano al colle di Sion arricchendo pareti e soffitti. Anche per la ricostruzione del tempio dopo l’esilio
babilonese Is 60,13 dice: «La gloria del Libano (i cedri) verrà a te, cipressi, olmi e abeti abbelliranno il luogo del
mio santuario».

7
le altezze celesti è dovuta al fatto che la creatura amata sta divagando: come sei bello mio
diletto, quanto grazioso, guardiamoci attorno, guardiamo ad altro, parliamo d’altro. Quando
mi sono accorto che l’evangelo cercava me, ho guardato altrove.
«Io sono un narciso di Saron, un giglio delle valli» (2,1). La piana di Saron sta sulla costa
del Mediterraneo a nord di Giaffa. A primavera il suo verde è tutto costellato di fiori. Oh!
Quanti ce ne sono! Chi sarò mai io? Io sono soltanto un fiore povero, un narciso, fiore delica-
to ma dal profumo intenso. Il suo sguardo cerca poi, nell’interno della valle, un altro fiore:
altrettanto modesto e comune, il giglio dei campi. Un fiore semplice, dalle piccole corolle,
eppure dotato di una sua bellezza. Si tira indietro perché è umile? Perché è discreta? Perché si
rende conto dei suoi limiti? Queste sono mascherature, in realtà non ce la fa a reggere la rela-
zione.
E il diletto incalza: «Come un giglio fra i cardi, così la mia amata tra le fanciulle».
L’amato riprende l’immagine del giglio e la sviluppa con una “secca” contrapposizione.
Nell’inerno di un campo di cardi, spinosi, grigi, duri, è sbocciato un giglio. Dolcezza e durez-
za, amore e guerra, calore e freddezza si confrontano ma lo splendore del giglio trionfa. Que-
sto sei proprio tu!
«così la mia amata fra le fanciulle». La donna amata fa impallidire qualsiasi altra bellezza,
l’uomo innamorato non cerca che lei e tutto il mondo gli sembra un campo di cardi spinosi.
Solo lei ha profumo, colore, freschezza, delicatezza.
La nostra creatura annaspa. E’ di nuovo lei che prende la parola: «Come un melo tra gli
alberi del bosco, il mio diletto fra i giovani». «Alla sua ombra, cui anelavo, mi siedo e dolce
è il suo frutto al mio palato». L’amato è come il melo9 profumato, ricco di frutti colorati, do-
tato di foglie lucide, in mezzo agli alberi delle foreste, alberi aspri, contorti, cupi. Sotto que-
sto splendido melo la donna anela di rifugiarsi. L’ombra della sua chioma è come un abbrac-
cio di fecondità10. E i frutti dell’amore sono saporosi, dolci al palato, come quelli del melo.
Le sue parole (i suoi baci) hanno un gusto indimenticabile: «Quanto sono dolci al mio palato
le tue parole, più del miele per la mia bocca» (Sal 119,103).
Appare ora la casa del vino11. Sappiamo che il Cantico ama rappresentare le delizie e il fa-
scino dell’amore con il simbolo del vino: questa cella è, perciò, la camera nuziale in cui la
donna è introdotta per celebrare il convito dell’amore. Il diletto, quindi, non perde tempo, non
tergiversa, non rinvia. Una volta entrati egli inalbera il vessillo del grande trionfo, quello
dell’amore. Le bandiere di questa “guerra gioiosa” non sono insanguinate dall’odio ma pro-
clamano solo felicità. Le ferite, come dice il v. 5, sono provocate dai dardi dell’amore che
riescono a sfinire corpo e spirito: «Io sono ammalata d’amore» (cf. anche 5,8). Una malattia
che sfibra, ma una malattia dolce e desiderata. Tuttavia la nostra creatura sembra non farcela,
è ancora impreparata ad un incontro così intenso che le sembra insostenibile. Per questo chie-
de una medicina per essere sostenuta: «sostenetemi con focacce d’uva passa, rinfrancatemi
con pomi». Le focacce d’uva passa erano considerate dagli orientali un sostegno vitaminico
(ma anche un afrodisiaco)12. Chiede anche delle mele (o succo di mele) che sono, secondo
una credenza diffusa ancor oggi tra gli Arabi, stimolo efficace per l’appetito e per la forza
fisica.
«La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia». La sinistra dell’amato
9
Il melo è un albero spesso presente nella poesia erotica: «il mio melo porti frutti dalla sua corona», afferma un
poeta numerico in un inno alla dea della fecondità.
10
Il poeta non lascia cadere il gioco discreto delle allusioni. L’ombra nella Bibbia è il simbolo classico della
protezione divina che si stende sul popolo eletto (cf. Sal 17,8; 36,8; 57,2), è il segno del chinarsi di Dio
sull’uomo per una presenza e un dialogo di grande intimità (cf. Lc 1,35).
11
E’ un’espressione usata dal libro di Ester (7,8): si tratta di una cantina, di una cella per conservare il vino ma
anche di una capanna per la vendemmia nelle vigne o anche può essere una sala per banchetti in cui ci si può
inebriare di vini generosi.
12
Nella Bibbia esse sono descritte come offerte femminili votive idolatriche per ottenere la fecondità (cf. Os
3,1; Is 16,7; Ger 7,18; 44,19). In Mesopotamia sono venuti alla luce stampi metallici a forma di dea nuda coi
quali si confezionavano e si cocevano queste torte votive.

8
sta sotto il capo della donna mentre la destra la abbraccia in un gesto che esprime tenerezza,
affetto, delicatezza (cf. Gen 29,14), ma anche possesso, protezione (cf. Pr 5,20). La sinistra
solleva il volto amato mentre la destra stringe a sé il corpo desiderato. Questo abbandono to-
tale, nel quale è l’amato a sostenere l’amata, porta dolcemente quest’ultima al sonno. E così
resterà ancora per il seguente poema.
Il v. 7 chiude il primo poema. Prende la parola ancora il diletto, fermo, in veglia, al capez-
zale della creatura amata che dorme: «Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le gazzelle
o per le cerve dei campi: non destate, non scuotete dal sonno l’amata, finché essa non lo vo-
glia». Questo versetto comparirà tale e quale alla fine del secondo poema, in 3,5. E’ un ritor-
nello. Ricomparirà un po’ aggiustato in 8,5. E’ il diletto che veglia pazientemente. La creatu-
ra è malata d’amore, ma non era del tutto pronta; il diletto l’ha riempita, l’ha attraversata, l’ha
travolta. La creatura amata non è ancora in grado di corrispondere nella misura che il diletto
attendeva e desiderava. E’ lui che attende ancora, che desidera con intransigente sollecitudine
di amore. Tutto questo in vista del risveglio, quando finalmente la creatura amata sarà in gra-
do di rispondere pienamente all’amore del diletto. Per questo chiama a raccolta le figlie di
Gerusalemme, il coro in cui riconosciamo la presenza di tutta l’umanità: «per le gazzelle o
per le cerve dei campi non destate, non svegliate dal sonno l’amata».
Il diletto convoca tutto e tutti al capezzale dell’amata perché c’è un unico desiderio che e-
gli vuole perseguire e vuole realizzare. La creatura amata si sveglierà quando sarà in grado di
corrispondere pienamente alla sua intenzione di amore nella libertà di una offerta di amore:
«finché essa non lo voglia». Cioè finché non sarà pronta. L’amato rispetta pazientemente i
tempi dell’amata. Il vegliante è per antonomasia il vivente, è lui che sta vegliando al capezza-
le della nostra umanità, della nostra generazione, della nostra Chiesa, ancora in stato di malat-
tia.

Secondo poema
IN SOGNO È PRIMAVERA
Progressi dell’amore
(2,8-3,5)

Il sonno della creatura come educazione alla ricerca


La creatura sta dormendo profondamente in mezzo alla bufera dei suoi desideri, illusioni e
paure. E nel corso del sonno, mentre il diletto veglia, sogna. E’ lei stessa che nel sogno pren-
de la parola, parla mentre dorme. La creatura sta affrontando le conseguenze di quello stato di
impreparazione in cui si trovava e che non ha avuto altro sbocco che il crollo nel sonno. Il
suo incontro con il vangelo l’ha sbaragliata e il diletto veglia. Mentre la creatura sta dormen-
do, sta sognando, il diletto valorizza pedagogicamente questo tempo; è il tempo nel corso del
quale il diletto sta insegnando come il suo dono di amore raggiunge la creatura che non era in
grado di riceverlo. Attraverso il sonno – situazione di indifesa - vuole raggiungere la creatura
amata nell’intimo. Quanto sarà lungo questo sonno? Un giorno, una notte, una settimana, un
mese, un anno, un secolo, un millennio, due millenni, tre millenni? Quanti millenni di ad-
dormentamento e di sogni? Il tempo necessario. L’importante è penetrare nell’intimo
dell’amata; sta educando dal di dentro quelle realtà interiori e profonde da cui dipenderà fi-
nalmente il risveglio, quando finalmente la creatura amata sarà in grado di aderire pienamente
al diletto, alla sua inesauribile pienezza di grazia, di bellezza, di santità, di vita.

Ecco, viene! (2,8-13)


Una voce! Il mio diletto!.
Nel sonno l’amata coglie quasi con disinvoltura la presenza del diletto. Come spesso suc-

9
cede nei sogni: un suono, e attorno a quel suono si sviluppa il sogno, si vedono immagini e si
elabora una vicenda. Il sogno è articolato, complesso, pieno di personaggi, con una sua sce-
nografia elaboratissima. Il punto di partenza è quella voce. E’ una voce che chiama, che parla
nella sua maniera inconfondibile: è il diletto. Nel sogno il diletto viene riconosciuto, viene
visto, contemplato nel suo movimento. «Eccolo, viene saltando per i monti, balzando per le
colline». Il diletto avanza, corre. La sua corsa aveva una meta desiderata sopra ogni cosa. Le
immagini esaltano la sua agilità: le montagne sono l’appoggio di salti acrobatici che gli con-
sentono di percorrere una distanza, di superare ogni asperità. La sua mobilità lo rende simile
a un capriolo o ad un cerbiatto, animali graziosi tanto cari alla simbolica del Cantico13. La
creatura è affascinata, incantata nell’osservare l’avvicinarsi del diletto che qui, nella sua vi-
sione, avverte in modo sempre più stringente: non soltanto viene ma si sta avvicinando a me.
E sta stringendo lo spazio attorno a me, è interessato a me, non è un muro qualunque, è pro-
prio il muro del nostro cortile, non è una finestra qualunque, è la finestra della nostra casa,
non sono inferriate qualunque, sono proprio quelle che sono state poste per costruire
l’elemento decisivo che impedisca l’ingresso degli indiscreti in casa nostra. Lui spia attraver-
so le inferriate. Quello che la creatura amata non era stata in grado di sostenere nella realtà
della veglia, è ora una evidenza inequivocabile. Certo, è il linguaggio del sogno, linguaggio
di una creatura che si è ritirata nell’intimo per ripararsi, ma è proprio nell’intimità della sua
vita che il diletto la sta inseguendo e la sta stringendo. Lì egli la raggiunge: la parola risuona
in una chiamata inequivocabile, una chiamata per nome, così come il pastore chiama le sue
pecore nel Vangelo secondo Giovanni. Quella voce chiama me, è ormai una eco che rimbom-
ba dal di dentro di me stesso, là dove, nell’intimo, è già depositata una promessa. Quella voce
che ha chiamato fin dall’inizio, adesso si fa riudire, ma nel contesto del sogno, dove suscita
nell’intimo della creatura l’eco inconfondibile di una promessa seminata inizialmente e con-
servata per tutto questo tempo. E’ una vocazione che la creatura constata essere il suo patri-
monio più radicale, la sua identità più profonda e che riaffiora in tutta la sua autenticità.
«Ora parla il mio diletto e mi dice. Alzati, amica mia, mia bella, e vieni!» Impara a vivere
nella speranza di chi appartiene a una promessa ancora non compiuta, eppure una promessa
confermata. E’ la primavera14, la campagna è in fiore, si ode il suono dei lavori agricoli (o,
per altri, dei canti che riecheggiano di valle in valle, di vigna in vigna) e il tubare della torto-
ra15. Alzati dunque e vieni, «il fico ha messo fuori i primi frutti e le viti fiorite spandono fra-
granza». Vite e fico sono simboli di pace e di benessere16. Questo è il tempo del diletto, que-
sta è la campagna in fiore. Il diletto conferma il valore di quella promessa, il dono di quella
vocazione, chiama la creatura a svegliarsi. Gesù, avvicinandosi a Gerusalemme, constata che
il tempo della sua fame, la fame del diletto, non coincide con il tempo dei fichi (cf. Mc
11,13b). Constatando che ancora c’è una distonia tra il tempo del Messia e il tempo del popo-
lo messianico. Ma la promessa è confermata. E’ ancora tempo da dedicare al sonno, sarà an-
cora necessaria una prolungata pedagogia tramite i sogni: la sua parola (il vangelo) eserciterà
nell’intimo dell’amata la sua efficacia, la risorgerà.

Mostrami il tuo viso (2,14)


E aggiunge: «O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei di-
rupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo viso è
leggiadro». Il diletto è determinato, insegue la sua creatura nelle zone più profonde ed imper-
13
Tra l’altro nel branco dei cervi non sono gli adulti ad aprire la marcia ma i più giovani, i cui balzi agili danno
il ritmo all’incedere dell’intero branco. E’ quindi la celebrazione della giovinezza (cf. 2,17; 8,14).
14
Ormai l’inverno palestinese è passato, iniziato con le piogge di novembre, è finito con i temporali di febbraio
e gli ultimi piovaschi di marzo.
15
Il tubare della tortora è in Palestina e in Siria, a primavere, il segno della stagione come lo è per noi la rondine
(cf. Ger 8,7).
16
«Giuda e Israele erano al sicuro: ognuno stava sotto la propria vita e sotto il proprio fico durante la vita di
Salomone» (1Re 5,5; cf. 1Re 4,25; 1Mc 14,12; Nm 20,5; Is 36,16).

10
vie, là dove tenta di asserragliarsi, come questa colomba che va a cercare riparo nelle fenditu-
re della roccia, nei nascondigli dei dirupi. Il diletto non cerca soltanto il riscontro di una pro-
messa conservata e di una speranza irriducibile, ma invita la creatura a mostrare il proprio
volto: mostrami il tuo viso17. Non nascondere più il tuo volto, non cercare più il riparo om-
broso e sepolcrale nelle fenditure della roccia, non scappare più, non tirarti più indietro, non
temere, non dubitare del dono che ti è stato affidato. E’ un richiamo così affettuoso e così in-
tenso che la coinvolge dall’interno. Per quanto fugga, in qualunque anfratto roccioso andrà
mai ad infilarsi questa creatura, scopre che il diletto l’ha preceduta. Non solo la insegue, ma
l’ha già preceduta in qualunque profondità possa andare a rintanarsi, in qualunque nascondi-
glio voglia ancora isolarsi, scopre che la voce del diletto gli viene incontro, la presenza del
diletto la incalza, la mano del diletto la stringe e la promessa la avvolge. Non c’è luogo più
remoto, non c’è periferia più dispersiva, non c’è isolamento più eremitico in cui questa crea-
tura umana non sia in grado ormai di constatare che il diletto la chiama, la stringe, le mostra il
proprio volto. E’ il diletto che la sta evangelizzando per coinvolgerla in un unico disegno di
amore di portata universale e definitiva.
Adesso è di nuovo la creatura che sta reagendo a suo modo. Il suo sonno non è sereno.

Le volpi e le vigne (2,15-16)


«Prendeteci le volpi, le volpi piccoline che guastano le vigne, perché le nostre vigne sono
in fiore». Le piccole volpi sono i cuccioli degli sciacalli, golosi dei grappoli d’uva in matura-
zione, tanto che in Oriente nelle vigne si organizzavano turni di guardia notturni. Questa im-
magine delle volpi che devastano il territorio è presente più volte nella letteratura profetica ed
allude alle incursioni, che ebbero luogo in diversi tempi nella storia della salvezza, quando la
terra di Israele fu invasa e devastata. Le citazioni a questo riguardo sono numerose. Così
l’amata teme che il proprio corpo e la propria interiorità possa essere attentata ancora dal ma-
le. Non dimentichiamoci che anche Gesù applica il titolo spregevole di “volpe” (lo sciacallo,
identificato dagli antichi ebrei con la volpe, divora le carogne e come tale è un animale impu-
ro) ad Erode Antipa (cf. Lc 13,32). Nulla, quindi, deve mettere in pericolo la sublimità della
pace e della forza ritrovate dall’amata. L’amore in fiore è ancora assai vulnerabile ed esige
tutto un insieme di attenzioni. Per questo l’amata invita il diletto, insieme al coro, a creare
una specie di difesa attorno alla vigna meravigliosa dell’amore.
«Il mio diletto è per me e io per lui. Egli pascola il gregge fra i gigli». L’amata ha scoper-
to dov’è il segreto e la forza della sua fedeltà: la fedeltà dell’Amato! Ci troviamo in uno dei
punti più importanti del Cantico: qui il cammino dell’amata si fa coscienza piena del dono
ricevuto - «il diletto è per me» - che esige il dono altrettanto pieno dell’essere completamente
e assolutamente per lui18. Per un’appartenenza vicendevole, ormai definitiva, indissolubile.
L’amata definisce il diletto come Colui che «pascola il gregge fra i gigli», cioè come un
pastore che conduce il suo gregge in mezzo ad un panorama di luce e di colori simile a quello
sopra descritto. La frase ebraica potrebbe essere intesa anche come «colui che si pasce tra i
gigli» e in questo caso si celebrerebbe l’appassionato desiderio del diletto di unirsi alla sua
donna che in 2,1-2 era stata presentata come un giglio.
Ma il diletto sparisce. Nel sogno la creatura amata non lo trova più.

La scomparsa del diletto (2,17)


Se ne è andato, non lo vede più. Ma come si può ormai pensare il declinare di un giorno e
17
Il diletto, paragonando l’amata alla colomba selvatica che nidifica appunto nelle fenditure delle rocce o negli
anfratti dei dirupi o nei nascondigli delle torri (si tratta del cosiddetto “piccione terraiolo”), cita una caratteristica
tipica di questi animali: la fedeltà della coppia, a cui si accompagna una prodigalità di attenzioni e di
dimostrazioni di affetto. Durante la cova il maschio porta il cibo davanti alla femmina e inizia una vera e propria
coreografia di inchini, di saltelli, di inviti, finché l’altra, rispondendo con un lieve tubare, sporge dall’ombra il
capo grazioso e dà congedo al compagno.
18
Il linguaggio è quello dell’alleanza: Io sono il tuo Dio, tu sei il mio popolo; io sono per te, tu sei per me.

11
l’approssimarsi di un’altra notte – di altre notti! – lontano dal suo respiro e privati della dol-
cezza del suo conforto? Ecco perché, ancora nel sonno, invoca: «Prima che spiri la brezza
del giorno e si allunghino le ombre, ritorna, o mio diletto, somigliante alla gazzella o al cer-
biatto, sopra i monti degli aromi» (3,1). Questo sperimentare l’assentarsi del diletto è inti-
mamente congiunto alla certezza che, altrettanto improvvisamente, egli possa rifarsi presente!
L’amata guarda verso occidente. I monti degli aromi sono i monti di Beter. A occidente di
Gerusalemme dove tramonta il sole c’è la cresta di una collina che chiude l’orizzonte. In
quella direzione la creatura sta guardando implorante: «Ritorna o mio diletto», ma il diletto
non è tornato. Sono passati due millenni e non è ancora tornato. Sì, quella voce, sì, quella
promessa, quella speranza, sì, quel fremito, quello slancio, sì, quella certezza di una intimità
di amore definitiva, quell’appartenenza indissolubile, sì, eppure è già sera. L’amato non è an-
cora qui. La nostra creatura sta passando da un sogno a un incubo.

La ricerca del diletto (3,1-14b)


«Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato l’amato del mio cuore; l’ho cercato, ma non l’ho
trovato». Tutta la vita, il proprio tempo e lo stesso spazio intimo del corpo diventano lo sce-
nario di una perenne ricerca. Per non perdere la propria gioia l’amata è disposta a perdere la
faccia, tanto che per recuperare di nuovo la presenza del diletto che non è venuto – e questo
sta diventando un incubo – è disposta a perdere la faccia, ad uscire dal proprio letto e dalla
propria casa per farsi vagabonda e affrontare la notte. Si butta all’impazzata in una ricerca
che sembra senza limite per quanto riguarda il dispendio delle energie psichiche, affettive,
fisiche, una ricerca che la impegna su tutti i fronti, su tutte le strade della vita, della storia, del
mondo: l’ho cercato, ma non l’ho trovato.«Mi alzerò e farò il giro della città; per le strade e
per le piazze; voglio cercare l’amato del mio cuore. L’ho cercato, ma non l’ho trovato».
Questa storia da incubo quanti secoli dura, quanti millenni dura? Maria di Magdala nel van-
gelo secondo Giovanni, al cap. 20, cerca il corpo di Gesù, il Signore. Certamente Giovanni
evangelista sta citando questo brano del cantico. Maria di Magdala, piange, strepita: dove
l’avete messo, dove l’avete portato? Si rivolge al giardiniere, ma il giardiniere è il diletto.
Dove l’hai portato? E’ lui, non se ne accorta, lo tratta come il giardiniere. Ma intanto cerca,
cerca a modo suo. Cerca come una forsennata, pronta ad affrontare tutti gli incontri, anche i
più pericolosi.
«Mi hanno incontrato le guardie che fanno la ronda: “Avete visto l’amato del mio cuo-
re?”». Si rivolge a tutti, è pronta ad affrontare qualunque contatto, qualunque esperienza. Ma
alla fine «trovai l’amato del mio cuore». L’amato si fa trovare, è lui che si presenta, come
quel giardiniere nel racconto evangelico che chiama per nome Maria di Magdala (cf. Gv
20,16a).
L’ha trovato perché è lui è sempre stato lì. E’ lui che chiama, che vuole educare la sua cre-
atura. Fino a quando si risveglierà e sarà in grado di accogliere quel dono e di rispondere pie-
namente ad esso nell’indissolubile comunione di vita.

Di nuovo nel sonno (3,4c-5)


Questa creatura scopre che il diletto è sempre stato lì, ha posto la sua presenza al fondo
delle cose, al fondo della vita, al fondo del cuore umano. E mentre ha sfiorato il risveglio ed
ha sperimentato l’incubo, adesso di nuovo si sta immergendo in un sonno profondo. Sogna di
stringerlo fortemente e di non lasciarlo – con un atteggiamento possessivo, così come fece
Maria di Magdala con Gesù risorto nel giardino - finché non l’abbia condotto in casa di sua
madre19. E continua nel sonno.
19
Secondo la prassi giuridica normale avveniva il contrario; era l’uomo, accompagnato dal corteo degli amici,
che processionalmente conduceva la promessa sposa alla casa paterna, in cui essa lo attendeva col suo corteo di
damigelle, alla casa ove l’avrebbe introdotta nell’alcova della madre (cf. Gen 24,67). Là avrebbero consumato il
loro amore.

12
Ma il diletto veglia: «Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le gazzelle e per le cerve
dei campi: non destate, non scuotete dal sonno l’amata finché essa non lo voglia». E’ sempre
sorprendente come il diletto si adatti ai tempi di maturazione dell’amata!
Così come il poema aveva avuto inizio, così si conclude. E’ ancora il diletto che con la sua
sapienza pedagogica si prende cura di questa creatura dormiente per educarla attraverso i so-
gni, perché di sogno in sogno, di incubo in incubo, finalmente si realizzi la promessa del di-
letto, sia all’altezza della sua vocazione, realizzi quell’unico disegno di amore che è presente
dall’eternità nel grembo del Dio vivente e che ci è stato rivelato.

Terzo poema
IL GUSTO DELL’ESTATE
La gioia delle nozze
(3,6-5,1)

Il rapimento della sposa (3,6)


Ma adesso si giunge a una svolta. Il terzo poema si apre con una voce fuori campo che ci
introduce in una scena del tutto imprevista. E’ sempre così quando compare il diletto: compa-
re a modo suo, compare nella gratuità della sua iniziativa, con le sue originali e genialissime
improvvisazioni.
«Che cos’è che sale dal deserto come una colonna di fumo, esalando profumo di mirra e
d’incenso e d’ogni polvere aromatica?».
Un corteo si muove all’orizzonte, avanza precipitosamente, accelera l’andatura in modo
impressionante, solleva un enorme polverone che, mentre appanna la vista, ci viene incontro
con la singolare soavità di profumi effusi in misura sovrabbondante. E’ polvere, ma è polvere
odorosa, è polvere aromatica. Profumo di mirra e di incenso.
Che corteo è questo, che cosa sta succedendo? Esso ha tutte le caratteristiche delle ceri-
monie nuziali che prevedevano l’atto del rapimento: l’aspirante sposo si presenta accompa-
gnato dai suoi amici per rapire la fidanzata. Il rapimento si configura come una cerimonia, un
rito. E’ un modo di celebrare le nozze proprio dei popoli nomadi. Il diletto vuole dunque rapi-
re la creatura amata per sposarla. Tutto appare come un gesto energico, travolgente, che ha
aspetti di violenza, di sopraffazione! Il diletto rapisce la creatura che nel frattempo è andata a
rintanarsi nella stanza di sua madre, quella creatura che aveva preteso di avere per sé - po-
tremmo dire: rapire - e possedere il diletto. In realtà non l’ha conquistato affatto e ancora
meno lo possiede. L’umanità ha fatto del furto il proprio ideale di riferimento. La creatura
umana è soddisfatta di potersi rintanare in casa di sua madre. Ma è da quella casa che il dilet-
to la strappa, è da quella stanza della genitrice che il diletto la tira fuori, per questo usa vio-
lenza. Certo, è la violenza dello sposo, è la violenza della parola del vangelo che rapina
l’umanità per strapparla alla prigionia in cui da se stessa si è relegata e in cui da se stessa
vuole conservarsi. E’ una soluzione originalissima: il diletto fa sua la vergogna della rapina a
cui l’umanità si è votata! Affronta lui il terreno di tale vergogna umana, avanza lui su quel
terreno, se ne appropria lui, lo fa suo. E’ il ladro. Gesù stesso ha detto di venire come un la-
dro (cf. Lc 12,39s; Mt 24,43s) proprio perché è lo sposo. Questa creatura viene ora da lui ri-
svegliata.

L’incoronazione dello sposo (3,7-11)


«Ecco, la lettiga di Salomone: sessanta prodi le stanno intorno, tra i più valorosi
d’Israele. Tutti sanno maneggiare la spada, sono esperti nella guerra; ognuno porta la spada
al fianco contro i pericoli della notte». Attorno alla lettiga (o portantina)20 marcia la guardia
20
L’archeologia ne ha messe alla luce alcune dei cananei usate per portare le statue degli dèi.

13
del corpo. Si tratta di sessanta militari scelti, di altissimo addestramento (cf. 2Sam 10,7; 23,8-
9.16-17.22), che fungono ora da scorta ufficiale ora da parata. Armati fino ai denti sono
pronti ad affrontare ogni tipo di assalto e di incursione «contro i pericoli della notte»21. Il di-
letto è sempre pronto ad affrontare i pericoli e le minacce che continuamente e subdolamente
possono attentare all’amore che è sempre pronto a dare battaglia (cf. Ef 6,10-17).
La lettiga, intravista da lontano, ora appare in tutto il suo splendore: «Un baldacchino s’è
fatto il re Salomone, con legno del Libano. Le sue colonne le ha fatte d’argento, d’oro la sua
spalliera; il suo seggio di porpora, il centro è un ricamo d’amore delle fanciulle di Gerusa-
lemme».
Come il re Salomone, qui evocato, oltre a costruire il tempio costruì anche la propria reg-
gia, così sempre l’Amore offre all’amata un luogo adeguato e appropriato all’intimità a guisa
del baldacchino sotto il quale si celebrano le nozze in attesa che siano consumate nell’intimità
della tenda (cf. Gen 24,67). Al centro del baldacchino c’è un ricamo preparato con amore dal-
le ragazze di Gerusalemme. L’amore è sempre un ricamo fatto di fili sottili che si intrecciano
e si rincorrono in un diritto e in un rovescio e attraverso cui l’informità e la debolezza di cia-
scun filo si trasforma in forza e compattezza dell’insieme.
Il giorno delle nozze, quando la sposa è presentata allo sposo, coincide con il giorno della
sua incoronazione, dell’intronizzazione regale. Questa incoronazione immediatamente ci o-
rienta verso il giorno delle nozze che segna la svolta decisiva nella storia umana, quel giorno
in cui lo sposo è il crocifisso incoronato: «quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli ange-
li, lo vediamo ora coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché
per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti» (Eb 2,9).
Eccolo l’incoronato, ecco lo sposo che ruba, attrae a sé, rapisce per sé la sposa, ossia la
creatura umana, in forza di un amore geloso e vittorioso, che si esprime con il linguaggio del-
la vergogna condivisa fino alla morte. E’ incoronato e intronizzato. Lo sposo è intervenuto in
modo tale da conferire alla morte della creatura la testimonianza di un vincolo nuziale, la te-
stimonianza di un amore geloso che libera, che riscatta, che ormai apre strade nuove per gli
uomini, per la Chiesa, per la storia del mondo.
A questo spettacolo, a questa festa, a questa gioia – per quanto vissuta nell’intimità e nel
dono segreto di sé – nessuno può rimanere estraneo. Nessuno può rimanere chiuso in se stes-
so. L’invito si fa pressante: «Uscite figlie di Sion, guardate il re Salomone». Lo sposo che
prima era velato ora è visibile: si sono mosse le cortine della lettiga perché adesso è il mo-
mento in cui la sposa rapita viene introdotta nella lettiga. «Guardate il re Salomone con la
corona che gli pose sua madre, nel giorno delle sue nozze, nel giorno della gioia del suo cuo-
re».

Una serenata: «Come sei bella, amica mia! » (4,1-7)


Il poema prosegue con un canto, una serenata che il diletto dedica alla creatura amata: l’ha
svegliata, l’ha strappata, l’ha presa a sé, adesso la creatura amata è accanto a lui nella lettiga.
Essa ha il volto velato; nonostante ciò il diletto lo contempla e si compiace di descriverlo
(4,1-5).
Dietro il velo nuziale brillano gli occhi affascinanti, «simili a colombe», rievocando
l’animale della tenerezza e della fedeltà. Si intravede il nero delle chiome comparate a un
gregge di capre dal mantello nero lucente iridato di riflessi di rame. I capelli coprono morbi-
damente volto e collo come le capre coprono le pendici di Galaad in una discesa molle ed on-
deggiante. Al modo pastorale il poeta attinge ancora per dipingere il candore dei denti. Lavate
prima della tosatura22, le pecore biancheggiano sul verde del prato (cf. Sal 65,14) e procedo-
no a coppie secondo file armoniche. Così è la perfetta dentatura della donna, circondata dal
21
La notte è sempre simbolo del male e di terrore (cf. Gv 3,29).
22
Tale sembra essere il senso di un vocabolo oscuro ebraico presente qui nel Cantico. Per altri esso si
riferirebbe, invece, ad una qualità particolare di pecore.

14
nastro purpureo delle labbra23, in un contrasto provocante di colori, mentre la bocca si schiu-
de nell’armonia di una voce dolcissima («bocca» del v. 3 è letteralmente «parlare»). Dietro il
velo appaiono in tutta la loro bellezza anche le guance (o, per altri, le tempie) le quali evoca-
no per lo sposo il frutto del melograno.
Segue la descrizione del corpo della donna. Dal viso ora si passa al collo e dai simboli ru-
rali a quelli urbani (cf. v. 4). Il collo sottile e slanciato della donna è arditamente comparato
alla «Torre di Davide» che si staglia nel cielo tesissimo di Gerusalemme. Forse su questa tor-
re, la più alta (ma a noi ignota), venivano appesi gli scudi di legno delle mille vittorie24. Nella
trasparenza dell’immagine femminile gli scudi si trasformano negli ornamenti e nelle collane
che la sposa porta sul suo collo.
Lo sguardo ora si fissa con tenerezza e con delicatezza sui seni della sposa. Mobili e per-
fettamente gemelli, rimandano ad una coppia di cerbiatti che balzano, pieni di vitalità, su un
campo di gigli (cf. v. 5). Qui il poema allude alle due montagne che sono state considerate
per alcuni secoli come gli emblemi di uno scisma che ha fratturato la comunione all’interno
del popolo di Dio: le due montagne: il monte Sion e il monte Garizim, quello su cui i Samari-
tani edificarono un altro tempio in contestazione con il tempio di Gerusalemme. Sotto lo
sguardo del diletto che descrive la sua creatura, quella creatura è unificata: l’unità del popolo
non più fratturato, non più lottizzato.
Con un linguaggio erotico delicato, che non conosce volgarità, malizia ma neppure ipocri-
sia, lo sposo esprime il desiderio di giungere, «prima che spiri la brezza del giorno e si allun-
ghino le ombre» all’intimità con la sposa25. E’ giunto il momento dell’amore, dell’abbraccio
inebriante.
«Tutta bella tu sei, amica mia, in te nessuna macchia». Colei che all’inizio del Cantico si
riconosceva bruna, è come se fosse stata «smacchiata» attraverso il contatto con lo Sposo,
con l’Amore. La disponibilità da parte dell’amata a lasciarsi adombrare dalla Presenza
dell’Amore – dalla sua destra e dalla sua sinistra (cf. 2,6) – hanno cambiato la sua stessa na-
tura trasformata-trasmutata interamente, integralmente e durevolmente26.

Dal Libano al giardino (4,8-11)


Dal v. 8 la serenata prende uno slancio ulteriore: «Vieni con me dal Libano». All’invito
«vieni» di 2,10, già formulato dall’Amore, si aggiunge ora il «con me». Poiché l’amata ha
rischiato il suo viaggio interiore, fino alle sue oscurità più profonde, ora – come creatura libe-
rata – è all’altezza della comunione con lo Sposo. Vieni da me, lascia il Libano, lascia i monti
selvaggi e verdeggianti27 e mettiti in movimento, segui me, rispondi a me, fidati di me, corri-
spondi al mio invito, alla mia presenza.
Ed eccola ora, davanti agli occhi, in tutto il suo splendore. Al vederla il cuore dello Sposo
batte in modo accelerato28: «Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia, sposa, tu mi hai rapito il
cuore con un solo tuo sguardo, con una perla sola della tua collana!». Un solo sguardo
d’amore con quegli occhi che rivelano la purificazione interiore ormai avvenuta fa impazzire
l’amato, una sola perla della collana della sua sposa gli rapisce il cuore. In questi occhi
l’Amore può riflettersi senza paura di essere inghiottito e annientato; da questo sguardo
23
Cf. Gen 38,28.30; Gs 2,18-21 per le allusioni bibliche.
24
Davide, ad esempio, quando aveva vinto il re di Zobà, Hadad-ezer, «lo aveva depredato di tutti i suoi scudi
d’oro e li aveva portati a Gerusalemme consacrandoli con altri al Signore» (2Sam 8,7.11). Così aveva fatto
Salomone (cf. 1Re 10,16-17).
25
Il v. 6, infatti, con un linguaggio allusivo, giunge al sesso della donna.
26
Non a caso già tradizioni molto antiche nella Chiesa leggono questo versetto in rapporto alla Immacolata
Concezione.
27
Il v. 8 cita due monti della catena dell’Antilibano: l’Amana, di solito identificato con l’attuale Gebel ez-
Zebedani, da cui nasce l’omonimo fiume di Damasco, e l’Hermon, altura aspra e selvaggia, un tempo
punteggiata da foreste di cedri e popolata di leoni e di leopardi.
28
L’originale ebraico del v. 9 usa un verbo quasi intraducibile ma di grande suggestione: indica infatti il battito
accelerato del cuore.

15
l’Amore può e vuole farsi conquistare. «Quanto sono soavi le tue carezze, sorella mia, sposa,
quanto più deliziose del vino le tue carezze» (4,9). Inizialmente nel Cantico dei cantici era la
creatura amata, nel suo affanno, che diceva: le carezze del diletto sono più deliziose del vino;
adesso è il diletto che dice questo a riguardo delle carezze che va mendicando dalla creatura
amata.
«L’odore dei tuoi profumi sorpassa tutti gli aromi. Le tue labbra stillano miele vergine, o
sposa, c’è miele e latte sotto la tua lingua e il profumo delle tue vesti è come il profumo del
Libano».
Nei versetti che stiamo leggendo i segni della comunione sono sempre più intensi, appas-
sionati, penetranti. Oltre agli sguardi e alle carezze, in un’atmosfera di profumi – il profumo
della sposa, della sua anima che ora, rinnovata, sorpassa ogni altro profumo - abbiamo anche
i baci. Lo Sposo – dopo il lungo cammino della sposa – si pasce beatamente di tutta la bellez-
za e del gusto che le labbra e la lingua dell’amata sono ormai in grado di elargire nel massimo
di intimità e di comunione. Le labbra screpolate di colei che vagava per il deserto (1,7); le
labbra ghiacciate della donna quasi folle persa nella città notturna (3,2) alla ricerca
dell’Amore; le labbra aride di colei che era stata messa a guardia delle vigne (1,6) e che erano
state bruciate dal sole; quelle labbra ora «stillano miele vergine». Da quelle labbra l’Amore
può assaporare il frutto delizioso di tutto il lavoro segreto e misterioso che, nel frattempo, si è
operato nel cuore della sposa. Il corpo dell’amata è la Terra Promessa; dal suo corpo l’Amore
può attingere e gustare – fin sotto la lingua, che è la sede del gusto - miele e latte29.
Anche l’odorato – secondo una costante del Cantico – è coinvolto a causa degli aromi del-
la spos, dei profumi delle sue vesti (cf. Gen 27,27), cosparsi di essenze.

Un giardino paradisiaco (4,12-5,1)


«Giardino chiuso tu sei, sorella mia, sposa, giardino chiuso, fontana sigillata».
Dal Libano al giardino: non sei più quella creatura riottosa che si rintanava tra le rupi
montane, sei giardino chiuso. Questa immagine allude in modo inconfondibile per gli antichi
interpreti del Cantico, alla verginità. Il passaggio dal Libano al giardino comporta il recupero
di una verginità già ampiamente tradita, ed è conferita a questa creatura in forza dell’amore
esclusivo e geloso che il diletto le riserva: tu sei un dono di amore unico, un dono di amore
libero, un dono d’amore definitivo.
Il giardino chiuso, abbinato a una sorgente, è un giardino coltivato, fecondissimo. Quella
verginità è una verginità materna, è una verginità in grado di generare abbondanza di frutti: «I
tuoi germogli sono un giardino di melagrane, con i frutti più squisiti, alberi di cipro con nar-
do, nardo e zafferano, cannella e cinnamòmo con ogni specie d’alberi da incenso; mirra e
aloe con tutti i migliori aromi». In questo giardino lo sposo è avvolto e stordito da un effluvio
di profumi e di essenze odorose.
«Fontana che irrora i giardini, pozzo d’acque vive e ruscelli sgorganti dal Libano». Il
giardino chiuso è irrorato da acqua sovrabbondante. Il richiamo è al racconto di Genesi 2, il
racconto della creazione: l’uomo è collocato nel giardino con quattro grandi fiumi. E’ il giar-
dino che governa l’equilibrio cosmico e ricapitola in sé tutto il bisogno della storia umana
mediante questa gestione dell’acqua al servizio della vita. Tale è divenuta la sua sposa, il
giardino verginale, il giardino della creatura in grado ormai di generare con inesauribile fe-
condità.
Il canto del diletto si chiude con un accenno al Libano che ci riporta al v. 8: «Vieni con me
dal Libano». Questo giardino è alternativo rispetto al Libano.
E siamo alla fine del poema: «Lèvati, aquilone, e tu, austro, vieni, soffia nel mio giardino
si effondano i suoi aromi. Venga il mio diletto nel suo giardino e ne mangi i frutti squisiti»
29
La locuzione, di solito invertita «latte e miele», ricorre, come è noto, nella rappresentazione della terra
promessa.

16
(4,16). Qui è la voce della creatura amata che riascoltiamo dopo tanto tempo, dopo il lungo
sonno. Aquilone e austro sono i due venti del nord. Ma tutti i venti così vengono convocati e
invocati. E’ una vera e propria epiclesi dello Spirito Santo: levati vento, vieni soffio, vieni nel
mio giardino e si effondano i suoi aromi. E’ proprio al soffio del vento che il giardino esalerà
il profumo.
«Venga il mio diletto nel suo giardino e ne mangi i frutti squisiti». L’oasi chiusa è aperta
dalla donna stessa; il sigillo della fonte è spezzato e lo sposo è chiamato a cibarsi dei frutti
squisiti ed esaltanti dell’amore.
Lo Sposo accoglie con gioia l’invito. Ora è nel giardino dell’amore: «Son venuto nel mio
giardino, sorella mia, sposa, e raccolgo la mia mirra e il mio balsamo; mangio il mio favo e
il mio miele, bevo il mio vino e il mio latte». A questa mensa egli invita i suoi amici a parteci-
pare alla sua gioia. I frutti che lo Sposo si aspetta da me sono offerti a tutti, fino a raggiungere
le componenti più marginali dell’umanità: «Mangiate, amici, bevete; inebriatevi, o cari».

Quarto poema
L’ESTATE DELLA DIFFERENZIAZIONE
La sofferta maturazione
(5,2-6,3)

Io dormo, ma il mio cuore veglia (5,2a)


«Io dormo, ma il mio cuore veglia». Il quarto poema si apre con questa dichiarazione ap-
parentemente contraddittoria da parte della creatura amata che così vuole esprimere la situa-
zione nuova alla quale ha aderito e della quale è testimone. Questa creatura ormai è stata tra-
sformata dallo Sposo, è diventata sensibile alla sua voce, quasi fosse diventata in qualche
modo tutta orecchi, come la Vergine di Nazaret, anche nel sonno. Perciò anche se si è assopi-
ta il suo dormire è vigilante poiché il cuore non conosce riposo se non tra le braccia
dell’Amore.

Un rumore! E’ il mio diletto che bussa (5,2b-4)


«Un rumore! E’ il mio diletto che bussa». Per quanto il sonno possa essere profondo, la
sua voce va direttamente al cuore dell’Amata. Nel sonno riconosce la sua voce, il suo modo
di bussare, il suo modo di presentarsi alla porta. Era convinta di avere accanto a sé il diletto, e
invece il diletto si presenta come un mendicante che sta bussando alla porta di casa.
Il suo bussare si fa insistente: «Aprimi, sorella mia, mia amica, mia colomba, perfetta mia;
perché il mio capo è bagnato di rugiada, i miei riccioli di gocce notturne». Egli viene dalla
fredda notte orientale ed il suo capo è tutto impregnato di rugiada, i riccioli della sua capiglia-
tura sono imperlati di gocce notturne. Egli porta tutto il freddo della notte ed attende di gusta-
re il calore dell’amata. Egli è colui che è Risorto dalla fredda notte della morte e vuole essere
accolto dalla sua creatura amata. Nell’Apocalisse all’ultima Chiesa, la settima della serie, il
Signore dice: «io sto alla porta e busso» (3,20): finché qualcuno aprirà io entrerò e ceneremo
insieme.
Negli appellativi rivolti alla creatura amata, ce n’è uno che si aggiunge a quelli che già co-
nosciamo: «perfetta mia». E’ appellativo che allude a quella capacità di corrispondere
all’intenzione del diletto di cui egli è alla ricerca: sono qui perché attendo da te una risposta
che sia motivo del mio compiacimento.
Per la creatura tutto era già consumato, tutto era già avvenuto, tutto era già acquisito. In
quel contesto di una vita abitudinaria, di una storia ormai configurata come un mantenimento
della proprietà ereditata senza ulteriori complicazioni, si era introdotta nell’animo della crea-
tura amata la noia. Il diletto va continuamente ricercato; c’è sempre il rischio, dopo un perio-
do di fervore spirituale, di diventare accomodanti. Per questo il diletto viene a scuotere

17
l’amata, si presenta e le dice: perfetta mia, io sono alla ricerca della tua risposta non come
liturgia paludata, ma come liturgia di una presenza sollecita ad accogliere colui che viene a
visitarti, colui che è sempre nuovo nella visita, colui che insistentemente ti chiama ad una ri-
sposta, che non è mai espressa una volta per tutte e che ancora ti impegna fino alla consuma-
zione di te, della tua vita e della tua storia e della tua presenza di Chiesa in mezzo agli uomi-
ni.
«Mi sono tolta la veste; come indossarla ancora? Mi sono lavata i piedi; come ancora
sporcarli?». E’ proprio vero, questa creatura oramai si è abituata a un andazzo di cose che
non ammettono intrusioni, nemmeno quella dello Sposo, tanto è così convinta di averlo con
sé, in sé e per sé. Mica posso alzarmi a questo punto della notte! Meglio rimanermene assopi-
ta, alle prese con i miei sogni. Non solo non mi alzo, non posso alzarmi: il diletto comunque
sta qui con me.
Ma il diletto insiste: «Il mio diletto ha messo la mano nello spiraglio e un fremito mi ha
sconvolta». La voce non è sufficiente, il diletto calca la mano, preme, bussa, forza la porta
chiusa con il chiavistello, vuole entrare.
E’ una aggressione questa? E’ un ladro? Già leggendo il terzo poema abbiamo visto che il
diletto si è presentato come un ladro. E adesso il risveglio è provocato con una forza a cui la
creatura non può più sottrarsi: «un fremito mi ha sconvolta». Dunque un sussulto.

Una corsa affannosa: contaminarsi col mondo (5,6-7)


Adesso si alza, non può farne a meno perché si è accorta di essere sola nella notte. Ed è
spaventatissima. Un risveglio brusco, col cuore che le batte. Un risveglio tragico. Ora mentre
le sue dita sollevano la maniglia del chiavistello, essa sente il profumo lasciato dalle mani
dello Sposo attaccarsi alle sue. Ogni innamorato non solo sa riconoscere il profumo del suo
partner ma, appena lo percepisce, si commuove perché è come se avesse davanti a sé il suo
amore in persona. Ma ecco la sorpresa amara: «Ho aperto allora al mio diletto, ma il mio di-
letto gia se n’era andato, era scomparso». La porta si spalanca solo nel vuoto, sulla notte. Il
diletto, che si è allontanato, chiede implicitamente all’amata di seguirlo.
Qui comincia una corsa, patetica, a suo modo commovente, si ribaltano le situazioni. Da
quel contesto annoiato in cui la nostra creatura si compiaceva con tanta prosopopea, si passa
adesso a una scena tormentata, percorsa da un incessante divagare in tutte le direzioni. Questa
creatura si dedica ormai come una forsennata a cercare, a scandagliare, a scrutare in tutte le
direzioni, si presta a tutti gli incontri, si gioca in tutti i compromessi. E’ travolta dalla urgenza
di questo desiderio che la rende frettolosa e anche superficiale, nella corsa alla ricerca del di-
letto.
«L’ho cercato, ma non l’ho trovato, l’ho chiamato, ma non m’ha risposto. Mi han trovato
le guardie che perlustrano la città; mi han percosso, mi hanno ferito, mi han tolto il mantello
le guardie delle mura».
Corre in tutte le direzioni, urla, strepita, cerca contatti a tutti i livelli e con tutti i possibili
interlocutori, anche le situazioni più incresciose, più squallide, più dolorose, non si tira indie-
tro. E’ colpita, aggredita, battuta, intercettata, violentata, traumatizzata. Qui ricompaiono
quelle frasi che già avevamo preso in considerazione nel sonno: nel sogno la nostra creatura
si era rivolta a delle guardie, mentre cercava il diletto. In quella occasione le guardie le ave-
vano detto di non saperne niente e lei aveva proseguito nella sua ricerca da sola. Adesso la
situazione assume degli aspetti ben più aspri e strazianti: mi hanno trovata, mi hanno percos-
sa, mi hanno ferita, mi hanno denudata, mi hanno lasciata in mezzo alla strada, mi hanno but-
tata in piazza, hanno svillaneggiato, hanno approfittato di me in tutti i modi, mi hanno disse-
stata in quella che era e che è la mia missione, la mia Chiesa. Non le è risparmiato nulla. E’ il
confronto con la nuda realtà, con la violenza e il male nel mondo. Non è più solo un sogno.
La ricerca del diletto che non trova la costringe a «sintonizzarsi» con le situazioni che caratte-
rizzano la storia degli uomini, a sperimentarle sulla sua pelle. Sta scoprendo di essere coin-
volta in una intensa, profonda, autentica comunicazione di vita con l’umanità intera e con tut-

18
ti i mali di cui l’umanità soffre e con tutte le miserie che affliggono questa generazione. Pro-
segue nella sua corsa, non ha ancora raggiunto il diletto e non lo raggiungerà, ma intanto è
sempre più immersa nelle vicende dell’umanità e scopre di essere sempre più aperta a farsi
carico del comune patrimonio di malessere, di affanni, di ingiustizia, di dolori, di violenza del
mondo.

Parlare del Diletto (5,9-16)


«Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme. Se trovate il mio diletto, che cosa gli raccontere-
te? Che sono malata d’amore!». Cerca di riferirsi a coloro che dovrebbero darle un suggeri-
mento incoraggiante, proporle un motivo di consolazione, ma non ottiene l’aiuto desiderato.
Proprio dalle figlie di Gerusalemme, che dovrebbero darle un incoraggiamento, viene inter-
rogata in modo quasi derisorio: «Che ha il tuo diletto di diverso da un altro, o tu, la più bella
fra le donne?, perché così ci scongiuri?». Questi cosiddetti amici invece di aiutarla la pren-
dono in giro, vogliono bruciare l’ultimo residuo della sua speranza, vogliono dimostrare
l’inutilità, l’inopportunità, l’inconcludenza della sua ricerca. Ma chi te lo fa fare? Non vedi
che le cose nel mondo vanno diversamente? Non vedi che la storia umana ha un’altra piega?
Che la tua ricerca è una presunzione pericolosa, che addirittura sei elemento di disturbo, men-
tre vorresti proporti come depositaria di una visione per il mondo?
La domanda che riceve dal coro, dalle figlie di Gerusalemme, la costringe a parlare del suo
diletto. Già, come capita a noi, come capita alla Chiesa quando, anche derisa o perseguitata, è
«costretta» a parlarne, non può fare a meno di predicarlo. Devo parlare di lui proprio quando
non lo possiedo. E la creatura parla. Ne delinea la sua bellezza.
«Il mio diletto è bianco e vermiglio». Il bianco è il colore del cielo luminoso, spoglio di
nubi (cf. Is 18,4), il rosso è quello dell’aurora (cf. 2Re 3,22). E’ come se un alone di luce,
un’aureola divina lo avvolgesse. Il suo volto è di oro purissimo, simile quasi alla corona dei
raggi del sole. Simile alla chioma di una palma ricca di grappoli è la sua capigliatura di un
nero corvino percorso da striature metalliche (v. 11). Come tenere colombe (l’animale
dell’amore) sulla rive di un ruscello sono i suoi occhi (v. 12), identici a quelli della donna.
Come un bacile colmo di latte candidissimo così è la dentatura perfetta dell’amato. Come
aiuola di fiori balsamici sono le sue guance, tutte cosparse di aromi30. Come gigli rosati sono
le sue labbra, come mirra che si effonde è la saliva che percorre (v. 13). Come gioielli d’oro
sono le mani e le dita affusolate, incastonate di mille perfezioni simili alle gemme di Tarsis31,
pietre provenienti dai confini estremi della terra. Come lastra d’avorio compatta e raffinata-
mente intagliata è il ventre dell’amato: un bianco caldo e dorato, un colore prezioso e dolce
su cui si intessono mille sfumature di altre tonalità e perfezioni simili al zaffiro e al lapislaz-
zuolo. Un’iridescenza di tinte che trasfigurano questo corpo già così armonioso e integro.
Come colonne d’alabastro poggiate su basi d’oro puro sono le gambe solide, vigorose, ben
piantate dell’Amato (v. 15).
Come il Libano maestoso nella sua imponenza lo sposo s’avanza; come i cedri verdeg-
gianti posti sulle pendici di quel monte così egli si rivela «giovanile»32, fresco e forte (v. 16).
Il suo palato, cioè le sue parole e i suoi baci, è la dolcezza fatta carne, conquista ed inebria (v.
17). La donna non sa più trattenersi: «Il mio amato è tutto una delizia!» C’è in lui una soavità,
un fascino che conquista anima e corpo. «Questo è il mio diletto, questo è il mio amico, o fi-
glie di Gerusalemme»
Questa creatura è debitrice nei confronti di quelle figlie di Gerusalemme che l’hanno in-
terpellata. Sembrava una semplice derisione, addirittura un atto di disprezzo; in realtà quella
provocazione ha acquistato una valenza pedagogica efficacissima. La nostra creatura sta im-
parando a parlare del diletto, a testimoniare colui che ha segnato la sua vita e la sua storia in
30
Il poeta allude probabilmente alla barba che gli orientali impregnavano di profumi (cf. Sal 133,2-3; Sir 50,9).
31
Tarsis (Gibilterra) era un celebre centro commerciale, meta estrema della navi fenicie (cf. Ger 10,9; Ez
27,12.25; 38,13).
32
In ebraico l’aggettivo «giovanile» è usato per le truppe scelte, per i giovani eroici e coraggiosi.

19
modo inconfondibile.

Il pastore tra i gigli (6,1-3)


Di nuovo le figlie di Gerusalemme l’interrogano: «Dov’è andato il tuo diletto, o bella fra
le donne? Dove si è recato il tuo diletto, perché noi lo possiamo cercare con te?». Anche qui
c’è un tono provocante: dicci dov’è e verremo con te. La risposta è estremamente sobria, pa-
catissima. Testimonia non solo chi è il diletto, ma anche ciò che è avvenuto con lui: «Il mio
diletto era sceso nel suo giardino fra le aiuole del balsamo a pascolare il gregge nei giardini
e a cogliere gigli. Io sono per il mio diletto e il mio diletto è per me; egli pascola il gregge
tra i gigli».
Dove è il diletto? Sapete dov’è? Il diletto è il pastore: è colui che ha pascolato il gregge
nel suo giardino. Il mio diletto si era rivolto a me come a una pecorella del suo gregge. «Io
sono per il mio diletto e il mio diletto è per me»: quel mendicante che bussava, che implora-
va, quel mendicante che protestava, che poi è sparito, che mi ha rimessa in cammino, è il mio
pastore.
E’ un mendicante che bussa alla porta? E’ il pastore che apre la porta. Gesù attribuisce a se
stesso entrambe le immagini: «Io sono la porta delle pecore» (Gv 10,7), «Io sono il buon pa-
store» (Gv 10,11). Questi è il pastore che apre la porta e che già dimora là dove io sono una
pecora del gregge, smarrita e ritrovata.

Quinto poema
L’AUTUNNO DEI FRUTTI
Amore ormai provato
(6,4-8,4)

Tu sei bella, amica mia (6,4-7)


Siamo in ascolto della voce del diletto. Ancora una volta è il diletto che prende la parola, è
una voce dall’intonazione particolarmente delicata, che scaturisce dalla intimità del cuore.
Quella creatura che si è fermata, scopre che il pastore l’ha seguita, l’ha considerata, l’ha ac-
compagnata, l’ha raggiunta. In fondo a tutti i baratri in cui è sprofondata, in tutte le situazioni
impervie, desolate, che ha attraversato, in tutte le forme di smarrimento di cui ha fatto espe-
rienza: il diletto è il mio pastore. Ed è presente proprio nella immediata oggettività del suo
vissuto, se l’è ritrovato accanto, dinnanzi, se l’è ritrovato dentro il cuore. L’eco della voce del
diletto nel cuore della creatura amata ha un timbro del tutto particolare: è come se il diletto
esprimesse i suoi pensieri segreti, è come se veramente noi potessimo auscultare i battiti del
cuore che testimoniano la sua fedele, irrevocabile tensione di amore per la creatura che fi-
nalmente ha potuto raggiungere.
«Tu sei bella, amica mia, come Tirza, leggiadra come Gerusalemme, terribile come schie-
re a vessilli spiegati». Il diletto le parla con il linguaggio del pastore che ha ritrovato la sua
pecorella e la chiama per nome. Bella! E’ lo sguardo del diletto che coglie la bellezza della
sua creatura, che le conferisce bellezza. Tu sei bella.
Questa bellezza viene messa in rapporto a un certo disegno storico, per quanto riguarda il
popolo d’Israele, che fu caratterizzato dallo scisma tra le tribù del nord e quelle del sud. Tirza
è il nome della prima capitale del regno del nord, regno d’Israele, mentre Gerusalemme è il
nome della capitale del regno del sud, ossia del regno di Giuda. La bellezza della creatura
amata viene messa in evidenza insieme con la ritrovata unità del popolo di Dio. E’ bellissima
questa creatura, perché è creatura confermata nella comunione. Inoltre in ebraico la radice del
nome Tirsa significa «piacere», «delizia», «bellezza», mentre «Gerusalemme» significa
šalôm, «pace». Nella sua donna lo Sposo trova tutto quanto cerca nella sua terra amata, nella
storia della salvezza, nella stessa attesa messianica.

20
E bisogna immediatamente aggiungere, 6,4b: terribile come schiere a vessilli spiegati.
Questa creatura, nella sua affascinante bellezza, appare dotata di una forza incontenibile, raf-
figurata con l’immagine di un esercito schierato a battaglia, un esercito che invade il campo e
con il suo solo apparire sgomina qualunque avversario. Questa bellezza è fortissima. Essa ha
tutte le caratteristiche di modestia, delicatezza, trasparenza, sobrietà che servono a caratteriz-
zare il fascino di una fisionomia riconciliata; ma nello stesso tempo questa bellezza è podero-
sa, è travolgente, dotata di una energia guerriera che domina il campo della storia umana. E’
il diletto che dice questo tra sé e sé, con quel linguaggio interiore che è comprensibile soltan-
to dalla creatura amata: tu sei bella amica mia, tu sei dotata di una forza travolgente e vitto-
riosa. Sempre il diletto prosegue:
«Distogli da me i tuoi occhi: il loro sguardo mi turba». Il diletto dichiara di essere inti-
mamente percorso da un fremito di amore che è suscitato in lui dallo sguardo con cui la crea-
tura amata gli si rivolge. Gli occhi della donna soggiogano e avvincono nel sortilegio
dell’amore (v. 5). Questo rapimento è comunque già avvenuto come testimonia la cascata di
immagini con cui la bellezza dell’amata è descritta. Ritroviamo molte tessere del mosaico
tracciato in 4,1-3: i capelli fluenti sono come un gregge che si disperde scendendo dal monte
Galaad, i denti sono candidi e lineari come pecore che escono appaiate dal bagno, la guancia
è uno spicchio di melagrana (vv. 6-7). A questo punto l’Amore abbandona l’enumerazione
classica e compone due bozzetti vivacissimi, quello dell’harem (vv. 8-10) e del giardino delle
noci (vv. 11-12).

L’unica di sua madre (6,8-9)


«Sessanta sono le regine, ottanta le altre spose, le fanciulle senza numero. Ma unica è la
mia colomba la mia perfetta, ella è l’unica di sua madre, la preferita della sua genitrice.
L’hanno vista le giovani e l’hanno detta beata, le regine e le altre spose ne hanno intessuto le
lodi».
L’harem è immenso come quello di un grande vizir orientale, simile a quello di Salomone
(cf. 1Re 11,1-3): nel rango più alto stanno sessanta «regine», le principesse di sangue reale, le
preferite; al secondo livello ottanta concubine; sterminato è il terzo livello, quello delle ra-
gazze. Eppure questa parata di bellezze di ogni tipo e forma non può sostituire lei, l’«unica».
Questa unicità vale per ogni persona, per ogni creatura in quanto è portatrice di un dono che è
unico e insostituibile, nel senso che ogni creatura umana è amata in modo unico, eterno, irre-
vocabile. Quella colomba, che è sempre unica, è definita, ancora una volta, «la mia perfetta»,
perché resa capace di offrire il dono di se stessa come corrispondenza di amore all’Amore, il
dono «perfetto» atteso dallo Sposo. Tutto questo ad immagine di quel che avviene nella rela-
zione tra una creatura generata dal grembo della madre e la propria madre. Per la madre suo
figlio è la creatura più bella del mondo, per l’innamorato la sua donna è sempre la più splen-
dida, la prediletta, l’unica del mondo. Inoltre il rapporto madre-figlio è incondizionato: non si
può non essere figli del grembo da cui si è stati partoriti. Non è più revocabile, non è più con-
testabile, non è più reinterpretabile in base a riferimenti alternativi: è così!
Le donne dell’harem intonano un coro che canta la «beatitudine» della donna che è amata
in modo unico e totale (cf. Pr 31,28). Le regine e le altre spose ne hanno intessuto le lodi.
Proprio quando questa creatura amata esprime la perfezione di quella adesione al diletto, che
diventa l’unico riferimento, proprio allora essa esprime una sempre più ampia, ricca, feconda
capacità di comunicazione con le realtà del mondo. Sta sotto lo sguardo degli spettatori, ac-
quista capacità di dialogo, di conversazione, di comunicazione, d’intesa, di collaborazione
con la moltitudine delle creature di Dio nel tempo e nello spazio.

Fulgida come l’aurora (6,9-10)


Il coro degli amici si era rivolto alla creatura amata, nel tempo della ricerca, nel tempo del-
la immersione drammatica dentro alle oscurità del mondo con interrogativi petulanti, mirati a
fornire, dal loro punto di vista, il loro modo di intervenire in favore della creatura amata: è

21
inutile che tu cerchi, è inutile che tu vada inseguendo l’invisibile, l’irraggiungibile, chi sa mai
chi è, chi sa mai dove si è nascosto?
Adesso il coro degli amici è sbalordito: «Chi è costei che sorge come l’aurora, bella come
la luna, fulgida come il sole, terribile come schiere a vessilli spiegati?». Tutto è avvenuto alla
presenza del coro degli amici, che è stato spettatore di questa vicenda. Ha percepito, se non
proprio distintamente, il risuonare di quella voce, ha percepito lo svolgersi di una conversa-
zione nell’intimo della creatura amata. Si è reso conto che quella creatura è entrata nel dialo-
go cuore a cuore con la presenza invisibile e santa del Diletto. Si è consegnata nella unicità
definitiva di una relazione assoluta. Ma che è successo? Chi è costei? E il coro coglie la lu-
minosità di questa presenza che adesso la creatura amata può manifestare per il suo modo di
essere, per quel suo particolare coinvolgimento nella relazione cuore a cuore con il diletto. La
luce rinvia qui all’antico racconto della creazione: la prima creatura è la luce, tutte le creature
sono inserite nel contesto della luce, incastonate nella luce. Tutta la creazione viene illumina-
ta in rapporto alla presenza di questa creatura che sorge come l’aurora, bella come la luna,
fulgida come il sole. La bellezza della creatura amata illumina il mondo, illumina la storia
umana e rende prezioso il valore di ogni creatura nel tempo e nello spazio.

Come giardino di noci (6,11-12)


Di nuovo la voce dell’Amato: «Nel giardino dei noci io sono sceso, per vedere il verdeg-
giare della valle, per vedere se la vite metteva germogli, se fiorivano i melograni. Non lo so,
ma il mio desiderio mi ha posto sui carri di Ammi-nadìb». L’Amore scende nel giardino del
cuore dell’amata e scruta i teneri germogli della vita e gli incantevoli fiori dei melograni. Si
tratta di un giardino particolare, quello delle noci. E’ l’unica volta nella Bibbia che questo
albero viene nominato; esso non era indigeno della Palestina ma del Caucaso e della Persia da
dove era stato importato in Israele durante l’epoca post-esilica. Il cuore dell’amata è quindi
un parco raffinato, regale. Inoltre il noce fa maturare frutti capaci di durare per tutto l’inverno
– e anche oltre! –; sono i frutti dell’amore ormai maturati dal lungo cammino, provato dal
contatto con il mondo. Abbandonando tutte le donne del mondo lo sposo è, allora, penetrato
nel giardino delle meraviglie. Là trova freschezza, fecondità. Lo Sposo, trasportato
dall’ardore del suo amore, si è lanciato in un specie di folle corsa come sui carri di un princi-
pe (Ammi-nadìb).

La danzatrice (7,1)
«Volgiti, volgiti, Sulammita, volgiti, volgiti: vogliamo ammirarti. Che ammirate nella Su-
lammita durante la danza a due schiere?». Il coro è stupefatto, incantato; prende nuovamente
la parola per dichiarare la propria ammirazione nei confronti di una creatura divenuta danza-
trice. Sulammita probabilmente è il femminile di Salomone, il pacifico. Questa creatura è pa-
cificata, tutto deriva da shalom, pace.
Questa creatura pacificata è impegnata nei passi, nei movimenti, nelle dinamiche che dan-
no forma a una danza sempre più raffinata. E’ proprio vero: dopo tutto quello che è accaduto,
questa creatura si è divenuta oramai esperta nella danza. E’ passata attraverso le sue corse, i
suoi affanni, le sue ricerche e le sue cadute, i suoi inseguimenti e i suoi smarrimenti, in ma-
niera sempre più devastante e tragica, ma ha imparato a danzare. D’altronde, cosa è mai la
danza se non un certo modo di cadere che trasforma l’evento rischiosissimo di chi scivola,
precipita, sprofonda nel vuoto, in una evoluzione armoniosa, in un salto disinvolto? Quella
caduta è trasformata in una evoluzione positiva che consente un progresso imprevedibile
nell’arte del movimento e nella possibilità della comunicazione. La danza è un perfeziona-
mento sempre più raffinato di quella che già è l’arte del camminare. Camminare è proprio
questo cadere nel vuoto in modo tale che la caduta si trasforma in avanzamento. Il bambino
impara a camminare cadendo, poi un passo dopo l’altro e la caduta è trasformata in una cre-
scita. Dal camminare si giunge al salto, alla danza, all’armonia raffinata, disinvolta, movi-
mento che pervade lo spazio, che attraversa i tempi. Questa creatura è una creatura danzante:

22
ha imparato a scendere e salire, ha imparato a vivere al ritmo della Pasqua: morte e resurre-
zione. Questa creatura ha trovato nell’incontro con il diletto lo slancio di un salto che la libe-
ra, che anzi la rende sempre più vivace e intraprendente in un disegno di vita che si dispiega
nelle misure del tempo e dello spazio. E’ la Pasqua del Signore, l’evento decisivo che sinte-
tizza tutto nella storia umana ed è il segno definitivo di una danza definitiva, così come il Fi-
glio è disceso ed è risalito, è morto ed è risorto.
Ora il ritmo della danza è stato imposto alla storia dell’umanità e la creatura amata si
muove ormai a questo ritmo, cade e sale a questo ritmo, muore e risorge a questo ritmo. E’
creatura immersa nel vortice danzante che l’evangelo ha suscitato una volta per tutte nella
storia degli uomini. E’ questo che il coro ammira in lei.

La bellezza della creatura danzante (7,2-9)


E adesso di nuovo il diletto parla di lei. L’elogio parte dai piedi, perché è creatura danzan-
te. In 4,1-5 il diletto era partito dal volto.
L’amata è simile ad una principessa nella raffinatezza delle sue calzature, un capo di abbi-
gliamento raro e costoso in Oriente (cf. Gdt 16,9; Is 52,7). Le curve dei fianchi, flessuosi nei
moti ritmici della danza, sono un capolavoro di artista. Il bacino (il vocabolo in ebraico indica
anche l’ombelico, il pube e la sessualità femminile) è come una coppa levigata e perfetta
colma di aromi e di bevande inebrianti (v. 3). Il ventre (o l’addome) è comparato per la sua
pelle candida e dorata al grano e ai gigli, un simboli di fertilità33. I seni, come in 4,5, sono
mobili e perfettamente uguali come se fossero due gemelli di gazzella (v. 4). Il collo candido
si slancia verso il cielo come una torre d’avorio, il materiale prezioso e aristocratico, caro alle
regge orientali34. Gli occhi sono come due specchi d’acqua situati nei pressi della città tran-
sgiordanica di Hesbon, antica capitale degli Amorrei, passata poi alla tribù ebraica di Ruben.
Due occhi limpidi, luminosi come un lago che riflette il cielo ma anche, come il poeta sugge-
risce allusivamente attraverso il nome ebraico hešbôn che significa «intelligenza», «compren-
sione», «attenzione», «riflessione», due occhi ammiccanti e pieni di intelligenza35. La descri-
zione continua col naso confrontato – secondo gusti tipicamente orientali – col Libano che
incombe come una torre di guardia sulla Siria e sulla sua capitale Damasco: prominenza, ma-
estosità ma anche candore («Libano» in ebraico significa anche «bianco»). Ed eccoci al capo
che rimanda ad un altro dato topografico notissimo, il Carmelo (letteralmente «la vigna di
Dio», cioè «la vigna fertile» per eccellenza), denso di vegetazione e quindi simile ad una ca-
pigliatura folta ed elegante (v. 6). Le chiome sono d’un fulvo acceso simile alla porpora men-
tre le trecce sono così affascinanti da impigliare un re (il Diletto) nelle loro dolci catene.
Da notare che in questa descrizione della bellezza dell’amata i riferimenti geografici alla
terra d’Israele hanno un sapore ecumenico: le località stanno in zone dell’estremo nord e
dell’estremo oriente, zone di passaggio che rinviano ad altri territori. La vitalità, la fecondità
di cui dà prova la creatura divenuta danzatrice, esprime una singolare e inesauribile, apertura
ecumenica. E il diletto se ne compiace, e le conferisce una missione che è in grado di orien-
tarsi in tutte le direzioni senza timore.
E ancora: «Quanto sei bella e quanto sei graziosa, o amore, figlia di delizie! La tua statu-
ra rassomiglia a una palma e i tuoi seni ai grappoli. Ho detto: “Salirò sulla palma, coglierò i
grappoli di datteri; mi siano i tuoi seni come grappoli d’uva e il profumo del tuo respiro co-
me di pomi”». E’ un’esclamazione di rapimento per questa creatura deliziosa. Essa si erge ora
in tutta l’eleganza della sua linea. Il pensiero del poeta corre all’albero più slanciato e più no-
bile della vegetazione subtropicale, la palma, che è una specie di stemma nazionale di Israele.
Ai grappoli di datteri della palma sono comparati i seni che successivamente sono rappresen-
tati come grappoli d’uva (v. 9). Lo Sposo immagina di salire su questa palma viva, di strin-
33
Nella tradizione musulmana si dice che il primo uomo era dello stesso colore del grano.
34
Ad esempio Samaria, come è stato documentato anche da Am 3,15 e dai reperti archeologici.
35
La designazione topografica «presso la porta di Bat-Rabbìm» (v. 5c) ci è completamente ignota.

23
gerla a sé, di inebriarsi del suo profumo, di gustare i suoi frutti.

Uniti per sempre (7,10-8,4)


Il diletto manifesta quindi la sua volontà di unione con l’amata. Vuole sposare la sua crea-
tura fino alla pienezza della comunione, là dove il diletto condivide la discesa, lo sprofonda-
mento, l’inabissamento della sua creatura. E’ talamo nuziale l’albero su cui il diletto vuole
salire per portare a compimento la sua intenzione d’amore.
E il versetto 10 aggiunge: «Il tuo palato è come vino squisito». Il diletto offre un bacio di
amore, offre se stesso per una comunione d’amore sigillata nella comunione con la morte del-
la creatura umana, perché questa comunione sia finalmente sorgente definitiva ed inesauribile
della vittoria sulla morte. E’ la vittoria della creatura redenta e sposata, che ha imparato a
danzare e a vivere al ritmo del vangelo.
«…che scorre dritto verso il mio Diletto e fluisce sulle labbra e sui denti!». E’ la creatura
che risponde con il suo sì, con il suo amen, con la sua adesione piena, risoluta, definitiva. Ri-
torna quella dichiarazione di appartenenza che conosciamo: «Io sono per te, come tu sei per
me». E’ il sì della creatura che si consegna, che oramai si immerge nella comunione d’amore
con il Diletto che è stato innalzato sull’albero: «Quando sarò innalzato attirerò tutto a me»
(Gv 12,32).
La creatura prosegue: «Io sono per il mio diletto e la sua brama è verso di me». Il termine
brama, (teshûkâ), è lo stesso che compare nell’antico racconto del peccato, quando Dio si ri-
volge alla donna e le dice: «Partorirai con il sudore della tua fronte, sarai sottoposta all’uomo
e verso di lui sarà la tua brama» (cf. Gen 3,16). Qui tutto è ribaltato. La brama del Diletto è
rivolta verso la creatura, che dice: «La tua brama è verso di me». Quella brama che in base
alla sentenza pronunciata dal Creatore nel giardino, segna lo stato di debolezza e di sudditan-
za in cui vive la donna, qui diventa la brama del Diletto per me.
«Vieni, mio diletto, andiamo nei campi, passiamo la notte nei villaggi. Di buon mattino
andremo alle vigne; vedremo se mette gemme la vite, se sbocciano i fiori, se fioriscono i me-
lograni: là ti darò le mie carezze!». Questa creatura oramai è rassicurata; infatti la relazione
d’amore che la lega al Diletto è continua, stabile, per cui sempre e dappertutto questo vincolo
di amore sarà confermato: nei campi come nei luoghi abitati, nei villaggi come nelle città, di
notte e di giorno, in qualunque momento e in qualunque contesto. Questo è il motivo per cui
questa creatura si sta dedicando alla missione che ha ricevuto per attraversare la storia umana
al ritmo del vangelo pasquale. Infatti, è a casa propria dappertutto ed è puntuale in ogni mo-
mento, perché in ogni luogo e in ogni tempo il Diletto è il compagno che la conferma nella
pienezza di un amore indissolubile.
E prosegue: «Le mandragore mandano profumo; alle nostre porte c’è ogni specie di frutti
squisiti, freschi e secchi; mio diletto, li ho serbati per te». Questa creatura non teme i tempi in
cui non ci sarà frutta fresca, perché c’è la frutta secca, ogni specie di frutti squisiti, freschi e
secchi. Sono i frutti che serba per il Diletto.
E finalmente: «Oh se tu fossi un mio fratello». Questa invocazione rivolta al diletto allude
esplicitamente al desiderio di consanguineità fraterna con lui. Una tale invocazione è protesa
verso l’incarnazione. Precedentemente il Diletto aveva detto della creatura che è sua «sorel-
la»; così l’ha interpellate più volte. Qui è la prima volta, però, che la creatura si rivolge al Di-
letto in questi termini. Il fatto è che, passando attraverso la Pasqua di morte e di risurrezione,
la creatura è ormai divenuta «carne della sua carne e ossa delle sue ossa» (cfr. Gen 2,23).
La creatura ormai condivide la vita del Diletto, così come i fratelli e le sorelle sono coin-
volti in questa relazione che non può essere più revocata. Non si può non essere fratelli e so-
relle di coloro che sono nati dallo stesso grembo e da cui siamo nati noi. Per il fatto che ci
sono, sono fratelli, sono i miei fratelli.
«Se tu fossi un mio fratello, allattato al seno di mia madre! Trovandoti fuori ti potrei ba-
ciare e nessuno potrebbe disprezzarmi. Ti condurrei, ti introdurrei nella casa di mia madre;
m’insegneresti l’arte dell’amore. Ti farei bere vino aromatico, del succo del mio melograno.

24
La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia». La creatura chiede al diletto
di starle accanto nella fraternità della carne umana; una fraternità che è sigillata in forza
dell’appartenenza ad un unico grembo, che genera per la vita che non muore più. Il sepolcro,
che accomuna nella morte, diventa grembo che genera per la vita che non muore mai. A que-
sto fratello la creatura amata potrà rivolgersi per essere informata circa quel maestro interiore
che sarà in grado di custodirla nella comunione con lo sposo nella fecondità dell’amore.
Questo è il linguaggio con cui Gesù durante l’ultima cena si rivolge ai discepoli e annun-
cia loro l’invio dello Spirito Santo, che insegnerà loro ogni cosa, così da renderli capaci di
accogliere, di custodire, di assimilare il vangelo dell’amore che ereditano da lui (cf. Gv
14,25; 16,13). Allora tutti gli uomini che muoiono saranno chiamati a condividere la vittoria
sulla morte del «fratello»: saranno chiamati a nascere come figli dell’unico Padre.
Avviene così che il Signore, risorto da morte una volta per sempre, si rivolga a Maria di
Magdala in questi termini: «Va’ dai miei fratelli e dì loro: Io salgo al Padre mio e Padre vo-
stro, Dio mio e Dio vostro» (Gv 20,17; cf. Mt 28,10). Ha inizio così la corsa
dell’evangelizzazione.
Alla fine del quinto poema, la creatura si consegna, si abbandona: «La sua sinistra è sotto
il mio capo e la sua destra mi abbraccia». Questo è un atto di consegna, un affidamento allo
Sposo. La creatura ha imparato a danzare, ha imparato a morire. Non si sta semplicemente
addormentando, sta consegnando la propria morte a colui che è fratello di tutti gli uomini
chiamati a nascere nella comunione con lui per la vita che non muore più.
E finalmente il diletto chiude il quinto poema con questa dichiarazione: «Io vi scongiuro,
figlie di Gerusalemme, non destate, non scuotete dal sonno l’amata, finché non lo voglia».
Un versetto che ci riporta ai versetti che concludevano il primo e il secondo poema (2,7 e
3,5). C’è però una variazione: da parte del Diletto questa è adesso una dichiarazione di fidu-
cia nella creatura che a lui si è affidata.

EPILOGO
(8,5-7)

Chi è? (8,5ab)
Il v. 5 si apre con un interrogativo che dobbiamo senz’altro attribuire alla voce del coro,
che è stato spettatore fin dall’inizio. Adesso ci invita a contemplare l’esito della grande av-
ventura: la creatura evangelizzata è ormai pronta per affidarsi all’amore che riceve e per offri-
re la libertà della propria risposta fino a morire e a risorgere nella pienezza dello Spirito San-
to, in comunione con il Figlio, benedetto per la gloria del Padre.
«Chi è colei che sale dal deserto, appoggiata al suo diletto?». L’interrogativo formulato
dal coro rievoca momenti della storia della salvezza esemplari: l’esodo, il viaggio attraverso
il deserto fino al Sinai e poi fino alla terra della promessa; il ritorno dall’esilio, dopo eventi
quanto mai drammatici e sconvolgenti: la terra invasa e devastata, la popolazione deportata, il
popolo di Dio disperso nei territori dei pagani. «Chi è colei che sale dal deserto?» Questa
traversata del deserto per risalire è la chiave interpretativa di tutta la storia umana. E’ la storia
dell’umanità che precipita fino alla morte? Storia di smarrimento, di schiavitù e di esilio?
Storia di perdizione? Non è così! Questa è storia di ritorno, questa è storia di risalita, questa è
la storia della conversione, storia di ritorno alla pienezza di vita. Il Diletto ha reso questa cre-
atura testimone che porta in sé i frutti della vittoria conseguita dall’Amato. Questa creatura
evangelizzata e redenta che sale dal deserto ha acquisito ormai una fisionomia missionaria.
L’epilogo ci aiuta a mettere a fuoco il dato ormai presente nella storia umana, il dato nuo-
vo e significativo della vita cristiana con le responsabilità che competono a ciascuno e che
competono al popolo cristiano nella sua interezza. La presenza di quella comunità di credenti
è identificabile solo in rapporto al Diletto in quanto appartenente a lui; alle braccia del diletto

25
quella creatura è «appoggiata», presente nella storia umana come testimone del vangelo.

Risvegliata e sigillata (8,5c-7)


«Sotto il melo ti ho svegliata; là, dove ti concepì tua madre, là, dove la tua genitrice ti
partorì». Il Diletto risponde alla domanda del coro rivolgendosi alla creatura amata in modo
pubblico. Anche il coro ascolta, anche noi possiamo inserirci in questa sua comunicazione. Il
diletto la definisce come creatura risvegliata. E’ il risveglio nel senso di una rigenerazione, di
una nuova nascita: ti ho risvegliata là dove ti concepì tua madre, là dove la tua genitrice ti
partorì, tu sei creatura nata per quella vita nuova, piena, definitiva, che oramai è vita non più
prigioniera della morte, non più condizionata dalla morte, non più sottoposta al giudizio della
morte.
«Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio perché forte come la
morte è l’amore, tenace come gli inferi è la passione...».
Il diletto dice alla sua creatura: tu sei creatura sigillata. E’ un linguaggio che sintetizza tut-
to un linguaggio di amore, che sintetizza tutta una conversazione di amore, tutta una storia di
comunione. Infatti il sigillo di metallo era portato con sé dal proprietario o al dito (cf. Gen
4,1,42; Ger 22,24) o al braccio con un bracciale o legato ad una catenella e pendente dal collo
(cf. Gen 38,18; Pr 3,3) così da cadere sul cuore, segno della coscienza di una persona e delle
sue decisioni. L’amata, avvinghiata al diletto, chiede dunque di venir identificata con lui in
un’unità inseparabile, definitiva, indissolubile (cfr. Ger 31,22). Qui sta tutta la storia della
salvezza: la comunione, l’adesione tra l’Amato e l’amata: «Il mio diletto è per me ed io per
lui». Una sigillatura che impregna di unguento, di profumo, di quella comunicazione vitale
che è propria di un amore vissuto nell’intimo. La sua appartenenza al Diletto non può più es-
sere infranta neppure dalla morte. E se andrà morendo, questo avverrà per testimoniare il do-
no d’amore che l’ha svegliata, rigenerata, introdotta nella vita che non muore.
Adesso il diletto dice della sua creatura: «tu sei confermata». Questo significa che in ogni
situazione di luogo e di tempo, ci sarà un dono d’amore che ti riguarda, ci sarà una responsa-
bilità di amore che ti impegna, ci sarà un servizio d’amore che ti è affidato. L’esperienza
dell’incontro con il Diletto ha conferito alla quotidianità della nostra vicenda umana la fecon-
dità di un amore eterno. «Forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi è la passione:
le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma del Signore!». L’appartenenza della sposa
allo Sposo divino non può essere infranta neppure da un avversario potente, neppure
dall’arci-nemico per eccellenza: la morte. Amore e morte si fronteggiano ed entrambi grida-
no: «Dammi! Dammi! Non si saziano mai, non dicono mai: Basta!» (Pr 30,15). Ma l’amore
con la sua passione ardente ed esclusiva vince la morte. Anzi le conferisce anche una preziosa
affascinante bellezza: è possibile morire per amore.

Fiamma del Signore


Le fiamme dell’amore sono fiamme divine36. In tutto il Cantico dei Cantici il nome del
Signore non è mai citato. Qui è la prima ed unica volta che compare; e siamo alla fine. La
creatura è diventata una vampa di fuoco (una «fiamma colossale») invincibile, capace di bru-
ciare tutto, perché partecipa della stessa forza di Dio, essendo di sua natura vita come Dio è
per eccellenza il vivente.
«Le grandi acque non possono spegnere l’amore né i fiumi travolgerlo ». Per 28 volte
nell’AT le «grandi acque» sono l’immagine dell’abisso primordiale, del caos, cioè del nulla,
ancor più incontenibile del fuoco che da esse è spento. Il pensiero corre alla narrazione bibli-
ca del diluvio (cf. Gen 6-8). Eppure l’amore riesce a resistere a ogni avversario. E’ come la
roccia contro cui la rabbia dei fiumi gonfi per le piogge o per il disgelo si deve infrangere (cf.
Sal 46). Le prove della storia, passate o future, non potranno mai staccare la sposa dal suo
36
Qui compare un’espressione («una fiamma del Signore») che, in ebraico, contiene l’abbreviazione –jah, che
sta per il nome del Signore.

26
Amato. Entrambi passeranno attraverso tutti gli «inferni» e tutte le paludi del dolore, della
crisi, della desolazione, conservando intatta la fiamma del loro amore che non conosce tra-
monto: «Chi ci separerà dunque dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la
persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?… In tutte queste cose noi siamo più
che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita,
né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né al-
cun’altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore»
(Rm 8,35-39).
Se questa è la potenza dell’Amore – invincibile – deriva pure che esso è impagabile. Non
c’è nulla che possa essere dato in cambio dell’amore.

APPENDICI
(8,8-14)

Ci sono tre appendici brevissime che, da diversi punti di vista, ci permettono di mettere a
fuoco alcune considerazioni ricapitolative di tutto il percorso che abbiamo compiuto.

Ancora non ha seni (8,8-10)


«Una sorella piccola abbiamo, e ancora non ha seni. Che faremo per la nostra sorella,
nel giorno in cui se ne parlerà?». Questa è la situazione: una sorellina che crescerà e i fratelli
sono in pensiero per lei in quanto è ancora piccola. Ma prima o poi qualcuno si interesserà a
lei: che faremo? Questa figura femminile ha un valore simbolico: rappresenta la situazione in
cui si trova la città per eccellenza, Gerusalemme. La città è piccola e indifesa, la situazione è
stata sperimentata in modo molto doloroso dopo il rientro dall’esilio. Che faremo con questa
sorellina nel giorno in cui si parlerà di lei? Ed ecco i fratelli dicono: «Se fosse un muro, le co-
struiremmo sopra un recinto d’argento; se fosse una porta, la rafforzeremmo con tavole di
cedro». Sono risoluti, ci penseremo noi a difenderla.
Ma adesso è lei, la sorellina, a prendere la parola: «Io sono un muro e i miei seni sono co-
me torri! Così sono ai suoi occhi come colei che ha trovato pace!». Io, cioè, sono una creatu-
ra pacificata. E spiega i motivi di questa sua identità: «Non siete voi che mi tenete d’occhio e
non sono gli occhi di possibili aggressori o di qualcuno che vuole insidiarmi, che mi mettono
in difficoltà. Sono gli occhi del Diletto che mi vedono, che mi riconoscono, e sono gli occhi
che illuminano, sono gli occhi che conferiscono bellezza, sono gli occhi dell’amico,
dell’amante, del Diletto. Ai suoi occhi io ho trovato pace, e nella mia pacificazione sono inat-
taccabile, inespugnabile. Nessuno potrà turbare la pace che ormai mi è stata conferita e che
mi rende ormai adulta, come avviene per quella città che è ben raccolta dentro la cinta delle
sue mura, mentre svettano le merlature delle sue torri» (cf. Is 52,7-9).

La vigna di Salomone (8,11-12)


«Una vigna aveva Salomone in Baal-Hamòn». Qui è evocato il re Salomone, che tra le al-
tre imprese aveva compiuto anche quella di organizzare la coltivazione di terreni preceden-
temente riarsi, poi opportunamente irrigati, così da rendere possibile l’impianto della vite.
«Egli affidò la vigna ai custodi; ciascuno gli doveva portare come suo frutto mille sicli
d’argento». E adesso: «La vigna mia, proprio mia, mi sta davanti». Nel primo poema la crea-
tura amata – sudata, oscura, desolata -, mentre arrancava alla ricerca del Diletto, aveva di-
chiarato di essere venuta meno al suo dovere, così come i suoi fratelli glielo avevano impo-
sto: non aveva custodito la sua vigna. Adesso afferma : «La vigna mia, proprio mia, mi sta
davanti: a te, Salomone, i mille sicli e duecento per i custodi del suo frutto!». Succede, dun-
que, che quella vigna la quale, che secondo il programma di Salomone, dovrebbe rendere
mille sicli d’argento, adesso mi sta davanti, in quanto è stata donata per amore, ed è ormai di
mia proprietà. Da questa vigna mia, proprio mia, che rende mille sicli per Salomone, e poi

27
duecento sicli per i custodi, se ne trae una ricchezza inesauribile. Ormai siamo entrati nel cir-
cuito si relazioni gratuite, per cui tutti i calcoli elaborati da Salomone sono radicalmente su-
perati, ormai è ben altra economia quella che è stata instaurata. Questa vigna è mia: acconten-
tiamo Salomone con i mille sicli e ce ne sarà per tutti i custodi.

Nei giardini (8,13-14)


«Tu che abiti nei giardini i compagni stanno in ascolto fammi sentire la tua voce».
Qui parla il Diletto; poi ascolteremo la voce della creatura. E’ un dialogo ridotto ai suoi
termini essenziali. Siamo nel giardino, sono anche convocati degli osservatori, i compagni
stanno in ascolto. Il diletto chiede alla creatura amata di fargli udire la voce. E’ un invito sol-
lecito e affettuoso. E’ quasi una implorazione. Il diletto già altre volte ci era apparso nei panni
di un mendicante: parlami, dimmi qualche cosa, fammi udire la tua voce, e falla udire agli
amici che sono in ascolto affinché festeggino la tua presenza nel giardino. Ed ecco la risposta:
«Fuggi, mio diletto, simile a gazzella o ad un cerbiatto, sopra i monti degli aromi!». In
2,17 la creatura amata aveva implorato il diletto così: ritorna o mio diletto, sui monti degli
aromi. Qui dice: fuggi. Mentre dice questo, compie il gesto di chi lascia la presa, è una crea-
tura che non stringe più, è una creatura che non si aggrappa al diletto per trattenerlo: «Va’,
mio diletto».
Questo significa che questa creatura è pronta ad abbandonarsi senza più pretendere alcuna
garanzia di sicurezza: «Va’, io non ti trattengo più». E’ l’atto con il quale questa creatura di-
mostra di essere veramente matura. Si fida dell’amore che il Diletto le ha manifestato. Nel
vangelo secondo Giovanni, nel giardino, il Signore dice a Maria di Magdala: «non mi tratte-
nere, perché io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro» (cf. Gv 20,17). Sia-
mo qua: sali al Padre, non ti tratteniamo, perché ormai apparteniamo a te, nella totale gratuità
dell’amore per cui il Padre tuo è Padre nostro, il Dio tuo è Dio nostro.

28

S-ar putea să vă placă și