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La parola fragile deriva dal latino frangere, che significa rompere. Spesso la troviamo
all’esterno di imballi di oggetti delicati, un avvertimento ad usare con cautela. Fragile
è un vetro, un fiore, il carattere o la sensibilità di una persona. Si sente spesso dire
“ha un carattere fragile”, “è fragile di salute”; è anche usato come sinonimo di debole,
gracile, inconsistente. Da sempre il concetto di fragilità è unito al destino umano del
perire, del morire: “Piccola candela, su, spegniti! altro non sei che un’ombra vagabonda,
la vita, un povero attore come te che si dimena sopra una scena, un’ora e poi ne cessa
la voce, il raccontare di un idiota tra strida e scoppi di furore, privo di senso; un
niente”, così si esprimeva William Shakespeare nell’atto quinto del Macbeth.
Quello della fragilità è un tema che mostra molto bene in che modo, nel mondo attuale,
stiamo assistendo ad un cambiamento di paradigma. Stiamo entrando, secondo molti
sociologi, nella post-modernità. I periodi storici del 17°, 18° e poi nel 19° secolo, fino
alla metà del 20° secolo furono epoche che mettevano l’accento sulle idee cartesiane;
l’uomo era padrone e possessore della Natura, con una visione fondamentalmente
aggressiva nei confronti del sé, dell’altro e della Natura stessa; una visione aggressiva
che si inoltrava anche agli dei, al divino. Attualmente gli studi sui giovani, sulle nuove
generazioni evidenziano una saturazione verso il mondo moderno; si inizia ad avvertire
la necessità di tornare ad un qualcosa di più dolce, tranquillo, soft, slow, e la grande
tematica della fragilità si iscrive i queste coordinate. Per dirla in breve, si sente la
necessità di avere un altro rapporto con il mondo, diverso, meno intrusivo. Per usare
un termine greco si potrebbe dire una metanoia, ovvero una profonda revisione nel
modo di pensare, di sentire, di giudicare le cose; una nuova concezione del mondo ed
un nuovo modo di rapportarsi al mondo. Si parla di downshifter, di persone che
vogliono vivere ai margini della società puntando ad un recupero del proprio tempo,
della propria esistenza; talvolta si sente parlare di decrescita felice.La sensibilità di
noi moderni è solita accostare la fragilità ad un’incapacità dell’individuo di
fronteggiare i problemi che la vita gli pone davanti.
Tale impietosa lettura della fragilità umana è aspramente criticata dallo psichiatra
Vittorino Andreoli. In un illuminante passo tratto dal suo saggio L’uomo di vetro. La
forza della fragilità lo studioso mette in discussione alcune delle più comuni idee
sull’idea di fragilità. Andreoli discute il fatto che la fragilità debba essere
accomunata alla debolezza, sostenendo che invece la fragilità ha il vantaggio di
generare la comprensione dei bisogni propri dell’essere umano. Secondo lo studioso,
una società che riflette sulle proprie fragilità diventa più forte delle altre che invece
le ignorano. Il motivo è semplice: lo studio e l’analisi delle debolezze di un sistema
conduce inevitabilmente ad un miglioramento dello stesso. Ciascun uomo non dovrebbe
celare a se stesso le proprie debolezze, bensì viverle e mostrarle fieramente agli
altri. Una società che convince gli uomini a nascondere e vergognarsi delle proprie
fragilità, nota giustamente Andreoli, è una società che li vuole succubi di un sistema di
forza, che decide di usare la violenza della paura piuttosto che la gentilezza del
dialogo e del confronto. La fragilità per lo studioso è, inoltre, capace di regalare alla
società civile la salute.
Un’altra interessante riflessione sul tema della fragilità che vorrei richiamare, infine,
proviene dal filosofo latino Lucio Anneo Seneca. Anch’egli ragiona sulla condizione di
fragilità dell’animo umano, sottolineando l’innata debolezza e fragilità dell’uomo che
teme la morte e ha paura del tempo che fugge. Il pensiero del filosofo sulla vita,
infatti, si sofferma soprattutto sul senso della fugacità del tempo che sembra
accentuarsi sempre più col trascorrere degli anni.
La riflessione di Seneca, diversamente da quella di Andreoli, guarda soprattutto agli
aspetti “umani” della fragilità piuttosto che a quelli “sociali” e “comunitari”. Entrambi
comunque, per mezzo delle loro riflessioni, sono capaci di restituirci un’immagine
positiva della fragilità umana. L’uomo che rifiuta le proprie fragilità non è un uomo
forte ma un uomo che rifiuta uno dei tratti distintivi della sua umanità. Pertanto, in
conclusione, possiamo dire che la dignità dell’uomo consiste proprio nel riconoscimento
delle proprie debolezze, e che la fragilità è la grandezza dell’uomo.