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Lezione 1 (Rizzo) 7/03/2017

Metodi di analisi quantitativa nelle macchine


Si prenda come riferimento il ciclo Joule reale di un impianto a gas:

Figura 1

Il rendimento adiabatico di compressione è in genere pari al rendimento adiabatico


di espansione. Quando il rendimento adiabatico è unitario (ciclo ideale) il rendimento
complessivo del ciclo cresce sino a tendere al rendimento di Carnot (cresce
monotonicamente). Quando invece i rendimenti adiabatici si abbassano la curva del
rendimento parte da zero raggiunge un massimo e ritorna a zero. Si supponga di
avere due curve la prima in colore rosso e la seconda in colore ciano, ottenute per
due valori di rendimento adiabatico differenti: 0.85 e 0.90, pertanto c’è una differenza
del 5%; in tal caso il rendimento complessivo dell’impianto passa da 0.30 a 0.40
aumentando del 25 %. Ciò fa capire che, molto spesso, anche una piccola variazione
nella stima del rendimento di un componente meccanico (ad esempio turbina e/o
compressore) può comportare una variazione significativa sul rendimento
dell’impianto complessivo. È dunque necessario stimare correttamente queste
grandezze giacché l’errore fatto su quel dato si va a moltiplicare quando lo si proietta
su tutto l’impianto: un’approssimazione dell’1 % sulla stima iniziale può trasformarsi
un errore molto elevato (anche del 15 % sul risultato finale).
Com’è noto la potenza lorda impegnata, misurata in 𝑀𝑊, degli impianti termoelettrici
(impianti a vapore, impianti a gas, …) al 2001 è pari a 26628 𝑀𝑊. Si supponga di
aumentare il rendimento degli impianti di produzione da 0.40 a 0.41. Il rendimento
globale si definisce nella maniera seguente:
𝑃𝑢
𝜂𝑔 =
𝑚̇ 𝑐 ∙ 𝐻𝑖
Dove:
𝑃𝑢 = 𝑝𝑜𝑡𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑢𝑡𝑖𝑙𝑒
𝑚̇ 𝑐 = 𝑝𝑜𝑟𝑡𝑎𝑡𝑎 𝑑𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑏𝑢𝑠𝑡𝑖𝑏𝑖𝑙𝑒 (𝑐𝑜𝑛𝑠𝑢𝑚𝑜)
𝐻𝑖 = 𝑝𝑜𝑡𝑒𝑟𝑒 𝑐𝑎𝑙𝑜𝑟𝑖𝑓𝑖𝑐𝑜 𝑖𝑛𝑓𝑒𝑟𝑖𝑜𝑟𝑒

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È possibile dunque ricavare la portata di combustibile (consumo) dalla precedente
relazione:
𝑃𝑢
𝑚̇ 𝑐 =
𝐻𝑖 ∙ 𝜂𝑔
Per cui volendo valutare la differenza di portata massica di combustibile (risparmio
di combustibile) si avrà (𝐻𝑖 = 42 𝑀𝐽/𝑘𝑔):
𝑃𝑢 𝑃𝑢 26628 26628
𝛥𝑚̇ 𝑐 = − = − = 38 𝑘𝑔/𝑠
𝐻𝑖 ∙ 𝜂𝑔 𝐻𝑖 ∙ (𝜂𝑔 + 𝛥𝜂𝑔 ) 42 ∙ 0.40 42 ∙ (0.40 + 0.01)
= 3283 𝑡/𝑔 = 1182 ∙ 106 𝑡/𝑎𝑛𝑛𝑜
Da questo esempio si evince che una variazione minima dell’1% comporta un
risparmio notevole in termini di combustibile (piccoli errori di valutazione possono
comportare grandi effetti, per tale motivo è necessario essere precisi nel calcolo del
rendimento o di qualsiasi altra grandezza di interesse, soprattutto quando si tratta di
impianti con costi elevati).
Il limite dei modelli analitici semplificati utilizzati per la descrizione di molti fenomeni
fisici, consiste in una rappresentazione troppo approssimativa della realtà. Un
esempio è rappresentato dallo studio delle turbomacchine in cui si fa molto spesso
ricorso all’ipotesi di flusso monodimensionale (un unico valore di tutte le proprietà
termofluidodinamiche relative ad una sezione); tale ipotesi funziona abbastanza
bene quando il fluido è ben guidato dalla palettatura (ad esempio nelle turbine di alta
e media pressione dove le palette sono abbastanza numerose e le palette sono
abbastanza basse). È evidente che volendo guidare in maniera adeguata il fluido ed
ottenere un flusso monodimensionale basterebbe realizzare le palette molto vicine:
tuttavia aumentando il numero delle palette aumenta anche l’attrito tra fluido e
macchina nonché l’ingombro. Tuttavia nella zona di bassa pressione l’ipotesi di
flusso monodimensionale cade essendo la paletta molto alta: in tal caso non è
possibile supporre che le condizioni di flusso all’interno della palettatura sono definite
unicamente da quello che accade nel baricentro; in tal caso il raggio del punto più in
alto della paletta è circa il doppio di quello più in basso, quindi a parità di velocità di
rotazione anche la velocità periferica nei due punti sarà differente (in alto sarà il
doppio rispetto a quella in basso); inoltre anche i triangoli di velocità costruiti non
sono più assimilabili al valore medio perché c’è una differenza sostanziale tra il valore
minimo e il valore massimo: volendo valutare ciò che accade più precisamente è
necessario abbandonare l’ipotesi di flusso monodimensionale.

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Figura 2

Un altro esempio è rappresentato dalla turbina idraulica Kaplan (turbina a flusso


assiale giacché nel rotore il fluido entra ed esce in direzione prevalentemente
assiale), in cui le pale hanno la possibilità di orientarsi; in tal caso le pale sono poche
e molto distanti tra loro ed è dunque difficile ipotizzare che sia in funzione del raggio
che in funzione della distanza tra una pala e l’altra tutto il flusso sia uniforme e
assimilabile a quello di un’ipotetica linea media (è una geometria piuttosto ampia e
dunque accadono cose molto più complesse).

Figura 3

È inoltre opportuno tenere presente che il fatto che due modelli differenti applicati
nello stesso punto di lavoro (a parità di condizioni) diano risultati simili non vuol dire
che tali modelli siano identici. Per esempio considerando il modello completo di
Navier-Stokes e quello di Eulero (in cui non si tiene conto della presenza delle forze
viscose) per valutare il flusso all’interno di una turbina, nel caso in cui essa lavori
nelle condizioni di progetto (portata e regime di giri assegnati da progetto:
funzionamento ottimizzato) i modelli forniscono il medesimo risultato e dunque sono
entrambi validi (essi prevedono in maniera corretta il fenomeno); tuttavia in un punto
diverso da quello di progetto, il modello più semplice (modello di Eulero) quasi non
si accorge delle variate condizioni operative prevedendo un flusso sostanzialmente
simile a quello di progetto, mentre il modello completo di Navier-Stokes, mette in
evidenza la formazione di vortici e lo sviluppo di un moto turbolento. In altre parole,
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modelli di vario livello di complessità, possono portare a risultati simili per alcune
condizioni operative, ma completamente differenti in altre condizioni (in quest’ultimo
caso è valido il modello più dettagliato e dunque più complesso, ovvero Navier-
Stokes). Il vero problema è riuscire a capire qual è il livello di semplificazione adatto
per un determinato caso.
Un altro esempio di forte approssimazione è rappresentato dal calcolo del
rendimento nel motore alternativo a combustione interna operante secondo il ciclo
Otto (motore benzina). Nel caso ideale, a partire dai seguenti dati:
𝑇1 = 300 𝐾 (𝑡𝑒𝑚𝑝𝑒𝑟𝑎𝑡𝑢𝑟𝑎 𝑖𝑛𝑖𝑧𝑖𝑎𝑙𝑒)
𝜌 = 10 (𝑟𝑎𝑝𝑝𝑜𝑟𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑣𝑜𝑙𝑢𝑚𝑒𝑡𝑟𝑖𝑐𝑜 )
𝑘 = 1.4
È possibile valutare le temperature di fine compressione (𝑇2 ) e di fine adduzione di
calore (𝑇3 ) diverse temperature:
𝑇2 = 𝑇1 ∙ 𝜌𝑘−1 = 300 ∙ 101.4−1 = 753.6
𝑇3 = 4414 𝐾
Inoltre si può valutare il rendimento del ciclo ideale attraverso la seguente relazione:
1 1
𝜂𝑖𝑑 = 1 − =1− = 0.6
𝜌𝑘−1 101.4−1
Nel caso reale la temperatura massima non è così elevata ed anche il rendimento si
abbassa notevolmente; in tal caso è necessario analizzare la catena dei rendimenti:
𝜂𝑔 = 𝜂𝑏 ∙ 𝜂𝑟 ∙ 𝜂𝑚 = 0.20 ÷ 0.35

𝜂𝑏 = 𝑟𝑒𝑛𝑑𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑏𝑢𝑠𝑡𝑖𝑜𝑛𝑒
𝜂𝑟 = 𝑟𝑒𝑛𝑑𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑟𝑒𝑎𝑙𝑒
𝜂𝑚 = 𝑟𝑒𝑛𝑑𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑚𝑒𝑐𝑐𝑎𝑛𝑖𝑐𝑜

Il rendimento 𝜂𝑏 è quello di combustione e tiene conto della parziale conversione


dell’energia chimica iniziale in energia termica.
Il rendimento 𝜂𝑟 è il rendimento reale che tiene conto del fatto che non tutta l’energia
termica viene convertita in energia meccanica, ma una parte viene ceduta a
temperatura inferiore sotto forma di calore (secondo principio della termodinamica:
limite di Carnot).
Il rendimento 𝜂𝑚 tiene conto che parte dell’energia raccolta al primo organo mobile
si dissipa per attrito o viene ceduta per l’azionamento degli organi ausiliari.

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Normalmente il rendimento che più penalizza il motore è il rendimento reale perché
non può arrivare all’unità perché limitato da una temperatura media di adduzione e
una di sottrazione. In alcuni casi può essere il rendimento meccanico perché se si è
fermi al semaforo col motore in moto il rendimento globale è zero perché tutta
l’energia è assorbita dagli ausiliari. Invece, se la candela va fuori uso invece diventa
zero il rendimento di combustione. In ogni caso anche nella migliore delle ipotesi si
è ben al di sotto del rendimento ideale.
All’interno di un motore a combustione interna ad accensione comandata (ma anche
nei motori Diesel) accadono una serie di fenomeni complessi; ad esempio nel
collettore di aspirazione:
 Il combustibile iniettato non vaporizza interamente, ma in parte si deposita
come film liquido sulle pareti (c’è un equilibrio dinamico tra il combustibile che
evapora e quello che si deposita sulle pareti)
 La combustione nel cilindro è turbolenta
 Flusso instazionario 3-D
 Fluido reattivo (reazioni chimiche)
 Scambio termico
 Formazione di emissioni inquinanti: parte dei vapori della benzina hanno
affinità chimica con il lubrificante che sta attorno alle pareti; quando cresce la
pressione a seguito della fase di compressione, parte della benzina tende a
legarsi chimicamente con il lubrificante non partecipando alla combustione e
quando la pressione decresce (alla fine della fase di espansione) essa viene
espulsa allo scarico sotto forma di idrocarburo incombusto (la temperatura
raggiunge valori bassi tali da non consentire la combustione)
 Tra le fasce elastiche e il cilindro ci sono piccole aree (gioco) nelle quali il
combustibile rimane intrappolato; giacché esso non è raggiunto dal fronte di
fiamma non viene combusto e viene espulso sotto forma di idrocarburo
incombusto
 Nel collettore di scarico avvengono fenomeni complessi con un flusso
tridimensionale, reattivo (a quelle temperature ci sono ancora reazioni
chimiche che avvengono), scambio termico, …
 Fenomeni complessi all’interno del catalizzatore
È bene notare che a partire dal 1970 sino ad oggi siano cambiati i limiti sulle
emissioni inquinanti prodotte dai motori riducendosi di un fattore 100 (o anche
più). La normativa odierna di riferimento attuale è la EURO 6.
Mentre i limiti sulle emissioni sono diventati più stringenti, è cresciuto il numero di
articolo scientifici riguardanti i motori a combustione interna, i modelli matematico
e il controllo elettronico (risposta della comunità scientifica).
Inizialmente il metodo di indagine e di studio di fenomeni complessi era di tipo
sperimentale (analisi sperimentali); le prime macchine nacquero per far fronte ad
alcune esigenze pratiche e solo successivamente è stato teorizzato il tutto e sono
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stati acquisiti gli strumenti per ottimizzarne il funzionamento. I rendimenti delle
prime macchine sviluppate erano bassissimi (anche dell’ordine dell’1 % e dunque
praticamente si buttava energia). Con il passare del tempo si è passati allo studio
dei fenomeni attraverso approcci analitici; tale approccio permette di risolvere un
problema in forma chiusa attraverso l’utilizzo di equazioni matematiche risolvibili
analiticamente; ciò però presuppone il ricorso a delle semplificazioni notevoli
allontanandosi dal processo reale. Il terzo ed ultimo passo è stato quello della
modellistica numerica in grado di fornire un modello di dettaglio più complesso e
dunque più vicino alla realtà (in tal modo si riescono a risolvere una buona parte
di problemi non risolubili a livello analitico). In realtà non bisogna pensare
semplicemente ad una successiva sostituzione di una metodologia con un’altra,
giacché la sperimentazione è comunque essenziale perché una volta costruito
l’oggetto dello studio è necessario verificare se esso risponde a quanto previsto
dal modello. D’altra pare la modellazione permette di risparmiare tempo e soldi in
quanto consente di evitare di costruire 50 prototipi differenti da testare, ma
solamente quei pochi che servono ancor più ad ottimizzarne il funzionamento.
Inoltre, sebbene l’approccio analitico talvolta non permette di arrivare a risultati
sufficienti, l’analisi dettagliata di una relazione matematica permette di capire le
dipendenze tra le diverse grandezze che altrimenti non sarebbero note in maniera
semplice (magari bisognerebbe fare 𝑛 prove sperimentali per poter capire qual è
il legame tra due grandezze). Una volta validato il modello esso ci permette di
evitare di eseguire sperimentazioni o magari effettuare test solo su pochi prototipi
(ad esempio su 2 − 3 motori differenti) anziché su molti (magari 20 − 30 motori).
Introduzione alla modellistica
Nel mondo antico l’interpretazione dei fenomeni naturali e l’approccio alla
conoscenza in generale era di tipo essenzialmente deduttivo, a partire da dogmi
religiosi (testo sacro) o dal sapere aristotelico (ipse dixit). La scoperta del metodo
scientifico viene generalmente attribuita a Galileo Galilei (1564 – 1642), sebbene
già in anni precedenti si iniziò ad investigare e ad osservare i fenomeni naturali.
Tale scoperta portò ad un cambiamento radicale rispetto agli anni precedenti in
cui prevaleva il concetto del “come deve essere” rispetto a ciò che si riusciva ad
osservare.
Bertrand Russell è stato il primo che ha codificato il metodo scientifico,
suddividendolo nelle seguenti fasi:
 Osservare i fatti significativi.
 Giungere tramite induzione ad una ipotesi (modello) che, se vera, deve
spiegare questi fatti.
 Dedurre da questa ipotesi delle conseguenze che si possono sottoporre
all’osservazione (è necessario sperimentare e verificare se quanto
supposto si realizza, riuscendo a ricavare una legge scientifica valida sino
a prova contraria).
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Si tenga presente che un metodo deduttivo indica un procedimento razionale che fa
derivare una certa conclusione da premesse più generiche: si parte da postulati o
principi primi e attraverso una serie di rigorose concatenazioni logiche, procede verso
determinazioni più particolari (dall’universale al particolare). Al contrario un metodo
induttivo è un procedimento che a partire da singoli casi particolari cerca di stabilire
una legge universale (dal particolare all’universale).
Da un punto di vista ingegneristico è necessario riuscire ad arrivare ad una
conoscenza sufficiente alla descrizione di un fenomeno con un buon livello di
accuratezza e non per forza alla conoscenza esatta del fenomeno stesso.
Un modello è un’immagine astratta di una parte e di alcuni aspetti della realtà e si
riferisce alla conoscenza in generale di ciò che si vuole studiare. Ciò significa che se
si realizza un modello in grado di prevedere il ciclo di pressione all’interno della
camera di combustione di un motore alternativo a combustione interna (MCI), esso
non sarà in grado di prevedere altri fenomeni quali: livello di rumorosità, emissioni,
…. La legge di Golomb aiuta ancora di più a capire la differenza tra modello e realtà
affermando che: “confondere un modello con la realtà sarebbe come andare in un
ristorante e mangiare il menù”. Dal punto di vista pratico, un modello è spesso utile
a capire la veridicità di dati ottenuti sperimentalmente.
Esiste una differenza sostanziale tra l’approccio tradizionale e quello basato sui
modelli nella risoluzione dei problemi.
Nel caso in cui si utilizzi un approccio di tipo tradizionale, si va in contro alla seguente
situazione:
 Impossibilità di risolvere le equazioni costitutive in forma completa: volendo
studiare un fenomeno complesso, quale la fluidodinamica in un motore a
combustione interna, è necessario risolvere equazioni differenziali alle derivate
parziali in generale non lineari (flusso instazionario, tridimensionale, …) per cui
non esistono soluzioni analitiche.
 Ricorso a modelli semplificati, spesso non abbastanza rappresentativi della
realtà: ciò è legato alla difficoltà e/o impossibilità nella risoluzione di equazioni
troppo complesse.
 Ampio ricorso alla costruzione di prototipi ed alla sperimentazione, con tempi
e costi elevati e risultati non sempre ottimali: per la realizzazione di prototipi è
necessario investire tempo e soldi e la soluzione che viene fuori dall’analisi di
n soluzioni differenti non è detto che sia quella ottimale.
 Ricorso a metodi di analisi ad hoc, spesso di tipo semi-empirico o con una
eccessiva discrezionalità dell’intervento umano, con scarsa riproducibilità dei
risultati.
 Scarsa generalizzabilità dei risultati e portabilità delle metodologie in differenti
contesti: non è possibile generalizzare il metodo per lo studio di componenti
dello stesso tipo, ma con caratteristiche differenti (per esempio due motori
differenti).
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Al contrario utilizzando un approccio basato sui modelli, si hanno i seguenti vantaggi:
 Possibilità di risolvere le equazioni costitutive, o di ricorrere a modelli più
aderenti alla realtà.
 Ricorso più limitato e mirato alla sperimentazione ed alla costruzione di
prototipi, con riduzione di tempi e di costi: è possibile realizzare solo pochissimi
prototipi da testare.
 Riduzione delle influenze soggettive sulle procedure di sviluppo e di
ottimizzazione dei prodotti: le procedure risultano standardizzate e la
metodologia codificata, con un intervento minimo del fattore umano.
 Maggiori generalizzabilità dei risultati e portabilità delle metodologie e delle
competenze in contesi operativi differenti: è possibile utilizzare determinate
conoscenze in diversi settori in quanto i metodi di analisi risultano similari (in
campo fluidodinamico le equazioni differenziali alla base di diversi fenomeni
sono tra di loro simili e pertanto è possibile estendere le metodologie di calcolo
a casi differenti).
Il vantaggio di utilizzare un approccio basato sui modelli è quindi quello di avere a
disposizione uno spettro di strumenti generali ad ampio uso.

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Lezione 2 (Rizzo) 8/03/2017
Introduzione alla modellistica
Lo sviluppo di un modello prevede in via preliminare la definizione della struttura: è
necessario cioè stabilire come esso venga articolato e quali sono le relazioni che lo
compongono (polinomi, esponenziali, …). Le principali fonti di informazione sul
sistema da modellare sono costituite dalla conoscenza a priori (stato dell’arte),
attraverso cui con analisi deduttiva si desume la struttura fisico-matematica del
modello e dai dati sperimentali misurati sul sistema (quando disponibili). La
conoscenza a priori implica appunto la conoscenza della fenomenologia alla base di
ciò che si vuole studiare e delle equazioni che descrivono il fenomeno stesso (per
esempio volendo caratterizzare lo scambio termico tra due corpi a diversa
temperatura, sono note le relazioni matematiche che governano tale fenomeno).
Pertanto è fondamentale capire qual è lo stato dell’arte (conoscenza da parte della
comunità scientifica) e qual è il livello di conoscenza personale del fenomeno. I dati
sperimentali, invece, sono ottenuti attraverso misure effettuate in laboratorio, da cui
è possibile ricavare valori di input e di output del fenomeno in esame. I dati
sperimentali potrebbero essere stati acquisiti per consentire lo sviluppo del modello,
o al contrario, il modello stesso può essere utile per effettuare test e ricavare tali dati
(doppia freccia). È evidente che nel caso in cui si stia progettando un qualcosa di
nuovo, non si hanno dati sperimentali a disposizione e pertanto è necessario far
riferimento alla conoscenza a priori, basandosi magari su legami noti per fenomeni
simili. In genere, il modello si tradurrà in un qualcosa che successivamente potrà
funzionare su un computer per effettuare calcoli, progettazione, controllo, ….
Inoltre, per lo sviluppo del modello, è importante capire l’obiettivo del lavoro a
prescindere dall’oggetto studiato: a parità di oggetto di studio, ad esempio un motore
a combustione interna, l’obiettivo potrebbe essere differente; per esempio la
progettazione di un motore è un qualcosa di profondamente differente da un controllo
real-time dello stesso in grado di reagire e dunque di prendere decisioni in funzione
di determinate variabili quali: legge di iniezione (motore Diesel), EGR, grado di
sovralimentazione, …); in quest’ultimo caso, piuttosto che risolvere equazioni
complesse alla base dei fenomeni che avvengono all’interno del motore (equazioni
di Navier-Stokes) è fondamentale la velocità di risposta (real-time) del modello
realizzato e pertanto è necessario implementare una semplice equazione
caratteristica o addirittura prevedere un’interpolazione tra diversi dati disponibili su
varie tabelle: solo in questo modo il sistema potrà essere in grado di reagire in tempo
reale alla variazione dei diversi parametri (il modello real-time farà dunque ampio
ricorso a dati sperimentali). Pertanto a partire dagli obiettivi e dal contesto applicativo
del lavoro, è possibile determinare il giusto mix delle informazioni da incorporare nel
modello. È evidente che, a seconda dell’obiettivo, è importante anche l’affidabilità del
modello; in effetti una volta “lanciato” il modello per poter effettuare determinati
calcoli, è possibile che nell’eseguirli vengano fuori degli errori tali per cui il computer
non è più in grado di andare avanti (magari viene fuori la radice quadrata di un
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numero negativo) e dunque si blocca: questo potrebbe non essere un grosso
problema nel caso in cui il modello stia risolvendo un problema di ottimizzazione delle
prestazioni di un motore (sebbene comunque si è sprecato del tempo, magari
qualche settimana, senza concludere nulla), ma potrebbe essere molto pericoloso
nel caso in cui esso debba reagire in real-time (se si sta guidando su una strada a
doppio senso con un tir che viaggia sulla corsia opposta, sconfinando nell’altra
corsia, è fondamentale che il sistema risponda immediatamente e dunque che non
si blocchi).

Figura 4

Per poter capire se il modello funziona è necessario effettuare la validazione,


confrontando ciò che viene fuori dallo stesso con i dati sperimentali a disposizione;
in alcuni casi, contemporaneamente alla validazione è necessario effettuare la stima
dei parametri (identificazione) per la messa a punto del modello: se esso non è
basato su equazioni, ma su polinomi, per poter caratterizzare i coefficienti (parametri)
di quest’ultimo, è necessario un confronto con i dati sperimentali a disposizione.
L’output di tutto lo studio effettuato è quindi il modello stesso; sebbene esso magari
sia in grado di riprodurre i dati sperimentali non è detto che rispetti gli obiettivi
prefissati e/o il contesto applicativo. Pertanto è necessario effettuare un confronto tra
ciò che si è ottenuto (modello) e ciò che in origine si voleva ottenere (obiettivi e
contesto applicativo); il modello di fatto potrebbe essere preciso ed accurato, ma non
soddisfare i requisiti richiesti dal particolare contesto applicativo: se il modello deve
rispondere real-time ma impiega diversi secondi per elaborare una risposta, quando
sono consentiti pochi millisecondi, esso non può essere accettato; per tale motivo
questa operazione di verifica risulta essere di fondamentale importanza.
In funzione del loro ricorso alla conoscenza a priori o ai dati sperimentali, i modelli
sono denominati rispettivamente fenomenologici (white-box) o di sintesi (black-box).
Una categoria intermedia è rappresentata dai modelli grey-box, che fanno ricorso ad
una rappresentazione semplificata della fisica del problema ricorrendo ai dati
sperimentali per fornire l’informazione aggiuntiva. La scelta di un approccio
modellistico non è univocamente determinata dal sistema da modellare: per uno
stesso sistema possono essere sviluppate diverse tipologie di modello, in funzione
del contesto applicativo.
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Figura 5

In particolare nei modelli di tipo black-box si dà una rappresentazione funzionale del


problema, senza preoccuparsi che essa sia rappresentativa del problema fisico, ma
basta che essa sia abbastanza efficace nel descrivere i dati sperimentali a
disposizione. Invece, nel caso in cui si vuole descrivere al massimo livello di dettaglio
possibile tutti i fenomeni il modello è di tipo white-box (tutti i fenomeni vengono messi
in chiaro).
Si immagini, ad esempio, di voler trovare una relazione che permetta di descrivere
le emissioni di ossidi di azoto per un motore, in determinate condizioni, al variare del
rapporto di miscela (in rosso sono rappresentati i dati sperimentali):

Figura 6

Un approccio potrebbe essere quello di partire dal modo in cui si formano gli ossidi
di azoto: esiste un sistema di equazioni differenziali alla base del fenomeno, ricavate
da Zeldovich, che valuta l’evoluzione di tali ossidi a partire dal calcolo della
temperatura e dal rapporto di miscela in camera di combustione; la conoscenza della
temperatura presuppone la conoscenza del ciclo di pressione e quindi della massa
che entra all’interno del cilindro, dell’evoluzione della fase di combustione, dello
scambio termico, …; in tal caso si utilizza un approccio di tipo white-box.
Invece, nel caso in cui interessa conoscere il valore degli ossidi di azoto, in funzione
di determinati rapporti di miscela misurati, un approccio plausibile potrebbe essere
quello di prendere come riferimento una curva di ordine n (per esempio del terzo
ordine) e determinare i coefficienti che riproducono nel migliore dei modi l’andamento
dei dati sperimentali (per la loro determinazione è possibile utilizzare la tecnica dei
minimi quadrati per esempio):
𝑦 = 𝑎 + 𝑏𝑥 + 𝑐𝑥 2 + 𝑑𝑥 3
Dove:

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𝑦 = 𝑁𝑂𝑥
𝑥 = 𝐴/𝐹 (𝑟𝑎𝑝𝑝𝑜𝑟𝑡𝑜 𝑎𝑟𝑖𝑎/𝑐𝑜𝑚𝑏𝑢𝑠𝑡𝑖𝑏𝑖𝑙𝑒)
In quest’ultimo caso si sta utilizzando un approccio di tipo black-box, in quanto non
si ha la pretesa che la struttura del modello somigli alla struttura fisica del sistema
(non è necessario riprodurre la combustione ed altri fenomeni complessi, ma basta
sia abbastanza fedele nel riprodurre i dati sperimentali).
I due approcci, sono completamente differenti ed hanno entrambi un senso: in
particolare i modelli black-box sono più semplici in quanto non presuppongono una
conoscenza completa del fenomeno, ma al limite è necessario capire qual è l’ordine
del polinomio che si vuole determinare (se si tratti effettivamente di un polinomio) o
del legame funzionale che si vuole dare.
I modelli di tipo grey-box sono invece intermedi tra le due tipologie citate
precedentemente. In tal caso si costruisce un modello che riproduce la fisica del
problema, ma non al suo massimo livello di dettaglio possibile: è quasi sempre quello
che si fa nell’ingegneria. In effetti un fenomeno quale la turbolenza, non lo si riesce
mai a studiare ad un livello di scala sufficiente, ma lo si riproduce sempre ad un livello
piuttosto macroscopico e con metodologie di tipo statistico. Nel caso di un motore,
volendo misurare l’evoluzione del ciclo di pressione al variare dell’angolo di
manovella, è necessario misurare un treno di cicli (20 − 100 − 1000 cicli di pressione
consecutivi) dopo aver messo il motore a regime (determinati numero di giri, rapporto
di miscela, …): tutti questi cicli saranno uno diverso dall’altro in quanto la
combustione è un processo governato dalla turbolenza che è un fenomeno
stocastico e dunque pure mettendosi nelle stesse condizioni il risultato non sarà
sempre lo stesso; ci sarà pertanto una certa banda di variazione più o meno stretta
(dispersione ciclica); a tutt’oggi nessun modello, nemmeno i più complessi, sono in
grado di predire questo fenomeno, ma sono in grado di prevedere il valore medio del
ciclo di pressione (con buona approssimazione), ma non esattamente la sequenza
con cui essi si verificano. In generale nessun modello utilizzato nell’ingegneria, in
questo campo, arriva a livello molecolare, ma ci si interessa dell’evoluzione a livello
macroscopico e pertanto anche i modelli di tipo white-box hanno un certo livello di
approssimazione: essi sono definiti white-box in quanto hanno il massimo livello di
dettaglio nello stato dell’arte di quella determinata disciplina. Pertanto quando
volontariamente si utilizza un modello meno evoluto ma più semplice, si utilizza un
modello di tipo grey-box.
Se si immagina di dover descrivere l’evoluzione della combustione nella camera di
un motore, è possibile farlo considerando tale camera come un continuum da un
punto di vista spaziale (sistema tridimensionale dove ogni punto ha una sua
coordinata: modello white-box), oppure si può dividere la camera di combustione in
più zona, in ognuna delle quali accadono diverse fenomeni (all’interno della stessa
zona, in vari punti accade la stessa cosa). Si può implementare un modello multi-
zona discriminando la temperatura che raggiungono le diverse zone della camera
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(essa influenza ad esempio le emissioni di ossidi di azoto): tale modello è di tipo
grey-box, in cui non si conosce punto per punto quello che accade, ma è noto quello
che succede al variare della zona; per poter operare questa descrizione, è
necessario dividere la camera in un numero di zone sufficientemente fitto, ma non
tanto da complicare eccessivamente il problema; in particolare il numero di zone sarà
un parametro di questo modello che bisognerà fissare.
Nel caso in cui invece c’è un processo di scambio termico complesso, non
descrivibile a priori con le equazioni note su conduzione, convezione e irraggiamento
e si vuole calcolare un coefficiente di scambio complessivo che riproduca quello che
accada, esso rappresenta un parametro del problema cioè un valore da dare in base
al confronto con i dati sperimentali: anche in questo caso il modello è di tipo grey-
box perché non si descrive il problema al massimo livello di dettaglio, ma a livello
globale (il coefficiente lo si determina empiricamente a partire dai dati sperimentali).
Un altro esempio di modello di tipo grey-box è il ciclo limite del motore in cui si fanno
delle ipotesi semplificative: la combustione avviene ancora a volume costante, ma si
considerano le proprietà del gas reale. Inoltre quando si definisce il rendimento
globale:
𝜂𝑔 = 𝜂𝑏 ∙ 𝜂𝑟 ∙ 𝜂𝑚
Dove:
𝜂𝑔 = 𝑟𝑒𝑛𝑑𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑔𝑙𝑜𝑏𝑎𝑙𝑒

𝜂𝑏 = 𝑟𝑒𝑛𝑑𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑏𝑢𝑠𝑡𝑖𝑜𝑛𝑒
𝜂𝑟 = 𝑟𝑒𝑛𝑑𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑟𝑒𝑎𝑙𝑒
𝜂𝑚 = 𝑟𝑒𝑛𝑑𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑚𝑒𝑐𝑐𝑎𝑛𝑖𝑐𝑜
Si ritiene che il rendimento reale sia pari al prodotto tra il rendimento limite e il
rendimento interno (che risulta essere un parametro del problema):
𝜂𝑟 = 𝜂𝑙𝑖𝑚 ∙ 𝜂𝑖
Pertanto considerando il ciclo limite, per arrivare al rendimento reale bisogna fornire
al modello un’informazione in più che è appunto il rendimento interno; il modello ha
una struttura fisica in quanto il ciclo limite segue la fisica del problema, ma non al
massimo livello di dettaglio: per colmare il gap tra il modello semplificato e la realtà
è necessario utilizzare dei parametri (in tal caso il rendimento interno).

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Figura 7

Le diverse tipologie di modelli si differenziano per molti aspetti come riportato nella
figura precedente.
In generale i modelli di tipo white-box si utilizzano per le cosiddette discipline “dure”
(hard science) in cui esiste un livello di conoscenza notevole. Per le discipline
“morbide” come l’economia, la sociologia si ricorre invece a modelli black-box (in
questo caso ci si basa su sondaggi, statistiche e non si arriva ad un livello di dettaglio
microscopico (molecolare) dell’oggetto di studio). Il vantaggio di un modello black-
box rispetto ad un modello di tipo white-box è quello di riuscire a descrivere un
fenomeno senza essere esperti del problema (ruolo della conoscenza a priori
minore). Inoltre i modelli di tipo white-box si usano solitamente per obiettivi conoscitivi
e/o applicativi, mentre quelli black-box in genere solo per scopi di tipo applicativo
(difficilmente un modello puramente matematico insegna qualcosa). Sebbene in
generale un modello white-box richieda una potenza di calcolo maggiore rispetto a
un modello di tipo black-box, ciò non è sempre vero: se si vuole descrivere la caduta
di un grave, o la traiettoria seguita da una pallina che cade su una superficie piana
rimbalzando, volendo utilizzare un approccio puramente matematico andando ad
acquisire spazio e tempo (dati sperimentali), il modello che viene fuori risulta essere
molto più complicato rispetto a quello in cui si utilizzano le equazioni fisiche alla base
del fenomeno che sono molto semplici e riescono a descrivere in maniera accurata
il fenomeno. È evidente peraltro che nel caso di un modello white-box l’indagine
sperimentale è molto ridotta o addirittura nulla, mentra un modello black-box fa ampio
ricorso a quest’ultima.
L’aspetto più importante però è la generalizzabilità del modello realizzato in quanto
è indice di quanto il modello posso essere applicabile a contesti differenti; utilizzando
un approccio di tipo black-box e tracciando la curva degli ossidi di azoto al variare
del rapporto di miscela fissate determinate condizioni, nel momento in cui queste
ultime variano o cambia la tipologia di motore da studiare, il modello non sarà più
fedele alla realtà. Se per descrivere lo stesso fenomeno, si utilizza un modello white-
box giacché esso tiene conto di tutti gli effetti (cilindrata, geometria della camera, …)
pur cambiando motore esso si manterrà fedele alla realtà. Per questo motivo i modelli
basati sullo stato dell’arte (white-box) presentano in genere una maggiore
14
generalizzabilità, mentre la validità dei modelli black-box è in genere limitata
all’insieme dei dati sperimentali utilizzati per il loro sviluppo.
I modelli di tipo grey-box hanno evidentemente caratteristiche intermedie tra i due
estremi analizzati.
I criteri di valutazione di un modello sono:
 Fisicità: il modello deve “assomigliare” alla realtà e deve prevalere la
conoscenza a priori (a parità di altre condizioni); se si è in grado di riprodurre
la fenomenologia fisica del problema è importante sempre farlo.
 Aderenza (o precisione): i dati sperimentali (se esistono) devono essere
spiegati (riprodotti) dal modello nel miglior modo possibile.
 Generalizzabilità (o predittività): il modello deve essere in grado di prevedere
il comportamento del sistema anche in quei casi per i quali non siano disponibili
osservazioni sperimentali (per esempio in fase di estrapolazione) e deve
presentare una limitata sensibilità all’errore di misura. È evidente che nel
momento in cui si sviluppa un modello lo si fa con l’obiettivo di voler riprodurre
quello che accade in altre condizioni in generale non note, in quanto lo scopo
principale è proprio quello di predire i fenomeni. È bene precisare che un
modello preciso non è detto che sia predittivo, in quanto il fatto che esso
riproduca in maniera corretta i dati sperimentali non significa che sia in grado
di stimare correttamente un dato output al variare delle condizioni di input;
molto spesso di fatto i due concetti sono antitetici: più il modello è preciso e
meno risulta predittivo. Inoltre è importante che esso non sia molto sensibile
all’errore in quanto piccole variazioni nelle condizioni di input non devono
comportare grandi variazioni sugli output (quando si hanno a disposizione
determinati dati, essi sono noti con un certo livello di precisione e talvolta non
ha neanche senso scendere al di sotto di tale livello: se il numero di giri di un
motore passa da 2000 𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑚𝑖𝑛 a 2000.2 𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑚𝑖𝑛 e il modello risponde
raddoppiando la previsione vuol dire che c’è qualcosa che non va).
 Identificabilità: deve essere possibile stimare i parametri del modello (nel caso
in cui ci siano) e la loro significatività statistica.
 Parsimonia: un modello è considerato più efficace e plausibile se di struttura
semplice (meno complesso) e con pochi parametri, a parità di tutto il resto. Se
in una giornata con clima incerto si esce di casa e si avverte la caduta di gocce
di pioggia si può concludere che quella sia acqua caduta da un elicottero,
successivamente che sia stata buttata da una persona fuori ad un balcone, …
o più semplicemente che stia piovendo! Nel primo caso si fanno troppe ipotesi,
peraltro verosimilmente poco aderenti alla realtà, mentre nel secondo caso si
fa una sola ipotesi quindi il “modello” risulta molto più semplice e
verosimilmente più aderente alla realtà. Un altro esempio può essere
rappresentato dallo studio delle traiettorie dei corpi nello spazio; nei tempi
antichi si pensava che la Terra fosse al centro dell’universo ferma, che il Sole
girava attorno ad essa, che le stesse fossero fissi e che gli altri pianeti (Marte,
15
Giove, …) percorressero una traiettoria cicloidale attorno ad un’epicicloide
molto complessa; successivamente è stato verificato più semplicemente che
la Terra non fosse al centro dell’universo ma che il sistema fosse eliocentrico
(Sole al centro) con i pianeti che attorno a questa stella percorrevano una
traiettoria ellittica e con i satelliti rotanti attorno ai pianeti: tale tesi è molto più
semplice di quella precedente anche più vicina alla realtà.
 Precisione bilanciata: il modello più adeguato è un compromesso tra validità
della struttura e precisione dei parametri. Le diverse parti di un modello devono
avere livelli di precisione comparabili. Lo studio della combustione che avviene
all’interno della camera di un motore termico presuppone conoscenze in
diversi campi; essendo degli esperti chimici si ha una conoscenza dettagliata
della catena di reazioni chimiche che avvengono all’interno della camera di
combustione che sono di tipo cinetico (⇄) e pertanto di non equilibrio;
conoscendo tali reazioni è possibile studiare accuratamente l’evoluzione della
temperatura all’interno della camera di combustione; tuttavia se non si è
esperti di meccanica e si considera la combustione a volume costante si
commette un errore abbastanza grande su tale aspetto e si ha uno
sbilanciamento eccessivo tra le diverse parti e ciò va a scapito del modello che
in ogni caso risulterà impreciso. Nella realtà molto spesso risulta complesso
capire se la precisione risulti effettivamente bilanciata in quanto essendo degli
esperti in determinati campi si riesce anche a capire il livello di
approssimazione che si sta ammettendo, ma su altri campi, non essendo molto
ferrati si rischia di ammettere un’approssimazione eccessiva se comparata con
le altre parti del modello.
I modelli possono essere classificati in vario modo:
 Presenza delle derivate:
o Modelli algebrici (Algebraic Equation: AE): non ci sono derivate
o Modelli differenziali:
 ODE (Ordinary Differential Equation): una sola variabile,
parametri concentrati
 PDE (Partial Differential Equation): più variabili, parametri
distribuiti
Si supponga di voler studiare il fenomeno dell’evaporazione del film di
combustibile all’interno del collettore di aspirazione di un motore ad
accensione comandata: la benzina iniettata vaporizza a contatto col flusso
d’aria andando all’interno del cilindro; tuttavia non tutte le gocce di
combustibile vaporizzano, ma alcune si depositano in forma liquida sulle
pareti del cilindro e trascinate dal moto dell’aria scorrono secondo un flusso
laminare alla Couette: in particolare si realizza un processo sia di
evaporazione di alcune gocce, sia di condensazione del vapore; in
condizioni di regime stazionario c’è l’uguaglianza tra la massa di
combustibile che si accumula sulla parete e quella che evapora e pertanto

16
complessivamente ciò che arriva al motore in termini di rapporto di miscela
è proprio ciò che esce dall’iniettore in quanto il fenomeno si auto compensa;
tuttavia quando il motore ha un transitorio (ad esempio si sta accelerando)
tale fenomeno ha bisogno di un certo tempo per arrivare a regime: la
quantità di fluido che evapora dalla parete è proporzionale grosso modo
allo spessore del meato di fluido depositato sulla stessa e tale spessore è
proporzionale alla portata di combustibile in uscita dall’iniettore e dunque
alla potenza del motore; pertanto raddoppiando la potenza (si sta
accelerando), il sistema per arrivare a regime deve avere uno spessore di
combustibile sulla parete corrispondente a quella modificata condizione di
potenza: quando si raggiunge tale condizione ciò che esce dall’iniettore è
quello che arriva al motore, mentre nel transitorio arriverà meno benzina
rispetto a quella iniettata; in tale condizione la miscela si smagrisce e il
catalizzatore esce fuori dalla sua finestra di abbattimento ottimale
emettendo di più allo scarico; per compensare questo fenomeno bisogna
iniettare momentaneamente di più in modo che il motore possa funzionare
in maniera adeguata. È possibile modellare questo problema, anche in
tempo reale (di fatto modelli semplici girano sulle centraline), considerando
il collettore di aspirazione come un unicum, ovvero come una camera dove
c’è una certa pressione, una certa temperatura, una certa velocità dell’aria
ed un certo spessore di combustibile e le cui condizioni variano nel tempo:
il sistema è governato da una sola variabile indipendente che è appunto il
tempo e tutte le altre grandezze sono funzioni di esso, ma non c’è una
dipendenza esplicita dallo spazio (non si considera ciò che accade in un
singolo punto); pertanto le equazioni alla base di questa modellazione sono
a derivate totale (equazioni differenziali ordinarie). Studiando invece il
processo della risposta dinamica del motore legata alle onde di pressione
che vanno avanti e indietro nel collettore (sovralimentazione naturale dei
motori da competizione), il discorso si fa più complicato; quando si apre la
valvola di aspirazione c’è una perturbazione all’interno del collettore di
aspirazione: si parla di onda di depressione a livello della valvola (si crea
una depressione rispetto a ciò che c’è nel cilindro); tale depressione si
propaga nel collettore (come tutte le onde) con velocità pari a quella del
suono, raggiungendo l’estremo del collettore dove è in contatto con
l’esterno (l’estremità del tubo è aperta): si verifica dunque un fenomeno di
riflessione dell’onda tale per cui essa appunto si riflette, riducendosi di
intensità, e torna indietro cambiando segno, diventando cioè un’onda di
compressione (se l’estremo del collettore fosse stato chiuso essa sarebbe
tornata indietro con lo stesso segno); tale onda di compressione ripercorre
tutto il collettore all’inverso raggiungendo la valvola di aspirazione: essa fa
aumentare localmente la pressione e quindi la densità del fluido ovvero la
massa in ingresso al motore; in pratica c’è una sorta di sovralimentazione
naturale di cui fanno largo uso i motori da competizione; tale meccanismo
deve funzionare in maniera adeguata con un tempo di percorrenza
17
dell’onda all’interno del condotto fasato con il tempo di apertura e chiusura
della valvola: esso funziona bene ad un certo numero di giri, motivo per cui
i motori da competizione hanno un numero di rapporti al cambio molto
elevata (devono lavorare ad una finestra stretta del numero di giri per avere
questo fenomeno). È evidente che per studiare questo fenomeno in fase di
progettazione non è sufficiente modellare il collettore di aspirazione come
un unicum in cui accade qualcosa in funzione del tempo, ma bisogna capire
anche quello che accade nello spazio e perciò si utilizzeranno delle
relazione a derivate parziali dove le diverse grandezze, quali pressione,
temperatura, … saranno funzione dello spazio (che nella migliore delle
ipotesi sarà una sola coordinata, ma nei modelli più complessi sarà
tridimensionale) e del tempo. Pertanto a seconda di ciò che si vuole
studiare si adotta un livello diverso di complessità.
 Legame funziona tra variabili:
o Modelli lineari: nel caso più semplice il concetto di linearità è
associato nel caso delle equazioni algebriche alla rappresentazione
di una funzione di primo grado (retta); nel caso di equazioni
differenziali invece per poter definire la linearità ci si rifà al principio
di sovrapposizione degli effetti: avendo un sistema che dipende da
più variabili, l’effetto generato da una singola variabile è sempre lo
stesso indipendentemente dal valore che assumono le altre variabili
(se un output dipende da due variabili 𝑥1 e 𝑥2 se raddoppiando la
prima (𝑥1 ), l’output raddoppia, esso lo farà indipendentemente dal
valore della seconda variabile (𝑥2 )); in tal modo è possibile studiare
la risposta del sistema ad una variabile per volta.
o Modelli non lineari: in tal caso non vale il principio di sovrapposizione
degli effetti; i fenomeni più complessi sono di tipo non lineare.
 Insieme di definizione della variabile indipendente:
o Continui: le diverse variabili possono assumere qualunque valori
(anche se magari solo positivi); esempi sono rappresentati sia dalle
equazioni algebriche (AE) che dalle equazioni differenziale (ODE o
PDE)
o Discreti: le variabili possono assumere solo alcuni valori (ad esempio
solo valori interi: modellando un impianto di produzione, per la scelta
del numero di torni è possibile scegliere magari 4 o 5 torni e non 4.2).
o Misti: in tal caso esistono sia variabili continue che discrete; in un
modello di un impianto a vapore ci sono sia variabili continue come
la pressione nel generatore di vapore, la pressione di spillamento per
la rigenerazione, … e variabili discrete come il numero di
risurriscaldamento da effettuare, il numero di rigeneratori da
adottare, … Esempi in generale sono rappresentati dalla scansione
delle attività, dalle equazioni alle differenze, dalle catene di Markov e
dalle macchine a stati finiti.

18
 Presenza di variabili casuali:
o Deterministici: in tal caso definite delle variabili di input e di output a
un determinato valore delle variabili di ingresso corrisponde sempre
lo stesso valore delle variabili in uscita
o Stocastici: in questo caso definite delle variabili di input e di output a
parità di input è possibile ottenere output differenti; se la variazione
dell’output non è eccesiva il sistema è detto stocastico, altrimenti è
detto caotico. La maggior parte dei fenomeni fluidodinamici con
numeri di Reynolds (maggiori di2300) elevati e dunque con moto
turbolento (è quello che accade nella quasi totalità delle macchine a
fluido) l’output del sistema non è mai deterministico, ma è stocastico;
tuttavia molto spesso si fa un’approssimazione di tipo deterministico
stimando il valore medio delle grandezze ed in alcuni casi si ammette
una certa variabilità dell’ordine del 2 % − 3 % (senza avere una
previsione precisione di come si articola questa variabilità).
Quando si costruisce un modello è necessario definire quali sono le variabili che si
vogliono dare in input e quali invece si vogliono ottenere come output; in alcuni casi
ciò è abbastanza intuitivo: nel caso della stima degli ossidi di azoto, la variabile di
ingresso è evidentemente il rapporto di miscela, mentre la variabile in uscita è proprio
l’emissione; tuttavia nessuno vieta di misurare le emissioni e risalire di conseguenza
al valore del rapporto aria/combustibile.
Date n variabili che definiscono il funzionamento del sistema è possibile organizzare
tali variabili nella maniera più libera possibile; nel caso di due variabili 𝑋 e 𝑌 si può di
fatto porre una relazione del tipo:
𝑌 = 𝑓 (𝑋 )
Oppure del tipo:
𝑋 = 𝑔 (𝑌 )
Pertanto avendo a disposizione diverse variabili è possibile stabilire liberamente ed
a seconda di quello che si vuole ottenere, quali sono gli input e quali sono gli output
e sono diverse le configurazioni possibili:

Figura 8

Un modello in n variabili è invertibile quando è possibile esprimere la dipendenza


funzionale rispetto ad una qualsiasi n-pla di variabili:
𝑌 = 𝑓 (𝑋 ) → 𝑋 = 𝑔 (𝑌 )
19
Quando ci sono delle relazioni algebriche semplici tra le diverse variabili in molti casi
ciò è possibile ed in maniera molto semplice: si spostano le variabili dal primo al
secondo membro a seconda dei casi. Se un modello è completamente invertibile si
può applicare un approccio di modellistica diretta per determinare le variabili
incognite 𝑋 ∗ , assumendo le variabili note 𝑌 ∗ come variabili di ingresso (basta
manipolare il modello in modo da portare le variabili 𝑋 ∗ al primo membro e le variabili
𝑌 ∗ al secondo membro):
𝑋 ∗ = 𝑔 (𝑌 ∗ )
Nel caso in cui non si vuole fare questo, o ciò non è possibile è necessario scegliere
una metodologia diversa, seguendo un approccio di tipo inverso. In tal caso il
modello, in cui le variabili incognite 𝑋 costituiscono le variabili di ingresso, è
interrogato iterativamente. Un opportuno algoritmo varia i valori di 𝑋 in funzione dei
risultati del confronto tra il valore attuale 𝑌 ed il valore desiderato 𝑌 ∗ (in pratica si va
a cercare la variabile 𝑋 che corrisponde ad una certa 𝑌 = 𝑌 ∗ ). In questo caso il
ragionamento è più complesso in quanto la forma funzionale (supposta non
invertibile) è del tipo:
𝑌 = 𝑓 (𝑋 )
L’incognita da determinare è proprio il valore di 𝑋.

Figura 9

Praticamente si va a verificare se il valore della 𝑋 ipotizzata corrisponde al valore


desiderato della 𝑌 e nel caso in cui ciò non sia vero, si fa riferimento ad un algoritmo
che va a variare la 𝑋 in modo da far verificare tale condizione (cioè che dia il valore
di 𝑌 voluto). Pertanto è necessario iterare con qualche metodo andando a risolvere
un’equazione.
Un esempio di quanto sinora detto può essere fatto per il calcolo dell’alesaggio 𝐷 ∗
necessario ad ottenere un determinato valore di potenza 𝑃𝑢∗ in un motore a
combustione interna. Pertanto si parte dalla formula della potenza:
20
𝑉∙𝑛 1
𝑃𝑢 = ∙ 𝜌𝑎𝑚𝑏 ∙ 𝜆𝑣 ∙ ∙ 𝐻𝑖 ∙ 𝜂𝑔
60 ∙ 𝜀 𝛼
Dove:
𝑃𝑢 = 𝑝𝑜𝑡𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑢𝑡𝑖𝑙𝑒
𝑉 = 𝑐𝑖𝑙𝑖𝑛𝑑𝑟𝑎𝑡𝑎
𝜀 = 1 (𝑚𝑜𝑡𝑜𝑟𝑒 𝑎 𝑑𝑢𝑒 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑖), 2 (𝑚𝑜𝑡𝑜𝑟𝑒 𝑎 𝑞𝑢𝑎𝑡𝑡𝑟𝑜 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑖)
𝑛 = 𝑟𝑒𝑔𝑖𝑚𝑒 𝑑𝑖 𝑔𝑖𝑟𝑖
𝜌𝑎𝑚𝑏 = 𝑑𝑒𝑛𝑠𝑖𝑡à 𝑎𝑟𝑖𝑎 𝑎𝑚𝑏𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒
𝜆𝑣 = 𝑟𝑒𝑛𝑑𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑣𝑜𝑙𝑢𝑚𝑒𝑡𝑟𝑖𝑐𝑜
𝛼 = 𝑟𝑎𝑝𝑝𝑜𝑟𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑚𝑖𝑠𝑐𝑒𝑙𝑎
𝐻𝑖 = 𝑝𝑜𝑡𝑒𝑟𝑒 𝑐𝑎𝑙𝑜𝑟𝑖𝑓𝑖𝑐𝑜 𝑖𝑛𝑓𝑒𝑟𝑖𝑜𝑟𝑒
𝜂𝑔 = 𝑟𝑒𝑛𝑑𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑔𝑙𝑜𝑏𝑎𝑙𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑚𝑜𝑡𝑜𝑟𝑒
Assumendo note le seguenti grandezze:
𝑠/𝐷 = 𝑟𝑎𝑝𝑝𝑜𝑟𝑡𝑜 𝑐𝑜𝑟𝑠𝑎/𝑎𝑙𝑒𝑠𝑎𝑔𝑔𝑖𝑜
𝑖 = 𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜 𝑑𝑖 𝑐𝑖𝑙𝑖𝑛𝑑𝑟𝑖
𝑣𝑚𝑝 = 𝑣𝑒𝑙𝑜𝑐𝑖𝑡à 𝑚𝑒𝑑𝑖𝑎 𝑑𝑒𝑙 𝑝𝑖𝑠𝑡𝑜𝑛𝑒
𝑃𝑢 , 𝜌𝑎𝑚𝑏 , 𝜆𝑣 , 𝛼, 𝐻𝑖 , 𝜂𝑔

Noto che sia l’alesaggio, le altre variabili motoristiche possono essere calcolate
attraverso le seguenti espressioni:
𝑠 = (𝑆/𝐷) ∙ 𝐷
𝜋 ∙ 𝐷2
𝑉=𝑖∙ ∙𝑠
4
30 ∙ 𝑣𝑚𝑝
𝑛=
𝑠
L’approccio modellistico diretto prevede l’inversione analitica del modello (formula
della potenza), in modo da esplicitare la dipendenza dell’alesaggio 𝐷 dalla potenza
𝑃𝑢 e dalle altre variabili assegnate (in pratica si effettua una manipolazione algebrica
dell’equazione di partenza):

8 ∙ 𝑃𝑢 ∙ 𝜀 ∙ 𝛼
𝐷= √
𝜋 ∙ 𝑣𝑚𝑝 ∙ 𝜌𝑎𝑚𝑏 ∙ 𝜆𝑣 ∙ 𝐻𝑖 ∙ 𝜂𝑔

21
Secondo l’approccio modellistico inverso, il modello (formula della potenza) è
utilizzato nella sua formulazione originaria. Un opportuno algoritmo iterativo adegua
il valore di 𝐷 ai risultati del confronto sul valore della potenza:

Figura 10

Pertanto in tal caso, si parte da una scelta iniziale dell’alesaggio 𝐷, con il quale si
riescono a calcolare i valori della corsa, della cilindrata del numero di giri e dunque
della potenza utile la quale viene confrontata con il valore di riferimento; se il valore
della potenza calcolata risulta differente da quello stabilito, si ritorna all’algoritmo di
partenza in quale è in grado il valore di 𝐷 per ottenere in uscita il valore di potenza
utile richiesto (l’algoritmo tiene conto del fatto che al crescere dell’alesaggio cresce
la potenza utile).
Sintetizzando, l’approccio diretto:
 Richiede l’inversione analitica del modello, che può essere laboriosa e, per
modelli complessi, impossibile (nel caso delle equazioni di Navier-Stokes).
 Consente di ridurre i tempi di calcolo (nel caso in cui si riesca a invertire la
relazione).
Mentre l’approccio inverso:
 Permette di utilizzare il modello nella sua formulazione originaria.
 Può essere applicato anche a modelli complessi e non invertibili.
 Richiede opportune metodologie di analisi per la determinazione delle variabili
di decisione e per l’identificazione dei parametri.
 Richiede tempi di calcolo elevati.
È evidente che nel caso in cui ci siano più variabili in gioco i ragionamenti fatti sinora
si complicano ulteriormente.

22
Lezione 3 (Rizzo) 9/03/2017
Introduzione alla modellistica
Le principali modalità di utilizzazione dei modelli sono:
 La simulazione
 L’analisi parametrica
 L’ottimizzazione e l’analisi di sensitività
In fase di simulazione, si assegnano le variabili di input e si osserva il valore delle
variabili di output. Nel caso in cui il modello abbia bisogno di parametri c’è
necessità di definirli per fornirli al modello stesso.

Figura 11

Un esempio tipico in cui va fornito un parametro per la determinazione dell’output a


partire dall’input è il caso in cui tra i due sussista una relazione di tipo lineare:
𝑦 = 𝑘𝑥
Dove:
𝑦 = 𝑜𝑢𝑡𝑝𝑢𝑡
𝑥 = 𝑖𝑛𝑝𝑢𝑡
𝑘 = 𝑝𝑎𝑟𝑎𝑚𝑒𝑡𝑟𝑜
Il valore di 𝑘 deve essere tale che il modello rappresenti al meglio possibile i dati
sperimentali a disposizione:

Figura 12

23
Simulare significare proprio dare un valore alla variabile di input 𝑥 e ricavare di
conseguenza il valore di output 𝑦. È evidente peraltro che gli input e gli output
possono essere molteplici (𝑛 input ed 𝑚 output).
L’analisi parametrica è invece un’evoluzione della semplice simulazione; essa
consiste nella effettuazione di più analisi di simulazione, facendo variare una delle
variabili in ingresso in un intervallo e tenendo costanti le altre variabili. La procedura
può essere ripetuta per tutte le variabili, ottenendo così una caratterizzazione
completa (nell’ambito della validità del principio di sovrapposizione degli effetti). I
risultati possono essere facilmente posti in forma grafica. Se la variabile è unica, si
fa variare automaticamente quella e si determinano i valori dell’output in funzione
della variazione di quell’input: nell’esempio precedente si fa variare 𝑥 e si vede cosa
accade a 𝑦.

Figura 13

Nel caso in cui si abbia a che fare con due variabili ad esempio:
𝑦 = 𝑘1 𝑥1 + 𝑘2 𝑥2
Si blocca alternativamente una delle due variabili facendo invece variare l’altra (si
effettuano in pratica due simulazioni, una al variare di 𝑥1 con 𝑥2 fissata e una al
variare di 𝑥2 con 𝑥1 fissata). In questo modo si riesce a valutare l’effetto di ogni
singola variabile sull’output, ma tale metodo è adatto solo nel caso in cui valga il
principio di sovrapposizione degli effetti (funzione lineare).
Un altro esempio in cui è possibile applicare un’analisi parametrica è il seguente:
𝑦 = 𝑎0 + 𝑎1 𝑥1 + 𝑎2 𝑥2

24
Figura 14

Le rette in figura sono riportate al variare del parametro 𝑥2 e parametrizzate rispetto


al parametro 𝑥1 . Poiché la funzione è lineare nelle due variabili indipendenti, bastano
tre osservazioni per caratterizzarne l’andamento (si possono analizzare
separatamente le influenze delle due variabili e sovrapporre gli effetti). Tutte le rette
distano da loro di un eguale valore indipendente dai valori delle singole variabili.
Fissata dunque una retta e la distanza della stessa da una retta successiva è
possibile prevedere l’andamento di tali funzioni su tutto il piano (l’effetto di 𝑥1 non
ricade su sé stesso né tantomeno su 𝑥2 e lo stesso vale per 𝑥2 ).
Nel caso in cui la dipendenza sia non lineare, ma ad esempio di tipo quadratico
relativa ad una sola delle variabili indipendenti la situazione cambia. Si supponga di
avere la seguente funzione:
𝑦 = 𝑎0 + 𝑎1 𝑥1 + 𝑎2 𝑥2 + 𝑎3 𝑥12

Figura 15

Ancora una volta le rette sono disegnate al variare di 𝑥2 e parametrizzate rispetto a


𝑥1 . In questo caso rispetto alla variabile 𝑥2 si ha ancora linearità, ma rispetto ad 𝑥1 si
perde tale caratteristica. Pertanto in questo caso, quando la 𝑥1 cambia di una unità
la 𝑦 varia in maniera differente a seconda del valore della 𝑥1 stessa. Quindi l’effetto
della variabile 𝑥2 non dipende né da 𝑥1 né tantomeno da sé stessa, mentre l’effetto
della variabile 𝑥1 dipende dal valore della stessa (ma non dal valore di 𝑥2 ): si ha cioè
una sorta di linearità parziale.
25
Stesso ragionamento, ma all’inverso, lo si può fare quando si ha la seguente
funzione:
𝑦 = 𝑎0 + 𝑎1 𝑥1 + 𝑎2 𝑥2 + 𝑎4 𝑥22

Figura 16

Anche in questo caso le curve sono disegnate al variare di 𝑥2 e parametrizzate


rispetto ad 𝑥1 . Questa volta si ha un andamento quadratico rispetto alla variabile 𝑥2
e lineare rispetto alla variabile 𝑥1 . Le curve si mantengono equidistanti rispetto alle
variazioni di 𝑥1 , mentre la variazione di 𝑥2 comporta un andamento non lineare: nella
parte più a sinistra al variare di 𝑥2 la 𝑦 si mantiene piuttosto costante, mentre man
mano che ci si sposta verso destra all’aumentare della 𝑥2 la 𝑦 subisce un incremento
notevole. Tuttavia si conservano alcune proprietà della curva come per esempio il
punto di minimo che rimane lo stesso indipendentemente dal valore di 𝑥1 : se essa
fosse una curva di costo, la variabile 𝑥2 che minimizza il costo è sempre la stessa
indipendentemente da 𝑥1 .
In ogni caso per caratterizzare l’effetto della variabile con dipendenza non lineare
sono necessarie più osservazioni.
Ancora diverso è il caso in cui la non linearità venga estesa ad entrambe le variabili,
come nell’esempio seguente:
𝑦 = 𝑎0 + 𝑎1 𝑥1 + 𝑎2 𝑥2 + 𝑎3 𝑥12 + 𝑎4 𝑥22

Figura 17
26
In questo caso l’effetto del cambiamento di 𝑥2 dipende dal valore della 𝑥2 stessa e
l’effetto del cambiamento della 𝑥1 dipende dal valore della 𝑥1 stessa; tuttavia non ci
sono effetti combinati e di fatto il minimo delle curve sta sempre nello stesso punto
𝑥2 indipendentemente dal valore dell’altra variabile. Pertanto è ancora possibile
analizzare l’influenza delle due variabili indipendenti e sovrapporre gli effetti.
Infine, nel caso in cui la non linearità è estesa a tutte le variabili, con effetti di
accoppiamento tra le variabili 𝑥1 e 𝑥2 la questione diventa molto più complessa: in tal
caso non è più applicabile il principio di sovrapposizione degli effetti. Un esempio può
essere il seguente:
𝑦 = 𝑎0 + 𝑎1 𝑥1 + 𝑎2 𝑥2 + 𝑎3 𝑥12 + 𝑎4 𝑥22 + 𝑎5 𝑥1 𝑥2

Figura 18

In questo caso il punto di minimo cambia in funzione del valore di 𝑥1 e dunque non
viene conservato nulla. Pertanto quando ci sono non linearità ed effetti incrociati non
è possibile studiare gli effetti separatamente.
L’utilità dell’analisi parametrica è legata in definitiva alla possibilità di applicare il
principio di sovrapposizione degli effetti. In presenza di non linearità e di interferenza
(accoppiamento) tra le variabili, la caratterizzazione del sistema richiede un’analisi
congiunta rispetto a tutte le variabili. Una analisi esaustiva di una funzione con 𝑁
variabili e 𝑀 valori per variabili, richiede 𝑀 𝑁 simulazioni. In molti problemi reali (per
esempio nella progettazione di un motore a combustione interna, in cui è necessario
considerare una serie di variabili quali: rapporto di compressione, cilindrata, …) 𝑁 ed
𝑀 assumono valori elevati. In effetti già nel caso in cui 𝑀 = 𝑁 = 10 sarebbero
necessari 1010 (10 𝑚𝑖𝑙𝑖𝑎𝑟𝑑𝑖) esperimenti (o di prototipi da realizzare). Per quanto il
computer possa essere veloce ad effettuare tali calcoli, il problema è che poi
bisognerebbe analizzare i risultati e trarre delle conclusioni e questo sarebbe
impossibile. In generale nei sistemi complessi c’è sia non linearità che
accoppiamento tra diverse variabili e pertanto è necessario adottare metodologie di
analisi differenti (per esempio analisi di ottimizzazione). Per esempio nel caso in cui
si voglia determinare il valore delle emissioni inquinanti di ossidi di azoto, è noto che

27
tale valore dipende dal regime di giri di funzionamento ed al variare di esso cambia
completamente la curva che descrive il comportamento.
Nell’analisi di ottimizzazione si assegna un criterio di ottimalità, In genere ricondotto
alla minimizzazione di una funzione obiettivo e all’eventuale soddisfacimento di
vincoli, espressi da relazioni di uguaglianza o disuguaglianza. Il valore ottimale delle
variabili di controllo è in genere cercato con metodi numerici, di tipo iterativo. In
particolare in questo caso non si ha la pretesa di caratterizzare completamente, il
sistema (ovvero di sapere cosa accade in qualunque soluzione si metta), ma solo ciò
che interessa.

Figura 19

Ad esempio, nel caso in cui si stia controllando un sistema è possibile che si voglia
definire un criterio di ottimalità nel funzionamento dello stesso: ciò si riconduce in una
funzione (o più funzioni) detta funzione obiettivo; in molti casi si riesce a sintetizzare
ciò che si vuole di un sistema da progettare e/o da controllare attraverso una
combinazione di variabili da rendere minima o massima (se per esempio si tratta di
un rendimento lo si vuole massimizzare, se si tratta di un costo lo si vuole
minimizzare): in alcuni casi è necessario trovare un criterio per poter mettere
assieme diversi aspetti separati (per esempio consumi ed emissioni) e definire di
conseguenza la funzione obiettivo; in taluni casi inoltre è necessario definire anche
delle relazioni (vincoli) da soddisfare (sotto forma di equazioni o di disequazioni). Il
problema dunque è quello di trovare la combinazione delle variabili di ingresso che
soddisfi i requisiti: invece di calcolare tutte le combinazioni possibili si punta al calcolo
della sola combinazione che soddisfi i requisiti imposti. Pertanto il modello viene
interrogato diverse volte (ovviamente si conosceranno sempre le variabili di input e i
parametri) e gli output ottenuti andranno a definire una funzione obiettivo con dei
vincoli: a questo punto si utilizza un algoritmo di ottimizzazione che modifica in
maniera opportuna le variabili di input per soddisfare il requisito imposto.
L’ottimizzazione può essere seguita da un’analisi parametrica detta analisi di
sensitività, per verificare lo scadimento della soluzione dovuto a scelte sub-ottimali
28
delle varabili di controllo. Si supponga di aver progettato un impianto termoelettrico
avendo determinato, tra le tante cose, quanto deve valere il diametro delle tubazioni
che collegano il generatore di vapore alla turbina; posto che il valore ottimale di tale
diametro sia pari a 63 𝑐𝑚 non è detto che un tubo di tale dimensione sia disponibile
in commercio: andando sul catalogo magari ci si accorge che le taglie disponibili, più
prossime al valore ottimale sono di 60 𝑐𝑚 e 65 𝑐𝑚; pertanto una volta eseguito il
calcolo per determinare l’ottimo è necessario capire se è possibile permettersi di
adottare un tubo di dimensioni differenti sulla base della disponibilità del mercato,
oppure se è necessario far realizzare tale tubo ad-hoc. Per capire quale tubo
scegliere è necessario andare a perturbare il valore ottimale e vedere come varia di
conseguenza la funzione obiettivo: se essa subisce piccole variazioni verosimilmente
si adotterà la soluzione standard che prevede l’adozione di un tubo da 60 𝑐𝑚 o da
65 𝑐𝑚, mentre se essa cambia radicalmente si preferisce realizzare il tubo ad-hoc
sebbene questo comporti dei costi notevolmente maggiori (la scelta è sempre frutto
di un compromesso).

Figura 20

I due andamenti della funzione obiettivo in funzione del diametro delle tubazioni
riportati di seguito evidenziano proprio quanto detto: se la funzione obiettivo varia
poco (curva in blu) la scelta ricade su un diametro commerciale, mentre se la
funzione obiettivo è molto sensibile alle variazioni di diametro (curva in rosso) si
preferisce adottare una soluzione ad-hoc.

Figura 21

29
Pertanto l’analisi di sensitività associata all’ottimizzazione permette di capire se è
possibile permettersi degli scostamenti dal valore ottimale ricavato oppure no.
Si tenga presente che il ruolo dei vincoli, nell’ambito dell’analisi di sensitività è talvolta
fondamentale. Si immagini di avere un impianto a gas e di voler ottimizzare il ciclo
termodinamico di riferimento (ciclo Joule: caso ideale) al variare del rapporto di
compressione 𝛽𝑐 :

Figura 22

Com’è noto al variare del rapporto di compressione (che è uguale al rapporto di


espansione), il rendimento varia ed in particolare cresce all’aumentare di tale valore.
Fissate le temperature minima (𝑇1 ) e massima (𝑇3 : fissata per motivi tecnologici) è
possibile calcolare il valore di tale rendimento e massimizzarlo in funzione di 𝛽𝑐 : il
rendimento che verrà fuori sarà pari a quello di Carnot (ciclo ideale) ed il sistema
evolverà tra la temperatura minima e quella massima senza variazione di entropia
(dal punto 1 si arriva in verticale al punto 2 che coincide con il punto 3 e si andrà
verticalmente al punto 4 coincidente con il punto 1); sebbene il rendimento risulti
massimo in tale condizione, il lavoro risulta nullo e pertanto tale ciclo non ha nessuna
utilità: non avendo fissato un valore di riferimento da rispettare per quanto riguarda il
lavoro risultante, l’algoritmo utilizzato procede non preoccupandosi di cosa accade a
quest’ultimo ma solo in funzione della massimizzazione del rendimento. Pertanto è
necessario fornire dei vincoli, in maniera da stabilire magari un lavoro minimo al di
sotto del quale non è possibile scendere.
Un altro criterio di analisi dei modelli e delle loro tipologie di applicazioni è legato al
confronto tra il tempo di simulazione (tempo necessario per effettuare la simulazione)
ed il tempo reale, caratteristico del processo in esame (tempo che si sta simulando):
ciò è valido per i processi che evolvono nel tempo. Un modo per classificare tali
modelli è confrontare i valori di questi due tempi:
 Tempo di simulazione = Tempo reale (real-time): applicazioni tipiche sono
l’hardware-in-the-loop, i simulatori (come molti giochi, o anche i simulatori di
volo: esso deve rispondere e mostrare ciò che accade esattamente nella
30
stessa sequenza temporale in cui si susseguono nel caso reale, oltre a
riprodurlo fedelmente).
 Non c’è legame tra tempo di calcolo (tempo di simulazione) e il tempo reale:
applicazioni tipiche sono studi di base, progetto (magari si studia l’evoluzione
di qualche minuto del sistema, impiegando pochi secondi o magari anche delle
ore a seconda della complessità del calcolo, ma ciò non è importante),
validazione di modelli teorici, progetto sistemi di controllo.
 Tempo di calcolo < Tempo reale: in tal caso prima che si sia completato il
processo, si deve essere in grado di predire cosa accade; tipiche applicazioni
sono l’ottimizzazione on-line (ad esempio di un impianto petrolchimico:
simulando il processo si cerca di predire quale sarebbe il comportamento
dell’impianto al variare di una serie di variabili; in tal modo si riesce a
comprendere qual è il miglior modo di agire per ottenere un determinato output:
il modello deve anticipare il sistema in modo che prima che accada qualcosa
si hanno delle alternative tra le quali scegliere), model-based control system
(controllo predittivo e adattativo basato sul modello che deve essere
sufficientemente veloce da permettere l’effettuazione di un determinato
numero di test per scegliere la soluzione migliore per il controllo del sistema).
Nell’ambito del controllo di un sistema, possono essere individuate diverse tipologie
di applicazioni a seconda che il sistema di controllo ed il sistema in esame siano reali
o simulati:

Figura 23

Quando si va a controllare un sistema si parte presumibilmente da una simulazione


del sistema (da un modello) e della logica di controllo sul computer (software-in-the-
loop): in tal caso sia il sistema fisico (ad esempio il motore), che il sistema di controllo
(ad esempio la centralina) sono replicate sul computer attraverso delle equazioni per
capire cosa accade. Il passo finale sarà quello di mettere il sistema di controllo reale
(centralina) su un sistema reale (veicolo). Tra il primo livello (software-in-the-loop) e
l’ultimo livello (implementazione reale), magari si ha l’esigenza di passare per degli
step intermedi. In particolare è possibile procedere in due modi:
 Se l’obiettivo è progettare la centralina di controllo e si ha a disposizione un
sistema reale, prima di produrre tale centralina, ci può essere la necessità di
capire come funzionano le logiche di controllo programmandole sul computer:

31
in tal caso il sistema reale si interfaccia con il calcolatore che simula il sistema
di controllo (control design, control prototyping).
 Nell’hardware-in-the-loop si fa il contrario: progettata la centralina, prima di
sperimentarla sul sistema reale, la si va a testare su un sistema simulato; tale
sistema deve essere fatto in modo che i tempi di risposta siano esattamente
uguali a quelli del sistema reale: le variabili di ingresso e di uscita del sistema
reale e di quello simulato devono essere le stesse e la sequenza temporale
deve essere la medesima. Ciò può essere fatto per motivi di sicurezza: se si
sta realizzando un sistema di controllo per un aereo prima di implementarlo su
un sistema reale per controllarne la bontà lo si testa su un simulatore di volo
che sia molto fedele e replichi esattamente il funzionamento dell’aereo
(chiaramente per le autovetture vale lo stesso in quanto può essere comunque
pericoloso).
L’interazione tra i modelli e la sperimentazione viene studiata da una disciplina detta
Experimental Design (progetto degli esperimenti). La teoria dell’Experimental Design
(ED) permette di determinare la scelta ottimale delle condizioni di misura, in modo
da massimizzare la significatività del modello da identificare. Si tenga presente che
una sperimentazione può essere in generale piuttosto lunga e costosa, nonché avere
determinate implicazioni (se si utilizzano delle cavie (animali) per effettuare tali
esperimenti è impensabile effettuare un numero elevatissimo di prove) e pertanto è
di fondamentale importanza capire quali sono i criteri su cui basare la
sperimentazione. Si supponga di avere due variabili ed in particolare di effettuare
delle prove al variare di una di esse (𝑥) per capire qual è l’andamento dell’altra (y); si
supponga di avere un legame lineare tra le due variabili: l’obiettivo è quello di
determinare i coefficienti della retta (𝑎, 𝑏), potendo effettuare un massimo di otto
esperimenti:
𝑦 = 𝑎𝑥 + 𝑏

Figura 24

32
Per condurre l’esperimento è possibile procedere in diverso modo. L’idea più intuitiva
sarebbe quella di scegliere un certo intervallo di misura e all’interno dello stesso
scegliere una distribuzione equispaziata di punti 𝑥 su cui effettuare le prove
(distribuzione uniforme); tuttavia tale idea, per quanto semplice possa sembrare, non
è quella ottimale per cui sarebbe meglio non procedere in questo modo. La soluzione
ottimale viene fornita proprio dalla teoria dell’Experimental Design la quale
suggerisce di effettuare gli otto esperimenti su punti concentrati agli estremi
dell’intervallo (quattro prove su ogni estremo). In ogni caso, in situazioni ancora più
complesse (funzione diversa da una retta) potrebbe essere difficile scegliere come
eseguire i test e pertanto si fa ricorso a questa teoria in quanto la scelta potrebbe
avere delle implicazioni sul risultato (tale disciplina aiuta a selezionare i punti). La
metodologia adotta da questa teoria si rifà all’algebra lineare implementando i modelli
realizzati su un calcolatore in grado di scegliere il prossimo esperimento da eseguire
in funzione dei risultati trovati con l’esperimento precedente: in questo modo si riesce
a ricavare in automatico il piano di sperimentazione ottimale.
Uno dei limiti dell’analisi modellistica è costituito dall’impossibilità di prevedere
completamente alcune tipologie di fenomeni (detti caotici), caratterizzata da una
elevata sensitività ai valori iniziali. È importante tenere presente che nella realtà
complessa molte volte è difficile fare delle previsioni e c’è un problema molto
significativo di affidabilità: di fatto, le stesse previsioni del tempo, sono affidabili in
tempi piuttosto brevi (dell’ordine di qualche giorno), ma generalmente molto poco
precise per tempi lunghi, sebbene esse siano ottenute allo stesso modo (ciò è dovuto
proprio al fatto che determinati fenomeni hanno un’elevata sensitività ai valori iniziali).
È interessante verificare, dagli scritti di importanti scienziati, l’evoluzione dell’idea di
predittività nel corso dei secoli e l’acquisizione della consapevolezza dei limiti alla
possibilità di una previsione quantitativa per alcune classi di fenomeni.
All’inizio dell’ottocento Laplace afferma:

Figura 25

Per intelligenza si potrebbe intendere un modello e non per forza un qualcosa legata
all’uomo.
33
Un secolo più tardi Poicaré afferma:

Figura 26

Si inizia a capire cioè che alcuni tipi di fenomeni non possono essere previsti lungo
certe scale temporali (come per i fenomeni metereologici).
Infine circa un secolo dopo Lorenz afferma:

Figura 27

In pratico esso sostiene che piccole cause possono produrre grandi effetti.
Il comportamento irregolare spesso osservato in natura può essere il risultato della
interazione di molti gradi di libertà in un sistema complesso. Il meteorologo Lorenz
ha però mostrato come il comportamento caotico può essere riprodotto anche con
tre semplici equazioni differenziali non lineari, come quelle che descrivono la
convezione di Rayleigh-Benard tra due lastre piane (fenomeno abbastanza
semplice). Si immagini di avere due lastre piane indefinite a temperature differenti
(𝑇1 e 𝑇2 ), con in mezzo un fluido quale l’aria:

Figura 28

34
Se le temperature delle due lastre sono differenti si genera un moto convettivo tra le
due lastre; tale moto convettivo tende a muovere dalla zona più calda a quella più
fredda. È possibile modellare questo fenomeno con le leggi della termodinamica
dello scambio termico ottenendo tre equazioni differenziali (𝑥, 𝑦, 𝑧) che descrivono le
coordinate con cui si muove nel tempo un generico punto:
𝑑𝑥
= 𝜎 ∙ (𝑦 − 𝑥 )
𝑑𝑡
𝑑𝑦
= −𝑥𝑧 + 𝑅𝑥 − 𝑦
𝑑𝑡
𝑑𝑧
= −𝑏𝑧 + 𝑥𝑦
𝑑𝑡
Dove:
𝜎 = 𝑡𝑖𝑒𝑛𝑒 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑓𝑒𝑛𝑜𝑚𝑒𝑛𝑖 𝑑𝑖 𝑑𝑖𝑓𝑓𝑢𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒/𝑣𝑖𝑠𝑐𝑜𝑠𝑖𝑡à
𝑅 = ℎ ∙ (𝑇2 − 𝑇1 )
ℎ = 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒
𝑏 = 𝑝𝑎𝑟𝑎𝑚𝑒𝑡𝑟𝑜 𝑔𝑒𝑜𝑚𝑒𝑡𝑟𝑖𝑐𝑜
Le equazioni sono non lineari in quanto c’è accoppiamento tra due variabili. Tuttavia
non è difficile integrare tali relazioni utilizzando un computer: ovviamente è
necessario assegnare delle condizioni iniziali alle coordinate 𝑥, 𝑦, 𝑧 e un valore ai
parametri 𝜎, ℎ, 𝑏 nonché i valori di temperatura 𝑇2 , 𝑇2 .
Per verificare l’eventuale comportamento caotico, le equazioni sono risolte a partire
da valori iniziali poco differenti. In particolare con riferimento alla coordinata 𝑥 (per
𝑦, 𝑧 sarà lo stesso), posto 𝜎 = 10 e 𝑏 = 8/3, il comportamento caotico si osserva per
13 < 𝑅 < 24.06. Di fatto, posto 𝑅 = 10 si ha:

Figura 29

35
Pur avendo differenze nel valore iniziale di 𝑥0 , giacché si passa da 1 a 1.01 le curve
praticamente coincidono e non si osservano traiettorie differenti.
Tuttavia per 𝑅 = 15 si può osservare un comportamento di tipo caotico, ovvero dopo
un periodo iniziale le soluzioni divergono (per 𝑡 = 17 𝑠), senza ritrovare un
andamento comune:

Figura 30

In tal caso cambiando di poco la condizione iniziale 𝑥0 ed in particolare passando da


1 a 1.001 dopo un certo tempo (𝑡 = 17 𝑠) le curve si discostano ampiamente senza
mai più ritornare coincidenti (pur rimanendo qualitativamente simili). Pertanto in un
fenomeno simile, a partire da un certo tempo, non si è più in grado di fare delle
previsioni giacché con una piccola incertezza iniziale si hanno valori totalmente
sballati. Si tenga presente che le misure in generale sono sempre approssimate e
pertanto se un’incertezza di un solo millesimo provoca un risultato di questo tipo il
modello non è in grado di fare previsioni.
Per 𝑅 = 50 invece, le soluzioni pur divergendo, ritrovano traiettorie comuni stabili:

Figura 31

Queste tipologie di modelli vengono studiati con strumenti matematici sofisticati che
si rifanno all’algebra lineare e alla teoria dei sistemi, utilizzando metodologie quali
trasformate di Laplace, …. In ogni caso il modo più semplice per mettersi a riparo da
errori di previsione è quello di andare a simulare il sistema nel tempo perturbando le
36
variabili iniziali e cercando di capire se le previsioni siano stabili (se non sono stabili
non è possibile fidarsi dei valori numerici che si hanno in uscita).
I modelli non completamente basati sulla conoscenza a priori hanno necessità di
derivare informazioni attraverso misure sperimentali sul sistema reale. Nel caso dei
modelli black-box (struttura solo matematica) tutta l’informazione è derivata dal
confronto con misure sperimentali, mentre per i modelli grey-box, basati su una
rappresentazione fisica approssimata del sistema, è necessario derivare delle misure
delle informazioni aggiuntive. Le informazioni sono in genere incorporate nel modello
attraverso uno o più costanti numeriche dette parametri e la fase di stima degli stessi
viene detta identificazione. Oltre al valore dei parametri, la stima può essere estesa
alla misura della loro incertezza (intervalli di confidenza), attraverso una analisi di
significativà (si cerca di capire il livello di precisione dei parametri e dunque del
calcolo ottenuto).
Nel caso di proiezioni elettorali, ad esempio, l’incertezza assume un ruolo
fondamentale: affermare che un partito ha ottenuto il 51 % ± 0.1 % dei voti è cosa
diversa rispetto al dire che ne ha ottenuto il 51 % ± 5 % (nel primo caso sicuramente
ha vinto le elezioni, nel secondo caso non è detto in quanto c’è un elevato livello di
incertezza). Pertanto è necessaria un’analisi di significatività per capire l’intervallo di
incertezza del calcolo. L’identificazione stima sia il valore del parametro che la sua
incertezza.
La tecnica più universalmente adoperata per la stima dei parametri è detta dei minimi
quadrati. In particolare si supponga di avere i seguenti dati:
𝑦 = 𝑓(𝑥, 𝛽) (𝑒𝑞𝑢𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑚𝑜𝑑𝑒𝑙𝑙𝑜)
𝑥 = 𝑣𝑎𝑟𝑖𝑎𝑏𝑖𝑙𝑖 𝑖𝑛𝑑𝑖𝑝𝑒𝑛𝑑𝑒𝑛𝑡𝑖 (𝑑𝑖 𝑖𝑛𝑔𝑟𝑒𝑠𝑠𝑜)
𝑦 = 𝑣𝑎𝑟𝑖𝑎𝑏𝑖𝑙𝑖 𝑑𝑖𝑝𝑒𝑛𝑑𝑒𝑛𝑡𝑖 (𝑑𝑖 𝑢𝑠𝑐𝑖𝑡𝑎)
𝑛 = 𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜 𝑑𝑖 𝑜𝑠𝑠𝑒𝑟𝑣𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 (𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜 𝑑𝑖 𝑑𝑎𝑡𝑖 𝑎 𝑑𝑖𝑠𝑝𝑜𝑠𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒)
𝛽 = 𝑝𝑎𝑟𝑎𝑚𝑒𝑡𝑟𝑖 𝑑𝑒𝑙 𝑚𝑜𝑑𝑒𝑙𝑙𝑜
𝑦 ∗ = 𝑣𝑎𝑙𝑜𝑟𝑖 𝑜𝑠𝑠𝑒𝑟𝑣𝑎𝑡𝑖 (𝑚𝑖𝑠𝑢𝑟𝑎𝑡𝑖 ) 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑣𝑎𝑟𝑎𝑖𝑏𝑖𝑙𝑖 𝑑𝑖𝑝𝑒𝑛𝑑𝑒𝑛𝑡𝑖
𝑒 = 𝑦 ∗ − 𝑦 (𝑒𝑟𝑟𝑜𝑟𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑚𝑜𝑑𝑒𝑙𝑙𝑜: 𝑑𝑒𝑣𝑒 𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑒 𝑖𝑙 𝑝𝑖ù 𝑝𝑖𝑐𝑐𝑜𝑙𝑜 𝑝𝑜𝑠𝑠𝑖𝑏𝑖𝑙𝑒)
𝑤 = 𝑝𝑒𝑠𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑔𝑒𝑛𝑒𝑟𝑖𝑐𝑎 𝑜𝑠𝑠𝑒𝑟𝑣𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒
𝑆 = 𝑠𝑜𝑚𝑚𝑎 𝑑𝑒𝑔𝑙𝑖 𝑠𝑐𝑎𝑟𝑡𝑖 𝑞𝑢𝑎𝑑𝑟𝑎𝑡𝑖𝑐𝑖
Secondo la metodologia dei minimi quadrati il valore ottimale il valore ottimale dei
parametri 𝛽 è quello a cui corrisponde il minimo valore della somma degli scarti
quadrati 𝑆:
𝑛 𝑛
min 𝑆 = ∑ 𝑒𝑖2 = ∑ [𝑦𝑖 (𝑥𝑖 , 𝛽) − 𝑦𝑖∗ ]2
𝛽 𝑖=1 𝑖=1

37
È evidente che si va a minimizzare la somma degli errori elevati al quadrato per
evitare che un errore negativo compensi uno positivo dando l’illusione che il modello
dia un errore nullo. Tuttavia in questo modo si pesa allo stesso modo uno scarto in
positivo e uno scarto in negativo: in alcuni casi può non essere la cosa migliore
perché un errore negativo potrebbe essere meno grave di un errore positivo a
seconda dell’applicazione.
Una variante di tale metodo è data dal metodo dei minimi quadrati pesati, in cui è
possibile associare alla generica i-esima osservazione un peso 𝑤𝑖 , legato, per
esempio, all’attendibilità della singola misura sperimentale:
min 𝑆 = ∑𝑛𝑖=1 𝑒𝑖2 = ∑𝑛𝑖=1[𝑤𝑖 ∙ (𝑦𝑖 (𝑥𝑖 , 𝛽) − 𝑦𝑖∗ )]2 𝑐𝑜𝑛: 0 ≤ 𝑤𝑖 ≤ 1
𝛽

È possibile cioè complicare le cose e dare un certo livello di affidabilità ad una misura
piuttosto che ad un’altra; avendo effettuato due misure con strumenti differenti di cui
uno meno preciso e l’altro più preciso è possibile associare dei pesi per calibrare
diversamente le misure stesse.
La stima in blocco dei parametri è effettuata attraverso l’analisi contemporanea di
tutto l’insieme delle osservazioni disponibili: in tal caso si suppone di avere a
disposizione tutti i dati sin dall’inizio.
In molti casi applicativi, in cui i parametri non sono tutti immediatamente disponibili
si inizia a lavorare con quelli che si ha a disposizione e man mano vengono aggiunti
altri dati: in tal caso si utilizza la tecnica della stima ricorsiva. Secondo la tecnica della
stima ricorsiva i parametri sono aggiornati (update) non appena una nuova
osservazione (o un insieme di osservazioni) si renda disponibile. È utile per
l’identificazione dei modelli in real-time.
Un esempio, per capire bene la differenza tra le due tipologie di stime, può essere
fatto per il calcolo della media aritmetica di un insieme di 𝑁 valori 𝑦𝑖 con la tecnica a
blocchi e con la tecnica ricorsiva.
Nel caso in cui si abbiano tutti i dati disponibili (stima a blocchi) si ha:
𝑁
1
𝑦̅̅
̅̅𝑁 = ∑ 𝑦𝑖
𝑁
𝑖=1

Nel caso in cui non siano disponibili tutti i dati sin dall’inizio si può ricorrere alla stima
ricorsiva ed in questo caso si ha:
𝑦0 = 0
̅̅̅
1
𝑦𝑘 = 𝑦
̅̅̅ ̅̅̅̅̅̅
𝑘−1 − ∙ (𝑦 𝑘−1 − 𝑦𝑘 ) 𝑐𝑜𝑛: 𝑘 = 1, … , 𝑁
̅̅̅̅̅̅
𝑘
Pertanto si ha:

38
1
𝑦1 = ̅̅̅
̅̅̅ 𝑦0 − ∙ (̅̅̅
𝑦0 − 𝑦1 ) = 𝑦1
1
1 1
𝑦2 = ̅̅̅
̅̅̅ 𝑦1 − ∙ (̅̅̅
𝑦1 − 𝑦2 ) = ∙ (𝑦1 + 𝑦2 )
2 2
… = …………………………………………………
In questo modo, ogni volta che si ha a disposizione un nuovo valore si effettua un
solo calcolo.
Per la stima dei sistemi dinamici, si utilizzano molto spesso alcune metodologie
ricorsive di seguito indicate a titolo di esempio:
 ARMA – Auto Regressive Moving Average
 ARMAX – Auto Regressive Moving Average with eXogenous Inputs
 NARMAX – Non-Linear Auto Regressive Moving Average with eXogenous
Inputs

39
Lezione 4 (Pianese) 10/03/2017
Motori alternativi a combustione interna: introduzione
Per studiare il ciclo limite di un motore alternativo a combustione interna è necessario
fare riferimento alla termo-chimica. Nel passare dal ciclo ideale al ciclo limite di un
motore si ha una forte riduzione del rendimento. Un motore alternativo a combustione
interna non può essere studiato con la stessa facilità con cui si studia un impianto a
gas. Di fatto in quest’ultimo caso è possibile immaginare che il fluido sia ideale
giacché il rapporto di miscela è molto elevato, la combustione avviene in una camera
di combustione dedicata solo a quello e dunque non si hanno problemi di
dissociazione, mentre in un motore a combustione interna le temperature sono molto
più elevate, la miscela è prossima a quella stechiometrica e quindi tra i prodotti non
è possibile trascurare fenomeni di dissociazione (nel caso di combustione ideale
completa l’ossidazione di 𝐶𝑛 𝐻𝑚 porta alla formazione di 𝐶𝑂2 , 𝐻2 𝑂 e 𝑁2 che però è un
gas inerte e non partecipa alla combustione; nel momento in cui la miscela diventa
magra ci sarà ossigeno in più che non viene utilizzato, mentre se la miscela è ricca
ci sarà un’ossidazione parziale del carbonio con la formazione di 𝐶𝑂 e 𝐶𝑂2 e ci sarà
anche dell’idrogeno 𝐻2 che non riuscirà ad essere ossidato: pertanto si arriva almeno
a cinque specie). Nella realtà, date le temperature, anidride carbonica, ossido di
carbonio e idrogeno reagiscono dando vita alla formazione di altre specie e la
variazione di pressione e temperatura altererà le condizioni di equilibrio e quindi la
concentrazione varierà ad ogni istante; il calore che non viene rilasciato dalle reazioni
chimiche per la conversione in lavoro determina una riduzione del rendimento
rispetto al caso ideale.
Terminata la parte della combustione termochimica si analizzeranno i fenomeni di
ricambio della carica, cercando di spiegare il motivo per cui il rendimento volumetrico
𝜆𝑣 ha un andamento quadratico in funzione del regime di giri 𝑛:

Figura 32

L’andamento del rendimento volumetrico ha un impatto molto forte sulla coppia. La


progettazione del sistema di aspirazione e scarico determina le caratteristiche di
funzionamento del motore e di fatto l’applicazione: un condotto lungo consente un
elevato valore del rendimento volumetrico a bassi regimi di giri, mentre un condotto
corto consente un valore elevato del rendimento volumetrico ad alti giri.

40
Successivamente si analizzeranno i sistemi di sovralimentazione e si parlerà più
diffusamente del motore a due tempi.
Poi si parlerà della combustione analizzata da un altro punto di vista. Di fatto la
combustione può essere analizzata sia dal punto di vista della termochimica, sia dal
punto di vista della fenomenologia fisica (fluidodinamica) della combustione stessa
(il fronte di combustione avanza con una certa velocità, …), cercando di spiegare i
motivi per cui una combustione turbolenta è più veloce di una combustione laminare.
Supposto di avere un fronte di fiamma che avanza all’interno di un cilindro di un
motore ad accensione comandata:

Figura 33

La fiamma avanza con una velocità dell’ordine dei 10 𝑚/𝑠 in regime turbolento e
dell’ordine di 1 𝑚/𝑠 in regime laminare. La reazione chimica che avviene è del tipo:
𝑚 𝑚 𝑚
𝐶𝑛 𝐻𝑚 + (𝑛 + ) (𝑂2 + 3.773𝑁2 ) = 𝑛𝐶𝑂2 + 𝐻2 𝑂 + 3.773 (𝑛 + ) 𝑁2
4 2 4

Tra i reagenti e i prodotti ci sono migliaia di reazioni chimiche (reazioni a catena) e


diversi fenomeni. Scendendo nel dettaglio della fenomenologia bisogna tenere
presente che la fiamma avanza con una certa velocità e quindi c’è bisogno di un
certo tempo affinché si propaghi in tutta la camera.
Tratteremo dunque le leggi di rilascio del calore per i motori ad accensione
comandata e ad accensione per compressione ed infine si parlerà delle emissioni
inquinanti (quali sono le emissioni, quali sono i problemi alla base e fenomeni chimici
di formazione). Com’è noto nel caso del motore Diesel c’è una maggiore criticità da
un punto di vista delle emissioni ed in cui si cerca di trovare un compromesso tra le
emissioni di ossidi di azoto e di particolato solido.
Motori alternativi a combustione interna: termochimica
Esistono divere tipologie di motori alternativa a combustione interna a seconda
dell’applicazione: motori navali, motori per autotrazione, ….
Quando si devono serrare i bulloni delle teste si utilizza una chiave dinamometrica.
La chiave dinamometrica è un oggetto di una certa lunghezza dotato di una molla
che deve caricare in base alla coppia di serraggio; quando si va a stringere una volta
41
superata la coppia de serraggio la molla scatta e in tal modo si serrano i bulloni con
una coppia di chiusura; quando si deve tenere serrata la testa e il basamento del
motore è necessaria una coppia di serraggio per fare in modo che il cilindro sia a
tenuta, ma soprattutto che le forze di chiusura non siano tali da creare dei problemi
nel momento in cui ci siano deformazioni termiche. Nel caso in cui il motore abbia
elevate dimensioni si utilizzano altre tecniche perché i bulloni sono molto grandi: si
pressano la testa e il basamento e si avvita a mano: nel momento in cui si è raggiunto
un certo livello di chiusura basta rilasciare la pressa e si attua la forza di chiusura
(invece di stringere, si accoppiano con una forza maggiore di quella di chiusura e per
effetto della deformazione si va ad avvitare).
A questo punto si abbandona il ciclo ideale e si introduce il concetto di ciclo limite. Si
ricordi che il ciclo ideale nel piano pressione-volume per un motore a ciclo Otto è il
seguente:

Figura 34

Esso è costituito da una compressione adiabatica reversibile (1 – 2), un’adduzione


di calore a volume costante (2 – 3), un’espansione adiabatica reversibile (3 – 4) e
una sottrazione di calore a volume costante (4 – 1).
Nel caso del ciclo Diesel, sempre sul piano pressione-volume invece si ha:

Figura 35

Tale ciclo è costituito da una compressione adiabatica reversibile (1 – 2),


un’adduzione di calore a pressione costante (2 – 3), un’espansione adiabatica
reversibile (3 – 4) e una sottrazione di calore a volume costante (4 – 1). In questo
caso si raggiungono pressioni più elevate e volumi tendenzialmente più bassi.
42
In particolare nel caso di ciclo ideale si considerano la macchina ideale
(trasformazioni e processi ideale, assenza di attrito e resistenze) ed il fluido ideale
(fluido perfetto a calori specifici costanti, composizione costante); in tal caso non c’è
attrito tra gli elementi della macchina né tra fluido e macchina né tantomeno attrito
interno al fluido (fluido non viscoso). Nel caso del ciclo limite invece si assume che
la macchina sia ideale, ma il fluido sia reale: tuttavia per congruenza con il fatto che
la macchina sia perfetta si assume che il fluido sia non viscoso. Pertanto anche in
questo caso non ci sono irreversibilità all’interno della macchina né all’interno del
fluido.
In effetti da un punto di vista tecnologico è possibile immaginare che la macchina sia
perfetta: è solo una questione di soldi e di lavorazioni che si effettuano su di essa;
invece immaginare di andare contro il secondo principio della termodinamica è
assurdo, ecco perché il ciclo limite assume molta importanza. Spendendo molti soldi
è possibile arrivare a costruire una macchina senza attriti, perfettamente adiabatica,
…. Lo stesso ciclo può essere effettuato in modo che l’adduzione di calore avvenga
a volume costante in quanto è possibile immaginare un manovellismo di spinta
rotativo in grado di non seguire una legge sinusoidale, ma una legge caratterizzata
da una velocità costante lungo la corsa e un arresto immediato al punto morto
superiore. In effetti questa è una caratteristica dei motori elettrici lineari.

Figura 36

Si immagini di avvolgere delle spire attorno ad un cilindro, all’interno del quale vi sia
un pistone. Inviando una opportuna corrente all’interno delle spire, il pistone,
costruito di materiale opportuno, per effetto dell’induzione magnetico si muoverà
all’interno del cilindro: è possibile controllare la corrente in modo da far avanzare il
pistone alla velocità desiderata e con la legge di moto voluta; si fa in modo da
arrestare istantaneamente il pistone al punto morto superiore, dopodiché si fa partire
il pistone, si inverte la corrente e si ritorna al punto morto inferiore. Giocando dunque
sulla modulazione e sul verso della corrente è possibile determinare tale moto dal
pistone: durante la salita si prende lavoro dall’esterno, mentre durante la fase di
espansione si recupera quel lavoro grazie al fenomeno di combustione e si va a
caricare una batteria dove si va a stoccare l’energia elettrica (il principio della
conversione dell’energia chimica in lavoro rimane alterato, ma il lavoro viene
convertito direttamente in energia elettrica). Quindi basta controllare la corrente
opportunamente per avere un’adduzione di calore a volume costante, ….

43
Pertanto nel ciclo limite ci si concentra sul comportamento reale del fluido formato
da una miscela di aria e combustibile: il gas non è monocomponente, ma formato da
ossigeno, azoto e combustibile; a valle della combustione si otterrà una miscela di
gas combusti in cui si arriva fino a dieci specie differenti in proporzioni variabili a
seconda delle temperature (esse determinano effetti di dissociazione e
riassociazione e tali reazioni possono determinare un assorbimento del calore che
altrimenti potrebbe essere convertito in lavoro: questo è uno dei motivi per cui il
rendimento cala). Inoltre si assume la composizione dei gas combusti in equilibrio
chimico al di sopra dei 1700 𝐾 (equilibrio chimico vuol dire che in una qualunque
reazione non c’è ritardo nel passare da una specie all’alta, ma l’equilibrio si sposta
da un lato all’altro al variare della temperatura senza nessun fenomeno di ritardo o
di inerzia); al di sotto della temperatura di 1700 𝐾 si ha invece un congelamento cioè
le reazioni sono talmente lente da ritenere che la miscela non cambi; è evidente che
a 1700 𝐾 non c’è un vero e proprio switch, ma nella realtà c’è un passaggio
intermedio (non è un passaggio immediato). A rigore in un ciclo limite, trattandosi
ancora di una macchina ideale, si dovrebbe immaginare che non ci siano valvole, ma
per avvicinare il sistema alla realtà e dunque accoppiare a tale ciclo la parte di
ricambio della carica si assume un’apertura e una chiusura istantanea delle valvole
(al limite si potrebbe ottenere una cosa di questo tipo):

Figura 37

In tal modo si otterranno rendimenti più bassi rispetto a quelli del ciclo ideale.
Quindi schematizzando quanto detto si ha:
 Fluido di lavoro: miscela di aria, combustibile e gas combusti, in proporzioni
variabili
 Effetti della viscosità: trascurabili
 Composizione dei gas combusti: assunta in equilibrio chimico al di sopra dei
1700 𝐾, e congelata al di sotto di tale temperatura
 Fasi di compressione ed espansione: adiabatiche isoentropiche
 Combustione: istantanea (ciclo Otto), o a pressione costante (ciclo Diesel)
 Apertura della valvola di scarico al PMI: scarico istantaneo

44
 Fasi di scarico forzato ed aspirazione: si trascurano le perdite di carico e le
irreversibilità
 Chiusura della valvola di aspirazione al PMI
Di seguito si riporta un confronto grafico tra ciclo ideale e ciclo limite, prima con
riferimento al ciclo Beau de Rochas (ciclo Otto) e poi con riferimento al ciclo Diesel:

Figura 38

Figura 39

45
Lezione 5 (Pianese) 14/03/2017
Motori alternativi a combustione interna: termochimica
Si fa riferimento alla seguente figura in cui si riportano il ciclo ideale e i cicli limite con
o senza dissociazione per un motore a ciclo Otto sia sul piano pressione-volume che
sul piano temperatura-entropia.

Figura 40

Il ciclo ideale viene rappresentato in linea tratteggiata con la numerazione 1’2’3’4’ ed


è praticamente il ciclo di partenza. Nel ciclo limite il fluido, da un punto di vista
termodinamico è completo, essendo un fluido reale (tranne che per la viscosità, in
quanto si considera il fluido ancora inviscido); il fatto che il fluido sia non viscoso
spiega il perché le trasformazioni di compressione ed espansione possano essere
ancora considerate adiabatiche reversibili: la macchina è di fatto ideale (adiabaticità)
e non ci sono attriti interni al fluido (reversibilità). Nella fase 2’3’ del ciclo ideale (23
del ciclo limite) c’è un’adduzione di calore a volume costante (ciclo Otto): il pistone è
fermo al punto morto superiore, parte la combustione e raggiunto il livello massimo
di pressione il pistone inizia a scendere (fase di espansione); nel caso di impianti a
gas la forma del ciclo ideale è praticamente uguale a quella del ciclo limite in quanto
non ci sono differenze sostanziali, dato l’elevato rapporto di miscela e le basse
temperature medie. Nel caso del motore ad accensione comandata la miscela
durante la fase di compressione è costituita da aria e combustibile, mentre durante
la fase di espansione subentrano all’interno della miscela dei gas combusti: si
arriverà a considerare fino a dieci specie all’interno della miscela (non solo anidride,
carbonica, acqua e azoto, ma anche idrocarburi incombusti, monossido di carbonio,
idrogeno, …). Nel caso di combustione ideale gli unici prodotti della combustione
46
sono anidride carbonica ed acqua (oltre all’azoto che è un gas inerte) e dunque si ha
la massima conversione energetica: le trasformazioni che convertono il combustibile
di partenza in anidride carbonica e acqua rilasciano la massima quantità di calore.
Nel caso in cui si formi del monossido di carbonio, esso rappresenta un prodotto
incompleto della combustione in quanto non è completamente ossidato per formare
anidride carbonica: il calore dunque non viene rilasciato, ma rimane internamente al
composto sotto il profilo del legame chimico; in pratica nel caso di combustione
incompleta, a causa del fatto che non c’è ossigeno sufficiente (o combustibile in
eccesso) oltre alla formazione di anidride carbonica si ha anche la formazione di
monossido di carbonio e questo comporta un minore calore rilasciato in quanto
quest’ultimo ha ancora una sorta di energia potenziale da estrinsecare, ma che
rimane sotto forma di legame chimico. Di fatto la pressione massima, ma anche la
temperatura, a cui si arriva è inferiore nel caso di combustione incompleta (l’energia
potenziale chimica rimane all’interno delle specie chimiche e non viene rilasciata e
quindi non convertita in calore né tantomeno in lavoro). La combustione incompleta
si può avere sia a causa della mancanza di ossigeno sia per motivi tecnologici:
l’idrocarburo anziché essere bruciato trafila attraverso le fasce elastiche del pistone,
o va ad annidarsi in alcuni incavi presenti e quindi quell’energia potenziale chimica
non viene convertita in calore. Pertanto anziché arrivare nel punto 3’ come nel caso
ideale, si arriva nel punto 3 proprio a causa di questo fenomeno; inoltre si consideri
che anche i calori specifici considerati nel ciclo ideale e in quello limite sono differenti:
nel caso ideale infatti la miscela è praticamente costituita da aria (2’3’), mentre nel
caso limite si ha una miscela di gas il che comporta una variazione nei calori specifici
(il 𝑘 della miscela di gas è più basso di quello dell’aria e ciò porta di fatto ad una
riduzione della temperatura e della pressione). Nel caso in cui invece si abbia anche
dissociazione il fenomeno è ancora più complicato; nel caso di combustione
completa si ha la seguente reazione:
𝑚 𝑚 𝑚
𝐶𝑛 𝐻𝑚 + (𝑛 + ) (𝑂2 + 3.773𝑁2 ) → 𝑛𝐶𝑂2 + 𝐻2 𝑂 + 3.773 (𝑛 + ) 𝑁2
4 2 4

In generale la reazione può essere scritta anche nella maniera seguente:


𝑚 𝑚 𝑚
𝛷𝐶𝑛 𝐻𝑚 + (𝑛 + ) (𝑂2 + 3.773𝑁2 ) → 𝑛𝐶𝑂2 + 𝐻2 𝑂 + 3.773 (𝑛 + ) 𝑁2
4 2 4

Dove 𝛷 è il rapporto di equivalenza e può assumere i seguenti valori:


𝛷 = 1 ∶ 𝑚𝑖𝑠𝑐𝑒𝑙𝑎 𝑠𝑡𝑒𝑐ℎ𝑖𝑜𝑚𝑒𝑡𝑟𝑖𝑐𝑎
𝛷 > 1 ∶ 𝑚𝑖𝑠𝑐𝑒𝑙𝑎 𝑟𝑖𝑐𝑐𝑎 (𝑝𝑟𝑒𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑑𝑖 𝑝𝑖ù 𝑐𝑜𝑚𝑏𝑢𝑠𝑡𝑖𝑏𝑖𝑙𝑒)
𝛷 < 1 ∶ 𝑚𝑖𝑠𝑐𝑒𝑙𝑎 𝑚𝑎𝑔𝑟𝑎 (𝑝𝑟𝑒𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑑𝑖 𝑝𝑖ù 𝑎𝑟𝑖𝑎)
Nel caso in cui c’è un eccesso di combustibile tra i prodotti della combustione si
ritrovano anche il monossido di carbonio e l’idrogeno (biatomico), mentre nel caso in
cui c’è un eccesso di ossigeno tra i prodotti si ritrova anche l’ossigeno (questi si
aggiungono a quelli già sempre presenti che sono: anidride carbonica, acqua e

47
azoto). Ciò accade anche in assenza di dissociazione in quanto non è legato a
quest’aspetto. Nel caso in cui vi sia dissociazione (fenomeno chimico) e si immagina
di avere dell’anidride carbonica all’interno della miscela, nel passaggio dal punto 2 al
punto 3’’ (caso con dissociazione) si ha la seguente reazione:
1
𝐶𝑂2 ⇄ 𝐶𝑂 + 𝑂2
2
A elevata temperatura l’anidride carbonica tende a dissociarsi formando monossido
di carbonio e ossigeno (biatomico): in pratica essa assorbe dell’energia per rompere
i legami chimici per formare 𝐶𝑂 e 𝑂2 . Se si ragiona in condizioni di equilibrio chimico
(reazioni estremamente veloci) non si introduce una dinamica, ma seguono la
temperatura: se essa varia istantaneamente si ha immediatamente un aumento di
monossido di carbonio e ossigeno; in pratica quando la temperatura aumenta si ha
una dissociazione e quando la temperatura si riabbassa si ha una riassociazione e
si riottiene l’anidride carbonica rilasciando calore. Se la trasformazione è ideale la
quantità di calore presa per dissociare l’anidride carbonica dovrà essere uguale a
quella che si ottiene durante la riassociazione: dal punto di vista del bilancio di prima
legge l’energia si conserva; il problema è che la reazione di dissociazione (da sinistra
e destra) avviene ad alta temperatura, mentre quella di riassciazione (da destra a
sinistra) avviene a bassa temperatura: l’energia termica viene dunque presa ad alta
temperatura e ceduta a bassa temperatura e quindi da un punto di vista del secondo
principio si assorbe calore più pregiato di quello si rilascia; quindi il calore rilasciato
a bassa temperatura che viene poi convertito in lavoro comporta un abbassamento
del rendimento. Quando c’è dissociazione si arriva nel punto 3’’ (piuttosto che nel
punto 3): nel momento in cui si ha l’espansione e si ha un abbassamento di
temperatura si ha un rilascio del calore (che viene convertito in lavoro) seguendo la
trasformazione 3’’544’’. Oltre all’anidride carbonica, anche l’acqua si dissocia e
quindi vale in pratica lo stesso ragionamento. Quindi in pratica si passa da una
temperatura molto elevata nel caso di ciclo ideale (punto 3’) a un livello molto più
basso nel caso di ciclo limite con dissociazione (punto 3’’). La trasformazione 3’’5 è
non reversibile (ad entropia crescente) proprio perché la dissociazione è un
fenomeno per sua natura irreversibile. Nei cicli ideale e limite si assume che le
pressioni 𝑝1′ e 𝑝1 siano le stesse (stanno sulla stessa isobara):

Figura 41

48
Nel ciclo limite si dovrebbe tener conto della frazione residua al punto morto
superiore per cui si dovrebbe avere una temperatura più elevata in quanto si ha
mescolanza dei gas freschi con quelli residui: tuttavia nella rappresentazione
riportata nel piano temperatura-entropia si ha una rappresentazione opposta a quello
che ci si aspetterebbe (il punto 1 che indica il ciclo limite viene rappresentato ad una
temperatura minore rispetto al punto 1’ che indica il ciclo ideale). Inoltre anche le
isocore dovrebbero essere differenti (𝑣1′ ≠ 𝑣1 ) a partire dai due punti 1’ e 1. Pertanto
il ciclo riportato va bene solo per la parte ad alta temperatura e pressione, mentre
per la parte inferiore la rappresentazione è sbagliata. Inoltre la massa molecolare del
gas presente nel ciclo limite è più elevata giacché nella fase di compressione si
considera aria e combustibile, che per quanto possa essere leggero, a meno del
metano, è certamente più pesante dell’aria, mentre nella fase di espansione si hanno
gas combusti che in ogni caso sono più pesanti dell’aria stessa.
Le stesse considerazione possono essere fatte per un ciclo Diesel.

Figura 42

Nel ciclo limite ancora una volta si ha una pressione ed una temperatura più bassa.
In questo caso in generale il rapporto di miscela è più elevato rispetto a un motore a
ciclo Otto (la miscela è stechiometrica solo localmente nella zona di combustione);
dato che nella rappresentazione del ciclo limite non si tiene conto del fronte di
fiamma, del getto, …, ma solo di una miscela omogenea con proprietà variabili a
seconda della fase (espansione, compressione, …) si considera la miscela
mediamente magra: valgono pertanto simili considerazioni fatte anche per gli impianti
a gas non considerando problemi di dissociazione o di combustione incompleta in
quanto l’ossigeno è appunto in eccesso. In ogni caso nel ciclo limite si raggiungono
temperature inferiori perché c’è una differenza nella massa molecolare e nei calori
49
specifici della miscela, ma la differenza rispetto al ciclo ideale è meno sostanziale. In
questo caso ovviamente l’adduzione di calore avviene a pressione costante.
La combustione è una reazione esotermica che avviene in fase gassosa tra reagenti
(ossigeno e combustibile). La fiamma individua una reazione di combustione che
evolve nello spazio in una regione a spessore “limitato”: essa è la zona che separa
gli incombusti (miscela aria-combustibile) dai combusti (miscela di gas bruciati). La
separazione tra le due regioni per quanto riguarda lo studio del ciclo limite è molto
sottile (è trascurabile). Le fiamme possono essere classificate in vari modi:
 Premiscelate: miscela in cui omogeneamente distribuita nello spazio c’è la
medesima quantità di aria e combustibile secondo un certo rapporto di
miscela.
 Diffusive: il mescolamento avviene per processi diffusivi (la candela è una
fiamma diffusiva, perché il combustibile sale attraverso lo stoppino per
capillarità e brucia perché si ha la diffusione dell’ossigeno con il conseguente
raggiungimento delle condizioni di infiammabilità); in tal caso il mescolamento
non è preparato dall’esterno.
 Laminari: mescolamento e trasporto dovuto a fenomeni molecolari.
 Turbolente: mescolamento e trasporto dovuto a fenomeni macroscopici tipici
del moto turbolento. In tal caso la turbolenza determina il mescolamento tra i
reagenti e il trasferimento delle specie chimiche.
 Stazionarie: velocità di avanzamento del fronte di fiamma costante
 Non stazionarie: in un motore a combustione interna le fiamme non sono mai
stazionarie perché si muovono da un punto della camera verso un altro punto
e soprattutto durante l’evoluzione cambiano le proprietà al contorno (pressione
e temperatura) e anche la geometria stessa (perché il pistone si sposta).
Quindi studiare la combustione all’interno dei motori è molto più critico che
studiarla all’interno dell’impianto a gas dove le fiamme sono tendenzialmente
stazionarie.
Dal punto di vista matematico e fisico la rappresentazione della combustione la si
ottiene attraverso lo studio di fenomeni non lineari legati a:
 Reazioni chimiche
 Trasporto di massa (materia): fluidodinamica
 Diffusione di massa: fluidodinamica
 Scambio termico
I reagenti possono essere in una fase inizialmente:
 Solida: nella candela inizialmente il reagente è solido (la cera) che poi si
scioglie ed evapora nella zona di reazione bruciando.
 Liquida: un combustibile liquido deve evaporare, mescolarsi e poi può bruciare
(lo si può iniettare all’interno della camera o all’esterno). In tal caso nella
valutazione energetica è necessario considerare l’energia spesa per far
50
evaporare il liquido (esso per evaporare assorbe energia per poter
incrementare la sua entalpia).
 Gassosa: in tal caso il mescolamento è più semplice e anch’esso può avvenire
sia all’interno che all’esterno della camera di combustione.
I componenti presenti nella miscela sono: ossigeno, azoto, vapori di combustibile,
anidride carbonica, vapore d’acqua, ….
Le fiamme diffusive, come la candela, sono di colore arancione (giallo), mentre le
fiamme premiscelate, come il fornello di casa per cuocere i cibi (al di sotto del piano
di cottura c’è un tubo che porta il gas e un condotto che consente l’ammissione di
aria prima di raggiungere la zona di combustione), sono di colore blu (azzurro).

Figura 43

Nella saldatura con cannello ossiacetilenico (ossigeno e acetilene), la fiamma è


premiscelata.

Figura 44

Nella figura precedente a sinistra viene rappresentata una fiamma premiscelata


turbolenta: aumentando la superficie di contatto tra reagenti e prodotti si facilita
ulteriormente la combustione; nella figura a destra si evidenzia invece la zona di
separazione tra i prodotti della combustione (zona interna) e i reagenti che
rappresentano la zona incombusta (zona esterna).
Se si prende come riferimento il ciclo limite si deve inevitabilmente tener conto del
fatto che la miscela è composta da più gas. I componenti presenti nella miscela in
termini di prodotti e reagenti sono: ossigeno, azoto, vapori di combustibile, anidride
carbonica, vapore d’acqua, …. Tutti questi componenti possono essere
51
singolarmente trattati come gas ideali e dunque per ciascuno di essi vale l’equazione
di stato: è possibile immaginare che si abbia a che fare con una miscela di gas ideali.
Nel motore ad accensione comandata si può avere una miscela di aria e
combustibile, una miscela di gas combusti, ma anche una miscela di aria,
combustibile e gas combusti (quando ci sono le fasi di incrocio delle due valvole di
aspirazione e scarico: il gas combusto che si trova al punto morto superiore in parte
espande durante la discesa del pistone per la fase di aspirazione e si mescola con
l’aria e il combustibile che stanno arrivando). Per ciascun componente vale
l’equazione di stato:
𝑅̃
𝑝𝑉 = 𝑚𝑅𝑇 ⟹ 𝑝𝑉 = 𝑚 𝑇 = 𝑛𝑅̃ 𝑇
𝑀𝑤
Dove:
𝑝 = 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒
𝑉 = 𝑣𝑜𝑙𝑢𝑚𝑒
𝑚 = 𝑚𝑎𝑠𝑠𝑎
𝑅 = 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑔𝑎𝑠
𝑇 = 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑒𝑟𝑎𝑡𝑢𝑟𝑎
𝐽
𝑅̃ = 8313.3 (𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑢𝑛𝑖𝑣𝑒𝑟𝑠𝑎𝑙𝑒 𝑑𝑒𝑖 𝑔𝑎𝑠)
𝑘𝑚𝑜𝑙 ∙ 𝐾
𝑀𝑤 = 𝑚𝑎𝑠𝑠𝑎 𝑚𝑜𝑙𝑒𝑐𝑜𝑙𝑎𝑟𝑒
𝑚
𝑛= (𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜 𝑑𝑖 𝑚𝑜𝑙𝑖)
𝑀𝑤
Inoltre si definiscono:
𝑝𝑖 = 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑝𝑎𝑟𝑧𝑖𝑎𝑙𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙′ 𝑖 − 𝑒𝑠𝑖𝑚𝑜 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑜𝑛𝑒𝑛𝑡𝑒
𝑚𝑖
𝑦𝑖 = (𝑓𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑚𝑎𝑠𝑠𝑖𝑐𝑎: 𝑚𝑎𝑠𝑠𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙′ 𝑖 − 𝑒𝑠𝑖𝑚𝑜 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑜𝑛𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑠𝑢 𝑚𝑎𝑠𝑠𝑎 𝑡𝑜𝑡𝑎𝑙𝑒)
∑ 𝑚𝑖
𝑛𝑖
𝑥𝑖 = (𝑓𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑚𝑜𝑙𝑎𝑟𝑒: 𝑚𝑜𝑙𝑖 𝑑𝑒𝑙𝑙′ 𝑖 − 𝑒𝑠𝑖𝑚𝑜 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑜𝑛𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑠𝑢 𝑚𝑜𝑙𝑖 𝑡𝑜𝑡𝑎𝑙𝑖)
∑ 𝑛𝑖

𝑉 = ∑ 𝑉𝑖

Si ricordi che la pressione parziale dell’i-esimo componente corrisponde alla


pressione a cui si troverebbe quel gas se occupasse da solo l’intero volume. Inoltre
𝑉𝑖 indica il volume occupato dall’i-esimo componente (volume parziale) alla pressione
ed alla temperatura della miscela.
Vale la seguente relazione:

52
𝑝𝑖 𝑉𝑖 𝑀𝑤
= = 𝑦𝑖 = 𝑥𝑖
𝑝 𝑉 𝑀𝑤,𝑖
Dove:
𝑀𝑤,𝑖 = 𝑚𝑎𝑠𝑠𝑎 𝑚𝑜𝑙𝑒𝑐𝑜𝑙𝑎𝑟𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙′ 𝑖 − 𝑒𝑠𝑖𝑚𝑜 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑜𝑛𝑒𝑛𝑡𝑒
1
𝑀𝑤 = ∑ 𝑛𝑖 𝑀𝑤,𝑖 = ∑ 𝑥𝑖 𝑀𝑤,𝑖 (𝑚𝑎𝑠𝑠𝑎 𝑚𝑜𝑙𝑒𝑐𝑜𝑙𝑎𝑟𝑒 𝑚𝑒𝑑𝑖𝑎)
𝑛
𝑖 𝑖

In tal modo è stato possibile legare la frazione massica alla frazione molare. La
massa molecolare media si ottiene come media ponderata delle masse molecolari i
cui pesi sono le moli di ciascun componente della miscela.
Per una miscela di gas perfetti vale la seguente relazione:
𝑝𝑉 = 𝑚𝑅̅ 𝑇
Dove:
𝑅̃
𝑅̅ = = ∑ 𝑦𝑖 𝑅𝑖 (𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑚𝑖𝑠𝑐𝑒𝑙𝑎)
∑𝑖 𝑥𝑖 𝑀𝑤,𝑖
𝑖

A questo punto è possibile calcolare le proprietà della miscela (energia interna,


entalpia, entropia, calore specifico a volume costante, calore specifico a pressione
costante), in funzione delle proprietà del singolo componente (i-esima specie):

𝑢 = ∑ 𝑥𝑖 𝑢𝑖
𝑖

ℎ = ∑ 𝑥𝑖 ℎ𝑖
𝑖

𝑠 = ∑ 𝑥𝑖 𝑠𝑖
𝑖

𝑐𝑣 = ∑ 𝑥𝑖 𝑐𝑣,𝑖
𝑖

𝑐𝑝 = ∑ 𝑥𝑖 𝑐𝑝,𝑖
𝑖

Si tenga presente che con riferimento all’energia interna ad esempio (ma vale in
generale per tutte le proprietà) si ha:
𝑛

𝑢(𝑇, 𝑃) = ∑ 𝑥𝑖 (𝑇, 𝑃) ∙ 𝑢𝑖 (𝑇, 𝑃)


𝑖=1

53
È evidente che 𝑥𝑖 indica la frazione molare (o la concentrazione) e può essere
costante (ovvero non dipendere da temperatura e pressione) oppure no: in un ciclo
ideale senza dissociazione allora la si può ritenere costante, ma nel momento in cui
c’è dissociazione anch’essa dipenderà da temperatura e pressione. Pertanto
l’energia interna della miscela dipenderà da pressione e temperatura non solo perché
l’energia interna dell’i-esimo componente è funzione di queste proprietà, ma anche
perché la concentrazione potrebbe esserlo: c’è dunque una duplice variabilità. Ecco
perché è anche difficile trattare analiticamente problemi di questo tipo. In effetti per
le proprietà esistono dei polinomi che forniscono la variazione della stessa in
funzione della temperatura (e/o della pressione); per esempio sempre con riferimento
all’energia interna:
𝑢 = 𝑎 + 𝑏𝑇 + 𝑐𝑇 2 + 𝑑𝑇 3
Ciò evidentemente vale anche per le altre proprietà (d’altro canto il calore specifico
a pressione costante è legato all’energia interna attraverso la relazione: 𝑢 = 𝑐𝑝 𝑇).
C’è poi anche la variabilità della concentrazione che dipende dalla reazione chimica
e da dov’è spostato l’equilibrio (se più a destra o più a sinistra).
La generica reazione di combustione completa è la seguente:
𝑚 𝑚 𝑚
𝐶𝑛 𝐻𝑚 + (𝑛 + ) (𝑂2 + 3.773𝑁2 ) → 𝑛𝐶𝑂2 + 𝐻2 𝑂 + 3.773 (𝑛 + ) 𝑁2
4 2 4

Essa è bilanciata rispetto ad una mole di idrocarburo: per ossidare tutta la mole di
idrocarburo (combustibile) sono necessarie 𝑛 + 𝑚/4 moli di ossigeno (è evidente che
si può far riferimento anche ad una mole di aria e vedere quante moli di idrocarburo
essa può ossidare: si tratta giusto di bilanciare diversamente la reazione).
Si ricordi che principalmente l’aria è costituita da ossigeno e azoto più altri gas nelle
seguenti proporzioni:
𝑂2 → 20.95 % (∼ 21 %)
𝑁2 → 78.09 % (∼ 79 %)
𝑅𝑒𝑠𝑖𝑑𝑢𝑜 → 0.93 % (∼ 0%)
Pertanto il peso molecolare dell’aria ottenuto come media ponderata tra il peso
molecolare dell’ossigeno e quello dell’azoto è circa pari a 28.9 𝑔/𝑚𝑜𝑙; per ogni mole
di ossigeno ci sono 3.773 moli di azoto (gas inerte). Di seguito vengono riportate le
masse molecolari delle specie chimiche di interesse:

54
Figura 45

L’alcool metilico e l’alcool etilico sono dei composti ossigenati. In particolare, metano,
propano, butano, isottano, alcool metilico, alcool etilico sono dei combustibili. Il
metano è più leggero dell’aria così come l’acqua (ecco perché il vapore d’acqua
tende a salire così come il metano tende ad addensarsi verso l’alto). Questo è il
motivo per cui nei garage chiusi c’è il divieto di parcheggiare le auto a GPL (che è
una miscela di butano e isottano e dunque è più pesante dell’aria) in quanto una
perdita del combustibile dal serbatoio tenderebbe ad addensarsi verso il basso,
mentre tale divieto non vale per le auto a metano in quanto esso si sposta verso
l’alto. In genere quando ci sono fughe di metano l’innesco (lo scoppio) avviene
nell’ambiente dove c’è la fuga, mentre nel caso del GPL (tipiche bombole del gas)
esso tende a scendere verso il basso stratificando e “camminando” in tutte le stanze.
Anche l’anidride carbonica è più pesante dell’aria: infatti quando si apre una bottiglia
di spumante molto fredda fuoriesce del fumo che va verso il basso (questo fumo è
nient’altro che anidride carbonica che tende a condensare ed essendo più pesante
dell’aria tende a scendere). Un gas che ha una massa molecolare più piccola rispetto
all’aria tende ad occupare più spazio, a parità di massa, rispetto ad un composto più
pesante: questo è il motivo per cui le vetture a metano sono in genere meno
performanti di quelle a GPL in quanto il rendimento è più scadente (quando si
mescola aria e metano, esso tende ad espandersi e dunque a rubare spazio
abbassando il rendimento); di fatto le vetture sportive a gas sono tipicamente a GPL.
La presenza dell’ossigeno caratterizza gli alcool che hanno la caratteristica di essere
bassobollenti (evaporano più facilmente) e dunque a raffreddare rapidamente
(l’alcool quando evapora sulle mani ad esempio dà quella sensazione di freddo; lo
stesso capita con la benzina, ma in misura minore, mentre con la nafta ciò non
accade perché essa non vaporizza facilmente). Quindi in generale si ha 𝐶𝑛 𝐻𝑚 o
anche 𝐶𝑛 𝐻𝑚 𝑂𝑝 : nel caso dell’alcool il rapporto di miscela viene alterato essendo già
presente dell’ossigeno all’interno del combustibile. In generale molto spesso
piuttosto che considerare il combustibile come 𝐶𝑛 𝐻𝑚 lo si considera come 𝐶𝐻𝑦 , dove:
𝑚 (𝑎𝑡𝑜𝑚𝑖 𝑑𝑖 𝑖𝑑𝑟𝑜𝑔𝑒𝑛𝑜)
𝑦=
𝑛 (𝑎𝑡𝑜𝑚𝑖 𝑑𝑖 𝑐𝑎𝑟𝑏𝑜𝑛𝑖𝑜)
55
Il rapporto di miscela invece è il rapporto tra la massa d’aria e quella di combustibile:
𝑦
𝐴 (1 + ) (32 + 3.773 ∙ 28.12) 34.56 ∙ (4 + 𝑦)
𝛼=( ) = 4 =
𝐹 𝑠𝑡 12.011 + 1.008𝑦 12.011 + 1.008𝑦
Con il metano il rapporto di miscela stechiometrico è intorno a 17, mentre con un
combustibile quale l’isottano si è interno a 15.
Per una reazione di combustione è verificata la conservazione della massa. A fine
combustione si ha un aumento del numero di moli (ovvero a parità di volume e
temperatura, un incremento di pressione): ciò comporta una riduzione del peso
molecolare medio della miscela (ciò è vero per atomi di idrogeno nel combustibile
maggiori di quattro, quindi a partire dal metano).
È possibile individuare il rapporto di equivalenza:
𝛼𝑠𝑡
𝛷=
𝛼
Dove:
𝛼 = 𝑟𝑎𝑝𝑝𝑜𝑟𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑚𝑖𝑠𝑐𝑒𝑙𝑎 𝑎𝑡𝑡𝑢𝑎𝑙𝑒
Ed in particolare:
 𝛷 < 1: 𝑚𝑖𝑠𝑐𝑒𝑙𝑎 𝑚𝑎𝑔𝑟𝑎
 𝛷 = 1: 𝑚𝑖𝑠𝑐𝑒𝑙𝑎 𝑠𝑡𝑒𝑐ℎ𝑖𝑜𝑚𝑒𝑡𝑟𝑖𝑐𝑎
 𝛷 > 1: 𝑚𝑖𝑠𝑐𝑒𝑙𝑎 𝑟𝑖𝑐𝑐𝑎
L’inverso del rapporto di equivalenza è l’indice di aria:
𝛼
𝜆=
𝛼𝑠𝑡
Ed in particolare:
 𝜆 < 1: 𝑚𝑖𝑠𝑐𝑒𝑙𝑎 𝑟𝑖𝑐𝑐𝑎
 𝜆 = 1: 𝑚𝑖𝑠𝑐𝑒𝑙𝑎 𝑠𝑡𝑒𝑐ℎ𝑖𝑜𝑚𝑒𝑡𝑟𝑖𝑐𝑎
 𝜆 > 1: 𝑚𝑖𝑠𝑐𝑒𝑙𝑎 𝑚𝑎𝑔𝑟𝑎
Si consideri la reazione di combustione completa:
𝑚 𝑚 𝑚
𝐶𝑛 𝐻𝑚 + (𝑛 + ) (𝑂2 + 3.773𝑁2 ) → 𝑛𝐶𝑂2 + 𝐻2 𝑂 + 3.773 (𝑛 + ) 𝑁2
4 2 4

Nel caso in cui la miscela sia stechiometrica (𝛼 = 𝛼𝑠𝑡 ) come prodotti si avranno
proprio anidride carbonica, acqua e azoto.
Se invece 𝛼 > 𝛼𝑠𝑡 si avrà un eccesso di ossigeno e dunque tra i prodotti oltre ad
avere anidride carbonica, acqua e azoto, si avrà anche ossigeno (𝑂2 ). In particolare
la reazione sarà del tipo:

56
𝑚 𝑚 𝑚 𝑚
𝐶𝑛 𝐻𝑚 + 𝜆 (𝑛 + ) (𝑂2 + 3.773𝑁2 ) → 𝑛𝐶𝑂2 + 𝐻2 𝑂 + 3.773𝜆 (𝑛 + ) 𝑁2 + (𝜆 − 1) (𝑛 + ) 𝑂2
4 2 4 4
Quando invece 𝛼 < 𝛼𝑠𝑡 nei prodotti oltre ad avere anidride carbonica, acqua ed
azoto, ci sarà anche monossido di carbonio e idrogeno molecolare (𝐻2 ): in tal caso
non c’è sufficiente ossigeno per ossidare completamente il carbonio e l’idrogeno
(combustione incompleta).
Pertanto banalmente si passa da una reazione a tre specie (combustione
stechiometrica) a una a quattro specie (miscela magra) o eventualmente a cinque
(miscela ricca). Quando c’è l’ossigeno in eccesso è più semplice da trattare da un
punto di vista del modello, mentre nel caso in cui si ha a che fare con cinque specie
nei prodotti la questione è più complessa. Infatti in quest’ultimo caso non c’è un
numero sufficiente di equazioni di scrivere per il bilancio degli atomi. Quando ci sono
quattro specie si possono scrivere quattro equazioni, avendo appunto quattro
incognite; quando si hanno cinque specie (ovvero cinque incognite) è possibile
scrivere sempre quattro equazioni di bilancio degli atomi, ma serve una quinta
equazione per il calcolo di tutti i coefficienti stechiometrici: la quinta equazione viene
fuori da una reazione aggiuntiva che mette insieme anidride carbonica, acqua,
monossido di carbonio e idrogeno. Nel momento in cui si arriverà a trattare di dodici
specie bisognerà individuare ben dodici equazioni per poter risolvere il problema.
Quindi per le miscele magre la quantità di aria in eccesso non prende parte alla
combustione ed è presente nei prodotti, l’equazione di bilancio stechiometrica
continua a valere. In presenza di miscele ricche con eccesso di combustibile
l’equazione scritta invece non è più valida in quanto la reazione è incompleta, non
essendo disponibile la quantità di ossigeno necessaria ad ossidare carbonio e
idrogeno per la formazione completa di anidride carbonica e acqua: nei prodotti sono
ancora presenti anidride carbonica, acqua e azoto, ma con la presenza anche di
monossido di carbonio e idrogeno.
L’equazione di bilancio (3 composti a miscela stechiometrica, 6 composti a miscele
magre) è valida a basse temperature (miscele congelate: 𝑇 < 1500 𝐾). A
temperature superiore a 2200 𝐾 è necessario tener conto della dissociazione di 𝐶𝑂2
e 𝐻2 𝑂 e in fase di raffreddamento (espansione) in funzione della velocità di
raffreddamento possono verificarsi fenomeni di ricombinazione. Quindi quando la
temperatura aumenta, pur avendo una miscela magra, l’energia presente è tale da
dissociare l’acqua e l’anidride carbonica arrivando anche a sei specie (perché
comunque si forma idrogeno e monossido di carbonio). Nel ciclo limite c’è l’ipotesi di
equilibrio chimico ovvero non c’è dinamica, ma avviene tutto istantaneamente al
variare della temperatura (le concentrazioni seguono la temperatura): quando invece
si parla di cinetica chimica il tempo avrà un ruolo.
Nel caso della combustione in un impianto a gas, facendo il bilancio sulla camera di
combustione basta considerare la quantità di aria e di combustibile che entrano
all’ingresso e la miscela (aria-combustibile) che si ritrova all’uscita: il combustibile

57
porta con sé un bagaglio di energia che trasferisce al fluido per incrementarne la
temperatura (e dunque l’entalpia). Quando si studia la combustione bisogna
considerare che il combustibile porta con sé un bagaglio di energia (potere calorifico)
e dunque si trova ad un certo livello energetico e a seguito della combustione tale
livello si abbassa: la variazione di entalpia la si ritrova in seno al fluido come calore.
Il primo principio della termodinamica in forma integrale può essere scritto nel
seguente modo:
𝑄𝑅−𝑃 − 𝐿𝑅−𝑃 = 𝑈𝑃 − 𝑈𝑅
Dove:
𝑄𝑅−𝑃 = 𝑐𝑎𝑙𝑜𝑟𝑒 𝑠𝑐𝑎𝑚𝑏𝑖𝑎𝑡𝑜 𝑛𝑒𝑙 𝑝𝑎𝑠𝑠𝑎𝑟𝑒 𝑑𝑎 𝑟𝑒𝑎𝑔𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑎 𝑝𝑟𝑜𝑑𝑜𝑡𝑡𝑖
𝐿𝑅−𝑃 = 𝑙𝑎𝑣𝑜𝑟𝑜 𝑠𝑐𝑎𝑚𝑏𝑖𝑎𝑡𝑜 𝑛𝑒𝑙 𝑝𝑎𝑠𝑠𝑎𝑟𝑒 𝑑𝑎 𝑟𝑒𝑎𝑔𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑎 𝑝𝑟𝑜𝑑𝑜𝑡𝑡𝑖
𝑈𝑃 − 𝑈𝑅 = 𝑣𝑎𝑟𝑖𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝑒𝑛𝑒𝑟𝑔𝑖𝑎 𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟𝑛𝑎 𝑡𝑟𝑎 𝑝𝑟𝑜𝑑𝑜𝑡𝑡𝑖 𝑒 𝑟𝑒𝑎𝑔𝑒𝑛𝑡𝑖
Quindi si passa da uno stato iniziale (reagenti) ad uno stato finale (prodotti) attraverso
fenomeni di combustione e di scambio di energia nella forma calore e lavoro.

Figura 46

Il processo di combustione può avvenire a volume e temperatura costante, o a


pressione e temperatura costante. Nel caso di combustione a volume e temperatura
costante, il lavoro che è di variazione di volume sarà certamente nullo per cui si avrà:
𝑄𝑅−𝑃 = 𝑈𝑃 − 𝑈𝑅 = −(𝛥𝑈)𝑉,𝑇
In effetti il termine 𝑄𝑅−𝑃 risulta essere minore di zero, essendo la combustione una
reazione esotermica (quando il calore viene ceduto dal sistema il segno è negativo:
si tenga presente che il sistema è la miscela aria combustibile: quindi a partire da un
livello energetico superiore si scende ad un livello inferiore cedendo calore che poi
incrementerà la temperatura): l’energia dei prodotti alla fine sarà minore.
Nel caso in cui il processo di combustione avvenga a pressione e temperatura
costante, il lavoro non sarà più nullo, ma sarò proprio dato dalla variazione di volume
tra prodotti e reagenti, per cui si avrà:
𝑄𝑅−𝑃 − 𝐿𝑅−𝑃 = 𝑄𝑅−𝑃 − 𝑃(𝑉𝑃 − 𝑉𝑅 )
Pertanto:
𝑄𝑅−𝑃 − 𝑃(𝑉𝑃 − 𝑉𝑅 ) = 𝑈𝑃 − 𝑈𝑅
Quindi:

58
𝑄𝑅−𝑃 = 𝑈𝑃 + 𝑃𝑉𝑃 − 𝑈𝑅 − 𝑃𝑉𝑅 ⟹ 𝑄𝑅−𝑃 = 𝐻𝑃 − 𝐻𝑅 = −(𝛥𝐻 )𝑃,𝑇
Ovviamente vale la stessa considerazione fatta precedentemente sul fatto che
essendo una reazione esotermica 𝑄𝑅−𝑃 risulta minore di zero.
Mettendo assieme i due termini ottenuti:
(𝛥𝐻 )𝑃,𝑇 − (𝛥𝑈)𝑉,𝑇 = 𝑝(𝑉𝑃 − 𝑉𝑅 ) = 𝑅0 (𝑛𝑃 − 𝑛𝑅 )𝑇

Nel caso in cui (𝛥𝐻 )𝑃,𝑇 = (𝛥𝑈)𝑉,𝑇 non c’è variazione del numero di moli; ovvero nelle
reazioni in cui il numero di moli tra i prodotti e i reagenti è invariata non si ha
differenza tra calore di combustione a volume e temperatura costane e calore a
pressione e temperatura costante (la presenza di gas inerti non influisce sul risultato:
il numero di moli di gas inerte nei reagenti è pari al numero di moli di gas inerte nei
prodotti). In particolare nella reazione:
1
𝐶𝑂2 ⇄ 𝐶𝑂 + 𝑂2
2
A partire da una mole di reagenti (anidride carbonica) si ottengono una mole e mezzo
di prodotti (monossido di carbonio più ossigeno), pertanto in tal caso la variazione di
entalpia a pressione e temperatura costante e la variazione di energia interna a
volume e temperatura costante non è la stessa. Ovviamente ciò è anche intuibile in
quanto se non c’è variazione tra numero di moli non c’è nemmeno variazione di
volume e dunque effetto legato al lavoro.
Nel caso delle reazioni chimiche è necessario stabilire un riferimento assoluto (alle
variazioni di composizione si associa una variazione delle proprietà): le entalpie e le
energie di riferimento non possono essere assegnate arbitrariamente per ogni
sostanza; in genere ci si riferisce alle condizioni di 𝑇 = 25 °𝐶 e 𝑃 = 1 𝑎𝑡𝑚.
Nella reazione chimica nel passaggio da reagenti a prodotti si ha una riduzione del
livello di entalpia o di energia interna. C’è una differenza sostanziale tra il caso in cui
si hanno prodotti in fase liquida o in fase vapore, così come per i reagenti da questo
punto vista.

Figura 47

59
Se il combustibile è allo stato liquido (reagente allo stato liquido: benzina) prima c’è
bisogno di riscaldare per vaporizzarla (reagente allo stato vapore) e quindi si passa
da 1 a 2 e successivamente a seguito della combustione si passa ad un livello
energetico inferiore (da 2 a 3 o da 2 a 4 a seconda che i prodotti siano in fase vapore
o in fase liquida). Pertanto il combustibile in tal caso per bruciare deve prendere
prima una quantità di energia per evaporare e poi rilascia quella parte di energia (più
altra energia) nel momento in cui avviene la combustione fino allo stato vapore o
eventualmente sino allo stato liquido (livello più basso). Questo è il motivo per cui si
utilizza il potere calorifico inferiore (è quello più basso possibile) in quanto esso viene
decurtato di tutti questi effetti. Alla fine quando si valuta il rendimento:
𝐿
𝜂=
𝑚𝑐 ∙ 𝐻𝑖
Se il potere calorifico tiene conto del combustibile allo stato vapore e dei prodotti allo
stato liquido si avrebbe un rendimento più basso (in quanto il potere calorifico
sarebbe maggiore); invece considerando i reagenti liquidi e i prodotti sotto forma di
vapore il termine si riduce e dunque il rendimento aumenta. Quindi volendo effettuare
un calcolo preciso è sempre necessario conoscere lo stato in cui si trovano i reagenti
e i prodotti.

Figura 48

60
Lezione 6 (Pianese) 15/03/2017
Motori alternativi a combustione interna: termochimica
Le reazioni di combustione permettono la conversione di energia potenziale chimica
in calore: la quantità di calore rilasciata in linea di massima è uguale alla variazione
di energia potenziale chimica tra reagenti e prodotti; il calore può essere generato
sia a pressione e temperatura costante sia a volume e temperatura costante. È
possibile far avvenire questa reazione all’interno di in un calorimetro; esso è
nient’altro che una scatola all’interno della quale a partire da reagenti avviene la
reazione ed è possibile misurare la quantità di calore valutando l’innalzamento di
temperatura dell’acqua contenuta all’interno; ovviamente la temperatura iniziale
dell’acqua è nota ed è dunque possibile misurare l’energia trasferita all’acqua (più
propriamente si parla di bombe calorimetriche proprio perché avviene la reazione
chimica all’interno. È evidente che alla fine, a seguito del rilascio del calore, la
temperatura aumenta, ma questo è un passaggio ulteriore: a seguito della
conversione dei reagenti nei prodotti, si genera calore che in realtà potrebbe anche
essere ceduto all’esterno raffreddando i prodotti piuttosto che facendo salire la
temperatura; quando invece il sistema è adiabatico (non si scambia calore con
l’esterno) si sfrutta il calore generato per innalzare la temperatura dei prodotti. Quindi
praticamente ci sono due effetti: l’effetto chimico in cui l’energia potenziale chimica
viene convertita in calore (passando dai reagenti ai prodotti) e l’effetto termo-
fluidodinamico che comporta un innalzamento di temperatura in quanto questo calore
lo si ritrova in seno al fluido (questo avviene contestualmente).
In un ciclo termodinamico si parte da una condizione di riferimento iniziale ritornando
alla fine a quale e dunque si assume un riferimento arbitrario. Con le reazioni
chimiche ciò non è possibile in quanto le energie in gioco oltre che legate al calore e
al lavoro sono anche legate ai legami chimici: i prodotti formatisi portano con sé
un’energia legata al processo chimico che porta alla loro formazione.
L’entalpia di formazione (ℎ𝑓 ) di un composto alla temperatura 𝑇 è l’aumento di
entalpia per formare una mole dai suoi elementi, con ogni elemento allo stato
standard alla pressione di 1 𝑎𝑡𝑚 ed alla temperatura 𝑇. Quindi per l’anidride
carbonica ad esempio l’entalpia di formazione è l’energia necessaria a formale la
𝐶𝑂2 partendo dal carbonio e dall’ossigeno. Si assume che per le specie ossigeno
molecolare (𝑂2 ), azoto molecolare (𝑁2 ), idrogeno molecolare (𝐻2 ) e carbonio (𝐶)
un’entalpia di formazione nulla; di fatto essi sono gli stati più stabili (l’ossigeno ad
esempio si trova sotto forma di 𝑂2 allo stato base, per poter ottenere l’ossigeno
atomico (𝑂) è necessario spendere dell’energia; lo stesso vale per l’idrogeno e per
l’azoto), ovvero quelli che hanno energia minima. Per formare l’anidride carbonica
(allo stato gassoso) l’energia necessaria a formare questa molecola da carbonio e
ossigeno è pari a −393.52 𝑀𝐽/𝑘𝑚𝑜𝑙 alle condizioni di 𝑇 = 25 °𝐶 e 𝑃 = 1 𝑎𝑡𝑚. Di
seguito viene riportata una tabella riassuntiva, con riferimento a quanto detto:

61
Figura 49

È bene precisare che tra la formazione di un composto allo stato liquido o allo stato
gassoso c’è una netta differenza. Per l’acqua liquida per esempio il livello energetico
è più basso, dunque la quantità di energia da fornire (o sottrarre) è maggiore rispetto
a quella dello stato gassoso. La differenza tra i due valori (𝑙𝑖𝑞𝑢𝑖𝑑𝑜 − 𝑣𝑎𝑝𝑜𝑟𝑒) è
nient’altro che il calore latente di vaporizzazione dell’acqua. Il combustibile quando
entra porta con sé un livello di entalpia di formazione (livello energetico). Si tenga
presente che la benzina (combustibile) l’idrocarburo di riferimento è l’isottano (𝐶8 𝐻18 ):
se si entra con l’idrocarburo 𝐶8 𝐻18 con un certo livello energetico (−249.35 𝑀𝐽/𝑘𝑚𝑜𝑙)
e si uscirà con 𝐶𝑂2 e 𝐻2 𝑂 che avranno altri livelli energetici in termini di entalpia di
formazione: la variazione di energia sarà data proprio dalla differenza tra l’entalpia di
formazione dei reagenti e l’entalpia di formazione dei prodotti (in realtà tra i reagenti
c’è anche ossigeno e azoto che però ha un’entalpia di formazione nulla, così come
tra i prodotti si ritrova lo stesso azoto che appunto non darà alcun contributo); questa
variazione di energia è nient’altro che il potere calorifico inferiore, quindi è calcolabile
nota che sia la composizione del combustibile e quella dei prodotti (le bombe
calorimetriche servono proprio per valutare il potere calorifico). Si tenga presente che
le bombe calorimetriche servono per valutare empiricamente il potere calorifico
anche e soprattutto quando non si conosce la composizione dei reagenti e dei
prodotti: l’idrocarburo che si acquista al distributore per le auto a benzina non è solo
l’isottano, ma è composto da una miscela (blend) di idrocarburi (c’è anche ossigeno
(miscele ossigenate) e dello zolfo come nelle nafte). Nelle torri di distillazione si
passa dal GPL (gas di petrolio liquefatto) che sta sulla sommità essendo più leggero,
man mano si scende incontrando le benzine, poi alle nafte, al cherosene, … ed infine
al bitume (parte più pesante): le benzine si trovano nella zona intermedia e sono
composte da frazioni più leggere e frazioni più pesanti. Quindi alla pompa non si
acquista l’isottano vero e proprio, ma una miscela i cui atomi di carbonio saranno
mediamente otto e gli atomi di idrogeno saranno mediamente diciotto.

62
È dunque possibile calcolare l’entalpia totale (non specifica: si tiene conto del numero
di moli) dei prodotti e dei reagenti:

𝐻𝑝0 = ∑ 𝑛𝑖 𝛥ℎ𝑓,𝑖

𝐻𝑅0 = ∑ 𝑛𝑖 𝛥ℎ𝑓,𝑖

Ovviamente con 𝑖, nel primo caso viene indicato l’i-esimo elemento dei prodotti
(anidride carbonica, acqua, monossido di carbonio, …) e nel secondo caso l’i-esimo
elemento dei reagenti (combustibile in quanto l’ossigeno e l’azoto non danno
contributo). Pertanto la variazione di entalpia della reazione sarà:
𝛥𝐻 = 𝐻𝑅0 − 𝐻𝑃0
Nel caso in cui non sia nota la composizione di un combustibile il calore di reazione
(per unità di massa) risulta:
𝑄𝐻𝑝 = −(𝛥𝐻 )𝑝,𝑇0
{
𝑄𝐻𝑉 = −(𝛥𝑈)𝑉,𝑇0
Il calore viene proprio misurato all’interno di una bomba calorimetrica. Nei casi in cui
i due calori siano uguali ci si trova nella condizione in cui non c’è variazione di moli
tra reagenti e prodotti.
Quando la miscela è stechiometrica o magra la variazione di entalpia tra reagenti e
predetti non varia in quanto l’ossigeno non dà contributo né tra i reagenti né tra i
prodotti. Se la miscela invece è ricca nei prodotti c’è anche monossido di carbonio e
idrogeno: la presenza del 𝐶𝑂 comporta un certo livello di entalpia di formazione e
quindi le cose cambiano (l’idrogeno molecolare non dà contributo).
Se si immagina di avere una mole di tutti i prodotti nel caso di miscela ricca (una
mole di anidride carbonica, una mole di acqua, una mole di monossido di carbonio e
una mole di idrogeno molecolare), per il semplice fatto di avere monossido di
carbonio tra i prodotti ci si sposterà più in alto e dunque il 𝛥𝐻 sarà minore
(all’aumentare del monossido di carbonio ci si sposta sempre più in alto e il 𝛥𝐻
diminuisce sempre di più):

Figura 50
63
Quindi il rendimento di combustione sarà certamente più basso rispetto al caso in cui
si ha una miscela magra o stechiometrica nel qual caso si riesce ad ossidare tutto
per formare anidride carbonica. L’idrogeno molecolare di per sé non dà contributo,
ma in presenza di reazioni in cui a una certa temperatura l’idrogeno molecolare viene
scisso in idrogeno atomico si avrà un contributo anche di questo termine.
Pertanto conoscendo la composizione della miscela è possibile calcolare le moli di
ciascuno dei reagenti e di ciascuno dei prodotti (dalla stechiometria) e dunque si può
valutare l’entalpia dei prodotti e quella dei reagenti; calcolando quindi la variazione
di entalpia è possibile valutare il calore rilasciato dalla reazione. Dal punto di vista
sperimentale se non si conosce la composizione chimica dei reagenti e dei prodotti
basta mettere il combustibile in una bomba calorimetrica e si misura il calore
generato da quella reazione: si faranno più tentativi partendo da una quantità di
ossigeno verosimilmente maggiore di quella stechiometrica riducendola man mano
per arrivare alla condizione stechiometrica di riferimento.
Di seguito viene riportata una tabella più completa dove con riferimento alle diverse
specie viene indicato il peso molecolare e l’entalpia di formazione:

Figura 51

A questo punto si vuole analizzare il processo di combustione adiabatico: nell’ipotesi


di ciclo limite si immagina che la combustione avvenga in un ambiente in cui non c’è
scambio di calore con l’esterno per cui tutto il calore generato dalla combustione lo
si ritrova in seno al fluido. Se il processo è adiabatico ed è a volume costante, il
calore scambiato nonché il lavoro sono nulli per cui:

64
𝑈𝑃 − 𝑈𝑅 = 0 ⟹ 𝑈𝑃 = 𝑈𝑅
Se invece il processo è adiabatico e a pressione costante, allora il calore scambiato
sarà nullo, mentre il lavoro di variazione di volume sarà diverso da zero e quindi si
può ragionare più agevolmente in termini di entalpia avendo:
𝐻𝑃 − 𝐻𝑅 = 0 ⟹ 𝐻𝑃 = 𝐻𝑅
Rappresentando quanto detto sul piano energia-interna temperatura si avrà:

Figura 52

La temperatura finale 𝑇𝑃 è detta temperatura adiabatica di fiamma.


Si immagini di partire dalle condizioni del punto A (sulla curva dei reagenti) ad un
certo livello di energia interna (𝑈𝑅 ) e a una certa temperatura (𝑇0 ). Nel caso di
combustione adiabatica a volume costante si percorre il segmento AB in quanto
l’energia interna dei reagenti è pari a quella dei prodotti e si avrà dunque un
incremento di temperatura. Se invece la combustione è adiabatica a pressione
costante (ciclo Diesel o nel generatore di vapore) si segue il segmento AC.
In particolare considerando:
𝑝𝑅 = 𝑝𝑃 = 𝑝𝐴 𝑒 𝑇 = 𝑇𝐴
La variazione di energia chimica sarà data da:

𝐻𝑅 (𝑇𝐴 ) − 𝐻𝑃 (𝑇𝐴 ) = 𝑚 (∑ 𝑛𝑖 𝛥ℎ𝑓,𝑖 − ∑ 𝑛𝑖 𝛥ℎ𝑓,𝑖 )


𝑅 𝑃

È possibile valutare il rendimento di combustione nella maniera seguente:


[𝐻𝑅 (𝑇𝐴 ) − 𝐻𝑃 (𝑇𝐴 )]
𝜂𝐶 =
𝑚𝑓 𝑄𝐻𝑉
Dove:

65
𝐻𝑅 = 𝑒𝑛𝑡𝑎𝑙𝑝𝑖𝑎 𝑑𝑖 𝑓𝑜𝑟𝑚𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑖 𝑟𝑒𝑎𝑔𝑒𝑛𝑡𝑖
𝐻𝑃 = 𝑒𝑛𝑡𝑎𝑙𝑝𝑖𝑎 𝑑𝑖 𝑓𝑜𝑟𝑚𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑖 𝑝𝑟𝑜𝑑𝑜𝑡𝑡𝑖
𝑚𝑓 = 𝑚𝑎𝑠𝑠𝑎 𝑑𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑏𝑢𝑠𝑡𝑖𝑏𝑖𝑙𝑒 (𝑓𝑢𝑒𝑙)

𝑄𝐻𝑉 = 𝑝𝑜𝑡𝑒𝑟𝑒 𝑐𝑎𝑙𝑜𝑟𝑖𝑓𝑖𝑐𝑜 𝑖𝑛𝑓𝑒𝑟𝑖𝑜𝑟𝑒 𝑎 𝑣𝑜𝑙𝑢𝑚𝑒 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒


I termini al numeratore e al denominatore del rendimento di combustione sono molto
simili tra loro in quanto l’unica differenza sta nel fatto che le reazioni chimiche sono
irreversibili, ma non c’è una limitazione forte come per il limite del secondo principio
della termodinamica: ciò spiega perché il rendimento di combustione è una
grandezza grosso modo unitaria; nel caso di miscela stechiometrica o magra tale
rendimento sicuramente è circa pari ad uno, mentre quando si lavora con miscele
ricche (eccesso di combustibile) non avendo ossigeno sufficiente non si riesce ad
ottenere il massimo dalla reazione di combustione e quindi il rendimento si abbassa
in quanto il termine al numeratore è minore rispetto al potenziale di energia chimica
al denominatore.

Figura 53

Ovviamente se il sistema non è perfettamente adiabatico anziché passare dal punto


A al punto B lungo una linea orizzontale ci si ritroverà un po’ più sotto e si passerà
attraverso una trasformazione obliqua (una quantità di energia si perde a causa della
non adiabaticità del sistema):

Figura 54

66
Quindi non tutta l’energia potenziale chimica viene trasferita al fluido, ma una parte
si perde per scambio termico. Quindi considerando la catena dei rendimenti:
𝜂𝑔 = 𝜂𝐶 ∙ 𝜂𝑟 ∙ 𝜂𝑚
L’effetto di avere una combustione adiabatica impatta sia sul rendimento di
combustione (in quanto si perde una quantità di calore) sia sul rendimento reale (del
ciclo) in quanto la temperatura finale sarà più bassa e quindi il calore sarà meno
pregiato e quindi “meno convertibile” in lavoro. Pertanto i rendimenti di combustione
e reale sono legati.
Si assuma dunque un volume di controllo che circonda il motore: in ingresso si hanno
aria e combustibile ed in uscita si ottengono gas combusti.

Figura 55

Analizzando il motore da questo punto di vista è possibile andare a calcolare il


rendimento di combustione in funzione del rapporto di equivalenza dei gas di scarico
(che è un dato sperimentale). Nella figura seguente i punti riportati a forma di croce
sono relativi a dati acquisiti su un motore Diesel, mentre i punti a forma circolare
riguardano un motore ad accensione comandata.

Figura 56

67
Nel motore Diesel tendenzialmente si lavora in condizioni di eccesso di aria (rapporto
di equivalenza minore dell’unità) e quindi anche da un punto di vista probabilistico si
ha buona possibilità che l’ossigeno riesca ad ossidare completamente tutto il
monossido di carbonio e l’idrogeno e quindi si avrà un rendimento prossimo all’unità.
È evidente che quando il rapporto di equivalenza è bassissimo (prossimo a0.2) il
rendimento di combustione comunque si abbassa in quanto in tali condizioni si ha
praticamente solo aria (e pochissimo combustibile). Anche nel caso di motore ad
accensione comandata, con miscela leggermente magra si hanno rendimenti
prossimi all’unità, ma nel momento in cui aumenta la quantità di combustibile la
combustione inizia a diventare incompleta e si ha una decrescenza del rendimento
praticamente lineare con il rapporto di equivalenza (quanto minore è l’ossigeno
maggiore sarà la formazione di monossido di carbonio rispetto all’anidride
carbonica). Quindi uno dei motivi per cui il motore Diesel ha un rendimento
complessivamente più elevato sta proprio nel fatto che il rendimento di combustione
è sempre più elevato (è evidente che la miscela, dove avviene la combustione, è
localmente stechiometrica anche nel caso di motore Diesel, se non ricca). Nel caso
del motore Diesel si sfrutta il vantaggio della combustione ricca localmente
(temperatura di fiamma più elevata) e il vantaggio della miscela magra
complessivamente. Oggigiorno i motori ad iniezione diretta a benzina nel 90 % delle
condizioni operative lavorano con miscele stechiometriche o ricche addirittura e in
pochissime circostanze si lavora con miscele magre per esigenze legate alle
emissioni inquinanti.
Le reazioni chimiche in seno al fluido possono:
 Essere tanto rapide da poter considerare la composizione in equilibrio chimico
(in genere per combustione a temperatura elevata).
 Essere uno dei fenomeni che controllano la variazione temporale della
composizione della miscela (cinetica chimica).
 Essere così lente da non avere alcun effetto sulla composizione della miscela
(la composizione è detta “congelata”: cinetica lenta).
Nel caso in cui le reazioni siano molto rapide si può considerare valida l’ipotesi di
equilibrio chimico:
1
𝐶𝑂2 ⇄ 𝐶𝑂 + 𝑂2
2
In particolare all’aumentare della temperatura l’equilibrio si sposta verso destro: ciò
significa che quando la temperatura si incrementa aumentano le moli di monossido
di carbonio e ossigeno; la reazione è intesa all’equilibrio se si segue perfettamente
la dinamica della temperatura. Si immagini cioè di avere la seguente situazione e di
ragionare sul monossido di carbonio (per gli altri composti vale lo stesso
ragionamento):

68
Figura 57

Se nel tempo la temperatura rimane invariata (linea continua in blu) anche la


composizione (numero di moli) rimarrà invariata (linea continua in rosso); se si
immagina che la temperatura vari istantaneamente da un certo punto in poi (linea
continua e quindi tratteggiata in blu) è possibile avere diverse risposte in termini di
variazione del numero di moli; supposto che la temperatura sia tale da fare in modo
che la miscela risenta di una sua variazione (se si è a temperatura ambiente non
accade niente e il numero di moli non varia: miscela “congelata”) è possibile avere o
una risposta “squadrata” che segue la variazione istantanea della temperatura
oppure diverse risposte “arrotondate” tali per cui per arrivare alla composizione
determinata da quella temperatura sarà necessario un certo tempo. Nel caso in cui
la reazione di variazione del numero di moli segua perfettamente l’andamento della
temperatura ci si trova nelle ipotesi di equilibrio chimico: si ha cioè un cambiamento
istantaneo (così come accade per la forza esterna che è la temperatura) che non
determina alcun ritardo (lo stesso discorso potrebbe essere fatto con riferimento alla
pressione). Nel momento in cui il sistema ha bisogno di un certo tempo caratteristico
(𝜏) per arrivare a regime e questo tempo è sufficientemente elevato da determinare
un sostanziale ritardo si è in condizioni di cinetica chimica: avvengono delle reazioni
che hanno dei tempi caratteristici (magari i legami sono talmente forti che c’è bisogno
di molta energia per romperli e dunque c’è bisogno di un accumulo di energia che
richiede un certo tempo, perché magari la temperatura non è molto elevata); la
cinetica chimica è tipica delle reazioni di formazione delle emissioni inquinanti quali
monossido di azoto, idrocarburi incombusti, …, mentre l’equilibrio chimico è tipico
della formazione di specie chimiche quali anidride carbonica, acqua, idrogeno
atomico, idrogeno molecolare, … (si tenga presente che alcuni composti quali il
monossido di carbonio può fermarsi sia a causa di reazioni che avvengono in
equilibrio chimico, sia quando è coinvolta proprio la cinetica chimica).
Quindi ad altissima temperatura la miscela è in equilibrio chimico, mentre a
bassissima temperatura la miscela è “congelata”. Nel caso intermedio invece,
quando cioè le temperature non sono molto elevata da considerare l’equilibrio

69
chimico, ma nemmeno tanto basse da far valere l’ipotesi di miscela “congelata” è
necessario considerare fenomeni di cinetica chimica.
È evidente peraltro che tutte le reazioni chimiche sono reazioni cinetiche: se la
cinetica è velocissima si parla di equilibrio chimico, se è lentissima si parla di
composizione “congelata”. Quindi da un punto di vista ingegneristico si vanno a
confrontare le scale temporali:

Figura 58

Se la scala temporale è dell’ordine di grandezza della durata del ciclo allora non è
possibile assumere la reazione in equilibrio perché il fenomeno si completa in un
intervallo confrontabile col fenomeno principale, ma se il tempo caratteristico è molto
piccolo (dell’ordine del centesimo di grado di manovella ad esempio) allora è
possibile considerare l’ipotesi di equilibrio chimico (in quanto il giro completo è di
360° e il ciclo si completa in ben due giri: quindi si ha un tempo di circa 60000 volte
minore). Pertanto a meno di non studiare fenomeni particolari come la detonazione,
dove i tempi caratteristici sono dell’ordine del millesimo, allora non ha senso
considerare la reazione di cinetica chimica.
Pertanto un sistema è in equilibrio se le costanti di tempo delle reazioni sono piccole
rispetto alle scale dei tempi con cui variano le condizioni del sistema (pressione e
temperatura: forzanti del sistema).
Le specie formatesi a seguito del processo di combustione reagiscono a loro volta
(l’anidride carbonica ad esempio si dissocia a formare monossido di carbonio e
ossigeno), trovandosi in condizioni di equilibrio se le reazioni producono e rimuovono
ciascuna specie con la stessa velocità. Nel momento in cui si ha la reazione:
1
𝐶𝑂2 ⇄ 𝐶𝑂 + 𝑂2
2
Se si ha un equilibrio vuol dire che tante moli di 𝐶𝑂 e di 𝑂2 si associano a formare
𝐶𝑂2 quante le moli di anidride carbonica che si dissociano per formare monossido di
carbonio e ossigeno: l’equilibrio è stabile, ma comunque dinamico (non è di tipo
statico); ovviamente la dissociazione dell’anidride carbonica, così come la
riassociazione di monossido di carbonio e ossigeno richiedono comunque un certo
tempo affinché possano realizzarsi.

70
Se 𝐶 è il numero di elementi presenti in una miscela con 𝑁 specie chimiche in
equilibrio, per il principio di conservazione, si ottengono 𝐶 equazioni per il calo delle
concentrazioni delle 𝑁 specie. Pertanto quando la miscela è stechiometrica o è
magra il problema non è complicato: si hanno a disposizione quattro equazioni di
bilancio degli atomi e quattro sono i coefficienti da calcolare; quando però la miscela
è ricca si devono calcolare cinque coefficienti, ma si possono scrivere solo quattro
equazioni di bilancio degli atomi: la quinta equazione si ricava mettendo insieme tutte
e quattro le specie dei prodotti (anidride carbonica, acqua, monossido di carbonio e
idrogeno); essa sarà caratterizzata da una costante di equilibrio 𝐾 che dipenderà
dalle concentrazioni in cui rientra proprio la quinta incognita: la quinta equazione si
basa proprio sull’equilibrio chimico. Quindi se 𝐶 < 𝑁 servono altre equazioni (𝑁 − 𝐶)
oltre a quelle di bilancio degli atomi per poter risolvere il problema. Si ottiene dunque
un set di equazioni non lineari da risolvere con tecniche numeriche.
L’equilibrio chimico può essere affrontato con un’analisi di secondo principio. Si
ragioni sempre sulla solita reazione:
1
𝐶𝑂 + 𝑂2 ⇄ 𝐶𝑂2
2
Le molecole di 𝐶𝑂2 si dissociano in 𝐶𝑂 e 𝑂2 alla stessa velocità con cui le molecole
di 𝐶𝑂 ed 𝑂2 si ricombinano in 𝐶𝑂2 secondo le proporzioni richieste dalla reazione di
equilibrio. Il secondo principio della termodinamica fornisce un criterio per la
valutazione delle condizioni di equilibrio, a pressione e temperatura costante (in
generale esso fornisce la direzione in cui si muove il calore). Si ricordi che una
condizione di stabilità è legata alla condizione minima di energia compatibilmente
con i vincoli imposti: se un corpo inizialmente ad una certa quota, lo si lascia cadere,
esso arriverà nel punto più basso possibile compatibilmente coi vincoli imposti (se
c’è il pavimento cadrà su di esso, ma se lo si rimuove continuerà a cadere
inesorabilmente).
Per il primo principio, a pressione e temperatura costante vale:
𝛿𝑄 = 𝑑𝐻
Dal secondo principio, sotto le stesse ipotesi, a causa delle irreversibilità, si ha:
𝛿𝑄 ≤ 𝑇𝑑𝑆
Pertanto combinando i due principi è possibile scrivere:
𝑑𝐻 − 𝑇𝑑𝑆 ≤ 0
In particolare è possibile scrivere:
𝛥𝐻 − 𝑇𝛥𝑆 = 𝛥𝐺 ≤ 0
Dove 𝛥𝐺 è la variazione di energia libera di Gibbs.
Nel caso in cui:
71
𝛥𝐻 = 𝛥𝐺 ⟹ 𝛥𝑆 = 0
La trasformazione è reversibile e dunque la reazione di combustione è completa (si
arriva al minimo livello energetico per quel processo).
Viceversa se risulta:
𝛥𝑆 > 0
La trasfromazione non è reversibile e c’è la presenza di altre specie chimiche oltre
che di quelle che comunemente si ottengono (reazione di combustione incompleta:
il sistema non ha raggiunto il livello energetico minimo).

Figura 59

Nel caso di una reazione completa si passa da un livello di energia dato dal punto 1
al livello di energia più basso possibile che è proprio del punto 2. Nel caso in cui non
si arrivasse nel punto estremo (2), ma ci si ferma prima, per esempio nel punto 3,
vuol dire che la reazione non è completa in quanto non si rilascia tutta l’energia.
Quindi una reazione a pressione e temperatura costante può avvenire solo se 𝐺𝑃 <
𝐺𝑅 (𝑒𝑛𝑒𝑟𝑔𝑖𝑎 𝑙𝑖𝑏𝑒𝑟𝑎 𝑑𝑖 𝐺𝑖𝑏𝑏𝑠 𝑑𝑒𝑖 𝑝𝑟𝑜𝑑𝑜𝑡𝑡𝑖 < 𝑒𝑛𝑒𝑟𝑔𝑖𝑎 𝑙𝑖𝑏𝑒𝑟𝑎 𝑑𝑖 𝐺𝑖𝑏𝑏𝑠 𝑑𝑒𝑖 𝑟𝑒𝑎𝑔𝑒𝑛𝑡𝑖) in
condizioni di equilibrio inoltre (𝛥𝐺 )𝑝,𝑇 = 0; la reazione ha luogo tendendo ad uno
stato in cui l’energia libera di Gibbs è la minima compatibile (ad entropia più elevata).
Si tenga presente che l’energia libera di Gibbs è il massimo dell’energia che è
possibile ottenere da una reazione.
È evidente che quando si parla di combustione, non ci si riferisce solamente alla
reazione di combustione nota, ma ad essa si associano una serie di reazioni per cui
valgono tutte le considerazioni fatte sinora.
La presenza della dissociazione porta a dei livelli energetici inferiori disponibili per il
motore.
È evidente che nel momento in cui avviene la reazione di combustione dietro al fronte
di fiamma ci saranno i prodotti (gas combusti), mentre davanti ad esso ci saranno i
reagenti che non sono stati ancora raggiunti:

72
Figura 60

È evidente che la reazione di combustione principale non è di tipo reversibile: una


volta che si sono formati i prodotti (a partire dai reagenti) si rilascia talmente tanta
energia che non è più possibile ritornare alla composizione di partenza (combustibile
e aria); questo è il motivo per cui la reazione viene espressa attraverso una freccia
unidirezionale (→). I prodotti dietro al fronte di fiamma inoltre si combinano tra di loro,
ma in questo caso le reazioni hanno una doppia freccia:
1
𝐶𝑂2 ⇄ 𝐶𝑂 + 𝑂2
2
𝐻2 ⇄ 2𝐻
………
Dato che la temperatura varia (e anche la pressione) le concentrazioni variano e non
sono fisse: nei prodotti ci sono dunque reazioni di dissociazione di riassociazione. È
evidente che le reazioni chimiche che avvengono sono anche quelle più probabili: la
formazione di carbonio atomico per esempio è improbabile, sebbene ciò possa
accadere per alcune condizioni operative (nel motore Diesel quando non c’è
ossigeno sufficiente è possibile che si abbia la formazione di questo composto).

73
Lezione 7 (Pianese) 16/03/2017
Motori alternativi a combustione interna: termochimica
L’equilibrio chimico è legato ad una costante di equilibrio denominata 𝐾𝑝 . Per una
generica reazione è possibile scrivere:
𝜈𝑎 𝑀𝑎 + 𝜈𝑏 𝑀𝑏 + ⋯ = 𝜈𝑙 𝑀𝑙 + 𝜈𝑚 𝑀𝑚 + ⋯
Dove:
𝑀𝑖 = 𝑖 − 𝑒𝑠𝑖𝑚𝑎 𝑠𝑝𝑒𝑐𝑖𝑒 𝑐ℎ𝑖𝑚𝑖𝑐𝑎
𝜈𝑖 = 𝑐𝑜𝑒𝑓𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑠𝑡𝑒𝑐ℎ𝑖𝑜𝑚𝑒𝑡𝑟𝑖𝑐𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙′ 𝑖 − 𝑒𝑠𝑖𝑚𝑜 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑜𝑛𝑒𝑛𝑡𝑒
In particolare con 𝜈𝑖 > 0 si intendono i coefficienti stechiometrici per i prodotti, mentre
con 𝜈𝑖 < 0 si intendono quelli per i reagenti; pertanto assumendo che 𝑀𝑖 sia l’i-esima
massa molecolare e che 𝜈 esprima il numero di moli si avrà:

∑ 𝜈𝑖 𝑀𝑖 = 0 (𝑐𝑜𝑛𝑠𝑒𝑟𝑣𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑚𝑎𝑠𝑠𝑎)


𝑖

In condizioni di equilibrio la costante di equilibrio della reazione sarà data da:


𝑝𝑖 𝜈𝑖
𝐾𝑝 = ∏ ( )
𝑝0
𝑖

Dove:
𝑝𝑖 = 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑝𝑎𝑟𝑧𝑖𝑎𝑙𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙′ 𝑖 − 𝑒𝑠𝑖𝑚𝑜 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑜𝑛𝑒𝑛𝑡𝑒
𝑝 = 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝑟𝑖𝑓𝑒𝑟𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜
𝜈𝑖 = 𝑐𝑜𝑒𝑓𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑠𝑡𝑒𝑐ℎ𝑖𝑜𝑚𝑒𝑡𝑟𝑖𝑐𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙′ 𝑖 − 𝑒𝑠𝑖𝑚𝑜 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑜𝑛𝑒𝑛𝑡𝑒
Scrivendo la relazione precedente in forma logaritmica si ha:

log10 (𝐾𝑝 ) = ∑ 𝜈𝑖 log10 (𝐾𝑝 )𝑖


𝑖

Dove log10 (𝐾𝑝 )𝑖 sono le costanti di equilibrio relative alla formazione di una mole di
ciascuna specie a partire dai suoi elementi allo stato di riferimento: la costante di
equilibrio complessiva può essere scritta come la somma delle costanti di equilibrio
delle reazioni che portano alla formazione di una mole di ciascuna specie presente
nella reazione di partenza a partire dai componenti di base. Ciò consente di studiare
qualsiasi reazione chimica complessa a partire dalle costanti di equilibrio delle
singole reazioni. I dati su log10 (𝐾𝑝 )𝑖 sono disponibili nelle tabelle JANAF (Joint Army
Navy Air Force): essi sono già implementati in alcune routine di calcolo.
La pressione ha ovviamente influenza sulle reazioni. Se si immagina di avere
dell’anidride carbonica, la quale a una certa temperatura inizia a dissociarsi, è
74
evidente che all’aumentare della pressione la reazione di dissociazione non è affatto
facilitata; di fatto una mole di 𝐶𝑂2 si dissocia per dare vita ad una mole di 𝐶𝑂 e mezza
di 𝑂2 , con un aumento del numero di moli: nel momento in cui c’è un aumento della
pressione l’incremento del numero di moli è evidentemente sfavorito (le moli sono
legate al volume). Analiticamente si avrà:
𝑝𝑖 𝜈𝑖 𝑝 𝜈𝑖 𝑝 ∑𝑖 𝜈𝑖 𝜈
𝐾𝑝 = ∏ ( ) = ∏ (𝑥𝑖 ) = ( ) ∏ 𝑥𝑖 𝑖
𝑝0 𝑝0 𝑝0
𝑖 𝑖 𝑖

Dove:
𝑥𝑖 = 𝑓𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑚𝑜𝑙𝑎𝑟𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙′ 𝑖 − 𝑒𝑠𝑖𝑚𝑎 𝑠𝑝𝑒𝑐𝑖𝑒
𝑝𝑖 = 𝑥𝑖 ∙ 𝑝
𝑝0 = 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝑟𝑖𝑓𝑒𝑟𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 (𝑖𝑛 𝑔𝑒𝑛𝑒𝑟𝑒 1 𝑏𝑎𝑟)
La costante di equilibrio tiene conto dell’effetto della pressione e dell’effetto della
concentrazione. Nel caso in cui:

∑ 𝜈𝑖 = 0

Vuol dire che non c’è variazione del numero di moli tra reagenti e prodotti e pertanto
la pressione non influenza il bilancio (in quanto il rapporto 𝑝/𝑝0 elevato proprio al
termine di sommatoria sarà pari ad uno poiché l’esponente vale zero); in tale
situazione la costante di equilibrio (e dunque l’equilibrio stesso) sarà solamente
influenzata dalla concentrazione e non dalla pressione.
Invece nel caso in cui:

∑ 𝜈𝑖 > 0

Si è in presenza di dissociazione ed un incremento della pressione determina una


riduzione della frazione molare dei prodotti di dissociazione (𝐾𝑝 aumenta). Questo è
proprio il caso della reazione:
1
𝐶𝑂2 ⇄ 𝐶𝑂 + 𝑂2
2
In cui il numero di moli nel passaggio da 𝐶𝑂2 a 𝐶𝑂 e 𝑂2 aumenta.
Viceversa nel caso in cui:

∑ 𝜈𝑖 < 0

Si è in presenza di riassociazione ed un incremento della pressione determina un


aumento dei prodotti di dissociazione (𝐾𝑝 si riduce).
In generale quindi se si ha una generica reazione del tipo:
75
𝜈𝑎 𝐴 + 𝜈𝑏 𝐵 = 𝜈𝑐 𝐶 + 𝜈𝐷 𝐷
La costante di dissociazione sarà data da:
𝑝 ∑𝑖 𝜈𝑖 1 1 −1 −1 𝑝 ∑𝑖 𝜈𝑖 𝑥𝐶 ∙ 𝑥𝐷
𝐾𝑝 = ( ) 𝑥𝐶 ∙ 𝑥𝐷 ∙ 𝑥𝐴 ∙ 𝑥𝐵 ⟹ 𝐾𝑝 = ( ) ∙
𝑝0 𝑝0 𝑥𝐴 ∙ 𝑥𝐵
Nel caso in cui:
𝜈𝑖 = 1, ∀ 𝑖 = 𝐴, 𝐵, 𝐶, 𝐷
Si avrà:
𝐴+𝐵 =𝐶+𝐷
E pertanto:

∑ 𝜈𝑖 = 0

Quindi:
𝑥𝐶 ∙ 𝑥𝐷
𝐾𝑝 =
𝑥𝐴 ∙ 𝑥𝐵
È evidente peraltro che:
𝜈𝑖
𝑥𝑖 =
𝜈𝐶 + 𝜈𝐷
E quindi alla fine:
𝜈𝑐 ∙ 𝜈𝐷
𝐾𝑝 =
𝜈𝐴 ∙ 𝜈𝐵
La concentrazione dell’i-esima specie è data dal rapporto tra il coefficiente
stechiometrico dell’i-esima specie e la somma dei coefficienti stechiometrici dei
prodotti.
Sempre sotto l’ipotesi di equilibrio chimico è possibile riferirsi a due costanti
particolari 𝐾𝑝 e 𝐾𝑐 , dove la prima è proprio quella sinora caratterizzata e vale:
𝑝𝑖 𝜈𝑖
𝐾𝑝 = ∏ ( )
𝑝0
𝑖

Dall’equazione di stato si ha:


𝑛𝑖
𝑝𝑖 = 𝑅̃𝑇
𝑉
Dove:
𝑅̃ = 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑢𝑛𝑖𝑣𝑒𝑟𝑠𝑎𝑙𝑒 𝑑𝑒𝑖 𝑔𝑎𝑠
Pertanto mettendo assieme queste ultime due relazioni si ha:
76
𝑛𝑖 𝜈𝑖 ∑𝑖 𝜈𝑖 𝑛𝑖 𝜈𝑖 ∑𝑖 𝜈𝑖
𝐾𝑝 = ∏ ( 𝑅̃𝑇) = (𝑅̃𝑇) ∏ ( ) = 𝐾𝑐 (𝑅̃𝑇)
𝑉 𝑉
𝑖 𝑖

Avendo posto:
𝑛𝑖 𝜈𝑖
𝐾𝑐 = ∏ ( ) (𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑑𝑖 𝑒𝑞𝑢𝑖𝑙𝑖𝑏𝑟𝑖𝑜 𝑏𝑎𝑠𝑎𝑡𝑎 𝑠𝑢𝑙𝑙𝑒 𝑐𝑜𝑛𝑐𝑒𝑡𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 ) [𝑚𝑜𝑙𝑖/𝑐𝑚3 ]
𝑉
𝑖

Inoltre sapendo che:


𝑝𝑖 𝑛𝑖
= = [𝑐𝑖 ]
𝑅̃𝑇 𝑉
Si avrà:

𝐾𝑐 = ∏[𝑐𝑖 ]𝜈𝑖
𝑖

Dove:
𝑐𝑖 = 𝑐𝑜𝑛𝑐𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑖 − 𝑒𝑠𝑖𝑚𝑎
C’è quindi una relazione tra le costanti 𝐾𝑝 e 𝐾𝑐 .
Quindi se si prende come riferimento la solita reazione:
1
𝐶𝑂2 ⇄ 𝐶𝑂 + 𝑂2
2
Sapendo che:
𝑝𝑖 𝜈𝑖 𝑝 𝜈𝑖 𝑝 ∑𝑖 𝜈𝑖 𝜈𝑖 𝑝 ∑𝑖 𝜈𝑖
𝐾𝑝 = ∏ ( ) = ∏ (𝑥𝑖 ) = ( ) ∏ 𝑥𝑖 = ( ) 𝐾𝑐
𝑝0 𝑝0 𝑝0 𝑝0
𝑖 𝑖 𝑖

Nel caso in esame si avrà:


1 1
∑ 𝜈𝑖 = −1 − +1= −
2 2
E quindi:
[𝐶𝑂2 ] 1 1
𝐾𝑝 = ∙ = 𝐾𝑐 ∙
[𝐶𝑂][𝑂2 ]1/2 𝑝1/2 𝑝1/2
In tutte le relazioni scritte sinora, quando manca il termine 𝑝0 è perché si è assunto
che esso valesse 1 𝑏𝑎𝑟 (pressione atmosferica).
Nella seguente figura si vanno a riportare le temperature di equilibrio dei prodotti in
una combustione adiabatica a volume costante (𝑇𝑃,𝑣 : prodotti a volume costante) e a
pressione costante (𝑇𝑃,𝑝 : prodotti a pressione costante) della miscela isottano-aria
inizialmente alla temperatura di 700 𝐾 e alla pressione di 10 𝑎𝑡𝑚, in funzione del
rapporto di equivalenza carburante/aria. Inoltre viene anche riportata la pressione
77
𝑝𝑃,𝑣 che indica la pressione di equilibrio dei prodotti in una combustione adiabatica a
volume costante.

Figura 61

È evidente che a volume costante, a seguito della combustione la pressione


aumenta, mentre nel caso a pressione costante essa rimane appunto la stessa. In
particolare quando si procede con una combustione a pressione costante si ottiene
una temperatura più bassa rispetto a quella che si ha nel caso di combustione a
volume costante; ciò accade perché nella combustione c’è l’effetto della pressione
sulla dissociazione: dato che la pressione si oppone alla dissociazione, la quale per
avvenire dovrebbe prendere il calore dal fluido, ha praticamente un effetto benefico
in quanto evita che il calore possa essere prelevato per la dissociazione, ma fa sì
che esso rimanga in seno al fluido; pertanto giacché nel caso di combustione a
volume costante la pressione aumenta la temperatura sarà più elevata (il calore resta
in seno al fluido). Sintetizzando:
𝑃𝑃,𝑣 > 𝑃𝑃,𝑝 ⟹ 𝑇𝑃,𝑣 > 𝑇𝑃,𝑝 (𝑒𝑓𝑓𝑒𝑡𝑡𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑑𝑖𝑠𝑠𝑜𝑐𝑖𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑟𝑖𝑑𝑜𝑡𝑡𝑜)
Si tenga presente che la temperatura in ogni caso raggiunge un massimo poco dopo
la miscela stechiometrica, cioè a miscela leggermente ricca. Da un punto di vista
teorico il massimo dovrebbe aversi proprio quando si ha una miscela perfettamente
stechiometrica: in realtà per effetto di tutte le reazioni chimiche quando la miscela è
leggermente ricca la temperatura è un po’ più elevata rispetto al caso perfettamente
stechiometrico. Con un po’ più di combustibile, rispetto a quello stechiometrico, si
riesce a generare più calore grazie alla generazione di più prodotti, ma la
combustione è meno efficiente (il rendimento di combustione si abbassa comunque).
78
È evidente che nel caso in cui la miscela sia molto ricca, la temperatura si abbasserà.
Questo è il motivo per cui i motori che hanno elevate prestazione tendono a lavorare
con rapporti di miscela leggermente maggiori rispetto a quello stechiometrico (un
10 % in più), in modo da aumentare il calore che successivamente viene convertito
in lavoro: in tal caso l’energia in più generata dalla massa in più che brucia è
maggiore di quella che si perde per effetto della dissociazione (ecco perché la
temperatura aumenta; con rapporti di miscela ancora maggiori, la mancanza di
ossigeno, porta alla non ossidazione del combustibile e dunque ad un abbassamento
di temperatura). Pertanto alla fine ci sono due effetti: un effetto legato alla maggiore
presenza di combustibile e dunque di energia chimica a disposizione da bruciare per
incrementare la temperatura ed un effetto legato al fatto che minore è la presenza di
ossigeno peggiore sarà la combustione (incombusti che non rilasciano calore).
Di seguito viene riportato un grafico in cui in funzione di una certa reazione si va a
plottare l’andamento della costante di equilibrio in scala logaritmica (log 𝐾) al variare
della temperatura 𝑇.

Figura 62

79
Per esempio per la reazione:
1
𝐻2 + 𝑂2 → 𝐻2 𝑂
2
La costante di equilibrio decresce all’aumentare della temperatura.
La reazione generica riportata in questo grafico è esprimibile come:
𝑛𝐴 𝐴 + 𝑛𝐵 𝐵 = 𝑛𝐶 𝐶 + 𝑛𝐷 𝐷
E la costante di equilibrio è data da:
𝑛 𝑛
𝑥𝐶 𝐶 ∙ 𝑥𝐷 𝐷 𝑝 [(𝑛𝐶+𝑛𝐷)−(𝑛𝐴 +𝑛𝐵)]
𝐾 = 𝑛𝐴 𝑛𝐵 ∙ ( )
𝑥𝐴 ∙ 𝑥𝐵 𝑝0

Dove:
𝑥 = 𝑐𝑜𝑛𝑐𝑒𝑡𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑚𝑜𝑙𝑎𝑟𝑖
La tabella successiva riporta il valore del logaritmo in base dieci della costante di
equilibrio 𝐾 per differenti reazioni al variare della temperatura.

Figura 63

È evidente che la temperatura po’ invertire l’effetto della reazione e dunque cambiare
il segno della costante 𝐾.
Le specie formatesi a seguito di un processo di combustione reagiscono e si trovano
in equilibrio chimico (le reazioni producono e rimuovono ciascuna specie con la
stessa velocità). In generale, si ricordi che nel caso di miscela stechiometrica (𝛷 =
1), si ha la formazione di tre specie grazie alla reazione dei reagenti (aria e
combustibile):
𝑚 𝑚 𝑚
𝐶𝑛 𝐻𝑚 + (𝑛 + ) (𝑂2 + 3.773𝑁2 ) → 𝑛𝐶𝑂2 + 𝐻2 𝑂 + 3.773 (𝑛 + ) 𝑁2
4 2 4
80
Nel caso di miscela magra tra i prodotti si aggiunge l’ossigeno 𝑂2 (𝛷 < 1), mentre nel
caso di miscela ricca tra i prodotti si ritrovano 𝐻2 e 𝐶𝑂 (𝛷 > 1).
Una volta avvenuta la reazione, si ha una situazione di questo tipo (dove la divisione
tra prodotti e reagenti è data proprio dal fronte di fiamma che avanza con una certa
velocità):

Figura 64

I prodotti ovviamente reagiscono tra di loro, dando luogo ad una serie di altre specie.
Nell’ipotesi di equilibrio chimico fissata la temperatura si ha una concentrazione
stabilita: se essa varia, varierà di conseguenza anche la concentrazione che
inseguirà istantaneamente la variazione di temperatura. Tuttavia si tenga presente
che l’ipotesi di equilibrio chimico non è valida per la fase finale dell’espansione e
durante lo scarico: in tal caso la reazione risulta essere congelata (temperatura
troppo bassa).
Nel caso in cui le temperature siano inferiori a 2200 𝐾 la miscela è composta da:
𝑁2 , 𝐻2 𝑂, 𝐶𝑂2 , 𝑂2 : 𝑚𝑖𝑠𝑐𝑒𝑙𝑎 𝑚𝑎𝑔𝑟𝑎
𝑁2 , 𝐻2 𝑂, 𝐶𝑂2 , 𝐶𝑂, 𝐻2 : 𝑚𝑖𝑠𝑐𝑒𝑙𝑎 𝑟𝑖𝑐𝑐𝑎
Per temperature superiori ai 2200 𝐾 le sei specie (la quale dipende solo dal fatto che
una parte dell’idrocarburo non viene ossidata (miscela ricca) o al fatto che c’è un
eccesso di ossigeno (miscela magra)) si dissociano e reagiscono a formare altre
specie (fino a 10 specie). Per esempio, la combustione adiabatica di una miscela
stechiometrica di un tipico carburante idrocarburico con aria produce le seguenti
frazioni molari:
𝑁2 ≃ 70 %, 𝐻2 𝑂 ≃ 10 %, 𝐶𝑂2 ≃ 10 %, 𝐶𝑂 ≃ 1 %, 𝑂𝐻 ≃ 1 %, 𝑂2 ≃ 1 %, 𝑁𝑂 ≃ 1 %, 𝐻2
≃ 1 %, 𝐻 ≃ 0.1 %, 𝑂 ≃ 0.1 %
Quindi un 90 % è formato da azoto, acqua ed anidride carbonica, mentre il residuo è
formato da una serie di altri composti (sebbene essa sia stechiometrica). Ad elevata
temperatura l’azoto reagisce con l’ossigeno portando alla formazione di 𝑁𝑂, così
come reagiscono anche idrogeno e ossigeno per formare 𝑂𝐻; inoltre l’idrogeno e
l’ossigeno molecolare si dissociano in idrogeno e ossigeno atomico (𝐻 e 𝑂).
Per il calcolo delle concentrazioni di equilibrio si considera l’equilibrio degli elementi
ed il sistema di equazioni viene chiuso attraverso le equazioni di equilibrio necessarie
(alla fine il tutto si riconduce al calcolo delle proprietà quali entalpia, entropia, calori
specifici, energia interna):

81
 Se 𝐶 è il numero degli elementi (carbonio, idrogeno, azoto, ossigeno) presenti
in una miscela con 𝑁 specie chimiche in equilibrio (per esempio le dieci viste
finora), il principio di conservazione degli elementi fornisce 𝐶 equazioni
(quattro equazioni in questo esempio) per il calcolo delle concentrazioni delle
𝑁 specie.
 Un qualsiasi set di 𝑁 − 𝐶 reazioni chimiche in equilibrio in cui siano presenti,
almeno una volta, tutte le specie consente di calcolare le concentrazioni delle
𝑁 specie.
 Le 𝑁 − 𝐶 equazioni costituiscono un set di equazioni non lineari da risolvere
con tecniche numeriche.
Alla fine si riuscirà a scrivere un set di 𝑁 equazioni in 𝑁 incognite per poter risolvere
il sistema.
Per fare ciò si hanno a disposizione delle routine denominate FARG ed ECP, a
pressione temperatura e 𝛷 costanti.
Si ricordi che un sistema è in equilibrio chimico se le costanti di tempo delle reazioni
chimiche sono piccole rispetto alle scale dei tempi con cui variano le condizioni del
sistema (temperatura e pressione); se la costante di tempo del fenomeno è
confrontabile con quella della reazione chimiche non è possibile più trascurare la
cinetica chimica. Condizioni di non equilibrio si verificano per i processi di formazione
degli inquinanti (𝐻𝐶, 𝐶𝑂, 𝑁𝑂𝑥 ) che sono controllate dalle velocità di formazione dei
prodotti. Le velocità di formazione sono dipendenti dalla concentrazione dei reagenti
e dalla temperatura: ad esempio se c’è una grande concentrazione di acqua sarà più
facile farla scindere (anche per una batteria vale lo stesso principio: quando essa è
molto carica, la resistenza di carica è molto elevata, mentre quando è quasi scarica
la resistenza da essa opposta è molto bassa (lo stesso vale all’inverso per la scarica:
è molto più difficile scaricare una batteria già quasi scarica, rispetto ad una carica al
massimo); lo stesso vale per un serbatoio in pressione: in condizioni di massima
pressione inserire altra massa all’interno richiederebbe moltissima energia, mentre
quando il serbatoio è quasi vuoto è molto semplice andare a riempirlo (lo stesso vale
all’inverso per svuotare il serbatoio: se esso è quasi vuoto è molto difficile svuotarlo
ulteriormente); inoltre se all’interno del serbatoio c’è una elevata pressione la velocità
con cui esce il fluido è molto elevata, così come se c’è un’elevata concentrazione di
reagenti la velocità di reazione sarà più elevata). Alla temperatura è legata l’energia
che serve a rompere i legami per formare altre specie (energia di attivazione).
La somma dei coefficienti stechiometrici dei reagenti ∑ 𝜈𝑖 individua l’ordine della
reazione:
1
𝐶𝑂 + 𝑂2 ⇄ 𝐶𝑂2 (𝐼 𝑜𝑟𝑑𝑖𝑛𝑒 (𝑑𝑖𝑠𝑠𝑜𝑐𝑖𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒) 𝜈𝑎 = 1)
2
𝑂 + 𝑁2 ⇄ 𝑁𝑂 + 𝑁 (𝐼𝐼 𝑜𝑟𝑑𝑖𝑛𝑒 𝜈𝑎 + 𝜈𝑏 = 2)
Si immagini di avere la seguente reazione:
82
𝑀𝑎 + 𝑀𝑏 = 𝑀𝑐 + 𝑀𝑑
Dalla legge di azione di massa, nella reazione diretta, la velocità con cui si forma una
specie sarà:

+
𝑑 [𝑀𝑎 ]+ 𝑑 [𝑀𝑐 ]+
𝑅 = − = = 𝑘 + [𝑀𝑎 ]𝜈𝑎 [𝑀𝑏 ]𝜈𝑏
𝑑𝑡 𝑑𝑡
Dove:
𝑘 + = 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑑𝑖 𝑟𝑒𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 (𝑑𝑖𝑟𝑒𝑡𝑡𝑎 )
[𝑀𝑎 ] = 𝑐𝑜𝑛𝑐𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑝𝑒𝑐𝑖𝑒 𝑎
[𝑀𝑏 ] = 𝑐𝑜𝑛𝑐𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑝𝑒𝑐𝑖𝑒 𝑏
𝜈𝑎 = 𝑐𝑜𝑒𝑓𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑠𝑡𝑒𝑐ℎ𝑖𝑜𝑚𝑒𝑡𝑟𝑖𝑐𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑝𝑒𝑐𝑖𝑒 𝑎
𝜈𝑏 = 𝑐𝑜𝑒𝑓𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑠𝑡𝑒𝑐ℎ𝑖𝑜𝑚𝑒𝑡𝑟𝑖𝑐𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑝𝑒𝑐𝑖𝑒 𝑏
La velocità con cui scompaiono le moli di A (velocità negativa), è pari alla velocità
con cui compaiono le moli di C (velocità positiva).
Allo stesso modo la velocità di reazione inversa sarà data da:
𝑑 [𝑀𝑐 ]− 𝑑 [𝑀𝑎 ]−
𝑅− = − = = 𝑘 − [𝑀𝑐 ]𝜈𝑐 [𝑀𝑑 ]𝜈𝑑
𝑑𝑡 𝑑𝑡
La velocità con cui scompare C (velocità negativa) è uguale alla velocità con cui
compare A (velocità positiva).
Dove:
𝑘 − = 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑑𝑖 𝑟𝑒𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 (𝑖𝑛𝑣𝑒𝑟𝑠𝑎)
[𝑀𝑐 ] = 𝑐𝑜𝑛𝑐𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑝𝑒𝑐𝑖𝑒 𝑐
[𝑀𝑑 ] = 𝑐𝑜𝑛𝑐𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑝𝑒𝑐𝑖𝑒 𝑑
𝜈𝑐 = 𝑐𝑜𝑒𝑓𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑠𝑡𝑒𝑐ℎ𝑖𝑜𝑚𝑒𝑡𝑟𝑖𝑐𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑝𝑒𝑐𝑖𝑒 𝑐
𝜈𝑑 = 𝑐𝑜𝑒𝑓𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑠𝑡𝑒𝑐ℎ𝑖𝑜𝑚𝑒𝑡𝑟𝑖𝑐𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑝𝑒𝑐𝑖𝑒 𝑑
Pertanto la velocità di formazione dei prodotti (bilancio netto tra la velocità della
reazione di retta e quella inversa: in effetti le due reazioni avvengono in
contemporaneo) sarà data da:

+
𝑑[𝑀𝑐 ]+ 𝑑[𝑀𝑐 ]−

𝑑[𝑀𝑎 ]+ 𝑑[𝑀𝑎 ]−
𝑅 −𝑅 = + = − − = 𝑘 + [𝑀𝑎 ]𝜈𝑎 [𝑀𝑏 ]𝜈𝑏 − 𝑘 − [𝑀𝑐 ]𝜈𝑐 [𝑀𝑑 ]𝜈𝑑
𝑑𝑡 𝑑𝑡 𝑑𝑡 𝑑𝑡
Quindi la velocità di formazione dei prodotti è uguale alla differenza tra la velocità
della reazione diretta e la velocità della reazione inversa. Nel caso in cui le velocità
di reazione diretta ed inversa siano uguali si è nell’ipotesi di equilibrio chimico. Nella

83
cinetica chimica invece ci sarà una velocità di dissociazione diversa dalla velocità di
riassociazione.
Per una generica reazione con 𝑛 specie reagenti ed 𝑚 specie prodotte si avrà:
𝑛 𝑚

∑ 𝜈𝑅,𝑖 𝑀𝑅,𝑖 = ∑ 𝜈𝑃,𝑖 𝑀𝑃,𝑖


𝑖=1 𝑖=1

Le velocità di reazione diretta ed inversa sono:


𝑛
𝜈𝑅,𝑖
𝑅+ = 𝑘 + ∏[𝑀𝑅,𝑖 ]
𝑖=1
𝑚
− − 𝜈𝑃,𝑖
𝑅 = 𝑘 ∏[𝑀𝑃,𝑖 ]
𝑖=1

La costante della reazione è fornita dalla legge di Arrhenius:


𝐸𝐴
𝑘 = 𝐴 ∙ exp (− )
𝑅𝑇
Dove:
𝐸𝐴 = 𝑒𝑛𝑒𝑟𝑔𝑖𝑎 𝑑𝑖 𝑎𝑡𝑡𝑖𝑣𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒
L’energia di attivazione è la soglia al di sopra della quale bisogna arrivare per
innescare la reazione:

Figura 65

𝑅 → 𝑟𝑒𝑎𝑔𝑒𝑛𝑡𝑖
𝑃 → 𝑝𝑟𝑜𝑑𝑜𝑡𝑡𝑖
Quindi a partire dall’energia dei reagenti, si fornisce una certa quantità di energia per
superare la soglia di attivazione e successivamente si ha un rilascio di energia per la
formazione dei prodotti (la scintilla che scocca localmente all’interno di un motore
84
benzina dà il via al processo di combustione perché fornisce in quella zona la quantità
di energia necessaria ad attivare tale processo; nel motore Diesel invece si
raggiunge un livello di pressione e temperatura tale da raggiungere quel certo valore
di energia di attivazione). Ovviamente la differenza di energia tra reagenti e prodotti
(𝛥𝐻) è nient’altro che il calore rilasciato.
Come precisato anche precedentemente, in condizioni di equilibrio chimico si avrà:
𝑃,𝑖 𝜈
+ −
𝑘 + ∏𝑚 𝑖=1[𝑀𝑃,𝑖 ]
𝑅 −𝑅 =0 ⟹ − = 𝜈
𝑘 ∏𝑛𝑖=1[𝑀𝑅,𝑖 ] 𝑅,𝑖

Per tutta la trattazione seguente si farà tuttavia riferimento alle ipotesi di equilibrio
chimico.
I dati termodinamica per elementi prodotti dalla combustione e molti inquinanti sono
raccolti in una serie di tavole JANAF pubblicata dal National Bureau of Standards. I
calori specifici si trovano interpolati con polinomi del quarto ordine:
𝑐𝑝
= 𝑎1 + 𝑎2 𝑇 + 𝑎3 𝑇 2 + 𝑎4 𝑇 3 + 𝑎5 𝑇 4
𝑅
Per l’entalpia (si ricordi che: 𝑑ℎ = 𝑐𝑝 𝑑𝑇 ⟹ ℎ = ∫ 𝑐𝑝 𝑑𝑇) e l’entropia a pressione
atmosferica valgono invece le seguenti relazioni:
ℎ 𝑎2 𝑎3 𝑎4 𝑎5 𝑎6
= 𝑎1 + 𝑇 + 𝑇 2 + 𝑇 3 + 𝑇 4 +
𝑅𝑇 2 3 4 5 𝑇
𝑠0 𝑎3 𝑎4 𝑎5
= 𝑎1 ln 𝑇 + 𝑎2 𝑇 + 𝑇 2 + 𝑇 3 + 𝑇 4 + 𝑎7
𝑅 2 3 4
Dove 𝑎6 e 𝑎7 sono costanti di integrazione determinate uguagliando l’entalpia e
l’entropia ai valori di riferimento.

85
Lezione 8 (Sorrentino) 17/03/2017
Note introduttive a Matlab
Nella scrittura di modelli è molto importante programmare in vettoriale per ridurre i
tempi di calcolo e le linee di codice scritto: in tal modo si riesce a snellire il
programma.
Molto spesso per legare una variabile dipendente ad una variabile indipendente è
sufficiente utilizzare un’espressione polinomiale, il cui grado va ovviamente
determinato. Nel caso in cui invece si vuole legare una variabile dipendente a più
variabili indipendenti è necessario passare alle regressioni lineari multiple; è
possibile combinare la regressione lineare multipla con funzioni avanzate per l’analisi
di ottimizzazione (minimizzazione di funzioni); inoltre tra le funzioni avanzate è anche
presente il tool denominato ODE (Ordinary Differential Equation) che permette la
risoluzione di equazioni differenziali ordinarie per fare delle simulazioni e/o dei calcoli
modellistici. Attraverso le equazioni differenziali ordinarie è possibile ad esempio
calcolare le variabili pressione e temperatura in un ciclo limite, al variare dell’angolo
di manovella o al variare del tempo (si tenga presente che tempo ed angolo di
manovella sono due grandezze legate, ma si preferisce in genere ragionare sulla
seconda).
Un modello può avere diverse finalità: per esempio esso può essere utile per stimare
l’efficienza di un motore a combustione interna in certi punti di funzionamento
individuati da coppia e regime di giri (in questo caso si sviluppa un modello alle
regressioni lineari multiple).
Per valutare cosa accade nel tempo ad un determinato processo e/o ad un
determinato sistema è necessario andare a simulare ciò che accade.
MATLAB è l’acronimo inglese che sta per MATrix LABoratory: si tratta cioè di un
ambiente di lavoro matriciale. MATLAB permette di:
 Effettuare calcoli (computation).
 Visualizzare i risultati (visualization): al variare del tempo (evoluzione) o anche
il risultato finale.
 Programmare (programming): questo concetto si integra con i due
precedentemente esposti (si decide, a seconda dei casi, se optare per un ciclo
for o un while, se effettuare un’iterazione oppure no, …).
Nella programmazione è necessario trovare il giusto compromesso tra efficacia
(programma che dia buoni risultati) ed efficienza (tempi di calcolo ridotti).
MATLAB è un linguaggio di programmazione ad alto livello learning by using (si
impara usandolo). Esso è corredato da una famiglia di applicazioni specifiche
(toolbox) quali: signal processing, statistics, optimization, neural networks, ….
Pertanto prima di iniziare a programmare è necessario capire se esistono già delle

86
funzioni built-in che consentono di risparmiare tempo e di ridurre la complessità del
programma.
Gli ambienti principali che si possono trovare in MATLAB sono:
 Workspace: in cui è contenuto l’elenco delle variabili attualmente esistenti; si
tenga presente che nel momento in cui si sta realizzando un programma c’è
uno strato principale (main) con una serie di sotto-strati costituiti dalle diverse
funzioni: ad ogni strato è associato un workspace; pur utilizzando una funzione
banale quale somma (sum) di due scalari 𝑎 e 𝑏 questi ultimi sono definiti nel
workspace “principale”, ma la funzione sum non conosce i due scalari perché
ha un suo workspace allo strato inferiore dove ci sono le funzioni built-in di
MATLAB; con la sintassi di sum è necessario specificare quali gli elementi da
sommare: entrando quindi nel workspace del comando sum si ritrovano solo
le variabili sommate e non le altre variabili eventualmente presenti all’interno
del programma che si sta scrivendo. C’è pertanto una struttura detta “a cipolla”.
 Current directory: è la cartella di lavoro nella quale si sta lavorando.
 Command history: contiene tutte le azioni (storia) eseguite fino a quel
momento; in tal modo è possibile rieseguire un calcolo molto velocemente con
un semplice click anziché riscrivere ogni volta la stessa operazione.
 Command window: in cui si possono scrivere le operazioni da effettuare.
In generale quando si vuole creare un programma è buona norma lavorare nell’editor
piuttosto che nella command window, soprattutto se essi sono molto lunghi.
Si tenga inoltre presente che per MATLAB la sintassi in maiuscolo è diversa da quella
in minuscolo.
Per la definizione di un vettore in MATLAB è possibile utilizzare due notazioni
differenti:
𝑎 = [1, 2, 3, 4] 𝑜𝑝𝑝𝑢𝑟𝑒 𝑎 = [1 2 3 4]
Per la definizione di una matrice invece si ha la seguente notazione:
𝐴 = [1, 2, 3; 4, 5, 6; 7, 8, 9]
È inoltre possibile andare a capo nella scrittura dei diversi valori in modo da evitare
di scrivere sempre sulla stessa riga:
𝑎 = [1, 2, 3, …
5, 6, 7]
Si tenga presente che MATLAB tratta tutto come delle matrici, anche scalari, vettori
e stringhe sono trattati come tali.
Nel caso in cui non viene assegnato esplicitamente il risultato di un calcolo ad una
data variabile, MATLAB crea in automatico una variabile provvisoria riportata nel
workspace chiamata Ans.
87
In MATALB c’è una sostanziale differenza tra le espressioni seguenti:
𝑏 = 𝑎 (𝑖𝑛 𝑡𝑎𝑙 𝑐𝑎𝑠𝑜 𝑙𝑎 𝑣𝑎𝑟𝑖𝑎𝑏𝑖𝑙𝑒 𝑏 𝑠𝑖 𝑡𝑟𝑎𝑠𝑓𝑜𝑟𝑚𝑎 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑣𝑎𝑟𝑖𝑎𝑏𝑖𝑙𝑒 𝑎)
𝑏 == 𝑎 (𝑐𝑜𝑚𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑙𝑜𝑔𝑖𝑐𝑜)
Nel caso in cui si utilizza la sintassi per il comando logico, MATLAB risponde con il
valore 1 se le due variabili sono uguali e con il valore 0 se sono differenti (risposta di
tipo binario).
Esistono poi una serie di comandi quali ad esempio la funzione diag che estrae la
diagonale principale di una matrice data. In genere le funzioni built-in come il
comando diag sono di tipo generale, ovvero a seconda della sintassi utilizzata è
possibile ottenere diverse risposte: per capire come utilizzare tali comandi è possibile
riferirsi all’help messo a disposizione da MATLAB stesso. Il comando diag per
esempio in generale presenta la seguente sintassi:
𝑑𝑖𝑎𝑔 (𝑉, 𝑘 ) (𝑘 = 0 𝑑𝑖 𝑑𝑒𝑓𝑎𝑢𝑙𝑡 )
Dove:
𝑉 = 𝑣𝑒𝑡𝑡𝑜𝑟𝑒 (𝑜 𝑚𝑎𝑡𝑟𝑖𝑐𝑒)
𝑘
= 𝑠𝑐𝑒𝑔𝑙𝑖𝑒 𝑙𝑎 𝑑𝑖𝑎𝑔𝑜𝑛𝑎𝑙𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑚𝑎𝑡𝑟𝑖𝑐𝑒 𝑑𝑎 𝑠𝑒𝑙𝑒𝑧𝑖𝑜𝑛𝑎𝑟𝑒 (𝑜 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑝𝑜𝑠𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑎𝑟𝑒 𝑖𝑙 𝑣𝑒𝑡𝑡𝑜𝑟𝑒 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑚𝑎𝑡𝑟𝑖𝑐𝑒)
Si possono avere dunque tre casi:
 𝑘 = 0: diagonale principale
 𝑘 > 0: sopra la diagonale principale
 𝑘 < 0: sotto la diagonale principale
In tal modo se si parte da un vettore, si ottiene una matrice, mentre se si parte da
una matrice si ottiene un vettore.
È possibile inoltre anche creare una matrice con un certo vettore sulla diagonale, nel
seguente modo:
𝑑𝑖𝑎𝑔([4 5 6 7])
È possibile specificare anche il valore di 𝑘 per scegliere la diagonale su cui inserire
il vettore.
Supposto di avere a disposizione il seguente set di dati:

Figura 66

88
Se si immagina di avere questi dati disponibili in un file testo di nome eng_data per
caricarli in MATLAB è necessario utilizzare il seguente comando:
𝑙𝑜𝑎𝑑 𝑒𝑛𝑔_𝑑𝑎𝑡𝑎. 𝑡𝑥𝑡
È necessario specificare l’estensione del file in quanto esso risulta essere esterno a
MATLAB stesso (se si tratta di un file .mat è possibile anche omettere l’estensione).
Se si utilizza il comando save è possibile salvare un delle variabili create in MATLAB:
𝑠𝑎𝑣𝑒 𝑛𝑜𝑚𝑒_𝑓𝑖𝑙𝑒
In questo modo si salvano automaticamente tutte le variabili contenute all’interno del
workspace. Volendo salvare solo alcune variabili è necessario specificarle:
𝑠𝑎𝑣𝑒 𝑛𝑜𝑚𝑒_𝑓𝑖𝑙𝑒 𝑣𝑎𝑟1 𝑣𝑎𝑟2
È possibile inoltre estrarre da una matrice dei vettori utilizzando la seguente sintassi:
𝑡 = 𝑒𝑛𝑔_𝑑𝑎𝑡𝑎(: ,1)
In tal modo si prendono tutte le righe, ma solo la prima colonna; volendo invece
caricare tutte le righe e le prime due colonne la sintassi diventa:
𝑡_𝑛 = 𝑒𝑛𝑔_𝑑𝑎𝑡𝑎(: ,1: 2)
È possibile anche affiancare due o più matrici (o due o più vettori) nella maniera
seguente:
𝐶 = [𝐶, 𝐶 + 2]
Con il comando eye invece si crea una matrice identità:
𝑒𝑦𝑒(3,3) → 𝑚𝑎𝑡𝑟𝑖𝑐𝑒 𝑖𝑑𝑒𝑛𝑡𝑖𝑡à 3𝑥3
Con MATLAB si possono convertire numeri (vettori, …) in stringhe o stringhe in
vettori:
𝑎 = [1, 2, 3, 4, 5, 6]
𝑎_𝑠𝑡𝑟𝑖𝑛𝑔𝑎 = 𝑛𝑢𝑚2𝑠𝑡𝑟(𝑎) (𝑐𝑜𝑛𝑣𝑒𝑟𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜 𝑖𝑛 𝑠𝑡𝑟𝑖𝑛𝑔𝑎 (𝑛𝑢𝑚𝑏𝑒𝑟 𝑡𝑜 𝑠𝑡𝑟𝑖𝑛𝑔))

𝑏 = 𝑠𝑡𝑟2𝑛𝑢𝑚(𝑎_𝑠𝑡𝑟𝑖𝑛𝑔𝑎 )(𝑐𝑜𝑛𝑣𝑒𝑟𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑠𝑡𝑟𝑖𝑛𝑔𝑎 𝑖𝑛 𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜 (𝑠𝑡𝑟𝑖𝑛𝑔 𝑡𝑜 𝑛𝑢𝑚𝑏𝑒𝑟))


Con il comando hist è possibile creare un istogramma, mentre con il comando axis è
possibile decidere la scala del plot:
𝑎𝑥𝑖𝑠 ([5 7 30 35])
È possibile gestire legenda, griglia, titolo, … di un plot dall’opzione tools del plot
stesso.

89
Quando si salvano delle immagini di plot su MATLAB è possibile salvarle in diversi
formati: con il formato .fig è possibile visualizzare l’immagine solo con MATLAB
stesso, mentre con il formato .emf è possibile aprirla in word, ….
Si tenga inoltre presente che in MATLAB c’è una differenza sostanziale tra slash e
backslash:
2
2/3 =
3
3
3\2 =
2
Tuttavia, in generale, il comando backslash si utilizza per la risoluzione di sistemi di
equazioni.
Quando si vuole creare una variabile dipendente che è funzione di più variabili
indipendenti e ci sono dipendenze miste come ad esempio:
𝑦 = 𝑥1 ∗ 𝑥2
Se 𝑥1 e 𝑥2 sono due vettori di 𝑛 elementi e l’obiettivo è moltiplicare i due vettori
elemento per elemento per ottenere 𝑦 il comando è il seguente:
𝑦 = 𝑥1 .∗ 𝑥2
In tal modo, si ragiona su ogni singolo elemento del vettore (o della matrice) e non
sul vettore (o matrice) nel suo insieme. Ovviamente oltre al .∗ c’è anche il comando
. ^ per cui valgono le stesse considerazioni. Pertanto nel momento in cui si vuole
ottenere la potenza moltiplicando il vettore numero di giri (opportunamente convertito
in velocità angolare) per il vettore coppia è necessario utilizzare il comando .∗ (e non
semplicemente ∗).

90
Lezione 9 (Pianese) 21/03/2017
Motori alternativi a combustione interna: termochimica
Si tenga presente che la reazione di combustione, che porta alla formazione dei
prodotti a partire dai reagenti (aria e combustibile) è stata considerata di tipo one-
step, sebbene nella realtà vi siano una serie di reazioni intermedie che a rigore
andrebbero considerate; inoltre la reazione di combustione è di tipo irreversibile
ovvero una volta che i reagenti si trasformano in prodotti non è più possibile
ricombinare i prodotti per riottenere i reagenti di partenza (→); per l’innesco della
reazione di combustione è inoltre necessaria una certa quantità di energia in modo
da superare un valore limite noto come energia di attivazione: raggiunto tale valore
la miscela brucia ed i reagenti si trasformano in prodotti. Tale trasformazione one-
step dà vita a prodotti che poi si dissociano e ri-associano dando vita ad ulteriori
composti presenti all’interno della miscela. In generali tali reazioni possono essere di
equilibrio, congelate o più in generale governate dalle leggi della cinetica chimica.
Nel caso di miscela congelate le costanti chimiche sono tali da non modificare le
concentrazioni (la miscela non cambia e ciò accade al di sotto di una certa
temperatura che vale circa 1700 𝐾). Al di sopra dei 2300 𝐾 al contrario la miscela
può essere considerata in equilibrio: anidride carbonica, acqua e azoto molecolare
costituiscono una buona percentuale della miscela, mentre la restante parte è
costituita da altri elementi. Le specie formatesi a seguito del processo di combustione
sono soggette ad un processo di dissociazione (processo non reversibile) che porta
alla dissipazione di energia e alla generazione di entropia: parte dell’energia rimane
in seno alle specie chimiche le quali se fossero completamente ossidate
rilascerebbero altro calore in modo da avere un rendimento di combustione unitario.
Le reazioni all’equilibrio sono valide nel momento in cui si fanno delle considerazioni
energetiche globali (racchiudendo tutto il motore all’interno di un volume di controllo).
Si noti peraltro che in generale tutte le reazioni sono di tipo cinetico: l’equilibrio
chimico o il congelamento sono da interpretarsi come casi particolari della più
generale cinetica chimica; si tenga inoltre presente che gli stessi fenomeni possono
essere analizzati sotto le ipotesi di equilibrio o attraverso un modello di cinetica
chimica a seconda dei tempi caratteristici in gioco: nel caso della detonazione i tempi
caratteristici sono molto brevi e pertanto le reazioni non possono essere considerate
all’equilibrio, ma devono essere studiate ed analizzate con approcci di tipo cinetico.
In condizioni di equilibrio chimico la velocità di reazione diretta e la velocità di
reazione inversa sono uguali. Si ricordi inoltre che nel caso in cui si ha a che fare con
più di quattro specie chimiche, c’è un problema per la scrittura delle equazioni utili a
ricavare i coefficienti stechiometrici: nel caso di combustione stechiometrica in cui
c’è presenza di anidride carbonica, acqua e azoto molecolare, o al limite magra, in
cui rispetto ai composti precedenti si aggiunge l’ossigeno molecolare, il problema
non sussiste in quanto quattro sono i prodotti e quattro sono le equazioni che è
possibile scrivere in relazione alle specie chimiche (idrogeno, carbonio, azoto,
ossigeno). Si tenga inoltre presente che le proprietà della miscela si ottengono come

91
media pesata delle proprietà dei singoli componenti costituenti (i pesi sono proprio le
concentrazioni).
Si tenga presente che volendo essere precisi, è più corretto parlare di eccesso di
ossigeno e di deficit di ossigeno piuttosto che di deficit di carburante e di eccesso di
carburante.
Si faccia riferimento ad una mole di aria (e non più una mole di idrocarburo), nel caso
di una combustione ideale stechiometrica si ha la seguente reazione:
𝜀𝛷𝐶𝛼 𝐻𝛽 𝑂𝛾 𝑁𝛿 + (0.21𝑂2 + 0.79𝑁2 ) → 𝜈1 𝐶𝑂2 + 𝜈2 𝐻2 𝑂 + 𝜈3 𝑁2

Dove:
𝑛𝑓𝑢𝑒𝑙
𝜀= (𝑟𝑎𝑝𝑝𝑜𝑟𝑡𝑜 𝑚𝑜𝑙𝑎𝑟𝑒 𝑐𝑜𝑚𝑏𝑢𝑠𝑡𝑖𝑏𝑖𝑙𝑒/𝑎𝑟𝑖𝑎)
𝑛𝑎𝑟𝑖𝑎
𝛷 = 𝑟𝑎𝑝𝑝𝑜𝑟𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑒𝑞𝑢𝑖𝑣𝑎𝑙𝑒𝑛𝑧𝑎 (𝑒𝑐𝑐𝑒𝑠𝑠𝑜 𝑑𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑏𝑢𝑠𝑡𝑖𝑏𝑖𝑙𝑒)
𝜈𝑖 = 𝑓𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑚𝑜𝑙𝑎𝑟𝑖 (𝑐𝑜𝑛𝑐𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑖 𝑝𝑟𝑜𝑑𝑜𝑡𝑡𝑖 ) 𝑝𝑒𝑟 𝑢𝑛𝑎 𝑚𝑜𝑙𝑒 𝑑𝑖 𝑎𝑟𝑖𝑎
𝛼, 𝛽, 𝛾, 𝛿 = 𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜 𝑑𝑖 𝑎𝑡𝑜𝑚𝑖
Ovviamente i coefficienti davanti ad ogni composto rappresentano il numero di moli
(la reazione si considera in funzione di una mole di aria, la quale è costituita
prevalentemente da 0.21 moli di ossigeno e 0.79 moli di azoto: una mole di aria è
costituita di fatto dal 21 % di ossigeno e dal 79 % di azoto circa).
L’idrocarburo generico 𝐶𝛼 𝐻𝛽 𝑂𝛾 𝑁𝛿 risulta essere formato anche da ossigeno ed azoto,
oltre che da idrogeno e carbonio: nella realtà spesso ci sono anche altri componenti
quali ad esempio lo zolfo, in quanto si ha a che fare con delle miscele di idrocarburi
in cui alla fine si considera una media pesata tra tutti i componenti per poter
caratterizzare l’idrocarburo di riferimento.
Per le reazioni stechiometriche si individua il seguente set di equazioni:
0.210𝛼
𝜈1 = (𝑐𝑜𝑛𝑐𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝐶𝑂2 )
𝛼 + 0.25𝛽 − 0.5𝛾
0.105𝛽
𝜈2 = (𝑐𝑜𝑛𝑐𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝐻2 𝑂)
𝛼 + 0.25𝛽 − 0.5𝛾
0.790 + 0.105𝛿
𝜈3 = (𝑐𝑜𝑛𝑐𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝑁2 )
𝛼 + 0.25𝛽 − 0.5𝛾
0.210
𝜀= (𝑟𝑎𝑝𝑝𝑜𝑟𝑡𝑜 𝑚𝑜𝑙𝑎𝑟𝑒)
{ 𝛼 + 0.25𝛽 − 0.5𝛾
Il rapporto stechiometrico combustibile/aria in massa è quindi:
𝜀 (12.01𝛼 + 1.008𝛽 + 16.00𝛾 + 14.01𝛿
𝐹𝑠 =
28.85

92
Dove:
𝑀𝑀 = 28.85 𝑔/𝑚𝑜𝑙 (𝑚𝑎𝑠𝑠𝑎 𝑚𝑜𝑙𝑎𝑟𝑒 𝑎𝑟𝑖𝑎)
Per molti tipi di idrocarburi si fa l’ipotesi 𝛾 = 𝛿 = 0 ed il rapporto stechiometrico è
approssimativamente costante:
𝐹𝑠 ∼ 0.067
In realtà sebbene sia possibile considerare effettivamente 𝛿 = 0, in generale risulta
sempre 𝛾 ≠ 0 in quanto nell’idrocarburo è sempre presente ossigeno (alcool):
composti ossigenati vengono aggiunti per evitare la detonazione (questo avviene
soprattutto da quando è stato bandito l’utilizzo del piombo tetraetile). Inoltre molte
compagini petrolifere forniscono parecchi idrocarburi nei quali è presente ossigeno
perché tali combustibili sono derivati da biocombustibili in maniera da ottenere
miscele “più verdi”, per motivi di legge (in Germania ad esempio, in molti distributori
è possibile scegliere con che tipo di miscela rifornirsi ed in genere queste miscele
contengono etanolo; esistono inoltre dei combustibili che contengono il 100 % di
etanolo, sebbene in molti casi è stato stimato che il vantaggio in termini di riduzione
di 𝐶𝑂2 è praticamente inesistente).
Si ricordi inoltre che il rapporto di equivalenza 𝛷 dà informazione riguardo al tipo di
miscela ed in particolare:
𝐹
𝛷=
𝐹𝑠
𝛷 < 1 𝑚𝑖𝑠𝑐𝑒𝑙𝑎 𝑝𝑜𝑣𝑒𝑟𝑎
𝛷 = 1 𝑚𝑖𝑠𝑐𝑒𝑙𝑎 𝑠𝑡𝑒𝑐ℎ𝑖𝑜𝑚𝑒𝑡𝑟𝑖𝑐𝑎
𝛷 > 1 𝑚𝑖𝑠𝑐𝑒𝑙𝑎 𝑟𝑖𝑐𝑐𝑎
Per basse temperature (𝑇 < 1500 𝐾) e per rapporti 𝑐𝑎𝑟𝑏𝑜𝑛𝑖𝑜/𝑜𝑠𝑠𝑖𝑔𝑒𝑛𝑜 < 1 è
possibile ritenere che la miscela sia costituita dai seguenti componenti:
𝐶𝑂2 , 𝐻2 𝑂, 𝑁2 , 𝑂2 , 𝐶𝑂, 𝐻2
In particolare la reazione può essere scritta nel seguente modo:
𝜀𝛷𝐶𝛼 𝐻𝛽 𝑂𝛾 𝑁𝛿 + (0.21𝑂2 + 0.79𝑁2 ) → 𝜈1 𝐶𝑂2 + 𝜈2 𝐻2 𝑂 + 𝜈3 𝑁2 + 𝜈4 𝑂2 + 𝜈5 𝐶𝑂 + 𝜈6 𝐻2

Evidentemente o è presente ossigeno in eccesso (e dunque non c’è monossido di


carbonio e idrogeno), oppure al contrario è presente il monossido di carbonio e
l’idrogeno molecolare, ma non è presente ossigeno. Di fatto, approssimativamente,
è possibile considerare che:
𝛷 ≤ 1: 𝜈5 = 𝜈6 = 0
𝛷 > 1: 𝜈4 = 0

93
Si tenga presente che in generale per miscela povere risulta 𝑁 − 𝐶 = 0 per cui il
problema matematico risulta chiuso: i quattro coefficienti stechiometrici 𝜈𝑖
(concentrazioni) possono essere calcolati attraverso le equazioni di bilancio degli
atomi. Quindi per miscele povere o stechiometriche le equazioni di bilancio sono
sufficienti a determinare la composizione dei prodotti:
0.210𝛼
𝜈1 = (𝑐𝑜𝑛𝑐𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝐶𝑂2 )
𝛼 + 0.25𝛽 − 0.5𝛾
0.105𝛽
𝜈2 = (𝑐𝑜𝑛𝑐𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝐻2 𝑂)
𝛼 + 0.25𝛽 − 0.5𝛾
0.790 + 0.105𝛿
𝜈3 = (𝑐𝑜𝑛𝑐𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝑁2 )
𝛼 + 0.25𝛽 − 0.5𝛾
0.210
𝜀= (𝑟𝑎𝑝𝑝𝑜𝑟𝑡𝑜 𝑚𝑜𝑙𝑎𝑟𝑒)
{ 𝛼 + 0.25𝛽 − 0.5𝛾
Si tenga presente che la concentrazione dei prodotti andrebbe considerata rispetto
alla somma di tutte le moli (numero di moli di uno dei prodotti rispetto alle moli totali
di tutti i prodotti): in tal caso invece la concentrazione, ovvero i coefficienti 𝜈𝑖 , sono
da intendersi rispetto a una mole di aria.
Per miscele ricche invece, in cui sono presenti cinque specie, per poter risolvere il
problema matematico è necessario considerare un’altra reazione aggiuntiva
(reazione rispetto alla quale considerare l’equilibrio chimico):
𝐶𝑂2 + 𝐻2 ⇄ 𝐶𝑂 + 𝐻2 𝑂
Le specie chimiche rimangono dunque in equilibrio tra loro secondo la reazione
chimica su scritta, con una costante di equilibrio 𝐾 pari a:
𝜈2 ∙ 𝜈5
𝐾=
𝜈1 ∙ 𝜈6
In questo modo si hanno a disposizione cinque equazioni (4 + 1) in cinque incognite.
In particolare dalle tabelle JANAF è possibile ricavare il valore della costante 𝐾 in
funzione della temperatura di riferimento espressa in millesimi (𝑡 = 𝑇/1000):
1.761 1.611 0.2803
ln(𝐾) = 2.743 − − 2 +
𝑡 𝑡 𝑡3
Con:
400 𝐾 < 𝑇 < 3200 𝐾
La concentrazione segue dunque la costante di equilibrio 𝐾 comunque vari la
temperatura (ipotesi di equilibrio chimico).
Pertanto per miscele ricche, sostituendo nella costante 𝐾 l’espressione di 𝜈1 , 𝜈2 , 𝜈6 , è
possibile calcolare 𝜈5 :

94
− 𝑏 + √𝑏2 − 4𝑎𝑐
𝜈5 =
2𝑎
Con:
𝑎 =1−𝐾
𝑏 = 0.42 − 𝛷𝜀 (2𝛼 − 𝛾 ) + [0.42(𝛷 − 1) + 𝛼𝛷𝜀 ]
𝑐 = −0.42𝛼𝛷𝜀 (𝛷 − 1)𝐾
In particolare riassumendo quanto detto, la composizione dei prodotti (𝜈𝑖 [𝑚𝑜𝑙𝑖/
𝑚𝑜𝑙𝑖 𝑑𝑖 𝑎𝑟𝑖𝑎]) della combustione a bassa temperatura, al variare di 𝛼, 𝛽, 𝛾, 𝛿, 𝛷
sarà:

Figura 67

Per esempio nel caso dell’azoto, nei prodotti si ritrova proprio la quantità presente a
monte nei reagenti (0.79), essendo esso un gas inerte che non partecipa alla
reazione, più eventualmente l’aliquota presente all’interno del combustibile di
partenza (𝛿𝛷𝜀/2). Per quanto riguarda l’ossigeno invece, nel caso di combustione
magra, nei prodotti si ritrova una quantità variabile a seconda del “livello di magrezza”
della miscela (0.21(1 − 𝛷): se inizialmente si ha un 10 % di aria in più, allo scarico ci
si ritrova con un 10 % di ossigeno in più; nel caso in cui la miscela sia stechiometrica
(𝛷 = 1) tra i prodotti non è presente ossigeno). Nel caso dell’anidride carbonica
invece, per una miscela ricca, al numero di moli totali che si potrebbero formare (𝛼𝛷𝜀)
nel caso di miscela stechiometrica, va sottratto il numero di moli di monossido di
carbonio (𝜈5 ) che si sono formate a seguito dell’ossidazione parziale.
Tutte queste relazioni sono facilmente implementabili, attraverso una routine di
calcolo in cui si dà la possibilità di scegliere a monte se ci si ritrova nel caso di miscela
magra o nel caso di miscela ricca:
𝑖𝑓 𝑚𝑖𝑠𝑐𝑒𝑙𝑎 𝑚𝑎𝑔𝑟𝑎 → … … …
𝑖𝑓 𝑚𝑖𝑠𝑐𝑒𝑙𝑎 𝑟𝑖𝑐𝑐𝑎 → … … …

95
Dove si daranno i seguenti parametri (parametri del modello):
𝛼, 𝛽, 𝛾, 𝛿, 𝛷
È evidente che giacché la costante di equilibrio 𝐾, viene data in funzione della
temperatura è possibile effettuare il calcolo al variare ella stessa. Ovviamente nel
caso di miscela ricca si suppone che tra i prodotti sia presente soltanto monossido
di carbonio e idrogeno molecolare (ipotesi di bassa temperatura), oltre ai tre composti
sempre presenti in qualsiasi caso.
Il modello di cui si è discusso sinora può essere utilizzato nel caso in cui si vuole fare
un’analisi energetica sui gas di scarico, mentre nel caso in cui si voglia studiare la
formazione delle emissioni inquinanti (cinetica chimica) il modello non risulta adatto.
Ovviamente si tenga presente che nel ciclo di un motore la temperatura è fortemente
variabile in funzione delle diverse fasi. Si ricordi che il ciclo reale di un motore
alternativo a combustione interna è il seguente:

Figura 68

Le valvole di aspirazione e scarico si aprono con un certo anticipo e si chiudono con


un certo ritardo. Il ciclo è composto da un tratto a valvole aperte (a bassa pressione)
e un ciclo a valvole chiuse (ad alta pressione). La zona in cui vale il sistema di
equazioni scritte (a bassa temperatura) è caratterizzata dal tratto 𝐴𝐵: fine della fase
di espansione, scarico, aspirazione e prima parte della compressione. Ovviamente
nel calcolo si ragiona sempre sulla temperatura e non sull’angolo di manovella:
𝑖𝑓 𝑇𝑒𝑚𝑝𝑒𝑟𝑎𝑡𝑢𝑟𝑎 < 1700 𝐾 ⟹ 𝑢𝑡𝑖𝑙𝑖𝑧𝑧𝑎 𝑖𝑙 𝑚𝑜𝑑𝑒𝑙𝑙𝑜 𝑎𝑛𝑎𝑙𝑖𝑧𝑧𝑎𝑡𝑜
96
Pertanto da questo punto di vista non c’è alcun problema. È evidente che se la
miscela è preparata nel collettore di aspirazione in camera entrerà una miscela di
aria e combustibile e dunque durante la fase di compressione le proprietà sono quelle
legate ai reagenti, mentre dopo la combustione le proprietà sono legate ai prodotti;
tuttavia nella fase intermedia la miscela si compone anche di gas combusti che sono
i gas residui del ciclo precedente in una certa percentuale; tuttavia la presenza di una
frazione residua 𝑓 di gas combusti del ciclo precedente non modifica la trattazione,
riscrivendo la reazione per basse temperature nella maniera seguente (ciclo a
valvole aperte ovvero quando c’è il ricambio della carica):
𝜈0′ 𝐶𝛼 𝐻𝛽 𝑂𝛾 𝑁𝛿 + 𝜈4′ 𝑂2 + 𝜈3′ 𝑁2 → 𝜈1′′ 𝐶𝑂2 + 𝜈2′′ 𝐻2 𝑂 + 𝜈3′′ 𝑁2 + 𝜈4′′ 𝑂2 + 𝜈5′′ 𝐶𝑂 + 𝜈6′′ 𝐻2

Nel momento in cui c’è aria, combustibile e gas residui, le concentrazioni cambiano
completamente perché l’ossigeno non sarà soltanto quello che viene dall’aria fresca
aspirata, ma proviene anche dalla reazione di combustione se a monte c’era un
eccesso di ossigeno (lo stesso vale per l’azoto). La frazione massica può essere
riscritta come:
𝑥𝑖 = (1 − 𝑓)𝑥𝑖′ + 𝑓𝑥𝑖′′ (𝑖𝑛 𝑡𝑎𝑙 𝑐𝑎𝑠𝑜 𝑥𝑖 è 𝑙𝑎 𝑓𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑚𝑎𝑠𝑠𝑖𝑐𝑎 𝑑𝑖 𝑐𝑖𝑎𝑠𝑐𝑢𝑛𝑎 𝑠𝑝𝑒𝑐𝑖𝑒)
Dove:
𝑓 = 𝑓𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝑔𝑎𝑠 𝑟𝑒𝑠𝑖𝑑𝑢𝑖
In pratica in funzione della frazione dei gas residui si vanno a pesare i prodotti della
combustione. Nel caso in cui 𝑓 = 0 ⟹ 𝑥𝑖 = 𝑥𝑖′ , mentre nel caso in cui 𝑓 ≠ 0 una
percentuale sarà composta dai reagenti e una percentuale dai prodotti (se 𝑓 = 10 %
ci sarà un 90 % costituito da 𝑥𝑖′ (reagenti) e un 10 % formato da 𝑥𝑖′′ (prodotti)).
La frazione molare invece si riscriverà come:
𝑦𝑖 = (1 − 𝑦𝑟 )𝑦𝑖′ + 𝑦𝑟 𝑦𝑖′′ (𝑖𝑛 𝑡𝑎𝑙 𝑐𝑎𝑠𝑜 𝑦𝑖 è 𝑙𝑎 𝑓𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑚𝑜𝑙𝑎𝑟𝑒 𝑑𝑖 𝑐𝑖𝑎𝑠𝑐𝑢𝑛𝑎 𝑠𝑝𝑒𝑐𝑖𝑒)
Dove:
𝑖 = 1, 2, 3, 4, 5, 6
La frazione molare dei residui si ottiene come:
−1
𝑀′′ 1
𝑦𝑟 = [1 + ′ ( − 1)]
𝑀 𝑓
Essa si ottiene tenendo conto della massa molecolare dei reagenti (𝑀′ ) e dei prodotti
(𝑀′′ ).
Nel momento in cui si arriva a temperature elevate anche la frazione residua presente
nella miscela potrebbe dissociarsi: pertanto anche i reagenti potrebbero trovarsi a
temperatura tale da determinare una dissociazione ulteriore delle specie chimiche (si
arriverà alla soluzione a dieci specie). Ovviamente prima della combustione si ha a

97
che fare solo con i reagenti, mentre dopo la combustione si ha a che fare solo con in
prodotti.
Note temperatura, pressione, rapporto di equivalenza e frazione di gas residui è
possibile, una volta determinata la composizione della miscela, calcolarne tutte le
proprietà termodinamiche (entalpia, entropia, volume specifico, energia interna,
calore specifico a pressione costante (quello a volume costante si ricava da questo)
e due derivate logaritmiche del volume (variazione del volume) a pressione costante
∂ ln 𝑣 / ∂ ln P e del volume (variazione del volume) a temperatura costante
∂ ln 𝑣/ ∂ ln T) da cui è possibile risalire con apposite formule a quelle di tutte le altre.
Il calcolo di queste proprietà (di una miscela aria combustibile e gas residui) è
eseguito da un’apposita subroutine, denominata FARG (Fuel-Air-Residual Gas).
È evidente che nel momento in cui si ha l’aspirazione di aria risulta 𝑓 = 0, ma se
all’interno del cilindro c’è gas residuo allora 𝑓 ≠ 0 (𝑓 = 3 % − 5 %), mentre in
espansione e scarico si ha 𝑓 = 1 poiché sono tutti gas residui.
𝑓 = 0 ⟹ 𝑟𝑒𝑎𝑔𝑒𝑛𝑡𝑖
𝑓 = 1 ⟹ 𝑝𝑟𝑜𝑑𝑜𝑡𝑡𝑖
𝑓 ≠ 0 ⟹ 𝑟𝑒𝑎𝑔𝑒𝑛𝑡𝑖 + 𝑝𝑟𝑜𝑑𝑜𝑡𝑡𝑖
In particolare 𝑓 ≠ 0 si otterrà quando si apre la valvola di aspirazione e si chiude
quella di scarico fino all’innesco della combustione.
Nel caso di combustione reale c’è una maggiore complicatezza da un punto di vista
delle reazioni e dei composti che si vengono a formare (il ciclo limite risulta essere
comunque un’astrazione, mentre ciò che realmente si misura è il ciclo reale: non
bisogna mai confondere realtà è modello). Pertanto volendosi avvicinare alla realtà
(sebbene vi sia comunque un’approssimazione) bisogna considerare la seguente
reazione (riferita ad una mole di aria):
𝜀𝛷𝐶𝛼 𝐻𝛽 𝑂𝛾 𝑁𝛿 + (0.21𝑂2 + 0.79𝑁2 )
→ 𝜈1 𝐶𝑂2 + 𝜈2 𝐻2 𝑂 + 𝜈3 𝑁2 + 𝜈4 𝑂2 + 𝜈5 𝐶𝑂 + 𝜈6 𝐻2 + 𝜈7 𝐻 + 𝜈8 𝑂 + 𝜈9 𝑂𝐻
+ 𝜈10 𝑁𝑂 + 𝜈11 𝑁 + 𝜈12 𝐶 (𝑠) + 𝜈13 𝑁𝑂2 + 𝜈14 𝐶𝐻4 + . . .
La composizione dei prodotti della combustione a sei specie è una buona
approssimazione per temperature inferiori a 1000 𝐾 − 1500 𝐾 (non si considera la
dissociazione, ma solo l’eventuale eccesso di ossigeno o l’eventuale ossidazione
parziale per carenza di ossigeno). A temperature maggiori si verificano i fenomeni di
dissociazione per cui compaiono altre specie in quantità non più trascurabili (in tal
caso vi è una perdita di energia in quanto non tutto il combustibile si ossida); in tal
caso parte dell’energia messa a disposizione dalla combustione viene utilizzare per
avere dissociazione e pertanto si passa da sei specie a un numero di specie
maggiori; si tenga conto che anche piccole concentrazioni di una data specie
possono pesare sulla miscela complessiva in termini di proprietà. Tuttavia è

98
possibile ottenere delle buone approssimazioni estendendo l’analisi a sole dieci
specie:
𝜀𝛷𝐶𝛼 𝐻𝛽 𝑂𝛾 𝑁𝛿 + (0.21𝑂2 + 0.79𝑁2 )
→ 𝜈1 𝐶𝑂2 + 𝜈2 𝐻2 𝑂 + 𝜈3 𝑁2 + 𝜈4 𝑂2 + 𝜈5 𝐶𝑂 + 𝜈6 𝐻2 + 𝜈7 𝐻 + 𝜈8 𝑂 + 𝜈9 𝑂𝐻
+ 𝜈10 𝑁𝑂
Si tenga presente che il monossido di azoto (𝑁𝑂) presente all’interno del bilancio non
è da confondersi con quello che si ritrova nelle emissioni allo scarico: la
concentrazione che verrà fuori è in tal caso particolarmente bassa perché segue le
ipotesi di equilibrio chimico; nella realtà la formazione di ossidi di azoto è regolata
dalla cinetica chimica per cui le percentuali saranno più elevate.
Le frazioni molari dei prodotti saranno:
𝜈𝑖
𝑦𝑖 =
∑10
𝑖=1 𝜈𝑖

Dove:
𝜈𝑖 = 𝑐𝑜𝑒𝑓𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑠𝑡𝑒𝑐ℎ𝑖𝑜𝑚𝑒𝑡𝑟𝑖𝑐𝑖 𝑟𝑖𝑠𝑝𝑒𝑡𝑡𝑜 𝑎𝑑 𝑢𝑛𝑎 𝑚𝑜𝑙𝑒 𝑑𝑖 𝑎𝑟𝑖𝑎
Il numero totale di moli presenti nei prodotti della combustione vale:
10

𝑁 = ∑ 𝜈𝑖
𝑖=1
Da queste due relazioni poi è possibile dire che la frazione molare complessiva
(concentrazione totale) vale:
10

∑ 𝑦𝑖 = 1 (𝑏𝑖𝑙𝑎𝑛𝑐𝑖𝑜 𝑑𝑖 𝑚𝑎𝑠𝑠𝑎)
𝑖=1

Nella combustione a dieci specie ovviamente ci saranno dieci incognite da calcolare


(coefficienti 𝜈𝑖 ), ma si avranno a disposizione solo quattro equazioni di bilancio.
Imponendo la conservazione della massa (bilancio atomico) per le quattro specie
(𝐶, 𝐻, 𝑂, 𝑁) si ottengono dunque quattro equazioni:
𝜀𝛷𝛼 = (𝑦1 + 𝑦5 )𝑁 (𝑐𝑎𝑟𝑏𝑜𝑛𝑖𝑜)
𝜀𝛷𝛽 = (2𝑦2 + 2𝑦6 + 𝑦7 + 𝑦9 )𝑁 (𝑖𝑑𝑟𝑜𝑔𝑒𝑛𝑜)
𝜀𝛷𝛾 + 2(0.21) = (2𝑦1 + 𝑦2 + 2𝑦4 + 𝑦5 + 𝑦8 + 𝑦9 + 𝑦10 )𝑁 (𝑜𝑠𝑠𝑖𝑔𝑒𝑛𝑜)
{ 𝜀𝛷𝛿 + 2(0.79) = (2𝑦3 + 𝑦10 )𝑁 (𝑎𝑧𝑜𝑡𝑜)
Si tenga presente che:
𝑦1 𝑁 → 𝜈1
𝑦5 𝑁 → 𝜈5
………
99
A questo punto servono ulteriori sei relazioni che possono essere ottenute dalla
legge di azione di massa per le reazioni di equilibrio chimico intercorrenti tra i prodotti
della combustione (equazioni di equilibrio):
1
𝐻 ⇄𝐻 𝐾1 = 𝑦7 √𝑃/√𝑦6
2 2
1
𝑂 ⇄𝑂 𝐾2 = 𝑦8 √𝑃/√𝑦4
2 2
1 1
𝐻2 + 𝑂2 ⇄ 𝑂𝐻 𝐾3 = 𝑦9 /(√𝑦4 ∙ √𝑦6 )
2 2
1 1
𝑂2 + 𝑁2 ⇄ 𝑁𝑂 𝐾4 = 𝑦10 /(√𝑦4 ∙ √𝑦3 )
2 2
1
𝐻2 + 𝑂2 ⇄ 𝐻2 𝑂 𝐾5 = 𝑦2 /(𝑦6 ∙ √𝑦4 ∙ √𝑃)
2
1
𝐶𝑂 + 𝑂2 ⇄ 𝐶𝑂2 𝐾6 = 𝑦1 /(𝑦5 ∙ √𝑦4 ∙ √𝑃)
2
Inoltre vale la conservazione della massa:
10

∑ 𝑦𝑖 − 1 = 0
𝑖=1

Ovviamente le incognite sono proprio le 𝑦𝑖 in quanto la pressione 𝑃 risulta nota (in


effetti si fissa sia la pressione che la temperatura), mentre le costanti 𝐾 si ricavano
dalle tabelle JANAF. Grazie alle routine di calcolo è proprio possibile andare a
valutare le frazioni molari.
Nel caso di miscela magra, a basse temperature sono presenti solo le quattro specie
di cui si è ampiamente discusso: anidride carbonica, acqua, azoto molecolare e
ossigeno molecolare. Man mano che aumenta la temperatura iniziano ad essere
presenti anche altri composti con concentrazioni via via crescenti. A temperature
intorno ai 4000 𝐾 le concentrazioni di tutti i componenti diventano praticamente
confrontabili e sono dello stesso ordine di grandezza. Aumentando il rapporto di
miscela e arrivando in condizioni stechiometriche fino alla temperatura di circa
2700 𝐾 è possibile individuare la presenza delle sole tre specie fondamentali:
anidride carbonica, acqua, azoto molecolare; nel momento in cui la temperatura
cresce ancor di più a causa della dissociazione, sebbene la combustione sia
stechiometrica, si iniziano a formare altre specie che man mano aumentano la
propria concentrazione. Infine per miscele ricche a bassa temperatura si ha la
presenza delle sole cinque specie di cui si è ampiamente discusso (anidride
carbonica, acqua, azoto molecolare, monossido di carbonio, idrogeno molecolare),
mentre a più elevate temperature inizia a farsi sentire l’effetto di altri specie chimiche
sempre a causa di fenomeni di dissociazione:

100
Figura 69

Si tenga presente che sistemi con di questo tipi, con dieci equazioni in dieci incognite,
venivano originariamente risolti con routine iterative; solo successivamente è stata
proposta una decomposizione LU della matrice per poter risolvere il problema.
Si noti che la differenza tra le subroutine FARG ed ECP sta nel fatto che la prima
calcola le proprietà della miscela tenendo conto di sole sei specie (bassa
temperatura), mentre la seconda tiene conto di dieci specie (alta temperatura).

101
Lezione 10 (Sorrentino) 22/03/2017
Esercitazione sulla termochimica (esercizi tratti da Heywood)
Esempio 3.1
Traccia
Un combustibile idrocarburo di composizione 84.1 % in massa di 𝐶 e 15.9 % in massa
di 𝐻 ha un peso molecolare di 114.15 𝑔/𝑚𝑜𝑙. Determinare il numero di moli dell’aria
richiesta per una combustione stechiometrica e il numero di moli di prodotti prodotte
per mole di combustibile. Calcolare 𝐴/𝐹, 𝐹/𝐴, e i pesi molecolari dei reagenti e dei
prodotti.
Svolgimento
Il combustibile è a base di carbonio ed idrogeno ed è del tipo 𝐶𝑎 𝐻𝑏 . In particolare
viene fornita la frazione in massa di ogni singolo componente dell’idrocarburo per
cui:
𝑚𝐶
𝑦𝐶 = = 84.1 % (𝑓𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑖𝑛 𝑚𝑎𝑠𝑠𝑎 𝑑𝑖 𝑐𝑎𝑟𝑏𝑜𝑛𝑖𝑜)
𝑚𝑓𝑢𝑒𝑙
𝑚𝐻
𝑦𝐻 = = 15.9 % (𝑓𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑖𝑛 𝑚𝑎𝑠𝑠𝑎 𝑑𝑖 𝑖𝑑𝑟𝑜𝑔𝑒𝑛𝑜)
𝑚𝑓𝑢𝑒𝑙

È possibile dunque ricavare il numero di moli di carbonio e idrogeno:


𝑚𝑓𝑢𝑒𝑙 = 𝑛𝑓𝑢𝑒𝑙 ∙ 𝑀𝑀𝑓𝑢𝑒𝑙

𝑚𝐶 = 𝑛𝐶 ∙ 𝑀𝑀𝐶 = 𝑎 ∙ 𝑀𝑀𝐶
𝑚𝐻 = 𝑛𝐻 ∙ 𝑀𝑀𝐻 = 𝑏 ∙ 𝑀𝑀𝐻
Dove:
𝑚 = 𝑚𝑎𝑠𝑠𝑎
𝑛 = 𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜 𝑑𝑖 𝑚𝑜𝑙𝑖
𝑀𝑀 = 𝑚𝑎𝑠𝑠𝑎 𝑚𝑜𝑙𝑎𝑟𝑒
Siccome si ragiona su una singola mole di combustibile e giacché l’idrocarburo ha
un peso molare noto si avrà:
𝑚𝑓𝑢𝑒𝑙 = 𝑛𝑓𝑢𝑒𝑙 ∙ 𝑀𝑀𝑓𝑢𝑒𝑙 = 1 ∙ 114.15 = 114.15 𝑔

Ovviamente in una singola mole di combustibile ci saranno 𝑎 moli di carbonio e 𝑏


moli di idrogeno pertanto si avrà:
𝑚𝑓𝑢𝑒𝑙 ∙ 𝑦𝐶 114.15 ∙ 0.841
𝑚𝐶 = 𝑎 ∙ 𝑀𝑀𝐶 = 𝑚𝑓𝑢𝑒𝑙 ∙ 𝑦𝐶 ⟹ 𝑎 = = ≃8
𝑀𝑀𝐶 12.01

102
𝑚𝑓𝑢𝑒𝑙 ∙ 𝑦𝐻 114.15 ∙ 0.159
𝑚𝐻 = 𝑏 ∙ 𝑀𝑀𝐻 = 𝑚𝑓𝑢𝑒𝑙 ∙ 𝑦𝐻 ⟹ 𝑏 = = ≃ 18
𝑀𝑀𝐻 1.008
Pertanto l’idrocarburo di riferimento sarà 𝐶8 𝐻18 . Tale combustibile reagirà con
l’ossigeno per far sì che si realizzi la combustione:
𝐶8 𝐻18 + 𝑂2 → 𝐶𝑂2 + 𝐻2 𝑂
Bilanciando la reazione:
𝐶8 𝐻18 + 12.5𝑂2 → 8𝐶𝑂2 + 9𝐻2 𝑂
In tal modo si ottiene una reazione stechiometrica: ciò che si conserva nel passaggio
da reagenti a prodotti non è il numero di moli, ma la massa (conservazione della
massa) e il numero di atomi (per esempio per il carbonio ci sono 8 atomi tra i reagenti
ed 8 nei prodotti).
In realtà all’interno dell’aria non c’è solo ossigeno, ma anche azoto, che tuttavia è un
gas inerte che non partecipa alla combustione (almeno a determinate temperature);
pertanto più correttamente l’equazione di bilancio diventa:
𝐶8 𝐻18 + 12.5𝑂2 + 𝑋𝑁2 → 8𝐶𝑂2 + 9𝐻2 𝑂 + 𝑋𝑁2
È evidente che il numero di moli di azoto nei reagenti è pari al numero di moli nei
prodotti; si vuole a questo punto calcolare la 𝑋. Com’è noto l’aria è composta per
circa il 21 % da ossigeno e per il 79 % da azoto (frazioni in volume), pertanto:
𝑛𝑂2
𝑥𝑂2 = = 21 %
𝑛𝑎𝑖𝑟
𝑛𝑁2
𝑥𝑁2 = = 79 %
𝑛𝑎𝑖𝑟
Le frazioni in volume corrispondono di fatto alle frazioni molari. Quindi dalla prima
relazione si ricava:
𝑛𝑂2
𝑛𝑎𝑖𝑟 =
𝑥𝑂2
Mentre dalla seconda si ricava:
𝑛𝑁2 = 𝑥𝑁2 ∙ 𝑛𝑎𝑖𝑟
E pertanto sostituendo la prima nella seconda:
𝑥𝑁2 0.79
𝑛𝑁2 = 𝑥𝑁2 ∙ 𝑛𝑎𝑖𝑟 = ∙ 𝑛𝑁2 = ∙ 12.5 ≃ 3.773 ∙ 12.5 = 47.16 𝑚𝑜𝑙
𝑥𝑂2 0.21
Per cui la reazione sarà:
𝐶8 𝐻18 + 12.5(𝑂2 + 3.773𝑁2 ) → 8𝐶𝑂2 + 9𝐻2 𝑂 + 47.16𝑁2

103
In particolare è possibile calcolare il numero di moli dei reagenti e il numero di moli
dei prodotti:
𝑛𝑅 = 𝑛𝑓𝑢𝑒𝑙 + 𝑛𝑂2 + 𝑛𝑁2 = 1 + 12.5 + 47.16 = 60.66 𝑚𝑜𝑙 (𝑝𝑒𝑟 𝑚𝑜𝑙𝑒 𝑑𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑏𝑢𝑠𝑡𝑖𝑏𝑖𝑙𝑒)

𝑛𝑃 = 𝑛𝐶𝑂2 + 𝑛𝐻2𝑂 + 𝑛𝑁2 = 8 + 9 + 47.16 = 64.16 𝑚𝑜𝑙 (𝑝𝑒𝑟 𝑚𝑜𝑙𝑒 𝑑𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑏𝑢𝑠𝑡𝑖𝑏𝑖𝑙𝑒)


Esse come già anticipato risultano differenti. Tuttavia risulterà sempre verificata la
relazione:
𝑚 𝑇𝑂𝑇,𝑅 = 𝑚 𝑇𝑂𝑇,𝑃 (𝑐𝑜𝑛𝑠𝑒𝑟𝑣𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑚𝑎𝑠𝑠𝑎: 𝑛𝑜𝑛 𝑐 ′ è 𝑝𝑒𝑟𝑑𝑖𝑡𝑎 𝑑𝑖 𝑚𝑎𝑠𝑠𝑎)
A questo punto è possibile calcolare il rapporto aria combustibile stechiometrico,
nonché il suo inverso:
𝐴 𝑚𝑎𝑖𝑟 𝑚𝑂2 + 𝑚𝑁2 𝑛𝑂2 ∙ 𝑀𝑀𝑂2 + 𝑛𝑁2 ∙ 𝑀𝑀𝑁2 12.5 ∙ 32 + 47.16 ∙ 28.02
( ) = = = = = 15.07
𝐹 𝑠𝑡 𝑚𝑓𝑢𝑒𝑙 𝑚𝑓𝑢𝑒𝑙 𝑛𝑓𝑢𝑒𝑙 ∙ 𝑀𝑓𝑢𝑒𝑙 1 ∙ 114.15

𝐹 𝐴 −1
( ) = ( ) = (15.07)−1 = 0.066
𝐴 𝑠𝑡 𝐹 𝑠𝑡
Ovviamente i reagenti e i prodotti sono costituiti da una miscela di componenti per cui la
massa molare complessiva sarà data da:
1
𝑀𝑀 = ∙ ∑ 𝑛𝑖 𝑀𝑀𝑖
𝑛𝑡𝑜𝑡 𝑖

Pertanto:
𝑛𝑓𝑢𝑒𝑙 ∙ 𝑀𝑀𝑓𝑢𝑒𝑙 + 𝑛𝑂2 ∙ 𝑀𝑀𝑂2 + 𝑛𝑁2 ∙ 𝑀𝑀𝑁2 1 ∙ 114.15 + 12.5 ∙ 32 + 47.16 ∙ 28.02
𝑀𝑀𝑅 = = = 30.3 𝑔/𝑚𝑜𝑙
𝑛𝑓𝑢𝑒𝑙 + 𝑛𝑂2 + 𝑛𝑁2 1 + 12.5 + 47.16

𝑛𝐶𝑂2 ∙ 𝑀𝑀𝐶𝑂2 + 𝑛𝐻2𝑂 ∙ 𝑀𝑀𝐻2𝑂 + 𝑛𝑁2 ∙ 𝑀𝑀𝑁2 8 ∙ 44.01 + 9 ∙ 18.016 + 47.16 ∙ 28.02
𝑀𝑀𝑃 = = = 28.6 𝑔/𝑚𝑜𝑙
𝑛𝐶𝑂2 + 𝑛𝐻2𝑂 + 𝑛𝑁2 8 + 9 + 47.16

Esempio 3.2
Traccia
Calcolare l’entalpia dei prodotti e dei reagenti, e l’incremento di entalpia e dell’energia
interna della reazione, di una miscela stechiometrica di metano e ossigeno a
298.15 𝐾.
Svolgimento
La reazione di combustione sarà del tipo:
𝐶𝐻4 + 𝑂2 → 𝐶𝑂2 + 𝐻2 𝑂
Bilanciando (per una mole di combustibile):
𝐶𝐻4 + 2𝑂2 → 𝐶𝑂2 + 2𝐻2 𝑂

104
In questo caso, il numero di moli dei reagenti è pari al numero di moli dei prodotti ma
questa è una pura casualità:
𝑛𝑅 = 𝑛𝐶𝐻4 + 𝑛𝑂2 = 1 + 2 = 3 𝑚𝑜𝑙

𝑛𝑃 = 𝑛𝐶𝑂2 + 𝑛𝐻2𝑂 = 1 + 2 = 3 𝑚𝑜𝑙


A questo punto è necessario stimare i contenuti entalpici dei reagenti e dei prodotti.
L’entalpia di formazione è l’energia richiesta per formare una mole dell’elemento
desiderato a partire dai suoi elementi di base: per ossigeno (𝑂2 ), carbonio (𝐶),
idrogeno (𝐻2 ) e azoto (𝑁2 ) essa vale zero (tali componenti sono già in forma pura); il
metano per esempio, per potersi formare ha bisogno di energia così come l’anidride
carbonica ed altri componenti. In particolare per il metano l’entalpia di formazione
alla temperatura di riferimento 𝑇 0 = 𝑇 = 298.15 𝐾 = 25 °𝐶, vale:
𝛥ℎ𝑓0𝐶𝐻4 = −74.87 𝑀𝐽/𝑘𝑚𝑜𝑙 (𝑡𝑎𝑏𝑒𝑙𝑙𝑒 𝐽𝐴𝑁𝐴𝐹)

Il motivo per cui composti come l’idrogeno hanno un’entalpia di formazione (entalpia
specifica) pari a zero è legato al fatto che essi hanno già energia libera da poter
sfruttare; quando si ha a che fare con composti quale il metano è necessario prima
estrarre l’idrogeno per poter sfruttare quella quantità di energia e pertanto c’è bisogno
di una spesa energetica a monte (entalpia di formazione): in particolare per avere
1 𝑘𝑚𝑜𝑙 di 𝐶𝐻4 sono necessari 74.87 𝑀𝐽 di energia. Per quanto riguarda l’anidride
carbonica l’entalpia di formazione vale:
𝛥ℎ𝑓0𝐶𝑂 = −393.52 𝑀𝐽/𝑘𝑚𝑜𝑙 (𝑡𝑎𝑏𝑒𝑙𝑙𝑒 𝐽𝐴𝑁𝐴𝐹)
2

Mentre per quanto riguarda l’acqua bisogna distinguere il caso in cui essa si trovi in
fase liquida o in fase gassosa:
𝛥ℎ𝑓0𝐻 = −285.84 𝑀𝐽/𝑘𝑚𝑜𝑙 (𝑡𝑎𝑏𝑒𝑙𝑙𝑒 𝐽𝐴𝑁𝐴𝐹)
2 𝑂,𝐿

𝛥ℎ𝑓0𝐻 = −241.83 𝑀𝐽/𝑘𝑚𝑜𝑙 (𝑡𝑎𝑏𝑒𝑙𝑙𝑒 𝐽𝐴𝑁𝐴𝐹)


2 𝑂,𝐺

Per quanto riguarda l’ossigeno esso non dà contributo poiché risulta:


𝛥ℎ𝑓0𝑂 = 0 𝑀𝐽/𝑘𝑚𝑜𝑙 (𝑡𝑎𝑏𝑒𝑙𝑙 𝐽𝐴𝑁𝐴𝐹)
2

Pertanto l’entalpia complessiva dei reagenti, per 1 𝑘𝑚𝑜𝑙 di metano sarà:


0
𝐻𝑅 = ∑ 𝑛𝑖 𝛥ℎ𝑓,𝑖 = 𝑛𝐶𝐻4 ∙ 𝛥ℎ𝑓0𝐶𝐻 + 𝑛𝑂2 ∙ 𝛥ℎ𝑓0𝑂 = 1 ∙ (−74.87) + 2 ∙ (0) = −74.87 𝑀𝐽/𝑘𝑚𝑜𝑙
4 2
𝑖

Per quanto riguarda i prodotti, si segue lo stesso ragionamento, ma bisogna


distinguere il caso in cui l’acqua è in fase liquida dal caso in cui lo stesso composto
è in fase gassosa, pertanto si avrà (si fa l’ipotesi che o si formi tutto vapore o si formi
tutto liquido):
0
𝐻𝑃𝐿 = ∑ 𝑛𝑖 𝛥ℎ𝑓,𝑖 = 𝑛𝐶𝑂2 ∙ 𝛥ℎ𝑓0𝐶𝑂 + 𝑛𝐻2 𝑂 ∙ 𝛥ℎ𝑓0,𝐿
𝐻 𝑂
= 1 ∙ (−393.52) + 2 ∙ (−285.84) = −965.20 𝑀𝐽/𝑘𝑚𝑜𝑙
2 2
𝑖

105
0
𝐻𝑃𝐺 = ∑ 𝑛𝑖 𝛥ℎ𝑓,𝑖 = 𝑛𝐶𝑂2 ∙ 𝛥ℎ𝑓0𝐶𝑂 + 𝑛𝐻2 𝑂 ∙ 𝛥ℎ𝑓0,𝐺
𝐻 𝑂
= 1 ∙ (−393.52) + 2 ∙ (−241.83) = −877.18 𝑀𝐽/𝑘𝑚𝑜𝑙
2 2
𝑖

Pertanto anche per calcolare il salto entalpico della reazione, nel passaggio da
reagenti a prodotti, è necessario distinguere il caso dei prodotti in fase liquida (acqua
in fase liquida) dal caso dei prodotti in fase gassosa (acqua in fase gassoso) e quindi
si avrà:
𝛥𝐻 𝐿 = 𝐻𝑃𝐿 − 𝐻𝑅 = −965.20 + 74.87 = −899.33 𝑀𝐽/𝑘𝑚𝑜𝑙
𝛥𝐻 𝐺 = 𝐻𝑃𝐺 − 𝐻𝑅 = −877.18 + 74.87 = −802.31 𝑀𝐽/𝑘𝑚𝑜𝑙
Ovviamente avendo considerato 1 𝑘𝑚𝑜𝑙 di combustibile è possibile anche ragionare
in termini di entalpia complessiva (e non specifica):
𝛥𝐻 𝐿 = −899.33 𝑀𝐽
𝛥𝐻 𝐺 = −802.31 𝑀𝐽

Figura 70

L’entalpia di prodotti indica il contenuto energetico che rimane nella miscela che,
come è evidente, nel passare dai reagenti ai prodotti si abbassa (la reazione di
combustione è esotermica, ovvero cede calore verso l’esterno). Nel caso in cui si
abbia la formazione di acqua allo stato gassoso si ha a disposizione minore energia:
in tal caso parte dell’energia permane nell’acqua, la quale se fosse raffreddata sino
a condensare (trasformandosi in acqua liquida) libererebbe la restante parte
dell’energia in essa intrappolata; si tenga presente che la differenza tra l’entalpia di
formazione dell’acqua liquida e quella dell’acqua sotto forma di vapore è circa pari a
44 𝑀𝐽 valore che rappresenta proprio l’energia di vaporizzazione dell’acqua (se si
vuole far vaporizzare 1 𝑘𝑚𝑜𝑙 di acqua liquida bisogna fornire proprio 44 𝑀𝐽). Proprio
qua sta la differenza tra potere calorifico superiore e potere calorifico inferiore; il
potere calorifico superiore rappresenta l’intera quantità di energia che è possibile
sfruttare portando i prodotti allo stato liquido, mentre nel caso del potere calorifico
inferiore non si riesce a sottrarre la massima quantità possibile in quanto i prodotti
permangono allo stato gassoso.

106
A questo punto non rimane che calcolare la variazione di energia interna nel
passaggio da reagenti a prodotti. In particolare dalla definizione di entalpia si ha:
𝐻 = 𝑈 + 𝑝𝑉 ⟹ 𝛥𝐻 = 𝛥𝑈 + 𝑝𝛥𝑉
La prima legge della termodinamica sancisce che:
𝛥𝑈 = 𝑄 − 𝐿 (𝑣𝑎𝑟𝑖𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝑒𝑛𝑒𝑟𝑔𝑖𝑎 𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟𝑛𝑎 𝑑𝑖 𝑢𝑛 𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑎 𝑐ℎ𝑖𝑢𝑠𝑜)
In una trasformazione isobara il lavoro è quello di variazione di volume per cui:
𝐿 = 𝑝𝛥𝑉
Pertanto si avrà:
𝑄 = 𝛥𝑈 + 𝐿 = 𝛥𝑈 + 𝑝𝛥𝑉 = (𝑈𝑃 − 𝑈𝑅 ) + 𝑝(𝑉𝑃 − 𝑉𝑅 ) = 𝑈𝑃 + 𝑝𝑉𝑃 − (𝑈𝑅 + 𝑝𝑉𝑅 ) = 𝐻𝑃 − 𝐻𝑅 = 𝛥𝐻

Se si suppone che sia i reagenti che i prodotti siano allo stato gassoso, è possibile
utilizzare l’equazione di stato dei gas perfetti:
𝑝𝑉 = 𝑛𝑅𝑇
Nel caso in esame sia la pressione che la temperatura si mantengono costanti,
pertanto ciò che influenza il volume, facendolo variare è proprio il numero di moli:
𝑝𝛥𝑉 = 𝑅𝑇𝛥𝑛
Pertanto si avrà:
𝛥𝐻 = 𝛥𝑈 + 𝑝𝛥𝑉 = 𝛥𝑈 + 𝑅𝑇𝛥𝑛 = 𝛥𝑈 + 𝑅𝑇(𝑛𝑃 − 𝑛𝑅 )
Tuttavia giacché in questo caso particolare risulta anche 𝑛𝑃 = 𝑛𝑅 allora si avrà:
𝛥𝑈 = 𝛥𝐻 𝐺 = −802.31 𝑀𝐽
Se invece i prodotti non sono tutti allo stato gassoso, ma in parte restano allo stato
liquido il ragionamento subisce delle variazioni. Supposto che tutta l’acqua formatasi
rimane in fase liquida (mentre l’anidride carbonica si ottiene ovviamente in fase
gassosa), ragionando come prima si avrà:
𝛥𝐻 = 𝛥𝑈 + 𝑅𝑇(𝑛𝑃 − 𝑛𝑅 ) ⟹ 𝛥𝑈 = 𝛥𝐻 − 𝑅𝑇(𝑛𝑃 − 𝑛𝑅 )
Tuttavia in questo caso specifico le uniche moli dei prodotti allo stato gassoso
(perché solo per quelle vale l’equazione di stato), sono quelle dell’anidride carbonica
per cui risulta:
𝑛𝑃 = 1
Per cui si avrà:
𝛥𝑈 = 𝛥𝐻 𝐿 − 𝑅𝑇(𝑛𝑃 − 𝑛𝑅 ) = −890.33 − 8.314 ∙ 10−3 ∙ 298.15 ∙ (1 − 3) = −885.4 𝑀𝐽
Dove:
𝑅 = 8.314 𝐽/(𝑚𝑜𝑙 ∙ 𝐾) 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑢𝑛𝑖𝑣𝑒𝑟𝑠𝑎𝑙𝑒 𝑑𝑒𝑖 𝑔𝑎𝑠 𝑝𝑒𝑟𝑓𝑒𝑡𝑡𝑖
107
Ovviamente anche il 𝛥𝑈 può essere espresso come una grandezza specifica, in
quanto il ragionamento è stato fatto con riferimento a 1 𝑘𝑚𝑜𝑙 di combustibile.
Il contenuto energetico di un combustibile viene misurato attraverso degli strumenti
detti bombe calorimetriche. Nel caso in cui si voglia misurare il potere calorifico di un
combustibile allo stato gassoso, si lavora a temperatura e pressione costante; in tal
caso la bomba calorimetrica viene posta all’interno di un bagno d’acqua e in tale
sistema vengono aggiunti il combustibile e l’ossidante in condizioni stechiometriche;
raggiunta la condizione di isotermia si fa in modo da innescare la reazione (il
combustibile reagisce con l’ossidante); a seguito della reazione di combustione ci
sarà una variazione del numero di moli che provocherà una variazione di volume
(perché pressione e temperatura rimangono costanti): in questo modo si riesce a
misurare l’incremento di temperatura per la quantità di massa d’acqua che circonda
la bomba calorimetrica; conoscendo dunque la variazione di temperatura per quella
quantità di acqua si riesce a risalire al contenuto energetico del combustibile. Nel
caso in cui il combustibile è in fase liquida, si mantiene invece il volume costante e
seguendo un processo differente si riesce a valutare allo stesso modo il contenuto
energetico del combustibile stesso.
Esempio 3.3
Traccia
Del cherosene liquido con un potere calorifico inferiore (determinato in una bomba
calorimetrica) pari a 43.2 𝑀𝐽/𝑘𝑔 e rapporto molare medio 𝐻/𝐶 pari a 2 è mescolato
con aria in condizioni stechiometriche alla temperatura di 298.15 𝐾. Calcolare
l’entalpia della miscela dei reagenti considerando che l’ossigeno, il carbonio,
l’idrogeno e l’azoto hanno entalpia di formazione nulla a 298.15 𝐾.
Svolgimento
La reazione di combustione è del tipo:
𝐶𝐻2 + (𝑂2 + 3.773𝑁2 ) → 𝐶𝑂2 + 𝐻2 𝑂 + 3.773 𝑁2
Il cherosene ha la composizione chimica indicata in quanto viene fornito il rapporto
molare medio in termini di 𝐻/𝐶. Bilanciando la reazione (sempre per 1 𝑘𝑚𝑜𝑙 di
combustibile) si ha:
3
𝐶𝐻2 + (𝑂2 + 3.773𝑁2 ) → 𝐶𝑂2 + 𝐻2 𝑂 + 5.66 𝑁2
2
Il combustibile è allo stato liquido, mentre poiché viene fornito il valore del potere
calorifico inferiore (LHV: Lower Heating Value) i prodotti possono ritenersi allo stato
gassoso (altrimenti sarebbe stato fornito il valore del potere calorifico inferiore (HHV:
Higher Heating Value)). Quindi il numero di moli di prodotti (tutte allo stato gassoso)
sarà pari a:
𝑛𝑃 = 𝑛𝐶𝑂2 + 𝑛𝐻2𝑂 + 𝑛𝑁2 = 1 + 1 + 5.66 = 7.66 𝑘𝑚𝑜𝑙
108
I reagenti invece sono formati da moli allo stato liquido (combustibile) e moli allo stato
gassoso (aria). Con riferimento alle moli allo stato gassoso si avrà:
𝑛𝑅𝐺 = 𝑛𝑂2 + 𝑛𝑁2 = 1.5 + 5.66 = 7.16 𝑘𝑚𝑜𝑙
Mentre con riferimento alle moli allo stato liquido si avrà:
𝑛𝑅𝐿 = 𝑛𝐶𝐻2 = 1 𝑘𝑚𝑜𝑙
Si tenga presente che se il combustibile è allo stato gassoso, la bomba calorimetrica
misura la variazione di entalpia, mentre se il combustibile è allo stato liquido (come
in questo caso) la bomba calorimetrica misura la variazione di energia interna.
Pertanto giacché in questo caso il combustibile è allo stato liquido l’informazione sul
potere calorifico inferiore permette di conoscere il valore della variazione di energia
interna del combustibile:
𝐿𝐻𝑉 = −(𝛥𝑢)
Ovviamente la variazione di energia interna e la variazione di entalpia sono legate
dalla relazione (con riferimento alle sole moli allo stato gassoso):
𝛥𝐻 = 𝛥𝑈 + 𝑅𝑇(𝑛𝑃 − 𝑛𝑅 )
Ovviamente mentre 𝐿𝐻𝑉 e 𝐻𝐻𝑉 tengono conto della quantità di calore rilasciata dalla
combustione, il 𝛥𝐻 e il 𝛥𝑈 indicano l’energia contenuta all’interno della miscela.
Ovviamente il potere calorifico è fornito per unità di massa, quindi per calcolare
l’energia complessivamente liberata è necessario conoscere la massa di
combustibile:
𝑚𝑓𝑢𝑒𝑙 = 𝑛𝑓𝑢𝑒𝑙 ∙ 𝑀𝑀𝑓𝑢𝑒𝑙 = 1 ∙ 14.026 ≃ 14 𝑘𝑔
Quindi la variazione di entalpia sarà pari a:
𝛥𝐻 = 𝑚𝑓𝑢𝑒𝑙 ∙ 𝛥𝑢 + 𝑅𝑇(𝑛𝑃 − 𝑛𝑅 ) = −𝑚𝑓𝑢𝑒𝑙 ∙ 𝐿𝐻𝑉 + 𝑅𝑇(𝑛𝑃 − 𝑛𝑅 ) = −43.2 ∙ 14 +
8.314 ∙ 10−3 ∙ 298.15 ∙ (7.66 − 7.16) = −602.6 𝑀𝐽
Ovviamente la variazione di entalpia si può calcolare nella maniera seguente:
𝛥𝐻 = 𝐻𝑃 − 𝐻𝑅 ⟹ 𝐻𝑅 = 𝐻𝑃 − 𝛥𝐻
Per ricavare l’entalpia dei reagenti è dunque necessario conoscere l’entalpia dei
prodotti:
0 0 0
𝐻𝑃 = 𝑛𝐶𝑂2 ∙ 𝛥ℎ𝑓,𝐶𝑂2
+ 𝑛𝐻2𝑂 ∙ 𝛥ℎ𝑓,𝐻2𝑂
+ 𝑛𝑁2 ∙ 𝛥ℎ𝑓,𝑁2
= 1 ∙ (−393.52) + 1 ∙ (−241.83) + 5.66 ∙ 0 =
−635.35 𝑀𝐽

Pertanto si avrà:
𝐻𝑅 = 𝐻𝑃 − 𝛥𝐻 = −635.35 + 602.6 = −32.75 𝑀𝐽

109
Lezione 11 (Rizzo) 23/03/2017
Introduzione alla modellistica
Nel caso di modelli black-box è possibile adottare due approcci distinti:
 Interpolazione: la funzione riproduce esattamente tutti i dati disponibili.
 Approssimazione: la funzione non riproduce necessariamente tutti i dati
disponibili, ma cerca di approssimarli ottimizzando una norma assegnata
(quindi con un criterio quantitativo che può essere il criterio dei minimi quadrati,
della massima verosimiglianza, …).
Da questa classificazione la scelta sembrerebbe scontata in quanto l’interpolazione
garantisce una riproduzione esatta di tutti i dati disponibili e dunque non c’è, almeno
apparentemente, alcun motivo per cui ci si dovrebbe accontentare di una semplice
approssimazione. D’altro canto l’interpolazione soddisfa il criterio della massima
precisione proprio in virtù della perfetta riproduzione dei dati. Tuttavia oltre alla
precisione del modello è importante anche la predittività dello stesso, ovvero la
capacità di riuscire a prevedere dati non disponibili (è proprio questo lo scopo del
modello). In particolare la scelta tra questi due criteri dipende dal tipo di problema e
dalla necessità di ottenere un modello che realizzi il compromesso ottimale tra le
esigenze di precisione (aderenza: riprodurre i dati a disposizione) e di
generalizzabilità (predittività: prevedere dati che non si hanno a disposizione). È
evidente che mentre risulta abbastanza semplice capire se un modello è preciso
oppure no, in quanto basta operare un confronto con i dati sperimentali a
disposizione, non è altrettanto semplice misurare la predittività di un modello in
quanto non è possibile fare un confronto diretto con i dati sperimentali giacché tale
concetto è legato alla previsione di dati non disponibili.
A questo punto si immagini di generare dei dati a partire da una funzione analitica
disponibile. In particolare si vogliono generare una serie di dati in un intervallo
[0 − 10] con passo 1, aggiungendo del “rumore” (il quale simula l’errore
sperimentale, ovvero l’incertezza sulla misura: essa può dipendere dalla precisione
dei sistemi di misura), ad una funzione di secondo grado di equazione:
𝑦 = 𝑥 2 + 2(𝑧 − 0.5)
Dove la seconda parte della relazione (2(𝑧 − 0.5)) è proprio il “rumore”:
𝑧 = 𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜 𝑟𝑎𝑛𝑑𝑜𝑚 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑟𝑒𝑠𝑜 𝑡𝑟𝑎 0 𝑒 1
L’insieme dei dati generati è quindi costituito da 11 osservazioni (la 𝑥 varia da 0 a 10
con passo 1). Per generare il numero random 𝑧 si utilizza una distribuzione di tipo
uniforme: ciò significa che c’è un uguale probabilità di uscita di qualsiasi valore
compreso nell’intervallo [0 − 1] (con opportuni settaggi è possibile generare anche
dei numeri casuali secondo una distribuzione di tipo gaussiano). Pertanto siccome 𝑧
è un numero random compreso tra 0 e 1, la differenza 𝑧 − 0.5 sarà ancora un valore
random, questa volta compreso tra −0.5 e 0.5; moltiplicando poi questa differenza
110
per 2 si ottiene alla fine un numero random compreso nell’intervallo [−1, +1]. In tal
modo è come se si andassero a perturbare i valori che vengono fuori dall’equazione
della parabola 𝑦 = 𝑥 2 (si “sporcano” i valori della funzione).
A questo punto a partire da questi dati “sporcati” si effettuano delle interpolazioni per
ottenere una funzione che simuli l’andamento di questi dati. Le funzioni
approssimanti si ricavano con il metodo dei minimi quadrati (regressione
polinomiale).
Utilizzando un polinomio di secondo grado (3 coefficienti), esso riproduce
correttamente l’andamento della funzione (d’altro canto i dati sono stati generati a
partire proprio da una parabola), anche se non è in grado di riprodurre esattamente
tutti i dati misurati (ovviamente con la tecnica dei minimi quadrati si è fatto in modo
da scegliere il polinomio di secondo grado che meglio approssima il trend dei “dati
sperimentali”):

Figura 71

È evidente che il trend viene seguito in maniera corretta in quanto i dati sono stati
generati proprio a partire da un polinomio del secondo ordine; nel caso in cui non si
ha a disposizione una funzione analitica di partenza (come spesso accade),
ovviamente il ragionamento non è così semplice.
È evidente che per avere una approssimazione migliore è possibile ricorrere anche
a polinomi di grado superiore. Ad esempio il ricorso ad un polinomio di quinto grado
(sei coefficienti) permette di migliorare leggermente la precisione del modello, ma
introduce un flesso nella funzione approssimante, non presente nella funzione
generatrice (di secondo grado). Si può inoltre notare come la funzione approssimante
non passi per l’origine, a differenza del caso precedente (e a differenza di come
dovrebbe in realtà essere):

111
Figura 72

Quindi sebbene vi sia un’approssimazione migliore (precisione maggiore) rispetto al


polinomio di secondo grado, si iniziano ad introdurre degli andamenti strani, non
riproducendo più in maniera corretta il trend dei dati sperimentali.
Ovviamente il massimo grado del polinomio che è possibile scegliere dipende dal
numero di dati sperimentali a disposizione. In questo caso giacché si hanno a
disposizione 11 dati sperimentali è possibile spingersi fino ad un polinomio del
decimo grado (undici coefficienti da determinare). Il ricorso ad un polinomio di decimo
grado (undici coefficienti), permette di riprodurre esattamente tutti gli undici punti
misurati (si passa ad un’interpolazione vera e propria, piuttosto che avere
un’approssimazione), ma presenta un andamento molto difforme rispetto a quello
della funzione generatrice. La precisione è dunque stata massimizzata a spese della
generalizzabilità (predittività) del modello che risulta minima.

Figura 73

112
In pratica in questo modo, tutti i punti stanno perfettamente sulla curva tracciata, ma
la funzione va ad inseguire praticamente l’errore sperimentale. Pertanto questo tipo
di modello non è utilizzabile per prevedere i valori della funzione nei punti in cui non
siano disponibili misure, ed in fase di estrapolazione. La tecnica dell’interpolazione
non è quindi adatta in presenza di dati affetti da errori di misura, o in presenza di
misure multiple (più osservazioni per lo stesso valore della variabile indipendente: se
si hanno a disposizione più punti per il medesimo valore della variabile indipendente
è impossibile scegliere per quale punto bisogna far passare la funzione). Nel caso in
cui la curva debba passare per dati esatti, generati con una funzione matematica
complessa quanto si vuole, allora è lecito utilizzare la tecnica dell’interpolazione (se
la funzione matematica è complessa e richiede un grosso tempo di calcolo per essere
simulata, magari si fa passare per quei punti un polinomio che riproduce la funzione,
ma viene simulato in un tempo più breve).
Un altro modo di interpolare con una tecnica differente prevede l’utilizzo delle funzioni
Splines. L’interpolazione con funzione Splines permette di usare nelle diverse regioni
diverse funzioni polinomiali di grado non elevato (splines: al massimo secondo/terzo
grado), raccordate sui valori della funzione e delle derivate prime (in tal modo non si
ha discontinuità nel passaggio dall’uno all’altro polinomio). Questa tecnica consente
di riprodurre con precisione e buona regolarità i dati misurati senza incorrere negli
svantaggi legati all’uso di polinomi di grado molto elevato. Tuttavia, nel caso che si
sta esaminando, anche tale tecnica insegue l’errore sperimentale, dando un risultato
che non segue bene il trend dei dati sperimentali, sebbene la funzione trovata passi
per tutti i punti:

Figura 74

Le splines vengono spesso utilizzate quando bisogna raccordare diversi punti


(esistono routine in grado di ottenere tali risultati).
Pertanto nel caso esaminato la funzione di secondo grado è quella che fornisce i
risultati migliori (ottimo trade-off tra precisione e predittività); d’altro canto i dati
113
sperimentali sono stati generati proprio a partire da una funzione di secondo grado
(parabola).
Il termine regressione può avere diversi significati a seconda del campo di
applicazione in cui si utilizza questa parola. In quest’ambito il termine “regression” fu
introdotto dall’antropologo Sir Francis Galton nel lavoro “Regression towards
mediocrity in hereditary stature”, per indicare un metodo per ricavare le relazioni tra
le variabili con la tecnica dei minimi quadrati (least squares), che praticamente è da
intendersi come un sinonimo della parola regressione.

Figura 75

I parametri sono praticamente i coefficienti della regressione.


Per quanto riguarda la regressione lineare multipla (in più variabili), la forma generale
può essere scritta nella maniera seguente:
𝑦𝑖 = 𝛽1 𝑥1𝑖 + … + 𝛽𝑗 𝑥𝑗𝑖 + … + 𝛽𝑝 𝑥𝑝𝑖 + 𝑒𝑖

𝑖 = 1, … , 𝑛
In forma vettoriale:

𝑌̅ = 𝑋̿ 𝛽̅ + 𝑒̅
Dove:
𝑦 = 𝑣𝑎𝑟𝑖𝑎𝑏𝑖𝑙𝑖 𝑑𝑖𝑝𝑒𝑛𝑑𝑒𝑛𝑡𝑖 (𝑣𝑒𝑡𝑡𝑜𝑟𝑒)
𝑥 = 𝑣𝑎𝑟𝑖𝑎𝑏𝑖𝑙𝑖 𝑖𝑛𝑑𝑖𝑝𝑒𝑛𝑑𝑒𝑛𝑡𝑖 (𝑚𝑎𝑡𝑟𝑖𝑐𝑒)
𝛽 = 𝑝𝑎𝑟𝑎𝑚𝑒𝑡𝑟𝑖 𝑖𝑛𝑐𝑜𝑔𝑛𝑖𝑡𝑖 (𝑣𝑒𝑡𝑡𝑜𝑟𝑒)
𝑒 = 𝑒𝑟𝑟𝑜𝑟𝑒: 𝑑𝑖𝑓𝑓𝑒𝑟𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑡𝑟𝑎 𝑣𝑎𝑙𝑜𝑟𝑒 𝑠𝑡𝑖𝑚𝑎𝑡𝑜 𝑒 𝑣𝑎𝑙𝑜𝑟𝑒 𝑚𝑖𝑠𝑢𝑟𝑎𝑡𝑜 (𝑣𝑒𝑡𝑡𝑜𝑟𝑒)
𝑛 = 𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜 𝑑𝑖 𝑜𝑠𝑠𝑒𝑟𝑣𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 (𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜 𝑑𝑖 𝑝𝑢𝑛𝑡𝑖)
𝑝 = 𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜 𝑑𝑖 𝑝𝑎𝑟𝑎𝑚𝑒𝑡𝑟𝑖
La forma scritta sembrerebbe utile solo per caratterizzare problemi di tipo lineare.
Tuttavia attraverso opportune sostituzioni di variabili, molti problemi non lineari
rispetto alle variabili originali possono essere ricondotti alla forma di regressione
lineare multipla. Ad esempio si consideri la funzione:
𝑦 = 𝑎1 + 𝑎2 𝑧 + 𝑎3 𝑧 2 + 𝑎4 𝑧 3
Ponendo:
114
𝑥𝑖 = 𝑧 𝑖−1
𝛽𝑖 = 𝑎𝑖
Ci si riconduce al caso di regressione lineare multipla; di fatto sostituendo nella
formula della regressione si ottiene proprio il polinomio scritto:
𝑦 = 𝑎1 𝑧 0 + 𝑎2 𝑧1 + 𝑎3 𝑧 2 + 𝑎4 𝑧 3
Lo stesso ragionamento vale nel caso seguente:
𝑦 = 𝑎1 + 𝑎2 sin(𝑧) + 𝑎3 𝑧 2
Ponendo:
𝑥1 = 1 𝑥2 = sin(𝑧) 𝑥3 = 𝑧 2
𝛽𝑖 = 𝑎𝑖
È possibile ancora una volta applicare la formula della regressione lineare multipla.
Si possono avere anche casi più complicati:
𝑣 = 𝑎1 𝑧 ∙ exp(−𝑎2 𝑧)
Applicando il logaritmo ad ambo i membri:
ln 𝑣 = ln 𝑎1 𝑧 ∙ exp(−𝑎2 𝑧) ⟹ ln 𝑣 = ln 𝑎1 + ln 𝑧 − 𝑎2 𝑧
Da cui:
ln 𝑣 − ln 𝑧 = ln 𝑎1 − 𝑎2 𝑧
Ponendo:
𝑦 = ln 𝑣 − ln 𝑧
𝑥1 = 1
𝑥2 = −𝑧
𝛽1 = ln 𝑎1
𝛽2 = 𝑎2
Si ritorna ancora una volta al caso di regressione lineare multipla.
C’è dunque una famiglia molto ampia di funzioni matematiche che è possibile
ricondurre alla forma lineare e dunque si può anche parlare di regressione lineare
generalizzata. Esistono strumenti molto efficaci per risolvere i problemi nella forma
di regressione lineare generalizzata per cui, quando possibile, è sempre importante
riuscire a scrivere la funzione in questa forma. In questo modo è possibile risolvere i
problemi con metodi diretti ovvero con calcoli che prevedono un numero finito e
determinato di operazioni e non attraverso procedure iterative che potrebbero

115
convergere, ma anche divergere (questo è il caso in cui si ricade nella non linearità
della regressione).
Per risolvere il problema della regressione lineare multipla si trovano i valori di 𝛽 che
rendono minima la somma degli scarti quadratici (sommatoria su tutte le osservazioni
della differenza tra il valore calcolato e il valore osservato elevato al quadrato):
𝑝 2
𝑛 𝑛

min 𝑆 = ∑ [∑ 𝑥𝑗𝑖 𝛽𝑗 − 𝑦𝑖 ] = ∑ 𝑒𝑖2


𝛽
𝑖=1 𝑗=1 𝑖=1

Il motivo per cui si eleva al quadrato è legato al fatto di evitare la compensazione tra
errori positivi e negativi. Al variare dei parametri 𝛽 varia ovviamente l’errore: la
soluzione è minimizzare l’errore in funzione di 𝛽. La soluzione del problema della
regressione lineare multipla si può ricondurre alla soluzione di un sistema di
equazioni lineari (equazioni normali): la condizione di minimo impone che la derivata
prima rispetto a 𝛽(gradiente) sia nulla e dunque imponendo tale condizione è
possibile trovare la soluzione.
La regressione lineare generalizzata può essere utilizzata non solo per risolvere
problemi in una singola variabile, ma anche in più variabili. Tuttavia in alcuni casi non
è possibile ricondursi alla formula della regressione lineare generalizzata e si deve
far riferimento alla regressione non lineare. Aggiungendo per esempio una costante
al caso visto precedentemente:
𝑣 = 𝑎1 𝑧 ∙ exp(−𝑎2 𝑧) + 𝑐𝑜𝑠𝑡.
Non è più possibile ricondursi alla forma della regressione lineare generalizzata ed è
necessario passare al caso non lineare:
𝑦 = 𝑓(𝑥, 𝛽) + 𝜀
Nel caso più generale di una funzione non lineare di 𝑛 variabili, i parametri 𝛽 possono
essere calcolati attraverso la minimizzazione numerica (tecniche numeriche iterative)
dell’errore quadratico (scarto quadratico), che si calcolerà allo stesso modo:
𝑛 𝑛

min 𝑆 = ∑[𝑓(𝑥, 𝛽) − 𝑦𝑖 ]2 = ∑ 𝑒𝑖2


𝛽
𝑖=1 𝑖=1

Questo problema può essere ricondotto ad un problema di ottimizzazione non lineare


(in generale la funzione 𝑓 è non lineare), per il quale:
 La funzione obiettivo da minimizzare coincide con l’errore del modello (scarto
quadratico).
 Le variabili da ottimizzare coincidono con i parametri del modello.
 Eventuali limitazioni sui valori dei parametri sono espresse da vincoli di
disuguaglianza (magari i parametri devono essere per forza dei numeri positivi
o dei valori compre tra 0 e 1 e questo lo si deve imporre attraverso dei vincoli).
116
In generale non basta assicurarsi che un modello sia preciso (minimizzazione dello
scarto quadratico), ma bisogna anche capire che esso sia predittivo: ciò impone di
capire come si comporta il modello rispetto ai dati che ancora non si hanno a
disposizione.
Nei casi in cui i dati osservati siano affetti da incertezza (errore di misura, errore
numerico, …) è necessario avere una misura dell’affidabilità del modello e del valore
dei parametri calcolati attraverso le tecniche di regressione. Poiché gli 𝑛 dati
osservati possono essere considerati estratti da un campione, si può immaginare di
effettuare più analisi di regressione (al limite infinite), ognuna a partire da un
campione di 𝑛 osservazioni (in pratica si immagina di poter ripetere più volte una
certa sperimentazione: si otterranno di volta in volta dati differenti a causa dell’errore
sperimentale). I valori dei parametri così calcolati descriveranno delle distribuzioni di
frequenza attorno al valore più probabile. È possibile, con opportuni metodi, stimare
l’ampiezza delle distribuzioni dei parametri (intervalli di confidenza) e la regione di
appartenenza del modello in termini probabilistici.
Si consideri il caso di un modello lineare 𝑦 = 𝑎𝑥 + 𝑏 per il quale siano disponibili due
osservazioni 𝑦1 e 𝑦2 alle ascisse 𝑥1 e 𝑥2 . Se 𝑦1 e 𝑦2 possono assumere valori aleatori
secondo una assegnata distribuzione di probabilità, ad ogni coppia di punti (𝑥1 , 𝑦1 ),
(𝑥2 , 𝑦2 ) corrisponderà una diversa retta:

Figura 76

Nel caso in cui non si hanno errori di misura, il valore che viene fuori per le 𝑦 è proprio
quello individuato dal pallino in rosso. Poiché c’è una certa incertezza quando si
vanno a fare degli esperimenti nei punti 𝑥1 e 𝑥2 si otterranno in generale dei valori di
𝑦 (𝑦1 e 𝑦2 ) differenti e variabili intorno ad una certa banda. È possibile immaginare
che la variazione non sia del tutto casuale, ma che si abbia un addensamento attorno
ad un valore più probabile (che è sempre il pallino rosso, ovvero il punto individuato
in assenza di errori di misura): in particolare si ottiene (per esempio) una distribuzione
di probabilità di tipo gaussiano (se non si hanno altre informazioni è lecito immaginare
117
che ci sia una distribuzione di questo tipo). Potrebbe dunque capitare che sia 𝑦1 che
𝑦2 assumano il valore più basso e quindi si traccerà la retta per i due punti individuati
o al contrario assumano i valori più elevati e di conseguenza si traccerà un’altra retta
passante per questi altri due punti. Può anche capitare che 𝑦1 assuma il valore più
basso e 𝑦2 il valore più alto e di conseguenza si potrà tracciare un’altra retta passante
per questi due valori (o anche viceversa). Tra queste situazioni estreme ci saranno
chiaramente tutta una serie di situazioni intermedie che potrebbero ovviamente
verificarsi. Ovviamente i punti che hanno una maggiore probabilità di uscita sono
quelli che più si avvicinano al valore più probabile data la distribuzione di tipo
gaussiano.
Ripetendo l’esperimento un numero elevato di volte, si può osservare come le
possibili rette tendano a riempire una regione del piano, addensandosi attorno alla
retta più probabile (nera in grassetto), mentre le rette passanti per i punti estremi
delle distribuzioni risultano meno probabili:

Figura 77

È possibile delimitare la zona dove di addensa la maggior parte dei risultati: per
esempio un ragionamento che i può seguire è quello di andare a considerare la zona
in cui c’è il 90 % dei risultati:

Figura 78

118
In pratica si scarta il 5 % ai due estremi e si considera solo il 90 % centrale dei
risultati. La regione considerata viene detta regione di confidenza al 90 %. La regione
di confidenza al livello 𝛼 di probabilità definisce la regione del piano al quale
appartiene, con un livello 𝛼 di probabilità, la retta generata da un generico
esperimento. Quindi è come se, facendo l’esperimento un numero infinito di volte, si
andasse a considerare il 90 % più centrale dei risultati trovati.
È evidente che la regione di confidenza ha un’ampiezza che aumenta man mano che
ci si allontana dalla zona in cui si hanno a disposizione i dati: non bisogna mai fidarsi
troppo delle estrapolazioni, giacché man mano che ci si allontana dalla zona in cui i
dati sono stati ricavati, anche se apparentemente si ha a disposizione una funzione
che descrive l’andamento, calcolando i limiti della regione di confidenza essi
sarebbero troppo ampi e quindi i dati sarebbero sempre più incerti. Anche i
coefficienti della retta ha una propria variabilità: i valori di 𝑎 e 𝑏 più plausibili sono
quelli che individuano la retta passante per i punti più probabili, ma in generale essi
possono essere diversi in accordo con il fatto che è possibile individuare rette
differenti.

Figura 79

Anche in questo caso si avrà un addensamento attorno ad un valore centrale dei


coefficienti 𝑎 e 𝑏: è possibile fare lo stesso ragionamento eliminando il 5 % ad ogni
lato della distribuzione e prendendo solo il 90 % centrale (i coefficienti dunque
varieranno all’interno dell’intervallo evidenziato in figura); l’intervallo di variazione è
detto intervallo di confidenza dei parametri: il coefficiente 𝑎 ha un valore pari a quello
centrale più o meno la variazione in tutto l’intervallo e lo steso vale per il coefficiente
𝑏.
Ovviamente in generale non è possibile fare tantissimi esperimenti sia per motivi di
tempo che per motivi economici (l’esperimento può essere costoso), pertanto è
necessario individuare un modo più pratico di ragionare per stimare la regione di
confidenza (zona in cui ci si può aspettare di trovare il risultato) senza fare
materialmente l’esperimento tante volte. Si vuole dunque avere una metodologia che
oltre a stimare i coefficienti valuti anche i loro intervalli di confidenza.
Si consideri una funzione generatrice che è un polinomio di secondo grado
contenente del “rumore” (valori reali). Si vuole a questo punto provare ad
approssimare l’andamento di questo dati attraverso polinomi di diverso grado. In
figura è riportato un esempio di approssimazione utilizzando un polinomio del terzo

119
grado (in verde: valori predetti) e sono evidenziati anche i limiti della regione di
confidenza (in rosso).

Figura 80

È possibile ripetere quanto riportato in figura precedente, al variare del grado del
polinomio:

Figura 81

È possibile notare che al crescere del grado del polinomio, migliorano le capacità di
riprodurre con precisione i valori osservati (fitting) ma aumenta l’incertezza della
stima (peggiora la generalizzabilità del modello), soprattutto in fase di estrapolazione.
I migliori risultati in termini di incertezza della stima si ottengono con un polinomio di
secondo grado, pari a quello della funzione generatrice.

120
Con una retta ad esempio si ha sia una precisione scarsa, sia un’elevata ampiezza
della regione di confidenza (l’ampiezza per semplicità è stata misurata nel punto
centrale). La funzione di secondo grado invece dà un buon livello di precisione e un
livello di incertezza molto basso (𝛥 = ±2.22). Passando al terzo grado si ha
comunque un buon livello di precisione (che aumenta rispetto al secondo grado), ma
peggiora il livello di incertezza; lo stesso accade man mano che aumenta il grado del
polinomio (la precisione migliora e la predittività peggiora). In altre parole, si è
dimostrato quanto detto precedentemente: la misura della predittività è proprio
l’ampiezza dell’intervallo di confidenza (stima numerica di quanto il modello è valido
dal punto di vista della predittività). il miglior modello in questo caso è quello dato dal
polinomio del secondo grado: d’altro canto i dati erano stati generati proprio a partire
da una parabola. Tutto ciò si può ottenere direttamente da alcune routine.
Il risultato ottenuto può essere generalizzato per l’analisi dell’influenza del numero di
parametri su modelli di assegnata struttura. Quando si vanno ad approssimare dei
valori sperimentali con una funzione con un dato numero di parametri, all’aumentare
del numero dei parametri (aumenta il grado del polinomio ad esempio), l’errore del
modello si riduce (la precisione aumenta) fino ad arrivare a zero quando il numero di
parametri eguaglia il numero di dati (salvo eccezioni, che prevedono dati ripetuti, …);
tuttavia l’indice di incertezza (quantificato con l’ampiezza dell’intervallo di confidenza)
ha un andamento prima decrescente e poi cresce con il numero di parametri
(nell’esempio precedente, il minimo valore si raggiunge in corrispondenza del grado
della funzione generatrice del polinomio):

Figura 82

La scelta ottimale del numero di parametri potrà essere effettuata nella regione a
destra del punto di minimo dell’indice di incertezza (𝑁 > 𝑁 ∗ ). In questa regione (punto
A), a parità di indice di incertezza, l’errore sul modello è minore rispetto i
corrispondenti punti della regione a sinistra (punto B):

121
Figura 83

Quindi in generale è possibile scegliere proprio il punto in cui l’indice di incertezza è


minimo avendo però un errore del modello magari ancora piuttosto grande. Tuttavia
volendo scegliere un punto differente, a parità di indice di incertezza, è conveniente
muoversi verso il punto A (piuttosto che verso il punto B), giacché in quella zona
l’errore del modello decresce. Quindi, il numero di parametri dovrà realizzare il
compromesso migliore tra la massima generalizzabilità (𝑁 ∗ ) e la precisione (𝑁 > 𝑁 ∗ ),
in funzione del tipo di utilizzo del modello.
Una tecnica in cui si può imbattere è quella della regressione stepwise. La
regressione stepwise consente di costruire la struttura della funzione approssimante
selezionando le variabili che presentano la migliore correlazione con le variabili
osservate. In generale i dati che si hanno a disposizione non vengono generati da
una funzione matematica, ma vengono acquisiti da un sistema reale: in tal caso
magari non si conosce la struttura funzionale e dunque le dipendenze tra le diverse
grandezze; in alcuni casi può aiutare la teoria la quale mette in relazione le diverse
grandezze attraverso un’equazione (formula) matematica, mentre in altri casi è
necessario scoprire a posteriore qual è la legge alla base del fenomeno. In questo
caso è utile fare riferimento alla regressione stepwise.
Si immagini di avere a disposizione una serie di dati che dipendono da più variabili e
non si conosce come queste variabili si combinano tra di esse (dipendenze
quadratiche, miste, …). Esistono due metodologie di base per operare la selezione:
 Forward (in avanti): vengono via via aggiunte le variabili che hanno la migliore
correlazione (minore ampiezza degli intervalli di confidenza); una volta
individuata una nuvola di variabili, il software va ad osservare quale variabile
è più correlata alle variabili di uscita e prova a costruire una funzione proprio
in base a queste variabili; dopodiché esso va a valutare i residui (errori)
cercando di capire come essi si correlano alle diverse variabili e considerando
appunto quelle più correlate ai residui (si parte da una funzione minimale e si

122
vanno via via ad aggiungere le variabili più correlate in base a considerazioni
sugli intervalli di confidenza).
 Backward (all’indietro): vengono via via eliminate le variabili che hanno la
peggiore correlazione (maggiore ampiezza degli intervalli di confidenza); in
questo caso si costruisce una mega funzione in cui si va a mettere dentro tutto
quello che ci potrebbe stare (fermo restando che, avendo 𝑛 dati non è possibile
utilizzare più di 𝑛 coefficienti); a questo punto si vanno a guardare gli intervalli
di confidenza dei parametri: ogni gruppo funzionale sarà moltiplicato per un
parametro che ha un certo valore e un certo intervallo di confidenza; in tal caso
si eliminano quei parametri che hanno un intervallo di più ampio in quanto sono
quelli più incerti. Inoltre in tal caso c’è una regola molto utile che è quella di
andare a guardare se l’intervallo di confidenza di un determinato parametro
include il valore zero: se si ha un coefficiente 𝛽 = 1 con un intervallo di
confidenza di ± 4, vuol dire che tale coefficiente può andare da −3 a +5 e
dunque potrebbe valere anche 0; in questo caso la regola da seguire impone
che tale coefficiente non è significativo perché potrebbe essere zero e non
essendo sicuri che esso sia diverso da zero lo si elimina (non lo si considera);
questa è la regola più semplice per snellire una funzione complessa.
In Matlab esistono diversi strumenti per implementare una regressione. Per la
regressione lineare multipla:
 Si possono ottenere le stime dei parametri con l’operazione di divisione di
matrici (\: 𝑏𝑎𝑐𝑘𝑠𝑙𝑎𝑠ℎ); in particolare attraverso questo comando è possibile.
risolvere sistemi lineari (𝐴̿𝑥̅ = 𝑏̅ ⟹ 𝑥̅ = 𝐴̿\𝑏̅). Tale metodo tuttavia non dà
molte altre informazioni tra cui quelle che riguardano l’intervallo di confidenza.
 Si possono ottenere le stime dei parametri, dei residui ed i loro intervalli di
confidenza con la funzione REGRESS. Questo è uno strumento certamente
più potente rispetto al backslash.
Per la regressione polinomiale in una variabile si possono adoperare le funzioni:
 POLYFIT: calcola i coefficienti e gli indici di significatività (intervalli di
confidenza).
 POLYVAL: stima i valori e i loro campi di variazione.
Nel caso della regressione non lineare è necessario richiamare tre funzioni in
sequenza:
 NLINFIT: calcola il valore ottimale dei parametri e dei residui
 NLPREDCI: calcola gli intervalli di confidenza dei valori predetti
 NLPARCI: calcola gli intervalli di confidenza dei parametri
Negli anni passati per risolvere problemi di questo tipo era necessario scrivere dei
programmi dell’ordine di migliaia di istruzioni; oggigiorno con la chiamata di
pochissime funzioni è possibile risolvere lo stesso problema in pochissimo tempo.

123
Tuttavia è importante capire quello che c’è alla base di queste funzioni in quanto
molto spesso potrebbero non funzionare o dare dei risultati sbagliati e dunque
bisogna sapere dove agire per poter risolvere il problema.
Nel caso della regressione polinomiale di una variabile la sintassi è quella riportata
in figura (tenendo conto che i comandi si danno in minuscolo in Matlab):

Figura 84

Le 𝑌 sono in pratica i valori sperimentali, mentre le 𝑋 sono le variabili alle quali sono
misurati i dati sperimentali. Il grado del polinomio ovviamente deve essere minore o
al limite uguale al numero di dati sperimentali a disposizione. I parametri 𝑃 sono in
pratica i coefficienti del polinomio, mentre 𝑆 sono gli indici di significatività: esso
rappresenta una struttura di Matlab, che poi viene data alla funzione polyval e serve
per calcolare gli intervalli di confidenza. La funzione polyfit calcola il valore dei
coefficienti che vengono passati a polyval che calcola i valori della funzione per un
insieme di valori di 𝑋 che non necessariamente sono quelli a cui si hanno i dati
sperimentali (sono semplicemente i punti per cui si vuole tracciare la curva e non
necessariamente coincide con la 𝑋 data a polyfit). In uscita alla fine si avranno i valori
calcolati (𝑌𝑐𝑎𝑙𝑐) ed una matrice (𝐷𝐸𝐿𝑇𝐴) che per vari valori di 𝑋 dà informazioni
riguardo al limite inferiore e superiore della stima.
Per quanto riguarda la regressione lineare la struttura è quella riportata nella figura
seguente:

124
Figura 85

Qui la sintassi è un po’ più complessa ma si ha anche una maggiore generalità. La


𝑦 rappresenta i valori sperimentali, mentre la 𝑋 in tal caso è una matrice (prima era
un vettore) e rappresenta le variabili indipendenti. In uscita dalla regressione si
ottengono i parametri del modello (𝐵), gli intervalli di confidenza dei parametri (𝐵𝐼𝑁𝑇),
i residui (ovvero gli errori: 𝑅), gli intervalli di confidenza dei residui (𝑅𝐼𝑁𝑇) e una serie
di statistiche riassuntive (𝑆𝑇𝐴𝑇𝑆).
A titolo di esempio si riporta di seguito un caso di utilizzo del comando regress per la
regressione lineare multipla:

Figura 86

125
Questo programma Matlab:
 Genera (con un ciclo for) 𝑛 punti di una curva di secondo grado aggiungendo
del “rumore” con un parametro chiamato frand.
 Genera la matrice 𝑋, con le potenze di 𝑋1. In pratica si effettua la
trasformazione di variabili per riportarsi al caso di regressione lineare.
 Richiama la funzione regress.
 Plotta le variabili assegnate e quelle calcolate ed i limiti inferiore (ycinf) e
superiore (ycsyp) degli intervalli di confidenza della variabile 𝑦 (in modo da
creare la fascia di incertezza).
Si tenga presente che i valori sono stati generati con una parabola del tipo 𝑦 = 𝑥 2
con l’aggiunta di rumore, pertanto i coefficienti veri saranno:
𝐵 = [0, 0, 1]
Dove il primo coefficiente è quello del termine noto, il secondo è quello del termine
di primo grado e il terzo è quello del termine di secondo grado. Questi sono i valori
dei coefficienti che dovrebbero uscire fuori dalla regressione.
In particolare con un rumore elevato (𝑓𝑟𝑎𝑛𝑑 = 20), gli intervalli di confidenza al 95 %
dei primi due parametri sono molto alti; il terzo parametro è circa pari ad 1, con una
incertezza minore dei primi due:

Figura 87

Da un punto di vista dei coefficienti i primi due sono praticamente sbagliati (4.4 e
−0.77), mentre il terzo è molto vicino a quello reale. Tuttavia guardando gli intervalli
di confidenza è possibile notare che si ha il passaggio per lo zero sia nel caso del
primo che del secondo coefficiente, mentre per il terzo coefficiente no. Pertanto il
valore dei primi due coefficienti non è significativo (l’intervallo di confidenza
comprende lo zero) e dunque si ritengono nulli: il risultato è dunque molto vicino alla
realtà; senza questo tipo di analisi si andava a costruire una funzione errata e non
vicina alla realtà.
126
Nel caso con un rumore limitato invece (𝑓𝑟𝑎𝑛𝑑 = 2) i primi due coefficienti sono quasi
pari a zero e piuttosto incerti; il terzo coefficiente è circa 1 e molto più definito:

Figura 88

In tal caso si ha un miglioramento (barra di incertezza ridotta): il primo coefficiente è


in ogni caso abbastanza sballato, mentre il secondo è molto vicino a zero (valore
reale) e il terzo molto vicino ad uno (valore reale); tuttavia anche in questo caso,
osservando gli intervalli di confidenza si osserva che i primi due sono a cavallo dello
zero e dunque quei coefficienti sono da ritenersi nulli, mentre il terzo invece no ed è
dunque pari ad 1.0031 valore molto vicino a quello reale.
Nel caso con rumore limitato (𝑓𝑟𝑎𝑛𝑑 = 2), si riportano i valori della variabile
indipendente (𝑋1(𝑁)), della matrice (𝑋 (𝑁, 𝑃)), dei valori osservati (𝑌(𝑁)), dei valori
calcolati (𝑌𝐶 (𝑁)) e dei residui (𝑅(𝑁) = 𝑌𝐶 − 𝑌). Per ogni i-esima osservazione (riga),
le colonne di 𝑋 (𝐼, 𝐽) sono rappresentate dalle potenze successive di 𝑋1(𝐼).

Figura 89

Ovviamente nel caso del polinomio in una variabile, è possibile applicare anche
funzioni più snelle rispetto a regress che sono polyfit e polyval.

127
Nel caso di regressione non lineare invece la struttura è quella riportata nella figura
seguente:

Figura 90

In questo caso, oltre a dare in input le variabili indipendenti 𝑥 e le variabili dipendenti


𝑦 è necessario specificare il nome della funzione (𝑚𝑜𝑑𝑒𝑙_𝑛𝑙) dove si va a codificare
la corrispondenza tra 𝑥 e 𝑦 (in pratica si fornisce il mezzo per risalire dalla 𝑥 alla 𝑦) e
il valore iniziale dei parametri del modello (𝐵𝐸𝑇𝐴0): essendo un metodo iterativo è
necessario fornire un punto iniziale da cui partire (spesso è molto importante dare un
punto abbastanza realistico in quanto altrimenti il metodo potrebbe non funzionare).
La routine tira fuori i parametri del modello (𝐵𝐸𝑇𝐴) nonché i residui (𝑅) e la matrice
Jacobiana (𝐽) che poi vengono forniti ad una seconda funzione la quale a sua volta
calcola gli altri output.
A titolo di esempio si riporta di seguito un caso di utilizzo dei comandi per la
regressione non lineare:

128
Figura 91

In tal caso lo script:


 Genera 𝑛 punti di una curva di secondo grado aggiungendo del “rumore”, con
un parametro chiamato frand.
 Assegna valori iniziali al vettore dei parametri (in tal caso [1,1,1]).
 Richiama l funzioni nlinfit, nlpredci, nlparci.
 Plotta le variabili assegnate e calcolate e le stime degli intervalli di confidenza.
In più in tal caso bisogna fornire la routine in cui viene esplicitato come passare da 𝑥
a 𝑦:

Figura 92

In pratica il modulo model_nl, programmato dall’utente, calcolare il valore corrente


delle variabili 𝑦 in corrispondenza delle varaibili indipendenti 𝑥 e dei parametri 𝛽.

129
I valori ottimali dei parametri ed i loro intervalli di confidenza, ovviamente somigliano
molto a quelli ottenuti con il metodo della regressione lineare (in tal caso infatti è
possibile applicare ambo i metodi, essendo il tutto riconducibile ad un caso lineare):

Figura 93

I valori dei coefficienti calcolati sono esattamente quelli calcolati nel caso della
regressione lineare (ovviamente la regressione lineare è un caso particolare della più
generale regressione non lineare). Ovviamente la differenza consiste nel fatto che la
regressione lineare trova il risultato attraverso un metodo diretto, mentre nel caso
non lineare si procede iterativamente, oltre al fatto che non si ha alcuna certezza
matematica sul fatto che effettivamente si sia raggiunto il minimo assoluto (la
certezza è di tipo statistico: bisogna ripetere il calcolo per altri valori per capire se
effettivamente quel risultato sia corretto oppure no). Pertanto quando possibile è
sempre bene utilizzare metodi di tipo diretto (regressione lineare multipla).

130
Lezione 12 (Sorrentino) 24/03/2017
Note introduttive a Matlab
La funzione rand in MATLAB consente di generare dei numeri casuali; in particolare
è possibile generare una matrice di numeri casuali con la struttura:
𝑟𝑎𝑛𝑑 (𝑖, 𝑗)
Dove:
𝑖 = 𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜 𝑑𝑖 𝑟𝑖𝑔ℎ𝑒
𝑗 = 𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜 𝑑𝑖 𝑐𝑜𝑙𝑜𝑛𝑛𝑒
A partire da questi numeri casuali è inoltre possibile costruire degli istogrammi con il
comando hist. Giacché il comando rand genera numeri casuali con distribuzione
uniforme, nel momento in cui si fanno molte estrazioni e si va a costruire l’istogramma
che tiene conto della frequenza di uscita di ogni singolo numero, per la legge dei
grandi numeri esso risulterà piatto: ciò significa che ogni singolo numero ha la stessa
probabilità di uscita (appunto distribuzione uniforme):
𝑎 = 𝑟𝑎𝑛𝑑 (1,100000) ⟹ ℎ𝑖𝑠𝑡(𝑎) ⟹ 𝑖𝑠𝑡𝑜𝑔𝑟𝑎𝑚𝑚𝑎 𝑝𝑖𝑎𝑡𝑡𝑜
Con il comando rand(‘state’,n) è possibile invece fissare uno stato: in particolare n è
un numero intero qualunque. In tal caso generati dei numeri casuali, nel momento in
cui si fissa lo stato, a partire da quel momento, generando altri numeri casuali essi
saranno uguali a quelli generati precedentemente:
𝑟𝑎𝑛𝑑 (′𝑠𝑡𝑎𝑡𝑒 ′ , 1)
In tal caso si fissato lo stato 1. Questo fa anche capire che un computer genera dei
numeri casuali che sono aleatori fino ad un certo punto: i numeri random veri e propri
esistono solo nei fenomeni naturali e possono essere generati solo da un cervello
umano e non da una macchina.
Con il comando input è possibile fare una domanda all’utente il quale deve fornire
delle risposte agendo sulla tastiera.
Per poter plottare più grafici su una stessa finestra è possibile utilizzare il comando
subplot, che ha la seguente struttura:
𝑠𝑢𝑏𝑝𝑙𝑜𝑡 (𝐼, 𝐽, 𝑃)
Dove:
𝐼 = 𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜 𝑑𝑖 𝑟𝑖𝑔ℎ𝑒 𝑑𝑎 𝑚𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑒 𝑎 𝑑𝑖𝑠𝑝𝑜𝑠𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑝𝑒𝑟 𝑖 𝑖 𝑑𝑖𝑣𝑒𝑟𝑠𝑖 𝑔𝑟𝑎𝑓𝑖𝑐𝑖
𝐽 = 𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜 𝑑𝑖 𝑐𝑜𝑙𝑜𝑛𝑛𝑒 𝑑𝑎 𝑚𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑒 𝑎 𝑑𝑖𝑠𝑝𝑜𝑠𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑝𝑒𝑟 𝑖 𝑑𝑖𝑣𝑒𝑟𝑠𝑖 𝑔𝑟𝑎𝑓𝑖𝑐𝑖
𝑃 = 𝑝𝑜𝑠𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑖𝑛 𝑐𝑢𝑖 𝑑𝑖𝑠𝑝𝑜𝑟𝑟𝑒 𝑖𝑙 𝑔𝑟𝑎𝑓𝑖𝑐𝑜 𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟𝑒𝑠𝑠𝑎𝑡𝑜
Pertanto un comando del tipo:
131
𝑠𝑢𝑏𝑝𝑙𝑜𝑡(3,3,5)
Crea una finestra divisa in 9 𝑠𝑙𝑜𝑡 (matrice 3𝑥3) e va a disporre il plot nella quinta
finestra. È evidente che scrivendo:
𝑠𝑢𝑏𝑝𝑙𝑜𝑡 (3,3,10) ⟹ 𝐸𝑅𝑅𝑂𝑅𝐸
Si avrebbe un errore in quanto la finestra presenta 9 𝑠𝑙𝑜𝑡 e dunque la posizione 10
non esiste.
È interessante notare che MATLAB permette anche di utilizzare, per la
visualizzazione, delle lettere greche, basta anteporre al nome delle lettera il
backslash (\):
𝑥𝑙𝑎𝑏𝑒𝑙 (′\𝑜𝑚𝑒𝑔𝑎′ ) ⟹ 𝜔
Inoltre scrivendo la prima lettera in maiuscolo si ottiene la lettera maiuscola:
𝑥𝑙𝑎𝑏𝑒𝑙 (′\𝑂𝑚𝑒𝑔𝑎′ ) ⟹ 𝛺
Inoltre è possibile anche scrivere in corsivo, anteponendo a ciò che si vuole riportare
il comando \𝑖𝑡:
𝑡𝑖𝑡𝑙𝑒(′\𝑖𝑡 𝑇𝐼𝑇𝑂𝐿𝑂′ )
Nel plot è possibile utilizzare diversi tipi di linee, di colori e di marker, utilizzando la
seguente struttura:
𝑝𝑙𝑜𝑡 (𝑥, 𝑦,′ 𝑘 ∗ −)
Dove:
𝑘 = 𝑐𝑜𝑙𝑜𝑟𝑒 (𝑖𝑛 𝑡𝑎𝑙 𝑐𝑎𝑠𝑜 𝑛𝑒𝑟𝑜: 𝑏𝑙𝑎𝑐𝑘 )
∗ = 𝑚𝑎𝑟𝑘𝑒𝑟 (𝑖𝑛 𝑡𝑎𝑙 𝑐𝑎𝑠𝑜 𝑎𝑠𝑡𝑒𝑟𝑖𝑠𝑐𝑜)
− = 𝑙𝑖𝑛𝑒𝑎 (𝑖𝑛 𝑡𝑎𝑙 𝑐𝑎𝑠𝑜 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑖𝑛𝑢𝑎)
Pertanto in una stessa finestra è possibile plottare tre grafici differenti (utilizzando il
comando subplot) in cui si riportano: numero di giri in funzione del tempo, coppia in
funzione del tempo e potenza in funzione del tempo. Si ricordi che la potenza vale:
𝜋
𝑃 =𝐶∙𝑛 ∙ ∙ 10−3 [𝑘𝑊 ]
30
Dove:
𝐶 = 𝑐𝑜𝑝𝑝𝑖𝑎 [𝑁 ∙ 𝑚]
𝑛 = 𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜 𝑑𝑖 𝑔𝑖𝑟𝑖 [𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑚𝑖𝑛]
È possibile, a seguito della visualizzazione del grafico, aggiungere un punto sul plot
per la visualizzazione dello stesso:

132
𝑠𝑡𝑟𝑖𝑛𝑔𝑎_𝑡𝑒𝑠𝑡𝑜 = (′𝑃𝑜𝑡𝑒𝑛𝑧𝑎 =′ 𝑛𝑢𝑚2𝑠𝑡𝑟(𝑝𝑜𝑡𝑒𝑛𝑧𝑎(2)) ′𝑘𝑊′]
𝑡𝑒𝑥𝑡(𝑡𝑒𝑚𝑝𝑜(2), 𝑝𝑜𝑡𝑒𝑛𝑧𝑎 (2), [𝑠𝑡𝑟𝑖𝑛𝑔𝑎_𝑡𝑒𝑠𝑡𝑜])
In tal modo con il primo comando si stabilisce di riportare il valore della potenza come
una stringa sul grafico (aggiungendo ad esso l’unità di misura) e con il secondo
comando si stabilisce il punto da individuare sul grafico stesso. Inoltre è possibile
anche utilizzare il comando \leftarrow (o \rightarrow) per una visualizzazione del
numero un po’ più spostata verso destra (freccia verso sinistra) o verso sinistra
(freccia verso destra):
𝑠𝑡𝑟𝑖𝑛𝑔𝑎_𝑡𝑒𝑠𝑡𝑜 = (′𝑃𝑜𝑡𝑒𝑛𝑧𝑎 =′ 𝑛𝑢𝑚2𝑠𝑡𝑟(𝑝𝑜𝑡𝑒𝑛𝑧𝑎(2)) ′𝑘𝑊′]
𝑡𝑒𝑥𝑡(𝑡𝑒𝑚𝑝𝑜(2), 𝑝𝑜𝑡𝑒𝑛𝑧𝑎 (2), [′ \𝑙𝑒𝑓𝑡𝑎𝑟𝑟𝑜𝑤 ′ 𝑠𝑡𝑟𝑖𝑛𝑔𝑎_𝑡𝑒𝑠𝑡𝑜])
Per fare tutto ciò è anche possibile agire direttamente dalla finestra del plot dal menu
a tendina insert.
In MATLAB è possibile invertire una matrice con l’utilizzo del comando inv oppure
elevando a meno uno la matrice da invertire:
𝐴 = [1,2,3; 4,5,6; 7,8,9]
𝐵 = 𝑖𝑛𝑣 (𝐴) ⟺ 𝐵 = 𝐴−1
Se si vuole risolvere un sistema lineare del tipo:

𝐴̿𝑥̅ = 𝑏̅
È possibile farlo con le seguenti operazioni:
𝑥 = 𝑏/𝐴 (𝑓𝑜𝑟𝑤𝑎𝑟𝑑 𝑠𝑙𝑎𝑠ℎ) ⟺ 𝑥 = 𝐴\𝑏 (𝑏𝑎𝑐𝑘𝑠𝑙𝑎𝑠ℎ) ⟺ 𝑥 = 𝐴−1 𝑏
In MATLAB generalmente si utilizza il comando regress il quale, a differenza del
semplice backslash fornisce informazioni più dettagliate riguardanti il modello. Se il
modello è già sviluppato e bisogna solo identificare i coefficienti, basta utilizzare
semplicemente il backslash perché non bisogna fare nessun’altra scelta in quanto il
modello è già disponibile (non bisogna scegliere il modello).

Nel caso in cui la matrice 𝐴̿ non sia quadrata, ovvero non si ha un problema di 𝑁
equazioni in 𝑁 incognite, è ancora possibile calcolare una sorta di matrice inversa
con il comando pinv:
𝐵 = 𝑝𝑖𝑛𝑣 (𝐴)
In tal modo è possibile risolvere il problema:

𝐴̿𝑥̅ = 𝑏̅
In particolare nel caso in cui la lunghezza del vettore 𝑥 è maggiore della lunghezza
del vettore 𝑏, ovvero si hanno più incognite che equazioni esistono infinite soluzioni;
è possibile trovare due possibili soluzioni (tra le infinite soluzioni) utilizzando il
133
comando per la pseudo-inversa della matrice (pinv) o il comando backslash; in
particolare:
𝑥 = 𝑝𝑖𝑛𝑣 (𝐴) ∗ 𝑏 (𝑠𝑜𝑙𝑢𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑎 𝑚𝑖𝑛𝑖𝑚𝑎 𝑛𝑜𝑟𝑚𝑎)
𝑥 = 𝐴\𝑏 (𝑠𝑜𝑙𝑢𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑐𝑜𝑛 𝑚𝑎𝑔𝑔𝑖𝑜𝑟 𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜 𝑑𝑖 𝑧𝑒𝑟𝑖)
Si immagini ad esempio di avere un sistema di due equazioni in tre incognite del tipo:
𝑥1 + 4𝑥2 + 3𝑥3 = 6
{
5𝑥1 + 8𝑥2 + 𝑥3 = 9

Utilizzando il backslash (𝑥̅ = 𝐴̿\𝑏̅) la soluzione che viene fuori è quella con il
maggiore numero di zeri (tra le soluzioni si ritrovano più zeri possibili) e di fatto il
risultato che viene fuori sarà:
𝑥1 = 0.0
{𝑥2 = 1.5
𝑥3 = 0.6

Mentre utilizzando il comando pinv (𝑥̅ = 𝑝𝑖𝑛𝑣(𝐴̿) ∗ 𝑏̅) la soluzione che viene fuori è
quella con la norma più bassa possibile:
𝑥1 = 0.2027
{𝑥2 = 0.9081
𝑥3 = 0.7216

𝑛𝑜𝑟𝑚𝑎 = 𝑛𝑜𝑟𝑚(𝑥̅ ) = √𝑥12 + 𝑥22 + 𝑥32 = √0.20272 + 0.90812 + 0.72162 = 1.1775

In ogni caso moltiplicando la matrice 𝐴, per il vettore delle soluzioni 𝑥, si ritrova il


vettore dei termini noti 𝑏. Tuttavia se si va a fare una verifica imponendo:

𝐴̿𝑥̅ == 𝑏̅
In ambo i casi MATLAB restituirà un vettore con tutti zero che indica il fatto che
l’uguaglianza non sia valida (se fosse valida avrebbe restituito un vettore di uno);
tuttavia ciò è dovuto ad errori di arrotondamento che vengono commessi nel calcolo
delle soluzioni, per cui è possibile ritenere, come è ovvio che sia, che le due soluzioni
trovate sono effettivamente delle soluzioni del sistema.
Nel caso in cui invece la lunghezza del vettore 𝑥 sia pari a quella del vettore 𝑏, il
numero di equazioni eguaglia il numero delle incognite (la matrice 𝐴 non è singolare),
esiste un’unica soluzione che è possibile trovare nella maniera seguente:
𝑥 = 𝐴\𝑏 = 𝑖𝑛𝑣(𝐴) ∗ 𝑏
Infine se la lunghezza del vettore 𝑥 è minore della lunghezza del vettore 𝑏, ovvero si
hanno a disposizione più equazioni che incognite, non esistono soluzioni; in tal caso
è possibile calcolare una soluzione approssimata attraverso il comando pinv:

134
𝑥 = 𝑝𝑖𝑛𝑣 (𝐴) ∗ 𝑏 (𝑠𝑜𝑙𝑢𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑎 𝑚𝑖𝑛𝑖𝑚𝑎 𝑛𝑜𝑟𝑚𝑎 𝑑 ′ 𝑒𝑟𝑟𝑜𝑟𝑒)
Quest’ultimo caso è probabilmente quello che riveste maggiore importanza
nell’ambito della modellistica. Tuttavia, mentre nel caso in cui si hanno più incognite
che equazioni, la soluzione trovata è esatta (sebbene sia una delle infinite), in tal
caso non esiste una soluzione vera e propria e dunque quella calcolata risulta essere
approssimata. In effetti quando si sviluppa un modello di tipo balck-box
(identificazione del modello) è necessario avere a disposizione una grande quantità
di dati sperimentali; tuttavia non è pensabile utilizzare tutti i dati a disposizione in
quanto questo renderebbe il modello poco generalizzabile: in effetti l’obbiettivo in
questo caso è sviluppare un modello approssimante (e non interpolante) che non
passi necessariamente per tutti i punti sperimentali (curva in blu), ma riproduca
abbastanza fedelmente il trend dei dati sperimentali (curva in rosso):

Figura 94

Pertanto nella funzione 𝑓 trovata attraverso il modello non ci saranno molte


dipendenze (poche incognite) sebbene si abbiano a disposizione parecchi punti
sperimentali (molte equazioni), cosa che peraltro è tutt’altro che spiacevole.
In MATLAB è anche possibile fare alcune operazioni di arrotondamento ed in
particolare:
𝑟𝑜𝑢𝑛𝑑 = 𝑎𝑟𝑟𝑜𝑡𝑜𝑛𝑑𝑎 𝑎𝑙𝑙′ 𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟𝑜 𝑝𝑖ù 𝑣𝑖𝑐𝑖𝑛𝑜
𝑓𝑖𝑥 = 𝑎𝑟𝑟𝑜𝑡𝑜𝑛𝑑𝑎 𝑣𝑒𝑟𝑠𝑜 𝑙𝑜 𝑧𝑒𝑟𝑜
𝑓𝑙𝑜𝑜𝑟 = 𝑎𝑟𝑟𝑜𝑡𝑜𝑛𝑑𝑎 𝑝𝑒𝑟 𝑑𝑖𝑓𝑒𝑡𝑡𝑜 𝑎𝑙𝑙′ 𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟𝑜 𝑝𝑖ù 𝑣𝑖𝑐𝑖𝑛𝑜
𝑐𝑒𝑖𝑙 = 𝑎𝑟𝑟𝑜𝑡𝑜𝑛𝑑𝑎 𝑝𝑒𝑟 𝑒𝑐𝑐𝑒𝑠𝑠𝑜 𝑎𝑙𝑙′ 𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟𝑜 𝑝𝑖ù 𝑣𝑖𝑐𝑖𝑛𝑜
In particolare il comando fix giacché arrotonda sempre verso lo zero quest’ultimo
rappresenta il polo attrattore per cui:
𝑓𝑖𝑥 (1.9) = 1
𝑓𝑖𝑥 (−2.9) = −2

135
Invece il comando floor arrotonda sempre per difetto e dunque sempre verso " − ∞",
pertanto se il numero è positivo restituisce lo stesso numero che viene fuori
utilizzando il comando fix, mentre se il numero è negativo no:
𝑓𝑙𝑜𝑜𝑟(1.9) = 1
𝑓𝑙𝑜𝑜𝑟(−2.9) = −3
Viceversa il comando ceil arrotonda sempre per eccesso è dunque sempre verso " +
∞".
Il comando rem fornisce il resto di una divisione intera:
𝑟𝑒𝑚(3,2) ⟹ 1 (𝑖𝑙 𝑟𝑒𝑠𝑡𝑜 𝑑𝑖 3: 2 𝑣𝑎𝑙𝑒 𝑎𝑝𝑝𝑢𝑛𝑡𝑜 1)
Il comando rats fornisce invece l’approssimazione razionale (sotto forma di frazione)
del numero considerato:
𝑟𝑎𝑡𝑠 (1.5) ⟹ 3/2
Altre funzioni interessanti sono le seguenti:
𝑟𝑒𝑎𝑙 = 𝑓𝑜𝑟𝑛𝑖𝑠𝑐𝑒 𝑙𝑎 𝑝𝑎𝑟𝑡𝑒 𝑟𝑒𝑎𝑙𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜 𝑐𝑜𝑛𝑠𝑖𝑑𝑒𝑟𝑎𝑡𝑜
𝑖𝑚𝑎𝑔 = 𝑓𝑜𝑟𝑛𝑖𝑠𝑐𝑒 𝑙𝑎 𝑝𝑎𝑟𝑡𝑒 𝑖𝑚𝑚𝑎𝑔𝑖𝑛𝑎𝑟𝑖𝑎 𝑑𝑒𝑙 𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜 𝑐𝑜𝑛𝑠𝑖𝑑𝑒𝑟𝑎𝑡𝑜
𝑐𝑜𝑛𝑗 = 𝑓𝑜𝑟𝑛𝑖𝑠𝑐𝑒 𝑖𝑙 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑙𝑒𝑠𝑠𝑜 𝑐𝑜𝑛𝑖𝑢𝑔𝑎𝑡𝑜 𝑑𝑒𝑙 𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜 𝑐𝑜𝑛𝑠𝑖𝑑𝑒𝑟𝑎𝑡𝑜
𝑎𝑏𝑠 = 𝑓𝑜𝑟𝑛𝑖𝑠𝑐𝑒 𝑖𝑙 𝑣𝑎𝑙𝑜𝑟𝑒 𝑎𝑠𝑠𝑜𝑙𝑢𝑡𝑜 𝑜 𝑖𝑙 𝑚𝑜𝑑𝑢𝑙𝑜 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑙𝑒𝑠𝑠𝑜 𝑑𝑒𝑙 𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜 𝑐𝑜𝑛𝑠𝑖𝑑𝑒𝑟𝑎𝑡𝑜
𝑎𝑛𝑔𝑙𝑒 = 𝑓𝑜𝑟𝑛𝑖𝑠𝑐𝑒 𝑙′ 𝑎𝑛𝑔𝑜𝑙𝑜𝑑𝑖 𝑓𝑎𝑠𝑒
𝑚𝑒𝑎𝑛 = 𝑓𝑜𝑟𝑛𝑖𝑠𝑐𝑒 𝑙𝑎 𝑚𝑒𝑑𝑖𝑎
𝑛𝑜𝑟𝑚 = 𝑓𝑜𝑟𝑛𝑖𝑠𝑐𝑒 𝑙𝑎 𝑛𝑜𝑟𝑚𝑎
𝑚𝑖𝑛 = 𝑓𝑜𝑟𝑛𝑖𝑠𝑐𝑒 𝑖𝑙 𝑚𝑖𝑛𝑖𝑚𝑜
𝑚𝑎𝑥 = 𝑓𝑜𝑟𝑛𝑖𝑠𝑐𝑒 𝑖𝑙 𝑚𝑎𝑠𝑠𝑖𝑚𝑜
Riguardo al comando max (o anche min) è opportuno fare alcune precisazioni. In
particolare nel caso in cui si abbia a che fare con un vettore, esso fornisce il massimo
numero che c’è tra le componenti del vettore:
𝑥 = [2,3,5,1,4]
𝑚𝑎𝑥 (𝑥) = 5
Nel caso in cui si tratti invece di una matrice il comando max estrae il massimo di
ogni colonna della matrice considerata (se la matrice ha 𝑛 colonne si otterrà un
vettore di 𝑛 componenti):
𝐴 = [1,2,3; 4,5,6; 7,8,9]
max(𝐴) = 7,8,9
136
Utilizzando invece due volte il comando max si otterrà in tal caso il massimo dei valori
massimi estratti per colonna e dunque il massimo assoluto della matrice:
𝑚𝑎𝑥(𝑚𝑎𝑥 (𝐴)) = 9
È possibile inoltre conoscere, oltre al valore del massimo, anche la sua posizione
lungo la colonna:
[𝑋, 𝑃] = 𝑚𝑎𝑥 (𝐴) ⟹ 𝑋 = 7,8,9 𝑃 = 3,3,3
In particolare il primo output (𝑋) restituirà il vettore dei massimi (trovati per colonna),
mentre il secondo output (𝑃) fornirà la posizione sulla colonna dei massimi trovati.
Inoltre è possibile anche operare un confronto tra due matrici differenti (si aggiunge
in tal caso un input) ed ottenere, sempre attraverso il comando max una matrice
risultante che abbia come elementi i valori massimi di ogni matrice confrontando i
diversi valori indice per indice:
𝐴 = [1,2,3; 4,5,6; 7,8,9]
𝐵 = [4,5,6; 7,8,9; 1,2,3]
𝐶 = max(𝐴, 𝐵) ⟹ 𝐶 = [4,5,6; 7,8,9; 7,8,9]
In MATLAB esistono inoltre una serie di operatori logici, quali:
𝑎𝑛𝑑 = 𝑟𝑒𝑠𝑖𝑡𝑢𝑖𝑠𝑐𝑒 𝑖𝑙 𝑣𝑎𝑙𝑜𝑟𝑒 1 𝑠𝑜𝑙𝑜 𝑠𝑒 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑒 𝑒 𝑑𝑢𝑒 𝑙𝑒 𝑐𝑜𝑛𝑑𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑣𝑒𝑟𝑖𝑓𝑖𝑐𝑎𝑡𝑒
𝑜𝑟 = 𝑟𝑒𝑠𝑖𝑡𝑢𝑖𝑠𝑐𝑒 𝑖𝑙 𝑣𝑎𝑙𝑜𝑟𝑒 1 𝑠𝑒 𝑎𝑙𝑚𝑒𝑛𝑜 𝑢𝑛𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑑𝑢𝑒 𝑐𝑜𝑛𝑑𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 è 𝑣𝑒𝑟𝑖𝑓𝑖𝑐𝑎𝑡𝑎
𝑥𝑜𝑟 = 𝑟𝑒𝑠𝑡𝑖𝑡𝑢𝑖𝑠𝑐𝑒 𝑖𝑙 𝑣𝑎𝑙𝑜𝑟𝑒 1 𝑠𝑒 è 𝑠𝑜𝑙𝑜 𝑠𝑒 𝑢𝑛𝑎 𝑠𝑜𝑙𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑑𝑢𝑒 𝑐𝑜𝑛𝑑𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 è 𝑣𝑒𝑟𝑖𝑓𝑖𝑐𝑎𝑡𝑎
Per esempio nel caso in cui:
𝑎=3 𝑏=2
𝑎𝑛𝑑 (𝑎 > 0, 𝑎 > 𝑏) ⟹ 1
𝑎𝑛𝑑 (𝑎 > 0, 𝑎 < 𝑏) ⟹ 0
𝑎𝑛𝑑 (𝑎 < 0, 𝑎 > 𝑏) ⟹ 0
𝑎𝑛𝑑 (𝑎 < 0, 𝑎 < 𝑏) ⟹ 0
𝑜𝑟(𝑎 > 0, 𝑎 > 𝑏) ⟹ 1
𝑜𝑟(𝑎 > 0, 𝑎 < 𝑏) ⟹ 1
𝑜𝑟(𝑎 < 0, 𝑎 > 𝑏) ⟹ 1
𝑜𝑟(𝑎 < 0, 𝑎 < 𝑏) ⟹ 0
𝑥𝑜𝑟(𝑎 > 0, 𝑎 > 𝑏) ⟹ 0
𝑥𝑜𝑟(𝑎 > 0, 𝑎 < 𝑏) ⟹ 1
137
𝑥𝑜𝑟(𝑎 < 0, 𝑎 > 𝑏) ⟹ 1
𝑥𝑜𝑟(𝑎 < 0, 𝑎 < 𝑏) ⟹ 0
Il passo in MATLAB è di default settato pari ad uno, pertanto nel caso in cui si voglia
creare un vettore del tipo:
𝑎 = [0: 10]
Automaticamente verrà fuori un vettore di undici elementi del tipo:
𝑎 = 0,1,2,3,4,5,6,7,8,9,10
Se si vuole scegliere un passo differente lo si deve specificare (nell’esempio
seguente si sceglie come passo 0.1):
𝑏 = [0: 0.1: 1]
In tal caso il vettore che viene fuori è:
𝑏 = 0.0, 0.1, 0.2, 0.3, 0.4, 0.5, 0.6, 0.7, 0.8, 0.9, 1.0
Con il comando find è possibile trovare la posizione di un certo elemento desiderato
all’interno di un dato vettore. È necessario tuttavia stare attenti a come si impostano
le cose:
𝑎 = [0: 0.1: 1]
Come già visto il vettore che viene fuori in questo caso sarà:
𝑎 = 0.0, 0.1, 0.2, 0.3, 0.4, 0.5, 0.6, 0.7, 0.8, 0.9, 1.0
Nel momento in cui si vuole ricercare la posizione dell’elemento 0.3 all’interno del
vettore è possibile ragionare come segue:
𝑡𝑜𝑙𝑙𝑒𝑟𝑎𝑛𝑧𝑎 = 0.1
𝑖 = 𝑓𝑖𝑛𝑑 (𝑎𝑏𝑠(𝑎 − 0.3) < 𝑡𝑜𝑙𝑙𝑒𝑟𝑎𝑛𝑧𝑎)
Tuttavia in questo caso verranno fuori ben due valori giacché la tolleranza scelta è
troppo ampia:
𝑖 = 3,4
Per evitare problemi di questo tipo basta ridurre la tolleranza:
𝑡𝑜𝑙𝑙𝑒𝑟𝑎𝑛𝑧𝑎 = 0.09
𝑖 = 𝑓𝑖𝑛𝑑 (𝑎𝑏𝑠(𝑎 − 0.3) < 𝑡𝑜𝑙𝑙𝑒𝑟𝑎𝑛𝑧𝑎) ⟹ 𝑖 = 4
È anche possibile creare un vettore con elementi equispaziati attraverso il comando
linspace:
𝑎 = 𝑙𝑖𝑛𝑠𝑝𝑎𝑐𝑒 (0,1,11)

138
Le strutture fondamentali in MATLAB sono tre:
 Struttura if-then-else:
o If condizione
o Istruzioni
o Elseif condizione
o Istruzioni
o Else condizione
o Istruzioni
o Else: condizione
o Istruzioni
o End
 Struttura iterativa for:
o For i=1:n
o Istruzioni
o End
 Struttura iterativa while:
o While condizione
o Istruzioni
o End
Attraverso l’utilizzo di una struttura iterativa for, è possibile calcolare, per esempio,
l’approssimazione al quinto ordine della funzione coseno utilizzando lo sviluppo in
serie di Mc-Laurin:

Figura 95

È possibile creare una funzione del tipo 𝑦(𝑡 ) = 𝑡 2 sia utilizzando un ciclo for, sia
utilizzando il calcolo vettoriale; nel caso in cui si utilizza un ciclo for si utilizza la
seguente struttura:

Figura 96

Utilizzando invece il calcolo vettoriale si ha una maggiore snellezza, come


evidenziato dalla figura seguente (minore tempo di calcolo):

139
Figura 97

Il minore tempo di calcolo può essere evidenziato con la struttura tic-toc


(anteponendo il tic e post-ponendo il toc).
È anche possibile creare delle function anziché creare uno script semplice in modo
da poterla utilizzare all’occorrenza richiamandola semplicemente nel programma che
si sta scrivendo (diventa come se fosse una funzione built-in richiamata
all’occorrenza). Per quanto riguarda il calcolo del coseno utilizzando lo sviluppo di
Mc-Laurin ad esempio si ha un qualcosa di questo tipo:

Figura 98

La function in uscita fornirà 𝑡 = 𝑥 e 𝑦, avendo in ingresso il valore di 𝑥. In questo


modo nell’editor è possibile creare un vettore 𝑥, richiamare la funzione ed ottenere
quanto desiderato.
Un'altra funzione molto interessante che MATLAB mette a disposizione è lo switch.
Si immagini di creare una funzione che permette di estrarre dai primi 100 numeri
(𝑛 ≤ 100) i multipli e i non multipli di una base assegnata (per esempio per una base
2):

Figura 99
140
Lo switch funziona come se fosse un interruttore: se c’è una certa condizione si
impone una determinata cosa, mentre se si verifica l'altra condizione si fa un
qualcos’altro (esso mette a disposizione anche più di due casi, quindi non è detto
che si debba lavorare per forza su condizioni del tipo ON/OFF). Per isolare multipli e
non multipli in tal caso si utilizza la funzione rem per capire se c’è un resto oppure
no: nel caso in cui non c’è resto (case 1) allora quel numero sarà un multiplo altrimenti
no (case 0). Si ricordi che in generale è necessario inizializzare i vettori attraverso il
vettore vuoto:
𝑚𝑢𝑙𝑡𝑖𝑝𝑙𝑖 = [ ];
𝑛𝑜𝑛_𝑚𝑢𝑙𝑡𝑖𝑝𝑙𝑖 [ ]
Inizialmente di fatto i vettori sono entrambi vuoti e man mano vengono riempiti (fino
a che non si arriva ad analizzare appunto i primi 100 numeri).
È possibile inoltre anche trasferire dei dati da MATLAB a Excel o viceversa con i
comandi xlswrite e xlsread.

141
Lezione 13 (Pianese) 28/03/2017
Motori alternativi a combustione interna: sistemi di aspirazione e scarico
Nel passaggio dal ciclo ideale (ad esempio ciclo Otto) al ciclo limite si ha una
riduzione sensibile del rendimento che può passare da livelli intorno al 60 % − 70 %
(ciclo ideale Otto) fino a valori prossimi al 40 % − 45 % (ciclo limite). Tale riduzione è
dovuta al ciclo stesso, il quale consta anche di una parte di pompaggio (ciclo di bassa
pressione) che richiede del lavoro dal sistema per ricambiare la carica. Più
specificatamente si passa dal rendimento ideale che ha un valore molto elevato, al
rendimento limite del ciclo non tenendo conto però del ricambio della carica e della
dissociazione, al rendimento limite con dissociazione fino ad arrivare al rendimento
limite con dissociazione ricambio della carica che ha un valore certamente inferiore
rispetto ai precedenti. In particolare nel ciclo Otto reale, il rilascio del calore non
avviene più ad elevata temperatura, ma parte con un certo anticipo e finisce con un
certo ritardo, risultando più o meno centrato intorno al punto morto superiore; il calore
non viene rilasciato alla massima temperatura possibile e dunque a volume costante,
ma viene rilasciato in un intervallo angolare (o di volumi) che corrisponde all’angolo
compreso tra l’inizio e la fine della combustione; a ciò si aggiunge il fatto che ci sono
inoltre fenomeni di dissociazione (fenomeni chimici). In particolare quando si passa
al rendimento indicato esso assume valori dell’ordine del 30 % − 40 %. Su alcuni
sistemi di propulsione, per esempio su camion con motori di elevata potenza ed
elevata cilindrata, i rendimenti arrivano anche intorno al 50 % grazie alla
sovralimentazione e particolari sistemi di gestione e controllo: sulle vetture invece i
valori sono più bassi. Passando dal rendimento indicato al rendimento reale è
necessario tenere conto anche del rendimento meccanico che porta via un altro
5 % − 10 % a seconda delle condizioni e a seconda se si considera anche la parte
organica (nel qual caso si parla di rendimento organico) ovvero l’energia assorbita
dagli ausiliari; in particolare il rendimento meccanico è legato agli attriti (moto del
pistone all’interno del cilindro, cuscinetti, …), ma il motore reale per funzionare ha
bisogno di energia meccanica per azionare un alternatore, una pompa dell’olio, una
pompa dell’acqua, le valvole, il condizionatore, il servosterzo, il servofreno, …. In
ogni caso nel passaggio dal rendimento ideale al rendimento indicato si tiene conto
della combustione e del ricambio della carica. Per quanto detto esistono dunque delle
fasi in cui il motore dovrà spendere energia per aspirare l’aria esterna e per espellere
i gas combusti. Se si realizzasse una macchina esterna per spingere l’aria all’interno
del motore, il pistone non dovrebbe compiere nessuno sforzo per aspirare l’aria
perché essa verrebbe pompata direttamente dall’esterno (lo stesso discorso vale per
lo scarico nel caso in cui si utilizzasse un sistema che aspira dall’esterno i gas di
scarico); in tal caso non si avrebbe un’influenza energetica del fenomeno di ricambio
della carica sul bilancio complessivo del motore: tuttavia nei motori attualmente
esistenti questa cosa non esiste e pertanto è necessario tenere conto del ciclo di
bassa pressione.

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Riassumendo, con la combustione e la termochimica si analizza il processo di
energizzazione della carica, mentre con lo studio dei sistemi di aspirazione e scarico
si tiene conto dei fenomeni che avvengono nel ciclo di bassa pressione.
Di seguito viene riportato, a titolo di esempio, il ciclo di alta pressione di un motore a
ciclo Otto, con riferimento al caso ideale (ciclo in nero) e al caso più realistico (ciclo
in blu) in cui si considera il fatto che la combustione non avviene istantaneamente,
ma occupa un certo intervallo angolare:

Figura 100

Il ciclo di bassa pressione nella rappresentazione ideale o limite è un qualcosa di


squadrato: apertura dello scarico al punto morto inferiore, risalita del pistone con
espulsione dei gas di scarico, fase istantanea di incrocio tra le valvole di aspirazione
e scarico, aspirazione della carica fresca con discesa del pistone al punto morto
inferiore.

Figura 101

143
Nella realtà invece il ciclo risulta essere più arrotondato; in tal caso il lavoro positivo
si riduce, mentre il lavoro negativo aumenta rispetto al caso ideale. Quindi nel
passaggio dal ciclo ideale/limite al ciclo reale dal punto di vista di lavoro utile si ha
una riduzione:
𝐿𝑢 = 𝐿+ + 𝐿− = 𝐿𝑎 + 𝐿𝑝

𝐿𝑢 = 𝑙𝑎𝑣𝑜𝑟𝑜 𝑢𝑡𝑖𝑙𝑒
𝐿𝑎 = 𝑙𝑎𝑣𝑜𝑟𝑜 𝑎𝑡𝑡𝑖𝑣𝑜 (𝑝𝑜𝑠𝑖𝑡𝑖𝑣𝑜)
𝐿𝑝 = 𝑙𝑎𝑣𝑜𝑟𝑜 𝑝𝑎𝑠𝑠𝑖𝑣𝑜 𝑜 𝑑𝑖 𝑝𝑜𝑚𝑝𝑎𝑔𝑔𝑖𝑜 (𝑛𝑒𝑔𝑎𝑡𝑖𝑣𝑜)
A titolo di esempio di seguito è tracciato il ciclo indicato di pressione (ciclo misurato,
ovvero ciclo reale):

Figura 102

Il lavoro di pompaggio, nel caso di motore aspirato, è negativo, pertanto il lavoro utile
si riduce. Nel caso di motore sovralimentato, il lavoro di pompaggio può essere
positivo giacché il ciclo di bassa pressione invece di essere percorso in verso
antiorario, viene percorso in verso orario. Infatti in termini analitici il lavoro utile è dato
dall’integrale sul ciclo (chiuso) di 𝑝𝑑𝑉:

𝐿 = ∮ 𝑝𝑑𝑉

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Quando l’integrale ciclico viene percorso in verso orario dà un risultato positivo (ciclo
di alta pressione), mentre quando viene percorso in verso antiorario (ciclo di bassa
pressione nel caso di motore aspirato) dà un risultato negativo.
Nei motori sovralimentati per il fatto stesso di avere una pressione all’aspirazione
maggiore della pressione allo scarico (la quale a sua volta è leggermente più alta di
quella ambiente), il ciclo di bassa pressione viene percorso in verso orario e dunque
il lavoro di pompaggio sarà positivo per cui:
𝐿𝑝 < 0 𝑚𝑜𝑡𝑜𝑟𝑒 𝑎𝑠𝑝𝑖𝑟𝑎𝑡𝑜
𝐿𝑝 > 0 𝑚𝑜𝑡𝑜𝑟𝑒 𝑠𝑜𝑣𝑟𝑎𝑙𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑎𝑡𝑜
Il rendimento di un motore a combustione interna, come è noto, può essere espresso
attraverso il rapporto tra il lavoro utile e la quantità di calore fornita. Come anticipato,
lavoro utile si riduce a causa del ricambio della carica nel caso di motore aspirato,
mentre nel caso della sovralimentazione grazie al lavoro di pompaggio positivo si
riesce a compensare l’effetto di riduzione del rendimento dovuto alla combustione,
alle perdite di calore verso l’esterno (nel ciclo reale la macchina non è adiabatica),
….
Si tenga presente che negli anni ′20 − ′30 i motori venivano progettati in modo da
ridurre il più possibile le perdite di calore verso l’esterno e le teste dei cilindri erano
tutte emisferiche (la sfera ha il maggior rapporto massa/superficie: massa vuol dire
energia, mentre superficie vuol dire scambio termico, dunque ridurre le superfici era
uno degli obiettivi al fine di ridurre lo scambio termico); tali criteri oggi vengono
mantenuti nella progettazione di grandi motori navali che sono caratterizzati dal fatto
di essere dei motori lenti e dunque è più facile l’instaurarsi dello scambio termico tra
fluido e pareti; invece, nei motori da competizione, come quelli della Formula 1, le
teste e i pistoni sono realizzate con un numero elevato di spigoli, cosa che va
ampiamente a svantaggio dello scambio termico (nelle punte il calore si concentra
maggiormente e dunque lo scambio termico aumenta), ma in tal caso considerando
l’elevato regime di giri lo scambio termico esiste ma non è eccessivo: pertanto si
compensa una geometria non ottimizzata secondo i canoni classici col fatto che si
hanno esaltazioni da altri punti di vista (velocità del fronte di fiamma particolarmente
elevate dovute anche al fatto che si utilizza una benzina di sintesi realizzata in
laboratorio: non è la classica benzina che proviene dalle raffinerie e che
comunemente viene utilizzata sulle autovetture convenzionali).
Oggigiorno progettazione e controllo del motore sono due fasi fondamentali. Si tenga
presente che il motore Diesel alla fine della seconda metà degli anni ′90 era dato per
spacciato e non poteva competere con gli altri tipi di motore, per il problema delle
elevate emissioni e delle scarse prestazioni; l’avvento del controllo elettronico (il che
stabilisce come fare le cose e quando farle) ha comportato un notevole sviluppo da
questo punto di vista ed ancora oggigiorno la metà delle autovetture vendute sono
equipaggiate da un motore Diesel.
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In generale nel passaggio al ciclo reale, si introducono i seguenti effetti:
 Fluido reale: effetti di viscosità.
 Scambio termico tra pereti del cilindro e fluido: le perdite di calore verso
l’esterno comportano un raffreddamento del fluido determinando una riduzione
del rendimento.
 Anticipo rispetto al punto morto superiore:
o Accensione (0° − 45°) per il ciclo Otto .
o Iniezione rispetto al punto morto superiore per il ciclo Diesel.
 Combustione: impegna un intervallo angolare finito (relativamente ampio), in
prima approssimazione centrato attorno al punto morto superiore.
 Apertura della valvola di scarico prima del punto morto inferiore (35° − 60°):
per ridurre la contropressione nella fase di scarico forzato.
 Chiusura della valvola di scarico dopo il punto morto superiore (5° − 20°): per
migliorare lo svuotamento del cilindro.
 Apertura della valvola di aspirazione prima del punto morto superiore (5° −
20°): per migliorare il riempimento del cilindro.
 Chiusura della valvola di aspirazione dopo il punto morto inferiore (20° − 50°):
per sfruttrare la sovrappressione dinamica nel collettore di aspirazione e
migliorare il riempimento.
Si faccia riferimento alla seguente figura in cui viene riportato il ciclo ideale/limite:

Figura 103

Nella fase 4 − 5 il pistone si trova al punto morto inferiore, la valvola di scarico è


aperta, mentre quella di aspirazione è chiusa; il gas è ad una pressione più elevata
rispetto all’ambiente esterno e dunque esso tende a fuoriuscire. Nel momento in cui
si è equilibrata la pressione rispetto all’ambiente esterno il pistone inizia a salire e
spinge il gas all’esterno (funzionamento ideale: scarico forzato). In un sistema in cui
non c’è viscosità, non c’è attrito all’interno del fluido e dunque le trasformazioni sono
reversibili; inoltre l’ipotesi di assenza di attrito, comporta il fatto che non c’è attrito
nemmeno attraverso le valvole ed i condotti per cui è possibile immaginare che la
pressione nel punto 6 (fine scarico) sia pari a quella ambiente. Se invece c’è
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viscosità, nella fase di scarico, quando il pistone inizia a salire spingendo il fluido, si
genera una sovrappressione: la pressione all’interno del cilindro è maggiore di quella
ambiente; tale sovrappressione sarà tanto maggiore quanto maggiori sono le perdite
attraverso il condotto di scarico. È evidente che nella zona in cui si ha la massima
velocità del pistone si ha anche la maggiore velocità dell’aria e dunque maggiori
perdite fluidodinamiche e pertanto maggiore incremento di pressione. Analogamente
in fase di aspirazione, nel caso reale, il pistone scende a partire dal punto morto
superiore creando una depressione sempre a causa della viscosità. Quindi la
presenza della viscosità determina il fatto che il ciclo sia un po’ più arrotondato
proprio a causa delle perdite di carico e non avrà una forma squadrata come ne caso
ideale:

Figura 104

Si tenga presente che il rendimento dà informazioni riguardo a quanto costa generare


una data potenza, mentre la potenza dà informazioni riguardo a quanto costa il
sistema in termini di dimensioni e dunque di peso (la qual cosa è direttamente legata
al costo del sistema).
Di seguito viene riportata una rappresentazione del sistema pistone cilindro di un
motore alternativo a combustione interna:

147
Figura 105

L’apertura della valvola allo scarico avviene 35° − 60° prima del punto morto inferiore
perché ciò riduce la contropressione allo scarico. Aprendo la valvola di scarico al
punto morto inferiore in fase di risalita si avrebbe una contropressione che è quella
indicata nella figura seguente (ciclo in nero): in tal caso il fluido viene pompato fuori
proprio a partire dalla pressione nel punto morto inferiore.

Figura 106

Anticipare l’apertura della valvola di scarico comporta una riduzione della pressione
la quale al punto morto inferiore assume un valore minore (ciclo in rosso).
Ovviamente siccome il lavoro è dato dall’integrale chiuso di 𝑝𝑑𝑉 quanto maggiore
sarà la pressione tanto maggiore risulterà il lavoro: pertanto nel ciclo riportato in nero
il lavoro di pompaggio sarà più elevato. Tuttavia nel caso in cui la valvola di scarico
viene aperta in anticipo, si rinuncia ad un tratto di espansione il che comporta una
diminuzione del lavoro positivo, ma nel contempo si riduce anche il lavoro di
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pompaggio giacché la pressione risulta ridotta: questi due fenomeni tendono in
qualche modo a bilanciarsi avendo un lavoro utile pressoché invariato. D’altro canto
poiché l’azionamento della valvola non è istantaneo, ma è ottenuto attraverso una
camma, anticipando l’apertura della valvola stessa la si riesce a tenere
completamente aperta (sezione di passaggio massima) nel momento in cui serve
ovvero durante la fase di risalita del pistone. In realtà esistono anche sistemi di
attuazione elettrica delle valvole, che tuttavia sono ancora in fase di studio (ciò
permetterebbe un’apertura della valvola in tempi notevolmente ridotti).
La chiusura della valvola di scarico avviene dopo il punto morto superiore tra i 5° e i
20°; questo favorisce lo svuotamento del cilindro anche perché si riescono a sfruttare
effetti dinamici nel condotto di scarico: il condotto tende a richiamare a sé i gas di
scarico che sono all’interno del cilindro avendo un miglioramento dello svuotamento
dello stesso.
Inoltre, l’apertura della valvola di aspirazione avviene prima del punto morto
superiore; in tal caso si ha la cosiddetta fase di incrocio intorno al punto morto
superiore in cui contemporaneamente sono aperte la valvola di aspirazione e la
valvola di scarico. Dato che l’apertura della valvola non è istantanea si inizia ad
aprirla prima in modo da far sì che durante la fase di discesa del pistone essa risulti
sia completamente aperta, migliorando l’aspirazione.
In vetture particolarmente veloci gli incroci sono molto elevati, mentre in vetture più
lente gli incroci sono più bassi (c’è anche un problema legato ai tempi caratteristici).
Infine, la valvola di aspirazione si chiude in ritardo perché bisogna fare in modo che
durante tutta l’aspirazione la valvola sia più aperta possibile e dunque la fase di
chiusura della valvola avviene durante la risalita del pistone; in tal modo si riescono
anche a sfruttare gli effetti dinamici all’interno del collettore di aspirazione (effetti
d’onda) che saranno analizzati successivamente.
In figura viene riportato il diagramma polare di un motore a ciclo Otto (a sinistra) e di
un motore a ciclo Diesel (a destra) con le relative fasi e i vari anticipi di
apertura/chiusura delle valvole di aspirazione/scarico. Nel caso del motore a ciclo
Otto, viene riportata la fase di aspirazione con anticipo di apertura della valvola, la
chiusura in ritardo della valvola di aspirazione, la fase di compressione fino
all’anticipo all’accensione, la combustione a cavallo del punto morto superiore,
l’espansione, l’apertura della valvola di scarico e poi la chiusura della valvola stessa
in una fase in cui si ha un certo intervallo angolare con le due valvole completamente
aperte. Nel caso del motore Diesel il discorso non è molto diverso, sebbene gli effetti
siano un po’ più estremizzati soprattutto per quanto riguarda le fasi di incrocio delle
valvole. In effetti nel caso del motore ad accensione comandata ad iniezione indiretta
(motore a ciclo Otto), l’aria viene premiscelata col combustibile, mentre nei motori a
ciclo Diesel in ingresso viene aspirata solo aria; nella fase di incrocio ci potrebbero
essere delle fuoriuscite di gas aspirato verso il collettore di scarico: se ciò accadesse
per un motore ad accensione comandata in uscita si perderebbe anche una certa
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quantità di combustibile oltre all’aria, mentre nel caso del motore Diesel si
perderebbe solo aria.

Figura 107

Di seguito viene riportato un confronto tra ciclo ideale e ciclo reale sul piano
pressione-volume:

Figura 108

Nella figura seguente viene riassunto brevemente, quanto detto con riferimento l ciclo
di alta pressione e al ciclo di bassa pressione:

150
Figura 109

Nella figura sottostante viene riportato come varia il ciclo sul piano pressione-volume
in funzione dell’angolo di anticipo (a sinistra) ed il ciclo di pressione in funzione
dell’angolo di manovella (a destra):

Figura 110

Il coefficiente di riempimento (o rendimento volumetrico) è uno degli indici più


importanti che caratterizza il motore. Il coefficiente di riempimento è una misura della
capacità di “respirare” del motore: più è elevato il coefficiente di riempimento
maggiore è la capacità di aspirare aria. L’obiettivo all’interno del motore è quello di

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massimizzare la coppia, ovvero la potenza, fissata che sia la cilindrata, o anche
massimizzare il rendimento: l’elevata potenza conferisce elevate prestazioni, mentre
un alto rendimento assicura bassi consumi. Fissata una certa quantità di aria,
giacché la combustione avviene solo per determinate valori del rapporto di miscela,
è necessario che nel motore entri una quantità di combustibile tale da garantire la
combustione stessa della miscela realizzata: tale quantità può variare entro un certo
range comunque abbastanza ristretto. È evidente che la quantità di energia che è
possibile convertire in calore, dipende dalla massa di combustibile iniettata la quale
è limitata dal rapporto di miscela e di conseguenza essa dipende dalla massa di aria.
Pertanto aspirare più aria significa implicitamente utilizzare più combustibile dunque
avere più calore disponibile per la successiva conversione in lavoro. Quindi il sistema
di aspirazione e scarico riveste una notevole importanza in quanto ha un peso sulle
prestazioni: esso influenza la forma della curva coppia la quale deve presentare un
massimo a regimi di giri elevati per motori montati su autovetture sportive e un
massimo a bassi regimi di giri per motori di autovetture utilitarie (maggiore stabilità).
La curva di coppia in massima parte dipende dal coefficiente di riempimento
volumetrico che ne influenza notevolmente la forma.
Il coefficiente di riempimento o rendimento volumetrico è il rapporto tra la densità
dell’aria nel cilindro (al termine della fase di aspirazione) e la densità dell’aria in
condizioni ambiente:
𝜌𝑐
𝜆𝑣 =
𝜌0
Nel caso in cui il coefficiente di riempimento fosse unitario non si avrebbero perdite
di carico. Nella realtà giacché l’aria a partire dall’ambiente esterno passerà attraverso
un condotto, ci saranno delle perdite di carico nel condotto stesso ed attraverso la
valvola, per cui la densità tenderà a ridursi. La riduzione di densità è anche dovuta
al fatto che l’aria che attraversa il condotto tenderà a riscaldarsi per effetto dello
scambio termico con le pareti, ma anche per effetto dello scambio termico con i gas
residui intrappolati all’interno del cilindro. Inoltre i gas residui rubano una parte dello
spazio alla carica fresca. Alla per tutti questi motivi la densità dell’aria all’interno del
cilindro sarà minore rispetto alla densità dell’aria ambiente.
Il coefficiente di riempimento può essere anche espresso come rapporto tra la massa
d’aria effettivamente aspirata e la massa teorica: tale caratterizzazione risulta essere
più pratica giacché la massa d’aria è direttamente collegata con la massa di
combustibile.
Per quanto detto il coefficiente di riempimento è in genere minore di uno per motori
aspirati, mentre per motori sovralimentati esso assume valori superiori all’unità. In
generale esso può essere leggermente superiore ad uno anche nei motori aspirati
(da competizione), sfruttando gli effetti di risonanza (effetti dinamici) nel collettore di
aspirazione. Nel caso dei motori ad accensione comandata, il coefficiente di
riempimento è legato alla regolazione della valvola a farfalla (è utilizzato come
152
variabile di regolazione della potenza tramite la valvola a farfalla la quale determina
evidentemente una perdita di carico a seconda del grado di apertura).
Il coefficiente di riempimento può essere riscritto appunto come rapporto tra la massa
totale aspirata e quella teorica (è possibile ragionare equivalentemente sulle portate
anche perché sperimentalmente si misurano queste ultime, mentre le masse sono
delle misure derivate):
𝑚𝑡𝑜𝑡𝑎𝑙𝑒 𝑚𝑡
𝜆𝑣 = =
𝑚𝑡𝑒𝑜𝑟𝑖𝑐𝑎 𝜌0 ∙ 𝑉
Dove:
𝑚𝑡 = 𝑚𝑎𝑠𝑠𝑎 𝑡𝑜𝑡𝑎𝑙𝑒 (𝑚𝑎𝑠𝑠𝑎 𝑑𝑖 𝑎𝑟𝑖𝑎 𝑎𝑠𝑝𝑖𝑟𝑎𝑡𝑎 )
𝜌0 = 𝑑𝑒𝑛𝑠𝑖𝑡à 𝑑𝑒𝑙𝑙′ 𝑎𝑟𝑖𝑎 𝑎𝑚𝑏𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒
𝑉 = 𝑐𝑖𝑙𝑖𝑛𝑑𝑟𝑎𝑡𝑎
𝜌 = 𝑑𝑒𝑛𝑠𝑖𝑡à 𝑒𝑓𝑓𝑒𝑡𝑡𝑖𝑣𝑎 𝑛𝑒𝑙 𝑐𝑖𝑙𝑖𝑛𝑑𝑟𝑜
È possibile inoltre riscrivere la relazione nel seguente modo:
𝜌 𝑉∗
𝜆𝑣 = ∙
𝜌0 𝑉
Dove:
𝑉 ∗ = 𝑣𝑜𝑢𝑚𝑒 𝑖𝑛𝑖𝑧𝑖𝑎𝑙𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑑𝑖𝑠𝑝𝑜𝑛𝑖𝑏𝑖𝑙𝑒 𝑝𝑒𝑟 𝑖𝑙 𝑓𝑙𝑢𝑖𝑑𝑜
È possibile caratterizzare la grandezza 𝑉 ∗ da un punto di vista fisico ragionando sullo
schema pistone-cilindro:

Figura 111

153
Dove:
𝑉 = 𝑐𝑖𝑙𝑖𝑛𝑑𝑟𝑎𝑡𝑎
𝑉𝑟 = 𝑣𝑜𝑙𝑢𝑚𝑒 𝑟𝑒𝑠𝑖𝑑𝑢𝑜
𝑉 ′ = 𝑣𝑜𝑙𝑢𝑚𝑒 𝑟𝑖𝑑𝑜𝑡𝑡𝑜 𝑡𝑒𝑛𝑒𝑛𝑑𝑜 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑐ℎ𝑖𝑢𝑠𝑢𝑟𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑣𝑎𝑙𝑣𝑜𝑙𝑎 𝑑𝑖 𝑎𝑠𝑝𝑖𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒
La fase di aspirazione termina quando il pistone già sta salendo e dunque il volume
effettivamente a disposizione non è tutta la cilindrata 𝑉 ma è 𝑉 ′ che tiene conto del
momento in cui la valvola di aspirazione viene chiusa. In realtà però nel momento in
cui si apre la valvola di aspirazione e il pistone scende, i gas residui che si trovano
ad una pressione più elevata dell’aria esterna espandono e dunque la prima parte
della corsa è dedicata a questo: pertanto il volume effettivamente riempito (volume
inizialmente disponibile per il fluido, è ancora più piccolo ed è pari a 𝑉 ∗ . Quindi per
quanto detto risulta:
𝑉∗
< 1 ⟹ 𝑉∗ < 𝑉
𝑉
La relazione su scritta vale in assenza di incrocio tra volume aspirato e scarico poiché
la compressione inizia dopo il punto morto inferiore. In tal caso, non si considerano
cioè eventuali effetti benefici derivanti dal richiamo dei gas freschi per effetto della
dinamica nel collettore di scarico.
Viceversa può esserci una fase in cui risulta:
𝑉∗
> 1 ⟹ 𝑉∗ > 𝑉
𝑉
In questo caso il volume effettivamente riempito risulta maggiore della cilindrata; ciò
accade nel caso del lavaggio totale. Ad esempio nei motori navali esiste una pompa
di lavaggio esterna (motore due tempi) che è in grado di ripulire tutti i gas residui.
Anche in presenza di sovralimentazione, la pressione all’aspirazione è maggiore di
quella allo scarico e dunque si potrebbe ripulire meglio il volume morto.
È evidente peraltro che:
𝜌
< 1 𝑚𝑜𝑡𝑜𝑟𝑒 𝑎𝑠𝑝𝑖𝑟𝑎𝑡𝑜
𝜌0
𝜌
> 1 𝑚𝑜𝑡𝑜𝑟𝑒 𝑠𝑜𝑣𝑟𝑎𝑙𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑎𝑡𝑜
𝜌0
Nel caso dei motori sovralimentati si ha:
𝑉 + 𝑉𝑟
𝜌𝑐 =
𝑉𝑟
Dove:
𝜌𝑐 = 𝑟𝑎𝑝𝑝𝑜𝑟𝑡𝑜 𝑣𝑜𝑙𝑢𝑚𝑒𝑡𝑟𝑖𝑐𝑜 𝑑𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒
154
Per cui si avrà:
𝑉 + 𝑉𝑟 𝑉𝑟 1
𝜌𝑐 = ⟹ 𝑉𝑟 ∙ 𝜌𝑐 = 𝑉 + 𝑉𝑟 ⟹ 𝑉𝑟 ∙ (𝜌𝑐 − 1) = 𝑉 ⟹ =
𝑉𝑟 𝑉 𝜌𝑐 − 1
Più elevato è il rapporto di compressione, minore sarà il volume residuo: ciò comporta
un effetto benefico, giacché i gas residui occuperanno meno spazio a seguito
dell’espansione.
Considerando dunque, sempre nel caso dei motori sovralimentati il rapporto 𝑉 ∗ /𝑉 si
avrà:
𝑉∗ 𝑉 + 𝑉𝑟 𝑉𝑟 1 𝜌𝑐
≃ =1+ =1+ =
𝑉 𝑉 𝑉 𝜌𝑐 − 1 𝜌𝑐 − 1
Nei motori sovralimentati quindi si riesce ad occupare anche lo spazio morto: di fatto
la frazione scritta precedentemente dà come risultato certamente un numero
maggiore di uno e pertanto risulterà ovviamente 𝑉 ∗ > 𝑉.
Per esempio per un motore Diesel supposto 𝜌𝑐 = 20 si avrà:
𝑉∗ 𝜌𝑐 20
= = = 1.053
𝑉 𝜌𝑐 − 1 19
Mentre nel caso del motore benzina supposto 𝜌𝑐 = 10 si avrà:
𝑉∗ 𝜌𝑐 10
= = = 1.11 ⟹ 𝑒𝑓𝑓𝑒𝑡𝑡𝑜 𝑝𝑖ù 𝑚𝑎𝑟𝑐𝑎𝑡𝑜
𝑉 𝜌𝑐 − 1 9
Ovviamente nel caso della sovralimentazione, la pressione all’aspirazione è
maggiore della pressione allo scarico, dunque nella fase di ricambio della carica,
soprattutto nella fase di incrocio delle valvole, si avrà un flusso che tenderà a portare
il gas aspirato dall’altra parte e dunque a ripulire il volume morto e nell’ipotesi in cui
esso sia pulito completamente (lavaggio totale) si arriva al risultato precedentemente
descritto. Quindi se la sovralimentazione consente di ripulire tutta la camera il
rapporto tra il volume effettivamente aspirato 𝑉 ∗ e la cilindrata è maggiore di uno. In
ogni caso il miglioramento nel caso del motore benzina è circa del 10 % (nel motore
Diesel l’effetto è meno marcato).
È possibile eseguire un’analisi teorica semplificata assumendo:
 Processo adiabatico: il fluido non scambia calore
 Adduzione di calore istantanea (𝛥𝑇 = 𝑇𝑟 − 𝑇0 )
 Pressione costante durante il moto del pistone (durante tutta la fase di
aspirazione)
 Variazione di pressione a pressione fermo
Il risultato cui si arriva sotto queste ipotesi è il seguente:

155
𝑃1 𝑉1 𝛥𝑇 𝑃𝑟 1
𝜆𝑣 = ∙ ∙ (1 − ) − ∙
𝑃𝑚 𝑉 𝑇𝑚 𝑃𝑚 𝜌𝑐 − 1
Dove:
𝑃1 = 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑛𝑒𝑙 𝑝𝑢𝑛𝑡𝑜 𝑖𝑛 𝑐𝑢𝑖 𝑣𝑖𝑒𝑛𝑒 𝑐ℎ𝑖𝑢𝑠𝑎 𝑙𝑎 𝑣𝑎𝑙𝑣𝑜𝑙𝑎 𝑑𝑖 𝑎𝑠𝑝𝑖𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒
𝑃𝑚 = 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑛𝑒𝑙 𝑐𝑜𝑙𝑙𝑒𝑡𝑡𝑜𝑟𝑒 𝑑𝑖 𝑎𝑠𝑝𝑖𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 (𝑚𝑎𝑛𝑖𝑓𝑜𝑙𝑑 )
𝑉1 = 𝑣𝑜𝑙𝑢𝑚𝑒 𝑐𝑜𝑠𝑟𝑟𝑖𝑠𝑝𝑜𝑛𝑑𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑎𝑙 𝑝𝑢𝑛𝑡𝑜 𝑖𝑛 𝑐𝑢𝑖 𝑣𝑖𝑒𝑛𝑒 𝑐ℎ𝑖𝑢𝑠𝑎 𝑙𝑎 𝑣𝑎𝑙𝑣𝑜𝑙𝑎 𝑑𝑖 𝑎𝑠𝑝𝑖𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒
𝑉 = 𝑐𝑖𝑙𝑖𝑛𝑑𝑟𝑎𝑡𝑎
𝛥𝑇 = 𝑇𝑟 − 𝑇0 (𝑣𝑎𝑟𝑖𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑒𝑟𝑎𝑡𝑢𝑟𝑎 )
𝑇𝑚 = 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑒𝑟𝑎𝑡𝑢𝑟𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙′ 𝑎𝑟𝑖𝑎 𝑛𝑒𝑙 𝑐𝑜𝑙𝑙𝑒𝑡𝑡𝑜𝑟𝑒 𝑑𝑖 𝑎𝑠𝑝𝑖𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒
𝑃𝑟 = 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑖 𝑟𝑒𝑠𝑖𝑑𝑢𝑖 (𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑎𝑙𝑙𝑜 𝑠𝑐𝑎𝑟𝑖𝑐𝑜)
𝜌𝑐 = 𝑟𝑎𝑝𝑝𝑜𝑟𝑡𝑜 𝑣𝑜𝑙𝑢𝑚𝑒𝑡𝑟𝑖𝑐𝑜 𝑑𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒

Figura 112

𝑃1
Il rapporto < 1 ha un peso molto elevato in quanto è legato alla strozzatura (perdite
𝑃𝑚
𝑉1
di carico) nei diversi passaggi. Il rapporto < 1 è legato agli effetti di fasatura (la
𝑉
valvola di aspirazione viene chiusa dopo il punto morto inferiore) che è compensata
dagli effetti dinamici (𝑉1 < 𝑉𝑚𝑜𝑟𝑡𝑜 + 𝑉, tranne nel caso in cui si riesca a fare un
lavaggio totale).

Figura 113
156
Se non ci fosse variazione di temperatura (sistema adiabatico) risulterebbe 𝛥𝑇 = 0 e
il coefficiente di riempimento sarebbe influenzato solo da effetti di pressione e di
cilindrata. Nel caso in cui invece tale variazione di temperatura è non nulla tanto
𝛥𝑇
maggiore sarà il suo valore tanto maggiore sarà la riduzione del termine 1 − (è
𝑇𝑚
evidente che risulta 𝛥𝑇 < 𝑇𝑚 ) il che comporta un abbassamento del coefficiente di
riempimento. Pertanto nel primo termine del 𝜆𝑣 ci sono tre effetti: la perdita
fluidodinamica dovuta all’attrito (𝑃1 /𝑃𝑚 ), l’effetto di riempimento (𝑉1 /𝑉) e l’effetto
termico legato al riscaldamento della carica (1 − 𝛥𝑇/𝑇𝑚 ). Ovviamente nel 𝛥𝑇 sono
racchiusi tutti gli effetti di tipo termico, tenendo conto del mescolamento dell’aria con
i gas residui, dello scambio termico tra aria e pareti del collettore di aspirazione e del
riscaldamento della carica all’interno del cilindro.
L’altro effetto sul coefficiente di riempimento è dato dal secondo termine in cui
𝑃
compare il rapporto 𝑟 > 1 in quanto i residui si trovano ad una pressione maggiore.
𝑃𝑚
Si ragioni sul ciclo ideale tenendo conto parte di bassa pressione:

Figura 114

Siccome la pressione dei gas residui è maggiore della pressione all’aspirazione essi
tendono ad espandere e a dirigersi verso l’aspirazione stessa. Il fattore 𝑃𝑟 /𝑃𝑚 tiene
conto degli effetti di perdita di carico nel collettore di aspirazione. Il secondo termine
1
invece esprime l’influenza dello spazio morto (aspetto geometrico). Più è elevato
𝜌𝑐 −1
il rapporto volumetrico di compressione minore sarà il volume dei residui. In
1
particolare il termine nei motori ad accensione comandata pesa di più giacché i
𝜌𝑐 −1
valori di 𝜌𝑐 sono più bassi rispetto ai motori Diesel. In ogni caso tale rapporto ha
un’influenza limitata, al massimo dell’ordine del 10 %. Se la pressione dei residui è
simile alla pressione nel manifold il rapporto 𝑃𝑟 /𝑃𝑚 è ovviamente molto vicino all’unità.
Ovviamente se nel circuito di aspirazione c’+ una valvola a farfalla la pressione nel

157
manifold si abbassa molto (perdite di carico più elevate) e ciò peggiorerà il
riempimento giacché il termine sottrattivo 𝑃𝑟 /𝑃𝑚 aumenta.
Caratterizzando in questo modo il coefficiente di riempimento si riesce a tenere conto
essenzialmente di tutti gli aspetti che portano alla riduzione del valore dello stesso.
La relazione quindi consente di quantificare tutti i fenomeni che portano alla riduzione
del coefficiente di riempimento, sebbene sia ricavata da una trattazione semplificata.
Il coefficiente di riempimento è influenzato da fenomeni stazionari (legati ad esempio
al riscaldamento della carica) che sono indipendenti dal regime di rotazione e
dinamici che sono invece dipendenti dal regime di giri (legati ad esempio alla velocità
dell’aria che ha un’influenza sulle perdite di carico: maggiore è la velocità dell’aria
maggiore sarà la perdita di carico, pertanto a regimi di rotazione elevati le perdite
saranno elevate).
Si tenga presente che la coppia risulta influenzata dal regime di giri proprio in virtù
del coefficiente di riempimento: sebbene il regime di giri non compare nella relazione
analitica che esprime la coppia, il rendimento volumetrico che dipende dal regime di
giri comporta una dipendenza indiretta della coppia da questa variabile.

158
Lezione 14 (Pianese) 29/03/2017
Motori alternativi a combustione interna: sistemi di aspirazione e scarico
I due grandi presidi tecnici nella progettazione di un motore sono:
 La combustione: che attiene alla parte di rilascio del calore ed è legata agli
aspetti della termochimica
 Il ricambio della carica: capacità del motore, fissata la geometria, di aspirare
quanta più aria possibile il che permette di incamerare più combustibile e
dunque di avere a disposizione una maggiore energia potenziale chimica.
È evidente che il rendimento di combustione, il rendimento termodinamico, ma anche
il coefficiente di riempimento hanno impatto sulle prestazioni.
Si ricordi che il momento motore (coppia) è dato dalla seguente relazione:
𝑃 𝑉 1
𝑀𝑚 = = ∙ 𝜌𝑎𝑚𝑏 ∙ 𝜆𝑣 ∙ ∙ 𝐻𝑖 ∙ 𝜂𝑔
𝜔 2∙𝜋∙𝜀 𝛼
Dove:
𝑉 = 𝑐𝑖𝑙𝑖𝑛𝑑𝑟𝑎𝑡𝑎
𝜀 = 1 (𝑚𝑜𝑡𝑜𝑟𝑒 2 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑖) − 2 (𝑚𝑜𝑡𝑜𝑟𝑒 4 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑖)
𝜌𝑎𝑚𝑏 = 𝑑𝑒𝑛𝑠𝑖𝑡à 𝑑𝑒𝑙𝑙′ 𝑎𝑟𝑖𝑎 𝑎𝑚𝑏𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒
𝜆𝑣 = 𝑐𝑜𝑒𝑓𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑑𝑖 𝑟𝑖𝑒𝑚𝑝𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜
𝛼 = 𝑟𝑎𝑝𝑝𝑜𝑟𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑚𝑖𝑠𝑐𝑒𝑙𝑎
𝐻𝑖 = 𝑝𝑜𝑡𝑒𝑟𝑒 𝑐𝑎𝑙𝑜𝑟𝑖𝑓𝑖𝑐𝑜 𝑖𝑛𝑓𝑒𝑟𝑖𝑜𝑟𝑒
𝜂𝑔 = 𝑟𝑒𝑛𝑑𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑔𝑙𝑜𝑏𝑎𝑙𝑒
In particolare il rendimento globale è dato dalla catena dei rendimenti:
𝜂𝑔 = 𝜂𝑏 ∙ 𝜂𝑟 ∙ 𝜂𝑚
Dove:
𝜂𝑏 = 𝑟𝑒𝑛𝑑𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑏𝑢𝑠𝑡𝑖𝑜𝑛𝑒
𝜂𝑟 = 𝑟𝑒𝑛𝑑𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑡𝑒𝑟𝑚𝑜𝑑𝑖𝑛𝑎𝑚𝑖𝑐𝑜
𝜂𝑚 = 𝑟𝑒𝑛𝑑𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑚𝑒𝑐𝑐𝑎𝑛𝑖𝑐𝑜
Di seguito viene riportata, a titolo di esempio, una curva di coppia al variare del
regime di giri:

159
Figura 115

La coppia motrice non dipende esplicitamente dal regime di rotazione, che però può
influire sui valori di 𝜆𝑣 e 𝜂𝑔 . In particolare né il rendimento di combustione, né il
rendimento termodinamico dipendono dal regime di giri, mentre il rendimento
meccanico decresce col regime di rotazione: essendo questa decrescita di tipo
lineare, tale dipendenza fa sì che il massimo della curva di coppia si sposti verso
destra o verso sinistra. In estrema sintesi ciò che determina la forma della curva di
coppia è proprio il coefficiente di riempimento. Ovviamente la curva di coppia che si
vuole ottenere è strettamente legata all’applicazione. A titolo di esempio nel grafico
seguente vengono riportate due curve di coppia differenti:

Figura 116

In particolare con vetture sportive il massimo della curva di coppia si sposta verso
destra per garantire elevate coppie ad alti regimi di giri, mentre vale il contrario per
autovetture convenzionali (utilitarie) o per applicazioni più industriali (trattore, …).
Quindi è evidente che la progettazione del sistema di aspirazione e scarico influenza
le prestazioni del motore nonché la categoria di appartenenza: per una Ferrari il
massimo valore del coefficiente di riempimento volumetrico (e dunque della coppia)
deve aversi ad elevati regimi di giri; ciò è possibile grazie alla realizzazione di condotti
di aspirazione corti e giocando su ritardi, anticipi ed incroci delle valvole. Utilizzando
160
più valvole (anziché una sola) di aspirazione e scarico, viene favorito l’efflusso e
dunque si riducono le perdite di carico: oggigiorno le autovetture più spinte
presentano quattro valvole per cilindro. È evidente che per applicazioni più
convenzionali (trattore, autovetture utilitarie) si preferisce avere un sistema più
stabile (coppia elevata a bassi regimi di giri), piuttosto che avere valori di coppia
elevati ad alti regimi di giri:

Figura 117

In tali applicazioni si utilizzano condotti di aspirazione più lunghi.


Avendo una curva di coppia (motrice) come quella disegnata in figura (in nero), si
garantisce una zona di stabilità molto ampia, cosicché qualunque sia la coppia
resistente (in blu) l’intersezione tra le due curve avviene sempre nel tratto
decrescente della curva di coppia motrice (tratto di stabilità). Se invece la curva di
coppia motrice fosse differente, come quella riportata nella figura sottostante, a
seconda della coppia resistente si potrebbe ricadere sia nel tratto stabile che in quello
instabile (nel qual caso il motore si fermerebbe):

Figura 118

Sostanzialmente parlare della curva del coefficiente di riempimento volumetrico al


variare del regime di giri o della curva di coppia al variare del regime di giri è la stessa
cosa.
161
I fenomeni che influenzano il coefficiente di riempimento sono:
 Tipo di combustibile, rapporto di miscela, frazione vaporizzata, scambio
termico (fenomeni essenzialmente stazionari):
o Riduzione della pressione parziale dell’aria: nel momento in cui si
effettuano delle misurazioni in laboratorio in giorni differenti le
prestazioni possono essere notevolmente influenzate dalle condizioni
ambiente; la temperatura di fatto ha un effetto diretto sulla densità
dell’aria aspirata, ma anche l’umidità gioca un ruolo fondamentale: se la
giornata è secca il vapore d’acqua presente nell’aria sarà molto minore
rispetto al caso in cui la giornata sia umida ed in quest’ultimo caso ci
sarà meno ossigeno all’interno dell’aria aspirata; in tale situazione, la
pressione parziale dell’ossigeno è ridotta rispetto alle condizioni di aria
secca (o addirittura rispetto al caso in cui il motore fosse alimentato ad
ossigeno puro: l’aria di fatto è formata da ossigeno e azoto, quest’ultimo
però non partecipa alla combustione essendo inerte) e ciò determina il
fatto che è possibile mettere meno combustibile. In generale quando il
motore aspira aria, esso aspirerà una miscela di ossigeno, azoto e
vapore d’acqua ed eventualmente, se il motore è ad accensione
comandata, anche combustibile: tutto ciò ruba spazio all’ossigeno
stesso (comburente) che a parità di volume da riempire sarà in minore
quantità; in particolare, la presenza di vapore d’acqua e vapore di
combustibile ha un’influenza tra il 3 % e il 5 %. Ovviamente il tutto
dipende anche dal tipo di combustibile aspirato: se il combustibile ha
una massa molecolare ridotta esso tende ad evaporare rubando spazio
all’aria. Di fatto se anziché utilizzare un combustibile liquido, quale la
benzina (che ovviamente tenderà ad evaporare a contatto con l’aria), si
utilizza il GPL che ha un peso molecolare più basso, quest’ultimo
tenderà ad espandere in misura maggiore rubando di fatto spazio
all’aria. Nel caso in cui si utilizza metano il problema è ancora più sentito
in quanto quest’ultimo pesa addirittura meno dell’aria rubando ancora
più spazio. Questo è il motivo per cui le vetture benzina hanno
prestazioni più elevate rispetto alle auto a GPL o a metano. Ovviamente
nel caso in cui si sceglie di alimentare a gas un’autovettura, le automobili
più performanti vengono alimentate a GPL (auto sportive), mentre quelle
meno performanti (utilitarie) a metano.
o La vaporizzazione del combustibile riduce (in assenza di scambio
termico) la temperatura: per valori di 𝜑 = 1 per l’isottano (benzina
convenzionale) 𝛥𝑇 = −19 °𝐶, mentre per il metanolo (alcool) 𝛥𝑇 =
−128 °𝐶 giacché è un liquido bassobollente e dunque evapora più
facilmente raffreddando di più. Di fatto mettendo le mani nella nafta nel
momento in cui passano in aria non si avverte alcuna sensazione,
mentre mettendo le mani nella benzina si avverte una sensazione di
freddo proprio perché tende ad evaporare (lo stesso discorso vale per
162
lo spirito). La vaporizzazione è dunque un effetto benefico perché
raffredda la carica incrementandone la densità. Questo però nell’ipotesi
teorica che non ci sia scambio termico. Ovviamente nella realtà la testa
del cilindro e la valvola di aspirazione sono caldi e dunque
l’abbassamento di temperatura non è così evidente, poiché la carica
fresca tende ad incamerare una parte del calore proveniente dalle pareti
circostanti. In particolare più ci si allontana dal motore e più la
temperatura è bassa (al limite si ha una temperatura pari a quella
ambiente) quindi iniettando il combustibile nel manifold si riesce a
sfruttare meglio l’abbassamento di temperatura in quanto il combustibile
vaporizza a temperatura vicina a quella ambiente e di conseguenza
migliora il riempimento, però la vaporizzazione potrebbe essere
incompleta perché in quella zona la temperatura non è molto elevata e
quindi si potrebbero avere dei problemi di mescolamento. Invece nel
momento in cui il combustibile viene iniettato a ridosso della valvola di
aspirazione esso tenderà a vaporizzare meglio, grazie alle più alte
temperature, e quindi viene favorito il mescolamento a scapito però del
coefficiente di riempimento. Nei motori ad accensione per compressione
(motori Diesel) l’iniezione avviene direttamente in camera di
combustione (all’interno del cilindro), quindi non c’è nessun impatto da
parte del combustibile sul sistema di aspirazione. Nel caso di un motore
ad accensione comandata a carica premiscelata il combustibile liquido
in genere, viene iniettato a monte della valvola di aspirazione e dunque
subisce un processo di evaporazione: esso prende del calore dall’aria
circostante ed abbassa la temperatura in quella zona; l’abbassamento
della temperatura comporta un incremento di densità e dunque si
configura come un effetto benefico. Invece, nei motori ad accensione
comandata (benzina) ad iniezione diretta in camera, è possibile iniettare
il combustibile con la valvola di aspirazione ancora aperta, durante la
fase di aspirazione per esempio o nelle fasi finali dell’aspirazione; in tal
modo si ha un vantaggio perché facendo evaporare il combustibile
all’interno della camera con la valvola ancora aperta si riesce a
raffreddare un po’ l’aria e quindi ad abbassare la densità e dunque ad
aumentare il riempimento. In ogni caso, nella realtà la presenza dello
scambio termico con le pareti riduce l’incremento di 𝜆𝑣 (l’incremento è
dell’ordine dell’1 % − 2 %).

163
Figura 119

 Temperatura della miscela in funzione dello scambio termico (stazionario): c’è


un effetto di scambio termico nel passaggio della miscela attraverso il
collettore di aspirazione (le pareti del collettore cedono calore all’aria). Si tenga
presente che per fenomeni stazionari si intende che la fenomenologia è
stazionaria, ma l’entità di tali fenomeni può cambiare col regime di giri: lo
scambio termico di fatto peggiora nel momento in cui aumenta il regime di giri
(di fatto nelle turbomacchine si assume che le trasformazioni siano adiabatiche
giacché la velocità del fluido è molto elevata). Al contrario, i fenomeni dinamici
hanno una loro caratteristica dinamica indipendente dal regime giri e se esso
è collegato a quest’ultimo ci sono effetti legati a forzanti, … (tendenzialmente
i fenomeni dinamici sono quelli in cui i fenomeni di base hanno delle costanti
di tempo inferiori al ciclo del motore).
 Rapporto tra pressione nel collettore di aspirazione e pressione nel collettore
di scarico (stazionario): al crescere del rapporto tra la pressione allo scarico e
la pressione nel collettore di aspirazione (𝑝𝑒 /𝑝𝑖 ) si ha un aumento della fazione
residua; in effetti la pressione allo scarico (che è circa pari a quella ambiente)
è sempre maggiore di quella all’aspirazione quindi il rapporto 𝑝𝑒 /𝑝𝑖 è sempre
maggiore di uno: nel collettore di aspirazione per effetto di tutte le perdite si ha
una pressione inferiore a quella ambiente. Se il rapporto aumenta si ha un
riflusso dei gas di scarico verso il collettore di aspirazione (backflow): ciò
peggiora il riempimento giacché oltra ad alzare la temperatura della carica a
causa dello scambio termico con i gas residui, si va ad occupare anche più
spazio (la frazione residua aumenta). In molti sistemi l’aumento della frazione
residua può essere benefico in quanto porta ad una riduzione delle emissioni
di ossidi di azoto, a scapito però delle prestazioni del motore. A causa di questo
fenomeno il coefficiente di riempimento si riduce di qualche punto percentuale
(1 % − 10 % ed in particolare 10 % al ridursi del rapporto di compressione).
164
 Rapporto di compressione volumetrico (stazionario): ha un peso sulla frazione
residua e sul fatto che il volume morto si riduce all’aumentare del rapporto
volumetrico di compressione.
 Perdite di carico (dinamico), che dipendono dal quadrato della velocità di
rotazione e diminuiscono al crescere delle sezioni di passaggio: aumentando
il numero di valvole ad esempio, giacché si riduce la sezione di passaggio, le
perdite di carico diminuiscono.
 Backflow, effetto di incrocio: il backflow è tanto più amplificato quanto
maggiore è l’angolo di incrocio, ovvero angolo in cui sono
contemporaneamente aperte le valvole di aspirazione e scarico. Per un motore
lento l’incrocio deve essere piccolo, mentre per un motore veloce è possibile
avere un incrocio molto elevato per sfruttare la depressione dinamica.
 Tuning (accordo, messa a punto): legato all’accordo tra il sistema di
aspirazione e scarico e il motore ed è un fenomeno dinamico. Tale fenomeno
gioca sul fatto che quando si aprono le valvole di aspirazione e scarico si
generano delle perturbazioni (onde di pressione) che si muovono nel mezzo
avanti e indietro determinando delle sovrappressioni o delle depressioni che
possono favorire o opporsi al fenomeno di ricambio della carica attraverso un
aumento o una riduzione della densità (è funzione del numero di giri). È il
problema più serio nella progettazione in quanto è legato alla lunghezza e alla
sezione dei collettori di aspirazione e scarico.
 Velocità di rotazione
 Forma dei collettori di aspirazione e scarico, geometria delle valvole di
aspirazione e scarico (sezioni di passaggio e numero di valvole), dimensione
e fasatura: è evidente che se ad esempio, il condotto di scarico venisse
realizzato con una curvatura molto più blanda si avrebbero delle perdite di
carico minori; la fasatura è legata ovviamente al regime di giri: se il motore è
veloce l’apertura della valvola di aspirazione viene anticipata molto (d’altro
canto aprendo la valvola di aspirazione con un largo anticipo si corre il rischio
di inviare i gas residui nel collettore di aspirazione).

Figura 120

165
Molto spesso è possibile adottare una fasatura variabile allo scopo di lasciare nella
camera una parte dei residui con l’obiettivo di ridurre le emissioni di ossidi di azoto.
Sui motori Diesel ad esempio c’è un sistema chiamato EGR (Exhaust Gas
Recirculation) che mette in comunicazione il collettore di scarico con il collettore di
aspirazione e determina un ricircolo di gas di scarico che viene re-aspirato dal motore
per riscaldare la carica (il che comporta una riduzione della densità) allo scopo di
rallentare la velocità di combustione: ciò si traduce nell’avere temperature più basse
e dunque minori probabilità di formare ossidi di azoto (che si formano ad elevate
temperature). Alla fine si deve trovare un compromesso tra emissioni e prestazioni.

Figura 121

Si tenga presente che le emissioni di ossidi di azoto e le emissioni di particolato (soot)


hanno un andamento inverso: riducendo il soot aumentano gli 𝑁𝑂𝑥 e viceversa,
pertanto con l’EGR si riducono gli ossidi di azoto, ma aumenta il soot. Inoltre, se
aumenta la pressione di iniezione (𝑃𝑟𝑎𝑖𝑙 ) aumentano gli 𝑁𝑂𝑥 e si riduce il soot. La
scelta è dunque frutto di un compromesso. Ovviamente poi c’è il problema del
rumore, delle prestazioni, … pertanto il discorso non è semplice in quanto si hanno
una serie di variabili da ottimizzare.

Figura 122

166
La pressione totale nel collettore di aspirazione è data dalla somma delle pressioni
parziali dell’aria, del combustibile e del vapore d’acqua:
𝑃𝑐𝑜𝑙𝑙 = 𝑃𝑎𝑟𝑖𝑎 + 𝑃𝑐𝑜𝑚𝑏 + 𝑃𝐻2 𝑂
È possibile tuttavia trascurare la pressione parziale del vapore d’acqua per cui si
avrà:
𝑃𝑐𝑜𝑙𝑙 = 𝑃𝑎𝑟𝑖𝑎 + 𝑃𝑐𝑜𝑚𝑏
Ovviamente all’interno del collettore la pressione parziale dell’aria è data dalla
relazione:
𝑅
𝑅 𝑚𝑎𝑟𝑖𝑎 ∙ ∙𝑇
𝑀𝑀𝑎𝑟𝑖𝑎
𝑃𝑎𝑟𝑖𝑎 ∙ 𝑉 = 𝑚𝑎𝑟𝑖𝑎 ∙ ∙ 𝑇 ⟹ 𝑃𝑎𝑟𝑖𝑎 =
𝑀𝑀𝑎𝑟𝑖𝑎 𝑉
Per il combustibile, una volta vaporizzato, vale la stessa relazione valida per l’aria:
𝑅
𝑅 𝑚𝑐𝑜𝑚𝑏 ∙ ∙𝑇
𝑀𝑀𝑐𝑜𝑚𝑏
𝑃𝑐𝑜𝑚𝑏 ∙ 𝑉 = 𝑚𝑐𝑜𝑚𝑏 ∙ ∙ 𝑇 ⟹ 𝑃𝑎𝑟𝑖𝑎 =
𝑀𝑀𝑐𝑜𝑚𝑏 𝑉
Quindi la pressione nel collettore sarà:
𝑚𝑎𝑟𝑖𝑎 𝑚𝑐𝑜𝑚𝑏 𝑅∙𝑇
𝑃𝑐𝑜𝑙𝑙 = ( + )∙
𝑀𝑀𝑎𝑟𝑖𝑎 𝑀𝑀𝑐𝑜𝑚𝑏 𝑉
Dividendo la pressione totale nel collettore di aspirazione per la pressione parziale
dell’aria si avrà:
𝑃𝑐𝑜𝑙𝑙 𝑚𝑎𝑟𝑖𝑎 𝑚𝑐𝑜𝑚𝑏 𝑅∙𝑇
=( + )∙
𝑃𝑎𝑟𝑖𝑎 𝑀𝑀𝑎𝑟𝑖𝑎 𝑀𝑀𝑐𝑜𝑚𝑏 𝑉 ∙ 𝑃𝑎𝑟𝑖𝑎
Sostituendo alla pressione parziale dell’aria quanto trovato dall’equazione di stato
si avrà:
𝑃𝑐𝑜𝑙𝑙 𝑚𝑎𝑟𝑖𝑎 𝑚𝑐𝑜𝑚𝑏 𝑀𝑀𝑎𝑟𝑖𝑎 𝑚𝑐𝑜𝑚𝑏 𝑀𝑀𝑎𝑟𝑖𝑎
=( + )∙ =1+ ∙
𝑃𝑎𝑟𝑖𝑎 𝑀𝑀𝑎𝑟𝑖𝑎 𝑀𝑀𝑐𝑜𝑚𝑏 𝑚𝑎𝑟𝑖𝑎 𝑀𝑀𝑐𝑜𝑚𝑏 𝑚𝑎𝑟𝑖𝑎
Sapendo che:
𝑚𝑎𝑟𝑖𝑎
𝛼=
𝑚𝑐𝑜𝑚𝑏
Si avrà:
𝑃𝑐𝑜𝑚𝑏 1 𝑀𝑀𝑎𝑟𝑖𝑎
=1+ ∙
𝑃𝑎𝑟𝑖𝑎 𝛼 𝑀𝑀𝑐𝑜𝑚𝑏
Pertanto invertendo la relazione è possibile riscrivere (la pressione parziale dell’aria
è ciò che interessa):

167
𝑃𝑎𝑟𝑖𝑎 1
=
𝑃𝑐𝑜𝑙𝑙 1 + 1 ∙ 𝑀𝑀𝑎𝑟𝑖𝑎
𝛼 𝑀𝑀𝑐𝑜𝑚𝑏
Ai fini della combustione interessa la pressione parziale dell’aria la quale è legata
alla concentrazione dell’aria e dunque dell’ossigeno. Per combustibili gassosi risulta:
𝑃𝑎𝑟𝑖𝑎
𝑀𝑀𝑐𝑜𝑚𝑏𝑢𝑠𝑡𝑖𝑏𝑖𝑙𝑒,𝑔𝑎𝑠 < 𝑀𝑀𝑐𝑜𝑚𝑏𝑢𝑠𝑡𝑖𝑏𝑖𝑙𝑒,𝑙𝑖𝑞𝑢𝑖𝑑𝑜 ⟹ 𝑠𝑖 𝑟𝑖𝑑𝑢𝑐𝑒
𝑃𝑐𝑜𝑙
Quindi fissato il rapporto di miscela, con un combustibile gassoso come il metano,
c’è un peggioramento delle prestazioni giacché la pressione parziale dell’aria si
riduce in quanto il metano tende a espandersi occupando più spazio. Il GPL invece,
essendo più pesante rispetto al metano, tenderà ad occupare meno spazio e dunque
la pressione parziale dell’aria aumenta aumentando le prestazioni (migliora il
coefficiente di riempimento). Ovviamente lo stesso discorso vale più o meno anche
nel caso in cui non si trascuri la pressione parziale del vapore d’acqua: quando l’aria
è umida le prestazioni del motore sono però più scadenti (anche la temperatura ha
un impatto diretto sulle prestazioni).
Per combustibili alcolici (volatili) con elevato calore latente di vaporizzazione si ha
un’elevata riduzione di temperatura che teoricamente aumenta il 𝜆𝑣 ; l’effetto è
comunque compensato dal riscaldamento della carica. Per combustibili liquidi la
formazione del film liquido sulle pareti migliora lo scambio e quindi si annullano gli
effetti di evaporazione (iniezione diretta con getto a valvole aperte): è difficile che il
combustibile liquido iniettato, per quanto nebulizzato, evapori completamente, ma
una parte rimane allo stato liquido sulle pareti del collettore; soprattutto nei transitori
ci possono essere delle dinamiche che portano a una riduzione della quantità di
combustibile. Di fatto l’aria si adegua rapidamente avendo una costante di tempo
dell’ordine del decimo di secondo, mentre il fenomeno di evaporazione ha una
costante di tempo dell’ordine del secondo: aumentando la portata d’aria in transitorio,
il combustibile, se non opportunamente compensato, si adegua con una costante di
tempo che è di un ordine di grandezza superiore. Questo è il motivo per cui su alcuni
sistemi, non ben compensati, accelerando di colpo si può sentire un buco
nell’erogazione di coppia perché la quantità di aria che arriva al motore non è
compensata dalla quantità di combustibile che arriva in quel momento. Questo
fenomeno è particolarmente sentito a freddo perché il combustibile ha maggiori
difficoltà nell’evaporare, infatti su alcuni collettori di aspirazione viene fatta circolare
un po’ di acqua di raffreddamento del motore in modo da tenere calda quella zona e
favorire l’aspirazione. Tali problemi ovviamente non esistono su motori ad iniezione
diretta in camera di combustione.
La densità dell’aria può essere calcolata dall’equazione di stato dei gas perfetti:
𝑃
𝜌=
𝑅𝑇

168
Nella fase di immissione della carica, la densità varia rispetto alle condizioni esterne
per effetto delle variazioni di pressione e di temperatura del fluido. La pressione in
genere si riduce per effetto delle perdite di carico nei condotti, nella valvola a farfalla
e nella valvola si aspirazione (può aumentare nei motori sovralimentati o a causa
degli “effetti dinamici” nel collettore): ciò comporta una riduzione della densità. La
temperatura aumenta, per effetto degli scambi termici con il motore e dei gas residui,
o per effetto della sovralimentazione: ciò comporta una riduzione della densità. In
particolare è possibile avere degli effetti indotti dalla sovralimentazione sia per
quanto riguarda la pressione che per quanto riguarda la temperatura: essa è effetto
positivo sulla pressione in quanto aumenta, ma un effetto negativo sulla temperatura
in quanto anch’essa tende ad aumentare; questo è il motivo per cui su alcuni motori
sovralimentati si utilizzano degli intercooler: in tal modo a seguito della
compressione, l’aria viene raffreddata e dunque c’è un incremento di pressione ed
una riduzione di temperatura che comportano un incremento della densità.
Nella figura seguente viene rappresentato il sistema di aspirazione e scarico per un
motore a 4 tempi, ad accensione comandata, soprattutto con riferimento alla
variazione della pressione lungo tutta la linea di aspirazione:

Figura 123

169
Dove:
a) Sistema di aspirazione e pressione media interna
b) Fasatura valvola e diagramma pressione-volume
c) Sistema di scarico
d) Pressione 𝑝 del cilindro ed alzata della valvola 𝐿𝑣 versus angolo di manovella
𝜃
Inoltre sempre con riferimento alla figura precedente:
 𝑝0 , 𝑇0 : condizioni atmosferiche
 𝛥𝑃𝑎𝑖𝑟 : cadute di pressione nel filtro d’aria
 𝛥𝑃𝑢 : perdite all’aspirazione a monte della valvola a farfalla
 𝛥𝑃𝑡ℎ𝑟 : perdite a cavallo della valvola a farfalla
 𝛥𝑃𝑣𝑎𝑙𝑣𝑒 : perdite a cavallo della valvola di aspirazione
Nella figura sottostante si riporta più in dettaglio il percorso compiuto dall’aria lungo
la linea di aspirazione con riferimento alle perdite di carico che si manifestano nelle
diverse zone:

Figura 124

L’aria entra dalle parti laterali del filtro come evidenziato dalle frecce; l’obiettivo del
tubo di Venturi è quello di incrementare la velocità in maniera graduale e di ridurre la
pressione. All’interno del carburatore invece c’è il combustibile: aumentando la
velocità dell’aria grazie al restringimento di sezione (prodotto dal sistema Venturi), si
170
riesce a ridurre la pressione e dunque a richiamare il combustibile (essendo la
vaschetta di combustibile sottoposta a pressione ambiente) in misura proporzionale
alla riduzione della pressione. Inoltre in figura sono rappresentate due condizioni
diverse di apertura della valvola a farfalla corrispondenti alla massima apertura (in
nero) e ad un’apertura parzializzata (in rosso). In pratica si parte dalla pressione
ambiente 𝑃𝑎 (all’esterno del filtro) e si manifesta una prima perdita di carico
concentrata sul filtro stesso (𝛥𝑃𝑓 ); in effetti fissata la sezione di passaggio, il filtro non
fa altro che bloccare le particelle più grandi, quali ad esempio la polvere, facendo
passare quelle più piccole e ciò determina una perdita di carico in quanto l’aria è
costretta a passare in dei passaggi piuttosto ristretti (attrito tra fluido e pareti della
griglia). È evidente che il filtro è più grande del tubo in quanto si deve fare in modo
che la sommatoria di tutte le aree formate dalla griglia del filtro sia pari all’area
complessiva del tubo. Ovviamente lungo il condotto c’è comunque attrito quindi ci
sarà una perdita di carico distribuita lungo lo stesso. In corrispondenza del tubo di
Venturi c’è prima una riduzione di pressione (nella zona di restringimento) e poi un
conseguente incremento (la variazione di pressione è centrata intorno alla sezione
di gola): teoricamente a valle del Venturi si dovrebbe recuperare la pressione che
c’era all’inizio, ma nella realtà la pressione è leggermente più bassa in quanto c’è
comunque una perdita di carico dovuta all’accelerazione e alla decelerazione del
fluido (introduce dunque una perdita di carico concentrata). Quando la valvola a
farfalla è completamente aperta è possibile immaginare che la pressione non vari
(andamento in nero), sebbene nella realtà un minimo di perdita comunque c’è. Poi si
manifesta una perdita di carico ulteriore dovuta alla curva che c’è prima della valvola
di aspirazione. Arrivati nella sezione dov’è presente la valvola di aspirazione si ha
una riduzione ulteriore della pressione raggiungendo una pressione che poi è quella
dell’aria all’interno del cilindro. Pertanto complessivamente la pressione nel cilindro
sarà pari a:
𝑃𝑐 = 𝑃𝑎 − 𝛥𝑃𝑐
Dove:
𝛥𝑃𝑐 = 𝑝𝑒𝑟𝑑𝑖𝑡𝑎 𝑑𝑖 𝑐𝑎𝑟𝑖𝑐𝑜 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑙𝑒𝑠𝑠𝑖𝑣𝑎 (𝑖𝑛 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑜 𝑖𝑙 𝑝𝑒𝑟𝑐𝑜𝑟𝑠𝑜)
Ciò ovviamente ha un impatto sulla densità dell’aria che entra all’interno del cilindro.
È evidente che avendo dei condotti più lisci si riduce la perdita di carico distribuita
lungo tutta la linea di aspirazione, così come aumentando le sezioni di passaggio si
riducono le perdite di carico concentrate. Oggigiorno i motori per autoveicoli ad
accensione comandata non sono più a carburatore, ma c’è un controllo elettronico
(non c’è più il sistema di Venturi). Nei motori Diesel non c’è la valvola a farfalla per
la regolazione: in realtà anche in questi motori c’è qualche valvola a farfalla come
quella che si utilizza spesso subito a valle del filtro per migliorare il richiamo dei gas
di scarico dal sistema di EGR (la valvola di fatto genera una depressione in quella
zona). Ovviamente nel motore Diesel non c’è nemmeno il carburatore (già in origine
era così).

171
Nel momento in cui la valvola a farfalla è parzialmente chiusa, la depressione che si
manifesta nella zona del sistema di Venturi è minore giacché la velocità dell’aria nel
condotto è più bassa (portata minore); una volta raggiunta la valvola a farfalla si ha
una riduzione significativa della pressione a causa di una perdita di carico
concentrata. A valle della valvola a farfalla è possibile immaginare che in prima
approssimazione accada la stessa cosa. In tal caso, la pressione all’interno del
cilindro sarà:
𝑃𝑐 = 𝑃𝑎 − 𝛥𝑃𝑐,𝑝
Dove:
𝛥𝑃𝑐,𝑝 = 𝑝𝑒𝑟𝑑𝑖𝑡𝑎 𝑑𝑖 𝑐𝑎𝑟𝑖𝑐𝑜 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑙𝑒𝑠𝑠𝑖𝑣𝑎 𝑝𝑎𝑟𝑧𝑖𝑎𝑙𝑖𝑧𝑧𝑎𝑡𝑎
Quindi quando la valvola a farfalla è parzialmente chiusa la riduzione di pressione e
cioè la perdita di carico complessiva sarà maggiore rispetto al caso in cui la valvola
sia completamente aperta. Riducendo la pressione diminuisce la densità e dunque
la massa d’aria aspirata: grazie alla valvola a farfalla è possibile regolare la portata
di aria e dunque la portata di combustibile che entrerà in camera.
La variazione di densità non è solo dovuta alle perdite di carico che si manifestano,
ma anche alle variazioni di temperatura, dovute al riscaldamento della carica che si
lungo il condotto di aspirazione.
Di seguito viene riportato il diagramma polare (va letto in senso antiorario) collegato
al ciclo di bassa pressione rappresentato sul piano pressione-volume:

Figura 125
172
Il diagramma a tratto continuo fa riferimento al caso di valvola a farfalla
completamente aperta, mentre il tratto discontinuo è relativo alla condizione in cui la
valvola a farfalla è parzializzata. Nel momento in cui si apre la valvola di scarico
(EVO) c’è un tratto in cui la pressione si riduce perché il gas viene espulso; se la
valvola a farfalla è completamente, quando il pistone scende nella fase di
aspirazione, si riuscirà ad inglobare una maggiore quantità di aria rispetto al caso in
cui la valvola risulti parzialmente aperta e dunque il ciclo di bassa pressione avrà
un’area minore (per cui il lavoro di pompaggio sarà minore). Nel momento in cui
invece c’è parzializzazione si raggiunge un livello di pressione inferiore e il motore
deve spendere un’energia maggiore per aspirare; inoltre anche il livello di pressione
raggiunto prima dell’inizio della fase di compressione sarà inferiore. Ciò comporta il
fatto che tutto il ciclo risulta spostato in basso (anche quello di alta pressione),
giacché la compressione inizia da un livello di pressione inferiore e dunque a fine
compressione si ha una pressione più bassa e pertanto anche la temperatura sarà
più bassa (anche alla fine dell’espansione si ha una pressione minore). Quindi nella
parzializzazione c’è un incremento del ciclo di bassa pressione (aumenta il lavoro
negativo) e una riduzione del ciclo di alta pressione (diminuisce il lavoro positivo):
effetto più che lineare. Pertanto alla fine, il lavoro utile certamente si riduce:
𝐿𝑢 = 𝐿+ + 𝐿−
In effetti nel momento in cui la pressione si riduce, a causa delle perdite di carico
maggiori, all’interno del cilindro entra meno aria e dunque meno combustibile per cui
il lavoro si riduce. Inoltre nella compressione si arriva a temperatura minore dunque
il calore prodotto a seguito della combustione è meno pregiato (minore conversione
di calore in lavoro).
La fase 3 − 2 è una fase in cui la valvola di aspirazione e la valvola di scarico sono
contemporaneamente aperte.
È possibile inoltre rappresentare il ciclo di bassa pressione anche sul piano
pressione-angolo di manovella (𝑝 − 𝜃):

Figura 126

173
Dove:
𝑇𝐶 = 𝑇𝑜𝑝 (𝐷𝑒𝑎𝑑 ) 𝐶𝑒𝑛𝑡𝑟𝑒 (𝑃𝑢𝑛𝑡𝑜 𝑀𝑜𝑟𝑡𝑜 𝑆𝑢𝑝𝑒𝑟𝑖𝑜𝑟𝑒: 𝑃𝑀𝑆)
𝐵𝐶 = 𝐵𝑜𝑡𝑡𝑜𝑚 (𝐷𝑒𝑎𝑑 ) 𝐶𝑒𝑛𝑡𝑟𝑒 (𝑃𝑢𝑛𝑡𝑜 𝑚𝑜𝑟𝑡𝑜 𝑖𝑛𝑓𝑒𝑟𝑖𝑜𝑟𝑒: 𝑃𝑀𝐼)
Oltre alla caduta di pressione che si manifesta in funzione dell’angolo di manovella,
nel grafico vengono anche riportate le due curve relative all’alzata della valvola di
scarico e all’alzata della valvola di aspirazione. Nella fase di scarico, teoricamente la
valvola dovrebbe aprirsi proprio in corrispondenza del punto morto inferiore; tuttavia
essendo la valvola azionata da una camma il profilo di alzata non sarà squadrato,
ma sarà più dolce; nel momento in cui la valvola di scarico fosse aperta proprio in
corrispondenza del punto morto inferiore e fosse chiusa proprio in corrispondenza
del punto morto superiore, si avrebbe una situazione di questo tipo:

Figura 127

Ciò significa che la massima apertura si avrebbe in un intervallo angolare inferiore ai


180°: si ha un arco angolare ristretto entro il quale la valvola è completamente aperta.
Per tale motivo conviene traslare verso sinistra l’apertura (anticipare l’apertura) e
traslare verso destra la chiusura (ritardare la chiusura):

Figura 128

In questo modo la massima apertura si ha per tutta la fase di scarico del pistone e
cioè durante tutta la risalita a partire dal punto morto inferiore fino ad arrivare al punto
174
morto superiore. Quindi se l’apertura della valvola di scarico viene anticipata di molto,
significa che l’obiettivo è quello di scaricare rapidamente i gas di scarico. In effetti
giacché in tale situazione ci possono essere condizioni di bloccaggio della portata,
per incrementare lo svuotamento, riducendo la pressione a valle non cambierebbe
nulla (portata bloccata), a monte la pressione è imposta, per cui l’unica soluzione è
aumentare la sezione di passaggio anticipando quanto più possibile l’apertura della
valvola di scarico. Ovviamente analogo ragionamento vale per la valvola di
aspirazione. Ciò determina il fatto che intorno al punto morto superiore si ha una fase
più o meno ampia di incrocio tra le due valvole, che risultano contemporaneamente
aperte.
Di seguito viene riportato lo schema di un motore 4 tempi turbocompresso, con
riferimento al sistema di aspirazione e scarico. Il compressore porta l’aria dalle
condizioni di pressione e temperatura 𝑝0 e 𝑇0 alle condizioni 𝑝1 e 𝑇1 . La pressione nel
cilindro all’aspirazione è minore di 𝑝𝑖 . Durante lo scarico, i gas espulsi attraversano
la turbina. La pressione nel collettore di scarico 𝑝𝑒 può variare durante lo scarico tra
la pressione nel cilindro e quella atmosferica.

Figura 129

Dove:
𝐶 = 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑜𝑟𝑒
𝑇 = 𝑡𝑢𝑟𝑏𝑖𝑛𝑎
175
Il sistema di sovralimentazione è costituito da un compressore (radiale centrifugo),
collegato sullo stesso asse ad una turbina (assiale). Il compressore viene azionato
proprio attraverso la turbina, cosicché l’aria viene compressa e ciò determina un
incremento di pressione nel collettore di aspirazione. Nel caso pluricilindrico a partire
dal collettore comune (plenum) si diramano i diversi condotti che portano ai vari
cilindri. Nella fase di scarico ci sarà sempre un plenum nel quale convergono tutti i
condotti di scarico dei vari cilindri (nel caso pluricilindrico), dopodiché il fluido arriva
all’interno della turbina dove viene fatto espandere (la turbina potrebbe essere anche
di tipo radiale per esigenze di compattezza; sui camion o sulle navi invece in genere
si adottano turbine assiali). L’innalzamento della pressione che avviene grazie al
compressore viene fatto a spese del lavoro raccolto dalla turbina: il vantaggio è che
l’entalpia posseduta dai gas di scarico sarebbe altrimenti persa, mentre in questo
caso viene recuperata per azionare il compressore; in tal modo invece di far compiere
il lavoro di pompaggio al motore lo si recupera dai gas di scarico, pertanto da un
punto di vista teorico la sovralimentazione è vantaggiosa. Nella pratica, nel caso del
motore ad accensione comandata, la sovralimentazione non ha molto senso in
alcune circostanze, giacché si introduce una perdita di carico dovuta alla valvola a
farfalla (non ha senso energizzare e poi magari introdurre una perdita di carico). È
evidente che la turbina, da un punto di vista del motore viene vista come una perdita
di carico, di fatto in alcuni modelli semplici si considera la turbina come se fosse una
valvola, per cui il motore funziona male; tale funzionamento quindi deve essere più
che compensato dall’incremento di pressione che si ottiene all’aspirazione.
Di seguito viene rappresentato il ciclo di bassa pressione sul diagramma pressione-
volume:

Figura 130
176
Dove:
𝑝0 = 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑎𝑚𝑏𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒
𝑝𝑒 = 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑎𝑙𝑙𝑜 𝑠𝑐𝑎𝑟𝑖𝑐𝑜 (𝑒𝑥ℎ𝑎𝑢𝑠𝑡 )
𝑝𝑖 = 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑎𝑙𝑙′ 𝑎𝑠𝑝𝑖𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 (𝑖𝑛𝑡𝑎𝑘𝑒)
Nella condizione in cui:
𝑝𝑖 > 𝑝𝑒 > 𝑝0
Si realizza un flusso naturale di aria che va dalla 𝑝𝑖 alla 𝑝𝑒 , quindi dall’aspirazione
verso lo scarico. La condizione:
𝑝𝑒 > 𝑝0
È evidentemente una condizione necessaria: la pressione nel collettore di scarico
deve essere maggiore della pressione ambiente altrimenti non avrebbe senso
parlare di turbina (essa di fatto fa espandere il fluido e di conseguenza la pressione
a valle della stessa (𝑝0 ) deve essere inferiore a quella a monte (𝑝𝑒 )). L’altra
condizione necessaria è che ovviamente risulti:
𝑝𝑖 > 𝑝0
Infatti a valle della compressione deve esserci un incremento di pressione, altrimenti
non avrebbe senso utilizzare un compressore.
Invece in generale la pressione nel collettore di aspirazione 𝑝𝑖 potrebbe anche essere
intermedia tra le due pressioni 𝑝𝑒 e 𝑝0 . Tuttavia la condizione migliore è proprio quella
sopra indicata e cioè quella per cui:
𝑝𝑖 > 𝑝𝑒 > 𝑝0 𝑐𝑜𝑛𝑑𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑚𝑖𝑔𝑙𝑖𝑜𝑟𝑒 (𝑜𝑡𝑡𝑖𝑚𝑎𝑙𝑒)
𝑝𝑒 > 𝑝𝑖 > 𝑝0 𝑐𝑜𝑛𝑑𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑐𝑜𝑚𝑢𝑛𝑞𝑢𝑒 𝑎𝑐𝑐𝑒𝑡𝑡𝑎𝑏𝑖𝑙𝑒 (𝑛𝑜𝑛 𝑜𝑡𝑡𝑖𝑚𝑎𝑙𝑒)
Nella condizione ottimale, che prevede 𝑝𝑖 > 𝑝𝑒 il ciclo viene percorso in verso orario
e dunque l’integrale di 𝑝𝑑𝑉 darà un risultato positivo anche nella parte di bassa
pressione. Nella condizione in cui 𝑝𝑖 < 𝑝𝑒 (fermo restando le condizioni necessarie)
il ciclo di bassa pressione viene percorso in verso antiorario e quindi si avrà un lavoro
comunque negativo: tuttavia tale lavoro risulterà comunque minore in valore assoluto
rispetto al lavoro necessario senza sovralimentazione.
È evidente che a valle del compressore, la temperatura sarà maggiore rispetto a
quella ambiente giacché il compressore oltre a comprimere il fluido ne incrementa
anche la temperatura: per tale motivo in alcuni sistemi si inserisce un intercooler che
determina un raffreddamento della carica con un conseguente incremento del
coefficiente di riempimento.

177
Lezione 15 (Pianese) 30/03/2017
Motori alternativi a combustione interna: sistemi di aspirazione e scarico
La regolazione di un motore ad accensione comandata in carica premiscelata
attraverso una valvola è abbastanza rigida, nel senso che bastano piccole variazioni
nell’apertura/chiusura della valvola stessa per avere un impatto notevole sul ciclo e
dunque sulle prestazioni (di fatto con un’apertura parzializzata aumenta l’area del
ciclo di bassa pressione e si riduce l’area del ciclo di alta pressione). Nel caso del
motore Diesel invece il ciclo di bassa pressione non è molto ampio in quanto non ci
sono elementi di strozzatura, come la valvola a farfalla. Di fatto a parità di regime di
giri, la portata massica di aria all’interno di un motore Diesel, rimane pressoché la
stessa in qualunque condizione di carico (per qualunque potenza).
I plenum servono per omogeneizzare la pressione. In effetti supposto che il motore
sia monocilindrico ogni due giri si avrà l’apertura della valvola di aspirazione (o di
scarico) e dunque la pressione è fortemente oscillante; il plenum praticamente fa da
“condensatore” andando a smorzare queste pulsazioni di pressione e dunque il
compressore non sente a monte una pressione variabile e il motore non sente delle
oscillazioni di pressione; nel caso in cui si abbiano più cilindri è ancora più sentito
questo problema.

Figura 131

La condizione ottimale nel caso della sovralimentazione sarebbe quella di avere una
pressione all’aspirazione maggiore della pressione allo scarico (a loro volta maggiore
della pressione ambiente): in tale condizione si avrebbe un flusso continuo che, nelle
fasi di incrocio delle valvole di aspirazione e scarico, favorisce la pulizia dello spazio
morto e dunque lo svuotamento del cilindro. È evidente che all’aspirazione la
pressione nel cilindro è minore di quella nel plenum a causa delle perdite di carico,
così come allo scarico la pressione nel cilindro sarà maggiore di quella nel plenum
(per lo stesso motivo). Ovviamente l’incremento di pressione che si ha nel passaggio
del fluido all’interno del compressore dipende dal lavoro fornito dalla turbina al
compressore stesso. Esistono delle condizioni a basso carico in cui il lavoro dato
dalla turbina non è sufficiente per attivare il compressore: oggigiorno con un controllo
sofisticato si fa fronte a questo problema.
178
Di seguito vengono riportate le curve rappresentanti la differenza tra la pressione
atmosferica e la pressione in due punti del collettore di aspirazione. In particolare
l’aria viene aspirata dall’atmosfera ed attraversa un filtro (air cleaner) dopodiché
attraverso un collettore raggiunge una valvola (throttle): è possibile misurare la
pressione 𝑝𝑝 a valle della strozzatura e la pressione 𝑝𝑟 dopo la scissione del collettore
in quattro condotti differenti. È possibile dunque calcolare le differenze di pressione:
𝑝𝑎𝑡𝑚 − 𝑝𝑟
𝑝𝑎𝑡𝑚 − 𝑝𝑝
Andando a diagrammare tali valori in funzione della portata (che è legata al regime
di giri) in condizioni stazionarie, si vede come la perdita di carico aumenti
quadraticamente con la portata d’aria (strettamente collegata col regime di giri del
motore):

Figura 132

Nel momento in cui si passa da un unico collettore a quattro collettori differenti la


perdita di carico aumenta e di fatto la curva 𝑝𝑎𝑡𝑚 − 𝑝𝑟 risulta avere una pendenza
maggiore rispetto alla curva 𝑝𝑎𝑡𝑚 − 𝑝𝑝 .
Le principali fonti di perdita di pressione in un motore ad accensione comandata sono
certamente la valvola a farfalla e la variazione della sezione di passaggio a seguito
della suddivisione del collettore in quattro (o anche più) condotti differenti.

179
Nella figura seguente viene riportato l’andamento della pressione allo scarico
(exhaust manifold pressure) in funzione della pressione all’aspirazione (inlet manifold
pressure) per un motore ad accensione comandata 4 tempi e a quattro cilindri:

Figura 133

Ciascuna curva è parametrizzata in funzione del regime di giri perché esso fissa la
portata volumetrica del motore: a parità di regime di giri, qualunque sia la
parzializzazione, la portata volumetrica rimane la stessa, ciò che varia è la portata
massica perché cambia la densità. Le curve sono tutte decrescenti e ovviamente
maggiore è il regime di giri e maggiore sarà la pressione allo scarico, fissata che sia
la pressione all’aspirazione. Maggiore è la pressione all’aspirazione e maggiore sarà
la densità e dunque la portata massica di aria; ciò determina un incremento anche
della quantità di combustibile e dunque della temperatura massima e di fatto anche
della pressione del ciclo: ciò comporta anche un incremento della pressione allo
scarico.
180
Nella figura seguente viene riportato il ciclo di pressione sul diagramma pressione
volume con riferimento a due valori differenti del regime di giri e fissato il livello di
pressione più basso:

Figura 134

Aumentando il regime di giri (ciclo rosso), aumenta la portata volumetrica e di


conseguenza la portata massica di aria aspirata (a parità di densità giacché la
pressione è stata fissata) e pertanto aumenta la portata di combustibile; ciò significa
che si raggiungerà un livello di pressione e di temperatura più elevato al termine della
fase di combustione, rispetto al caso in cui il regime di giri è più basso (ciclo nero) e
pertanto la pressione allo scarico sarà maggiore (il ciclo si sposta più in alto).
Fissato invece il regime di giri è possibile ragionare sempre sul diagramma
pressione-volume per capire cosa accade:

Figura 135

181
Poiché il regime di giri è fissato in questo caso la portata volumetrica rimane costante.
Aumentando l’apertura della valvola a farfalla (ciclo rosso), la perdita di carico si
riduce e dunque la pressione all’aspirazione aumenta il che comporta un incremento
della densità dell’aria aspirata. Pertanto la pressione di inizio compressione risulterà
più elevata rispetto al caso in cui la valvola a farfalla è più chiusa (ciclo nero) e quindi
anche la combustione avverrà ad una pressione e ad una temperatura più elevata
(peraltro con una massa d’aria maggiore e dunque una massa di combustibile più
elevata); ciò comporta evidentemente anche un incremento della pressione allo
scarico.
Ovviamente all’aumentare della velocità ci saranno perdite di carico indotte anche
dalla velocità del flusso stesso; in condizioni di massima apertura della valvola a
farfalla (wide-open throttle) e di elevati regimi di giri la velocità dell’aria è elevatissima
e pertanto anche le perdite di carico aumentano (a regimi di giri bassi le perdite di
carico si riducono giacché la velocità dell’aria è inferiore). È evidente che a parità di
grado di apertura della valvola a farfalla maggiore è il regime di giri maggiore sarà la
velocità dell’aria.
Quando la pressione nel collettore di aspirazione scende al di sotto di 0.5 𝑏𝑎𝑟 (valore
vicino al rapporto tra la pressione critica e la pressione a monte) c’è il bloccaggio
della portata; ciò spiega perché tutte le curve rappresentate sul piano pressione-di-
scarico-pressione-di-aspirazione tendono verso lo stesso punto. Parzializzando
molto (valvola a farfalla poco aperta) la pressione a valle, nel collettore di aspirazione,
risulterà molto bassa rispetto alla pressione a monte e andando oltre i livelli di
pressione critica si ha il bloccaggio della portata: in tal caso pur aumentando il regime
di rotazione la portata non aumenta più e dunque si potrà solo agire sulla sezione di
passaggio (valvola a farfalla).
Tutti i fenomeni citati, che influenzano il coefficiente di riempmento volumetrico
possono essere riportati su un diagramma per caratterizzare l’andamento di tale
coefficiente in funzione della velocità media del pistone:

Figura 136

182
Nel caso ideale il coefficiente di riempimento volumetrico è pari al 100 % e rimane
costante al variare del regime di giri (ovvero della velocità media del pistone). A
causa di diversi fenomeni che si verificano nella realtà l’andamento rettilineo costante
si trasforma alla fine in un andamento quadratico al variare del regime di rotazione.
L’andamento del coefficiente di riempimento è poi strettamente legato all’andamento
della curva di coppia.
Il primo effetto che determina un abbassamento del coefficiente di riempimento è
l’effetto quasi-statico (A) che non è legato alla velocità media del pistone (è costante):
tale effetto è dovuto alla pressione del vapore d’acqua e/o del vapore di combustibile.
Un altro effetto è quello dello scambio termico (B) che determina una riduzione del
coefficiente di riempimento; l’effetto di riduzione dovuto allo scambio termico è tanto
più marcato quanto minore è il regime di giri: dato che a bassi regimi, la velocità
dell’aria è ridotta c’è più tempo per instaurare lo scambio termico e dunque ha più
tempo per riscaldarsi. L’altro effetto è dovuto alle perdite di carico (C) che variano in
funzione del quadrato della velocità dell’aria e dunque vanno col quadrato della
velocità media del pistone; pertanto a bassi carichi si ha il minimo effetto di perdita
di carico e man mano che si passa a velocità maggiori l’effetto diventa più marcato.
L’altro fenomeno si manifesta invece agli elevati regimi di giri ed è il bloccaggio della
portata (D); quando si ha il bloccaggio pur incrementando il regime di giri non si ha
un incremento di portata e quindi c’è una forte caduta del coefficiente di riempimento
volumetrico. Un altro fenomeno è legato all’inerzia (E), che è legata alla colonna di
gas che avanza: in pratica si sfrutta la conversione dell’energia cinetica della massa
di fluido che avanza all’interno del condotto in energia di pressione; di fatto l’aria
avanza in un condotto relativamente piccolo e quando arriva nel cilindro, che ha
dimensioni maggiori rispetto al condotto, essa tende a rallentare e l’energia cinetica
si converte in energia di pressione; esistono inoltre anche degli effetti oscillatori di
tipo inerziale. Poi c’è un effetto di riduzione ai bassi regimi di giri (F): a regimi di giri
bassi l’effetto dell’incrocio delle valvole può determinare un riflusso dei gas di scarico
dal condotto di scarico al cilindro fino ad arrivare addirittura nel collettore di
aspirazione (backflow); aumentando il backflow si va a rubare spazio alla carica
fresca che si sta aspirando e dunque si riduce il volume a disposizione; quando il
motore è lento (regime di giri basso), essendo la pressione allo scarico maggiore di
quella all’aspirazione, il gas ha tutto il tempo di risalire nel collettore di aspirazione,
mentre quando il regime di giri è elevato esso non riesce a risalire (ecco perché il
bakcflow ha un’influenza maggiore a bassi regimi). L’ultimo fenomeno è legato al
recupero con il tuning (G) in cui si sfruttano dei fenomeni di perturbazione (ogni
qualvolta si apre la valvola di aspirazione, nasce un’onda di perturbazione che risale
la corrente come onda di depressione trovandosi dinanzi ad un ambiente aperto che
provoca una riflessione dell’onda stessa la quale cambia di segno: ciò può essere un
effetto benefico oppure no a seconda dei casi; accordando la lunghezza del condotto
e il tempo di percorrenza dell’onda col regime di rotazione del motore è possibile
avere degli effetti benefici). Essenzialmente a bassi regimi di giri hanno una grande
importanza effetti quali il riscaldamento della carica e gli effetti di incrocio legati al
183
backflow, mentre quando si va su elevati regimi di giri predominano effetti
fluidodinamici legati all’attrito, effetti di bloccaggio e di inerzia. Alla fine si ottiene la
curva del coefficiente di riempimento volumetrico reale (a tratto continuo nella figura)
che ha un andamento quadratico col regime di giri.
Nella figura seguente viene riportato l’andamento del coefficiente di riempimento
volumetrico al variare della velocità di rotazione e al variare della lunghezza del
condotto di aspirazione per un motore ad accensione comandata:

Figura 137

Man mano che la lunghezza del collettore si riduce il massimo della curva si sposta
verso destra (verso elevati regimi di giri); quindi un collettore più corto dà dei vantaggi
ad elevati regimi di giri: in tal caso gli effetti di attrito sono inferiori in quanto la
superficie di contatto tra fluido e collettore risulta essere ridotta rispetto al caso in cui
il collettore ha una lunghezza maggiore.
Nella figura seguente si riporta un confronto tra due curve del coefficiente di
riempimento per un motore Diesel e per un motore ad accensione comandata:

184
Figura 138

Per il motore Diesel la curva del coefficiente di riempimento volumetrico è più elevata
rispetto a quella per il motore ad accensione comandata; ciò è dovuto al fatto che nel
motore Diesel non c’è la valvola a farfalla ed in ogni caso ci sono minori perdite di
carico.
Di seguito vengono riportati degli andamenti ricavati sperimentalmente del
coefficiente di riempimento volumetrico al variare del regime di giri, per un motore ad
accensione comandata, quattro cilindri, sedici valvole e 2000 𝑐𝑚3 di cilindrata; le
diverse curve sono tracciate al variare dell’angolo di apertura della valvola a farfalla:

Figura 139

185
Nel grafico in alto a sinistra la valvola a farfalla è quasi chiusa (apertura pari a 16°):
man mano che il regime di giri aumenta la curva decresce monotonicamente e quindi
il motore è sempre stabile. Nel grafico in alto destra l’apertura della valvola a farfalla
è pari a 32° e si nota come ci sia un aumento del coefficiente di riempimento
volumetrico rispetto al caso precedente. Man mano che l’apertura della valvola a
farfalla aumenta si inizia ad ottenere un punto di massimo che man mano si sposta
verso destra. Nel momento in cui la valvola a farfalla raggiunge un’apertura di 40°
(grafico in basso a destra) si raggiunge un massimo intorno ai 2000 𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑚𝑖𝑛. Uno
dei vantaggi dei motori ad accensione comandata è legato proprio al fatto che
parzializzando la valvola a farfalla è possibile generare delle condizioni di maggiore
stabilità a seconda dei casi.
Quando con l’autovettura si sta affrontando una salita tipicamente si effettua un
cambio di marcia passando dalla quarta alla terza per esempio; ciò è legato al fatto
che, scalando marcia, a parità di regime di rotazione che è imposto dalla velocità
dell’autovettura, si vuole dare una coppia maggiore; di fatto su un diagramma coppia-
velocità si ha un andamento di questo tipo:

Figura 140

Al variare della marcia inserita le curve di coppia variano: maggiore è la marcia


minore sarà il valore della coppia, ma maggiore è la velocità che si raggiunge. Le
curve di carico (coppia resistente) variano a seconda della strada percorsa; in salita
il cario aumenta e dunque la curva di coppia resistente si impenna. Per evitare che
con quella marcia inserita, con l’aumentare del carico, si ricada nella zona di
instabilità della curva di coppia il che comporta il fatto che la vettura inizia a rallentare,
si effettua un cambio di marcia, passando dalla quarta alla terza ad esempio (e così
via). In realtà, restando in quarta marcia, ma alzando il piede dall’acceleratore, è
possibile generare una curva di coppia che potrebbe avere un tratto completamente
discendente, grazie alle elevate perdite di carico inserite, la qual cosa potrebbe
garantire stabilità:

186
Figura 141

In alcuni casi è possibile proprio riuscire a sentire questa raggiunta stabilità a seguito
del rilascio dell’acceleratore.
Il problema del coefficiente di riempimento è legato alla forma del collettore, alla
geometria delle valvole di aspirazione e scarico, alla dimensione e alla fasatura. Le
problematiche sono le seguenti:
 Forma delle sezioni di passaggio differente, per le valvole di scarico lo stelo
deve essere accuratamente raffreddato e poco esposto al flusso caldo: la
valvola di aspirazione è esposta al fluido freddo, mentre la valvola di scarico è
esposta al fluido caldo.
 L’apertura della valvola di aspirazione 10° − 25° prima del punto morto
superiore (coefficiente di riempimento poco influenzato), consente di evitare
una forte riduzione della pressione nel cilindro: in tal modo si ha una sezione
di passaggio maggiore nel momento in cui serve e cioè quando il pistone
scende per aspirare la carica fresca.
 La chiusura della valvola di aspirazione 40° − 60° dopo il punto morto inferiore
(ad elevati regimi il coefficiente di riempimento è fortemente influenzato)
consente di continuare l’aspirazione in risalita per basse pressioni nel cilindro,
ma ai bassi regimi ci sono problemi di riflusso: per effetti dinamici legati
all’inerzia della colonna fluida può avere senso tenere ancora aperta la valvola
di aspirazione anche quando il pistone sale; il vantaggio si ha quando la
pressione dinamica legata alla velocità dell’aria è superiore alla pressione
statica nel cilindro, se al contrario la pressione dinamica nel collettore di
aspirazione è inferiore alla pressione statica nel cilindro si sta praticamente
perdendo tempo; è evidente che se il sistema di fasatura è rigido, ad elevate
velocità di rotazione conviene ritardare la chiusura della valvola di aspirazione,
mentre a bassi regimi di giri, la pressione dinamica dell’aria sarà certamente
inferiore rispetto a quella statica e quindi c’è una possibilità di adeguamento
maggiore tra il fluido all’interno del cilindro e il fluido all’esterno.
 L’apertura della valvola di scarico 50° − 60° prima del punto morto inferiore
consente lo scarico spontaneo per raggiungere la pressione nel collettore
immediatamente dopo il punto morto inferiore.
187
 La chiusura della valvola di scarico 8° − 20° dopo il punto morto superiore
consente di regolare ai bassi carichi ed a regimi medio bassi il riflusso di gas
combusti nel cilindro (EGR), ai regimi elevati ed ad elevati carichi determina la
quantità di gas espulsi (EGR); quando il pistone inizia a scendere e la valvola
di scarico è ancora aperta è possibile che vengano aspirati anche una parte
dei gas di scarico.
La forma dei condotti e di geometria delle valvole tra sistemi di aspirazione e scarico
è dovuto alla differente temperatura dei gas. Le valvole in titanio (a bassa inerzia, ma
con ridotta conducibilità termica) possono subire l’esposizione ai gas caldi con rapida
usura.

Figura 142

Le valvole hanno più o meno la seguente geometria:

Figura 143
188
Dove:
𝐷𝑣 = 𝑑𝑖𝑎𝑚𝑒𝑡𝑟𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑣𝑎𝑙𝑣𝑜𝑙𝑎
𝐿𝑣 = 𝑎𝑙𝑧𝑎𝑡𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑣𝑎𝑙𝑣𝑜𝑙𝑎
Quindi l’area della superficie laterale del cilindro sarà pari a:
𝐴𝑣 = 𝜋 ∙ 𝐷𝑣 ∙ 𝐿𝑣
Il sistema dovrebbe essere progettato in maniera tale che lungo tutto il percorso si
abbia la stessa superficie di passaggio. Nella realtà ciò non avviene, anche perché
c’è un interesse ad avere un’accelerazione del fluido per avere una turbolenza più
elevata: i sistemi di aspirazione e scarico vengono progettati in maniera opportuna
in modo da avere un effetto sulla turbolenza che poi è un fenomeno fondamentale
per la combustione.
Su alcuni motori, con elevate prestazioni, si utilizzano le valvole in titanio perché tale
materiale ha un’elevata leggerezza: in tal modo si riescono ad avere velocità di
rotazione più elevate. tuttavia il titanio è un pessimo conduttore di calore e dunque
nelle punte della valvola si ha una temperatura elevata e quindi sotto l’azione
meccanica spesso si deformano: esse vanno dunque cambiate con una maggiore
frequenza; tuttavia esse permettono di spostare il limite di regime massimo (fuori giri)
più verso destra e dunque di aumentare la potenza. Si tenga presente che essendo
la valvola una massa oscillante è possibile che tale sistema vada in risonanza:
aumentando la velocità di rotazione se si va in risonanza, la valvola resta ferma
mentre il pistone si muove. Molto spesso il regime di giri massimo per un motore
quattro tempi corrisponde al cosiddetto sfarfallio, ovvero le valvole iniziano appunto
a “sfarfallare”: in pratica in tale situazione si corre il rischio di toccare con la valvola
la testa del pistone perché la molla non la riesce a trattenere; utilizzare delle molle
con rigidezza maggiore (più resistenti) potrebbe essere una soluzione, ma si deve
tenere conto del fatto che in tal caso si ha bisogno di una forza maggiore per
l’apertura il che comporta un assorbimento di energia più elevato.
Si tenga presente che l’apertura delle valvole, ottenuta attraverso un albero a
camma, è un fenomeno abbastanza rumoroso.
È evidente che nel momento in cui le valvole si usurano si hanno problemi di tenuta
durante le fasi a valvole chiuse giacché la superficie della stessa non va più a battuta
con la sede: si perde la compressione del motore e dunque si abbassano le
prestazioni.
La perdita di carico in una sezione di passaggio stretta viene caratterizzata dal
coefficiente di efflusso: se esso è elevato la perdita è elevata. Si tenga presente che
la perdita di carico e dunque il coefficiente di efflusso dipende dalla tipologia di flusso
che si instaura. È possibile che vi siano delle zone di distacco della vena fluida e ciò
determina una perdita di carico (si formano delle bolle di ricircolo: zone di vorticosità),

189
dopodiché il flusso si riattacca; in figura viene rappresentato il problema appena
enunciato con riferimento ad una valvola di aspirazione:

Figura 144

Nella figura seguente invece viene rappresentato il coefficiente di efflusso (valvola di


scarico) in funzione del rapporto alzata/diametro (𝐿𝑣 /𝐷𝑣 ):

Figura 145

Si tenga presente che la maggior parte delle caratterizzazioni delle valvole dei
sistemi di aspirazione e scarico viene fatta attraverso un banco di flussaggio
stazionario. Nella realtà il sistema è tutt’altro che stazionario giacché la valvola si
muove, con una conseguente variazione della sezione, la velocità varia, … per cui ci
sono degli effetti fortemente non lineari e tutti in transitorio.
Sempre con riferimento alla valvola di aspirazione nella figura seguente si
rappresentano tre regimi differenti:

190
Figura 146

Si noti che il diagramma del coefficiente di efflusso è fortemente discontinuo. Man


mano che la sezione di passaggio aumenta (caso a) il coefficiente di efflusso tende
ad aumentare così come ci si aspetterebbe. Tuttavia successivamente si ha una
brusca caduta, poi una risalita (caso b) e di nuovo una brusca caduta (caso c). ciò è
dovuto al fatto che nel passaggio dal caso a, al caso b, al caso c, cambia il regime di
moto: si passa da un regime più laminare ad un regime turbolento a causa del fatto
che il fluido è meno guidato. Ovviamente uno studio approfondito e quantitativo su
problemi di questo tipo va affrontato con le equazioni di Navier-Stokes. Nella realtà
il tutto viene sintetizzato attraverso un coefficiente di efflusso. Oggigiorno la
conoscenza su certi fenomeni e su certi sistemi è dell’industria.
Di seguito vengono riportate le leggi di alzate della valvola di scarico o della valvola
di aspirazione:

191
Figura 147

In particolare ci sono tre fasi:


 Fase in cui l’alzata rispetto al diametro della valvola è minore del 12 % (𝐿𝑣 /𝐷 ≤
0.123).
 Fase in cui l’alzata rispetto al diametro della valvola è maggiore del 12 %
(𝐿𝑣 /𝐷 ≤ 0.125).
 Fase di massima alzata in cui vale la relazione: 4 ∙ 𝐷 ∙ 𝐿𝑣 ≥ 𝐷𝑝2 − 𝐷𝑠2

Figura 148

Inoltre di seguito viene anche rappresentato il diagramma polare riportante le diverse


fasi con riferimento a determinati angoli di manovella:

192
Figura 149

Ovviamente in un motore quattro tempi l’asse a camme ruota ad una velocità pari
alla metà di quella dell’albero motore: l’alzata e la chiusura delle valvole avviene ogni
due giri.
Di seguito si riportano le curve del coefficiente di riempimento volumetrico al variare
del regime di giri e parametrizzate rispetto alla fasatura (a sinistra) e rispetto all’alzata
della valvola (a destra), per un motore ad accensione comandata quattro tempi e con
valvola a farfalla completamente aperta:

Figura 150

193
Quando la fasatura è molto conservativa (marker triangolari) la curva è praticamente
decrescente giacché si introducono innumerevoli perdite di carico: ad elevati regimi
il coefficiente di riempimento volumetrico è molto basso, mentre il sistema funziona
bene a bassi regimi di giri. Nel passaggio da una fasatura conservativa (marker
triangolari) a una fasatura più aggressiva ci si sposta sulle curve con i marker circolari
o addirittura quadrati (ancor più aggressiva). Quando si va su sistemi con incroci
maggiori e anticipi e ritardi maggiori, il massimo del coefficiente di riempimento si
sposta a regimi di giri più elevati. Quindi giocando già solo sulla fasatura si riescono
a modificare le curve di coppia e ad ottenere ad esempio un motore che si comporta
in maniera stabile qualunque sia il regime di giri (marker triangolari) o un motore che
ha elevate prestazioni (potenza elevata: marker quadrati).
L’alzata della valvola ha invece un’influenza diretta sulle perdite di carico. Ai bassi
regimi di giri l’alzata non influenza molto il coefficiente di riempimento, mentre ad
elevati regimi di giri l’impatto è notevole; in effetti gli effetti di perdita di carico sono
proprio concentrati sulla parte destra del diagramma ovvero quando le velocità un
gioco sono elevate. Ovviamente minore è l’alzata maggiore sarà la perdita di carico
e dunque più basso sarà il coefficiente di riempimento (marker triangolari). Man mano
che l’alzata aumenta, le perdite di carico diminuiscono. Ovviamente maggiore alzata
può significare anche maggior numero di valvole: passando da un motore a due
valvole a un motore a quattro valvole certamente si vanno a migliorare le prestazioni
all’aspirazione ad elevati regimi di giri (la curva di coppia aumenta, ma si riduce il
regime di funzionamento stabile).
Nei sistemi a fasatura variabile è possibile la reintroduzione di gas residui,
anticipando l’apertura della valvola di aspirazione, ritardando la chiusura della valvola
di scarico, oppure sfasando entrambe le valvole di un stesso angolo. Con una
fasatura variabile è possibile utilizzare la fasatura giusta a seconda del regime di giri
di funzionamento del motore: in tal modo si ottiene una curva del coefficiente di
riempimento volumetrico che è data dall’inviluppo di diverse curve in modo da avere
una coppia elevata ovunque e quindi elevate prestazioni. Con una fasatura variabile
si riesce inoltre a ridurre il lavoro di pompaggio e quindi anche da un punto di vista
energetico questa soluzione è conveniente.

194
Lezione 16 (Sorrentino) 31/03/2017
Note introduttive a Matlab
Spiegazione – Problema 2
Nello script realizzato si vanno a caricare i dati riguardanti tempo, regime di giri e
coppia dal file eng_data.txt. Tali dati vengono poi collocati in opportune celle di un
file Excel, scegliendo le celle appropriate grazie ad opportuni comandi dati in Matlab.
La funzione double converte una variabile stringa in una variabile numerica, mentre
la funzione char fa il contrario, convertendo una variabile numerica in una variabile
stringa. Con opportuni comandi si riesce a trasportare i dati acquisiti da un file txt in
un file Excel in cui i diversi dati sono contenuti nelle celle desiderate. A questo punto
il file Excel diventa la banca dati di riferimento: è possibile dunque acquisire i dati dal
file Excel, calcolare la potenza in Matlab, e caricare opportunamente i valori di
potenza ottenuti all’interno del file Excel, affiancando una colonna a quelle già
precedentemente create: in tal modo si ottiene un file Excel in cui sono contenuti i
valori di tempo, giri, coppia e potenza.
Spiegazione – es_taylor
Verificare che la funzione cos(𝑥) nell’intorno dell’origine è approssimabile con le
somme parziali del suo sviluppo in serie di Mc-Laurin, tracciando i grafici della
funzione cos(𝑥) e delle prime cinque somme parziali nell’intervallo [−𝜋, +𝜋]:

𝑥 2𝑛
cos(𝑥) = ∑(−1)𝑛 ∙
(2𝑛)!
𝑛=0

Verificare inoltre che il calcolo vettoriale consente di ridurre i tempi di elaborazione


rispetto all’implementazione classica di programmazione.
Per conoscere il tempo impiegato da Matlab per eseguire un calcolo è possibile
utilizzare il comando tic (prima del calcolo) - toc (dopo il calcolo); se però si vuole
generare una variabile nel command window che conserva l’informazione riguardo
al tempo è possibile utilizzare il comando clock:
𝑡0 = 𝑐𝑙𝑜𝑐𝑘
Successivamente con il comando etime si va a valutare l’effettivo tempo impiegato
per eseguire quel determinato calcolo:
𝑡𝑒𝑚𝑝𝑜 = 𝑒𝑡𝑖𝑚𝑒(𝑐𝑙𝑜𝑐𝑘, 𝑡0 ) (𝑠𝑖 𝑎𝑔𝑔𝑎𝑛𝑐𝑖𝑎 𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑣𝑎𝑟𝑖𝑎𝑏𝑖𝑙𝑒 𝑐𝑟𝑒𝑎𝑡𝑎 𝑝𝑟𝑒𝑐𝑒𝑑𝑒𝑛𝑡𝑒𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒)
Col comando pause si effettua appunto una pausa e per far ripartire il programma da
quel punto in poi basta premere su qualsiasi bottone della tastiera. Se si utilizza
invece il comanda pause(1) il programma riparte automaticamente dopo 1 𝑠𝑒𝑐𝑜𝑛𝑑𝑜
(è possibile dunque decidere il numero di secondi di arresto dello script).

195
Nel momento in cui si vanno a sovrapporre i plot del coseno approssimato con lo
sviluppo in serie di Mc-Laurin e quello calcolato da Matlab essi praticamente
coincidono. Inoltre eseguendo lo stesso esercizio con la programmazione in
vettoriale (anziché utilizzare un ciclo for) si nota come il tempo di calcolo si riduce
notevolmente.
È evidente che troncando lo sviluppo in serie di Mc-Laurin ad ordini più bassi, per
esempio al terzo ordine, si inizia a notare la differenza tra coseno approssimato e
coseno “reale” (calcolato da Matlab).
Ciclo Atkinson
Esistono delle alternative al ciclo Otto, che si possono ottenere giocando
opportunamente sulla fasatura delle valvole, ma mantenendosi sempre nell’ipotesi di
ciclo ideale. Un’alternativa è rappresentata dal ciclo Atkinson in cui il rapporto di
espansione volumetrico è diverso da quello che si ha nella fase di compressione.

Figura 151

In particolare nel ciclo Atkinson il rapporto volumetrico di espansione risulta maggiore


rispetto al rapporto volumetrico di compressione in quanto il fluido viene fatto
espandere dal punto 3 al punto 4, ma viene compresso dal punto 1 al punto 2.
Per ottenere questo ciclo inizialmente si cercava di intervenire sul manovellismo di
spinta, ma ciò si dimostrò essere troppo complesso, pertanto si passò a lavorare
sulla fasatura. Lavorando sulla fasatura si può fare in modo che le fasi confinanti con
la compressione e con l’espansione, ovvero le fasi di aspirazione e scarico, fossero
particolarmente differenti tra di loro. La fasatura delle valvole è un concetto che
sostanzialmente entra in gioco a partire dal ciclo reale in quanto nel ciclo limite
196
l’apertura e la chiusura delle valvole di aspirazione e scarico avviene in
corrispondenza del punto morto superiore e del punto morto inferiore. In tal caso
tuttavia si ragiona ancora sul ciclo ideale, pertanto la modifica si introduce con l’unico
scopo di rendere differenti la fase di espansione e la fase di compressione (in termini
di rapporto di compressione). In particolare si fa in modo che la valvola di scarico (lo
scarico inizia dal punto 4) si apre in una posizione più vicina al punto morto inferiore,
rispetto a quando invece si chiude la valvola di aspirazione: ciò permette di ottenere
un’espansione prolungata dal punto 3 al punto 4, mentre la compressione si realizza
al punto 1 al punto 2 (ovviamente 𝑉1 − 𝑉2 < 𝑉4 − 𝑉3 ).
Si definiscono i seguenti termini:
𝑇3
𝜏= (𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑝𝑒𝑟 𝑖𝑙 𝑐𝑖𝑐𝑙𝑜 𝑂𝑡𝑡𝑜: 𝑟𝑎𝑝𝑝𝑜𝑟𝑡𝑜 𝑡𝑟𝑎 𝑙𝑒 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑒𝑟𝑎𝑡𝑢𝑟𝑒)
𝑇2
𝑉1
𝜌𝑐 = (𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑝𝑒𝑟 𝑖𝑙 𝑐𝑖𝑐𝑙𝑜 𝑂𝑡𝑡𝑜: 𝑟𝑎𝑝𝑝𝑜𝑟𝑡𝑜 𝑣𝑜𝑙𝑢𝑚𝑒𝑡𝑟𝑖𝑐𝑜 𝑑𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒)
𝑉2
𝑉4 𝑉4 𝑉5
𝜌𝑒 = = = (𝑟𝑎𝑝𝑝𝑜𝑟𝑡𝑜 𝑣𝑜𝑙𝑢𝑚𝑒𝑡𝑟𝑖𝑐𝑜 𝑑𝑖 𝑒𝑠𝑝𝑎𝑛𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒)
𝑉3 𝑉2 𝑉2
Un’altra possibilità di ottenere il ciclo Atkinson è quella di iniziare a comprimere più
tardi: in tal modo anziché spostare l’espansione si va a ridurre la compressione; ciò
si traduce nel ritardare abbondantemente la chiusura della valvola di aspirazione.
Per avere un beneficio da questo ciclo il rapporto volumetrico di espansione deve
essere almeno il 50 % più grande del rapporto volumetrico di compressione (quindi
tale discorso non è da confondersi con il problema di riempimento/svuotamento che
si ottiene sempre con opportuna fasatura delle valvole).
Se la chiusura della valvola di aspirazione viene ritardata, cioè anziché chiuderla nel
punto 1 si fa in modo che essa si chiuda in un punto intermedio tra 1 e 2 (interessando
parte della fase di compressione), nel cilindro si avrà meno aria giacché nel momento
in cui il pistone inverte la corsa dirigendosi verso il punto morto superiore, parte
dell’aria aspirata viene ri-espulsa verso l’esterno; in questo modo però si va a
peggiorare il riempimento del cilindro con un calo della coppia, della pressione media
indicata e dunque del rapporto potenza/peso. Tuttavia tale soluzione risulta
particolarmente adatta in alcuni casi, soprattutto se si tratta di veicoli ibridi: di fatto
pur riducendosi la potenza in questo modo aumenta il rendimento.
In realtà è bene precisare che il ciclo Atkinson è un ciclo puramente teorico ed è
quello che si ottiene andando a massimizzare l’espansione estendendola fino al
punto 5∗ (in tale situazione i punti 4 e 5 coincidono).
In ogni caso, una soluzione di questo tipo viene adottata quando si vuole privilegiare
l’efficienza rispetto alla potenza in un motore a combustione interna. In un veicolo
ibrido il motore a combustione interna è più piccolo, quindi eroga una potenza minore
(downsizing: cilindrata ridotta) e ciò comporta un incremento intrinseco
197
dell’efficienza; ragionando sul piano quotato coppia-giri e parametrizzando le diverse
curve rispetto al grado di apertura della valvola a farfalla si ottiene il seguente grafico:

Figura 152

In particolare la curva più in alto (curva in blu) rappresenta la curva di coppia


massima corrispondente alla massima apertura della valvola a farfalla, mentre tutte
le altre curve sono curve di coppia che si ottengono a carico parziale (valvola a
farfalla non completamente aperta). Le curve iso-rendimento invece hanno
l’andamento riportato in figura (curve in nero): man mano che ci si allontana dalla
parte centrale (regione di massimo rendimento) il rendimento tende a ridursi.
Un auto di cilindrata elevata, ad esempio 2000 𝑐𝑚3 , che circola in città ha molti punti
di funzionamento lontani dalla condizione di massimo rendimento (cerchietti in giallo
riportati in figura). Riducendo la cilindrata, la coppia tenderà a ridursi portandosi
verso il basso, così come si porterà verso il basso la curva iso-rendimento
corrispondente al rendimento massimo: i punti di funzionamento saranno dunque più
vicini alla zona di massima efficienza; questo è il motivo per cui è importante il
downsizing.
Sfruttando il ciclo Atkinson è dunque possibile “recuperare” la riduzione di potenza
con un aumento del rendimento. Supposto che bisogna passare da una cilindrata
pari a 2000 𝑐𝑚3 ad una cilindrata di 1200 𝑐𝑚3 , magari a conti fatti può risultare che
passando ad una cilindrata pari a 1300 𝑐𝑚3 , il vantaggio che si ha in termini di
efficienza è superiore rispetto all’effetto downsizing. Chiaramente questa soluzione
è molto competitiva soprattutto per i veicoli ibridi, mentre poco adottabile per i veicoli
convenzionali, giacché per aumentare l’efficienza bisogna aumentare anche il peso:
nel caso ibrido invece il peso è già abbondantemente ridotto.

198
A questo punto si vuole dimostrare perché si ha un incremento di efficienza nel
passaggio dal ciclo Otto, al ciclo Atkinson. L’efficienza di riferimento dalla quale
partire è quella del ciclo Otto:
1
𝜂 =1−
𝜌𝑐𝑘−1
Si vuole dunque calcolare il rendimento del ciclo Atkinson che può essere calcolato
come:
𝑄2
𝜂𝐴𝑇𝐾 = 1 −
𝑄1
Dove:
𝑄2 = 𝑐𝑎𝑙𝑜𝑟𝑒 𝑐𝑒𝑑𝑢𝑡𝑜
𝑄1 = 𝑐𝑎𝑙𝑜𝑟𝑒 𝑎𝑑𝑑𝑜𝑡𝑡𝑜
Infatti qualsiasi rendimento può essere espresso in questa forma. A questo punto è
possibile esplicitare i termini di calore addotto e calore ceduto:
𝑄1 = 𝑐𝑣 ∙ (𝑇3 − 𝑇2 ) (𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑝𝑒𝑟 𝑖𝑙 𝑐𝑖𝑐𝑙𝑜 𝑂𝑡𝑡𝑜)
𝑄2 = 𝑐𝑣 ∙ (𝑇4 − 𝑇5 ) + 𝑐𝑝 ∙ (𝑇5 − 𝑇1 )

Il secondo termine di 𝑄2 è un termine aggiuntivo e rappresenta un calore ceduto a


pressione costante.
Pertanto sostituendo nel rendimento si ha:
𝑐𝑣 ∙ (𝑇4 − 𝑇5 ) + 𝑐𝑝 ∙ (𝑇5 − 𝑇1 ) 𝑇4 − 𝑇5 𝑇5 − 𝑇1
𝜂𝐴𝑇𝐾 = 1 − =1− −𝑘∙
𝑐𝑣 ∙ (𝑇3 − 𝑇2 ) 𝑇3 − 𝑇2 𝑇3 − 𝑇2
Dove:
𝑐𝑝
𝑘=
𝑐𝑣
A questo punto si vogliono scrivere tutte le temperature in funzione della temperatura
𝑇1 . Si ricordi che:
𝑇 ∙ 𝑣 𝑘−1 = 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒 (𝑒𝑞𝑢𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑝𝑜𝑙𝑖𝑡𝑟𝑜𝑝𝑖𝑐𝑎 𝑖𝑑𝑒𝑎𝑙𝑒)
Pertanto:
𝑇2 = 𝑇1 ∙ 𝜌𝑐𝑘−1
𝑇3 = 𝜏 ∙ 𝑇1 ∙ 𝜌𝑐𝑘−1
𝑉3 𝑘−1 𝜌𝑐 𝑘−1
𝑇4 = 𝑇3 ∙ ( ) = 𝑇3 ∙ 𝜌𝑒1−𝑘 = 𝜏 ∙ 𝑇1 ∙ 𝜌𝑐𝑘−1 ∙ 𝜌𝑒1−𝑘 = 𝜏 ∙ 𝑇1 ∙ ( )
𝑉4 𝜌𝑒

199
La trasformazione 5 − 1 è una trasformazione a pressione costante (𝑃5 = 𝑃1 ) dunque
conviene utilizzare l’equazione di stato:
𝑃5 𝑉5 = 𝑚𝑅𝑇5
𝑃1 𝑉1 = 𝑚𝑅𝑇1
Dove:
𝑅 = 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑔𝑎𝑠 (𝑛𝑜𝑛 è 𝑙𝑎 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑢𝑛𝑖𝑣𝑒𝑟𝑠𝑎𝑙𝑒)
Dividendo membro a membro si ha:
𝑉5 𝑇5
=
𝑉1 𝑇1
Si tenga presente che in questo caso si sta considerando un ciclo ideale, senza
ricambio della carica (ipotesi semplificativa) per cui si ricava il beneficio del ciclo
Atkinson per un caso non conservativo (il beneficio reale è minore rispetto a quello
ideale).
Dalla relazione precedente si ottiene:
𝑉5 𝑉5 𝑉2 𝜌𝑒
𝑇5 = 𝑇1 ∙ = 𝑇1 ∙ ∙ = 𝑇1 ∙
𝑉1 𝑉2 𝑉1 𝜌𝑐
A questo punto è possibile sostituire quanto ottenuto nella relazione del rendimento:
𝜌 𝑘−1 𝜌 𝜌
𝜏 ∙ 𝑇1 ∙ ( 𝑐 ) − 𝑇1 ∙ 𝑒 𝑇1 ∙ 𝑒 − 𝑇1
𝜌𝑒 𝜌𝑐 𝜌𝑐
𝜂𝐴𝑇𝐾 =1− 𝑘−1 𝑘−1
−𝑘∙
𝜏 ∙ 𝑇1 ∙ 𝜌𝑐 − 𝑇1 ∙ 𝜌𝑐 𝜏 ∙ 𝑇1 ∙ 𝜌𝑐 − 𝑇1 ∙ 𝜌𝑐𝑘−1
𝑘−1

Semplificando 𝑇1 si avrà:
𝜌 𝑘−1 𝜌𝑒 𝜌𝑒
𝜏 ∙ ( 𝑐) − −1
𝜌𝑒 𝜌𝑐 𝜌𝑐
𝜂𝐴𝑇𝐾 =1− −𝑘∙
𝜏 ∙ 𝜌𝑐𝑘−1 − 𝜌𝑐𝑘−1 𝜏 ∙ 𝜌𝑐𝑘−1 − 𝜌𝑐𝑘−1
Posto:
𝜌𝑒
𝜌=
𝜌𝑐
Si avrà:
1 𝜏 ∙ 𝜌1−𝑘 − 𝜌 𝜌−1
𝜂𝐴𝑇𝐾 = 1 − 𝑘−1
∙[ +𝑘∙ ]
𝜌𝑐 𝜏−1 𝜏−1
A questo punto si moltiplica e si divide per 𝜌𝑘−1 solo il primo rapporto nella parentesi
quadra, e si ottiene l’espressione finale del rendimento del ciclo Atkinson:
1 𝜏 − 𝜌𝑘 𝜌−1
𝜂𝐴𝑇𝐾 = 1 − 𝑘−1 ∙ [ 𝑘−1 +𝑘∙ ]
𝜌𝑐 𝜌 ∙ (𝜏 − 1) 𝜏−1
200
Nel caso in cui 𝜌 = 𝜌𝑒 /𝜌𝑐 = 1 si ottiene ovviamente il rendimento del ciclo Otto in
quanto il termine in parentesi quadra vale uno. Ovviamente si dimostra che per 𝜌
crescente (maggiore di uno) il termine in parentesi quadra tende a decrescere (sarà
minore di uno) per cui il rendimento del ciclo Atkinson sarà maggiore del rendimento
del ciclo Otto.
È possibile valutare il 𝜌𝑀𝐴𝑋 , considerando il punto 5∗ ; in particolare nelle condizioni
di 𝜌𝑀𝐴𝑋 risulterà 𝑇5 = 𝑇4 = 𝑇5∗ per cui si avrà:
𝑘−1
𝜌𝑐
𝑇4 = 𝜏 ∙ 𝑇1 ∙ ( )
𝜌𝑒,𝑀𝐴𝑋
𝜌𝑒,𝑀𝐴𝑋
𝑇5 = ∙ 𝑇1
𝜌𝑐
Per cui:
𝑘−1
𝜌𝑒,𝑀𝐴𝑋 𝜌𝑐 𝜌𝑒,𝑀𝐴𝑋 𝑘 1
𝑇4 = 𝑇5 = 𝑇 5∗ ⟹ ∙ 𝑇1 = 𝜏 ∙ 𝑇1 ∙ ( ) ⟹ 𝜏=( ) ⟹ 𝜌𝑀𝐴𝑋 = 𝜏 𝑘
𝜌𝑐 𝜌𝑒,𝑀𝐴𝑋 𝜌𝑐
Oltre il valore di 𝜌𝑀𝐴𝑋 non ha più senso andare.
Per cui a questo punto è possibile studiare l’andamento del rendimento di un ciclo
Atkinson per 𝜌 che varia nell’intervallo [1, 𝜌𝑀𝐴𝑋 ] e al variare del parametro 𝜏.
In particolare in primo luogo, si effettui un’analisi parametrica per valutare i benefici
ottenibili con il ciclo Atkinson in sostituzione del ciclo Otto, assumendo:
 Funzionamento ideale
 𝑘 = 1.4
 𝜌𝑐 ∊ [4, 16]
 𝜌 ∊ [1, 4]
 𝜏=6
Si valuti se l’intervallo di variazione del parametro 𝜌 comprende il valore di 𝜌𝑀𝐴𝑋 . Per
come sono forniti i dati è conveniente calcolare il rendimento al variare di uno dei due
parametri (per esempio 𝜌) fissato che sia l’altro parametro (per esempio 𝜌𝑐 ) rispetto
al quale si vanno a parametrizzare le diverse curve (𝜏 e 𝑘 invece rimangono costanti).
È possibile dunque andare a plottare l’andamento del rendimento 𝜂𝐴𝑇𝐾 o meglio
ancora l’andamento del rapporto 𝜂𝐴𝑇𝐾 /𝜂𝑂𝑇𝑇𝑂 in funzione di 𝜌 e parametrizzando le
diverse curve rispetto a 𝜌𝑐 . Studiare l’andamento rispetto al parametro 𝜌𝑐 si riesce a
capire per quale tipo di motore è più importante avere un ciclo del tipo Atkinson (esso
ha senso per un motore piccolo, in un’applicazione in cui è importante massimizzare
il rendimento). In particolare all’aumentare del rapporto 𝜌𝑒 /𝜌𝑐 il beneficio si fa sempre
più evidente in termini di rapporto 𝜂𝐴𝑇𝐾 /𝜂𝑂𝑇𝑇𝑂 fino a 𝜌𝑀𝐴𝑋 , dopodichè oltre questo
valore il beneficio tende a scomparire. I benefici più importanti, anche con modifiche
non estreme, si ottengono con valori di 𝜌𝑐 ridotti (rapporti di compressione piccoli)
201
ovvero su motori piccoli (importanza del downsizing; con grandi cilindrate è
necessaria una differenza tra 𝜌𝑒 e 𝜌𝑐 praticamente insostenibile per avere dei
benefici).
Nel momento in cui si considera anche il ricambio della carica (per un motore
aspirato), sul ciclo Otto di riferimento l’intervallo volumetrico relativo all’espansione è
pari a quello relativo alla compressione:

Figura 153

Adottando la prima soluzione vista precedentemente, cioè facendo in modo che la


valvola di scarico si apre in una posizione più vicina al punto morto inferiore, rispetto
a quando invece si chiude la valvola di aspirazione, si ottiene un prolungamento della
fase di espansione, con una fase di compressione che invece rimane identica a
quella del ciclo Otto di riferimento:

Figura 154

L’espansione abbraccerà un intervallo volumetrico superiore rispetto al caso


precedente, mentre la compressione rimane uguale a quella di riferimento.

202
L’altra soluzione è invece quella di ritardare la chiusura della valvola di aspirazione;
questa è la soluzione adottata ad esempio nella Toyota Prius in cui la fase di
espansione rimane praticamente identica a quella di riferimento, mentre la fase di
compressione si riduce notevolmente:

Figura 155

Quest’ultima soluzione risulta certamente più semplice rispetto a quella precedente,


anche perché si gioca solamente sulla valvola di aspirazione, laddove nel primo caso
è necessario agire su entrambe le valvole.

203
Lezione 17 (Rizzo) 4/04/2017
Introduzione alla modellistica
Si ricordi che mentre valutare la precisione del modello è molto semplice in quanto
si va a valutare lo scostamento tra i dati calcolati dal modello e quelli sperimentali
con la tecnica dei minimi quadrati (sebbene ce ne siano anche altre), valutare la
predittività dello stesso non è così semplice in quanto non si hanno dati sperimentali
a disposizione; in quest’ultimo caso si fa riferimento all’intervallo di confidenza che
fornisce delle bande di tolleranza entro le quali con un certo grado di probabilità varia
la grandezza predetta e un intervallo di probabilità entro cui varieranno i parametri
stimati: la conoscenza di tale intervallo consente di capire quanto la stima di quel
parametro sia significativa (si va a vedere quant’è grande la banda di variazione ed
in particolare se in essa è incluso lo zero, tale termine viene escluso perché non
significativo). Nella regressione stepwise ci sono delle procedure che praticamente
automatizzano quanto detto, andando proprio a valutare l’intervallo di confidenza
eliminando o arricchendo una struttura funzionale di alcuni termini.
In Matlab esistono diversi comandi che permettono di svolgere una regressione. La
regressione polinomiale è certamente una tra le più semplice anche perché i polinomi
sono delle strutture matematiche abbastanza semplici da trattare ed hanno delle
proprietà molto importanti, pertanto quando non si hanno ulteriori informazioni sulla
forma funzionale da tirar fuori la prima cosa che si fa è proprio quella di cercare di
descrivere l’andamento attraverso un polinomio. Con i comandi polyfit e polyval è
possibile risolvere dei problemi in una variabile, mentre con regress è possibile
ragionare in più variabili. Esistono poi dei comandi per dar vita ad una regressione
non lineare che è lo strumento più generale possibile, che permette di trovare una
funzione di qualunque forma a patto che non ci siano discontinuità nella funzione
stessa (altrimenti gli algoritmi alla base non funzionano: infatti tale metodologia fa
uso di un metodo di minimizzazione che suppone la funzione continua altrimenti non
riesce a calcolare le derivate perché per una funzione discontinua quest’ultima non
è definita). In ogni caso gli strumenti di regressione più avanzati permettono anche
di effettuare la stima degli intervalli di confidenza.
Un problema simile (regressione) è possibile risolverlo anche utilizzando Excel. Di
seguito viene presentato un esempio relativo ad una regressione lineare semplice,
ma può servire anche alla soluzione di problemi non lineari in più variabili e con
vincoli.

204
Figura 156

In pratica è stata creata una colonna 𝐴 di valori 𝑋 (variabile indipendente) che vanno
da 1 a 10, mentre nella colonna 𝐵 si riportano una serie di valori misurati 𝑌 (variabile
dipendente), ovvero valori sperimentali; per generare i valori sperimentali, si utilizza
una funzione lineare della 𝑋 a cui viene aggiunto un termine di rumore: 4 + 3𝑋 +
(𝑟𝑎𝑛𝑑𝑜𝑚 − 0.5) ∗ 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒, in sostanza con il valore random (numero casuale) si
aggiunge del rumore in modo da simulare l’effetto dell’errore sperimentale; in
particolare il numero casuale sarà compreso tra 0 e 1, ma sottraendo ad esso il valore
0.5 si otterrà un numero compreso tra −0.5 e 0.5; inoltre questo numero viene
successivamente moltiplicato per una costante e dunque a seconda del suo valore
si avrà un peso diverso del rumore (maggiore è la costante maggiore sarà il peso
dell’imprecisione).

Figura 157

205
Nella colonna 𝐶, invece si vanno a mettere i valori calcolati 𝑌𝑐𝑎𝑙𝑐 dalla funzione
ipotizzata; tale colonna viene costruita utilizzando un funzione di primo grado, dove
il valore calcolato è dato da: 𝑎 + 𝑏𝑥; in sostanza essa è una retta e i valori dei
coefficienti 𝑎 e 𝑏, vengono forniti in una casella appropriata (è necessario dare dei
valori qualunque, per poter generare 𝑌𝑐𝑎𝑙𝑐). In sostanza si vuole calcolare qual è la
funzione di primo grado che approssima meglio quell’andamento sperimentale. A
questo punto nella colonna 𝐷 si va a calcolare il parametro di precisione, ovvero
l’errore quadratico: esso è fornito dal quadrato della differenza tra i valori misurati e
quelli calcolati ((𝑌 − 𝑌𝑐𝑎𝑙𝑐)2 ); sommando tutti gli errori quadratici si ottiene lo scarto
quadratico. Il problema si risolve proprio andando a minimizzare lo scarto quadratico.
Bisognerà dunque minimizzare lo scarto quadratico agendo proprio sui due
coefficienti 𝑎 e 𝑏: variando tali coefficienti varieranno i valori 𝑌𝑐𝑎𝑙𝑐, quindi di
conseguenza gli errori e dunque la loro somma; tra le diverse combinazioni
l’algoritmo dovrà scegliere la coppia di valori 𝑎 e 𝑏 che rendono minimo il valore dello
scarto quadratico. Per fare ciò si utilizza un componente aggiuntivo di Excel detto
Risolutore.

Figura 158

Nella finestra del Risolutore bisognerà specificare la cella obiettivo, ovvero la cella
rispetto alla quale vengono svolti i calcoli (in tal caso è la cella contenente lo scarto
quadratico); il valore contenuto in tale cella può essere reso massimo, minimo oppure
pari a un determinato valore: il tal modo è possibile risolvere un problema di
massimizzazione, di minimizzazione (che poi è la stessa cosa, basta mettere un
segno meno avanti), oppure un’equazione (o anche un sistema di equazioni). È
necessario inoltre andare a specificare su quali celle agire, per poter modificare la
cella obiettivo, che in questo caso sono le celle contenenti i valori di 𝑎 e 𝑏. È possibile
inoltre anche andare a specificare dei vincoli, per esempio fissare che i coefficienti
non devono essere dei numeri reali qualunque, ma magari devono essere solo
206
positivi (perché magari rappresentano delle grandezze fisiche). A questo punto
cliccando sul bottone Risolvi è possibile trovare (sperabilmente) la soluzione,
attraverso una procedura iterativa.
La risoluzione di numerosi problemi (progetto ottimizzato, controllo ottimo,
identificazione di un modello, …) può essere ricondotta ad un problema di ottimo
vincolato (ricerca del massimo o del minimo di una funzione congiuntamente al
soddisfacimento di uguaglianze e/o disuguaglianze). I problemi di ottimo vincolato
possono a loro volta essere ricondotti alla ricerca del minimo di una opportuna
funzione di 𝑛 variabili. In molti ambienti di calcolo sono disponibili routines per la
ottimizzazione vincolata o la minimizzazione di una funzione di 𝑛 variabili, e che
permettono di scegliere tra diversi algoritmi.
La classificazione dei problemi di ottimizzazione è la seguente:
 Legami tra variabili:
o Lineare
o Non lineare: nel campo dell’ingegneria spesso si ha a che fare con
funzioni non lineari.
 Natura della funzione:
o Deterministica
o Stocastica: in buona parte dell’ingegneria, dove si ha a che fare con la
fluidodinamica, la maggior parte dei processi studiati hanno una natura
di tipo stocastico (la fluidodinamica spesso si muove in ambito di regime
turbolento, che per definizione è stocastico).
In realtà il modello di un processo stocastico può essere anche deterministico,
ovvero ogni qualvolta riceve un certo input fornisce sempre lo stesso output a
prescindere dal fatto che il valore misurato possa essere uguale o meno a
quell’output. Pertanto nella maggior parte dei casi le funzioni utilizzate sono di
tipo deterministiche.
 Tipi di metodo:
o Analitici: sono metodi che derivano direttamente dai teoremi di
matematica (condizioni necessarie e sufficienti affinché una funzione
abbia un minimo, riferimento a gradiente, hessiano, …).
o Numerici: sono i metodi adoperati nella maggior parte dei casi; essi sono
ispirati alla matematica, ma non hanno una soluzione diretta al problema
(essi ci arrivano in maniera iterativa, attraverso opportuni algoritmi).
o Genetici: questi metodi sono ispirati ad un approccio di tipo matematico,
ma con altri criteri; i metodi genetici emulano il processo di evoluzione
genetica del DNA, ovvero il processo della selezione naturale che
avviene attraverso l’eliminazione di alcuni soggetti che risultano meno
evoluti (come accade nell’evoluzione naturale). Essi hanno minore
efficienza rispetto ai migliori metodi numerici, ma in molti casi sono gli
unici che è possibile utilizzare (i metodi numerici, si rifanno alla
matematica classica, basata sulle funzioni continue): in natura esistono
207
di fatto di processi non continui che dunque non è possibile ricondurre
al concetto di derivate.
o Altro tipo: un esempio è proprio rappresentato dai metodi genetici, ma
ce ne sono tanti altri.
 Insieme di definizione delle variabili:
o Continuo: le variabili vengono assimilate a dei numeri reali (continui),
magari positivi o negativi.
o Discreto: in alcuni casi, per loro natura, le variabili non possono essere
dei numeri reali, ma devono essere definite in un insieme numerabile di
valori (variabili discrete: insieme dei numeri interi ad esempio); se si sta
facendo l’ottimizzazione di un impianto di produzione e bisogna decidere
quanti torni inserire in una certa linea di produzione è possibile scegliere
solo un numero intero di macchine (5 o 6, ma non 5.2).
o Numeri interi: in certi casi non è possibile nemmeno utilizzare tutti i
numeri interi, ma magari si considerano solo quelli positivi.
o Misto: sono i problemi più complessi dove ci sono alcune variabili
continue e altre variabili discrete; nel momento in cui si deve ottimizzare
il progetto di un impianto a vapore ci sono alcune variabili che si
configurano come numeri reali (variabili continue) come la pressione
massima di lavoro (che comunque non può superare la pressione
critica), pressione di spillamento, …, ma altre variabili che invece sono
discrete, come il numero di risurriscaldamenti, il numero di spillamenti,
….
 Presenza di vincoli:
o Non vincolati: caso più semplice (un esempio è rappresentato
dall’esercizio risolto prima con l’ausilio di Excel per il calcolo dei
coefficienti 𝑎 e 𝑏, che potevano assumere qualunque valore).
o Vincolata con vincoli di:
 Uguaglianza: si punta a trovare una soluzione che oltre a
minimizzare (o massimizzar) una certa funzione obiettivo soddisfi
anche un’equazione; ad esempio si vogliono trovare 𝑛 soluzioni
di un impianto a ciclo Joule che fornisca il massimo rendimento e
che però forniscano un lavoro utile pari a un certo valore (perché
magari la potenza dell’impianto è fissata a monte).
 Disuguaglianza: se si sta progettando un impianto a vapore, ad
un certo punto del ciclo, il fluido andrà a finire nella turbina ed è
noto che il titolo del vapore che evolve in essa non deve essere
minore di 0.8, perché altrimenti la turbina non funziona bene (o
magari il modello di calcolo utilizzato non funziona in quanto si
presuppone un fluido con almeno questo titolo); in tal caso il titolo
non è una variabile di ingresso, ma è una variabile calcolata, però
si deve appunto imporre il vincolo di disuguaglianza per fare in

208
modo che qualunque sia il risultato risulti un titolo sempre
superiore o al limite uguale a 0.8.
 Probabilistici
 Funzione obiettivo:
o Scalare: caso più frequente.
o Vettoriale (Multi-Objective): in alcuni casi non si riesce a racchiudere in
una sola variabile quanto desiderato per ottenere un determinato ottimo,
per cui si ricorre a funzioni vettoriali. Nel caso del motore, se si vuole
ottimizzare il problema nell’ottica di minimizzare consumi ed emissioni
si hanno almeno quattro o cinque variabili da minimizzare (le emissioni
comprendono idrocarburi incombusti, monossido di carbonio, …).
Anzitutto bisognerà capire in questo caso se è realmente possibile
minimizzarle tutte: nella maggior parte dei casi ciò non è possibile per
cui bisogna cercare un compromesso (quindi si va nel campo della
minimizzazione multi-obiettivo: Pareto fu il primo a realizzare una
formulazione matematica per risolvere tali problemi).
 Tipo di ottimo calcolato:
o Locale: se ci si sposta di un 𝜀 piccolo, dal valore del minimo locale tutte
le soluzioni hanno valori maggiori di quello calcolato.
o Globale: è il valore minimo assoluto in tutto il campo possibile di
variazione della funzione. In molti casi si è interessati proprio alla ricerca
di un minimo globale piuttosto che di un minimo locale. D’altro canto la
cosa non è così semplice: una buona parte degli algoritmi disponibili
vanno a trovare un minimo locale ed attraverso considerazioni di
carattere statistico, ovvero ripetendo più volte il calcolo e spostandosi in
diversi punti iniziali, è possibile avere una ragionevole certezza di aver
trovato il minimo globale, ma non la certezza matematica.

Figura 159

209
 Ordine del metodo:
o Zero : è l’informazione minima che è possibile trovare; in particolare in
tal caso si hanno informazioni su una funzione: per alcuni valori delle 𝑋
è noto il valore della variabile dipendente 𝑌. Tali metodi sono per
funzioni non differenziabili.
o Primo: l’esperimento fornisce non solo il valore della funzione, ma anche
quello delle derivate prime (quindi fornisce la funzione e il suo gradiente,
ovvero le sue derivate rispetto a ciascuna variabile indipendente). Tali
metodi sono del gradiente e derivati.
o Secondo: sono i metodi più evoluti e danno informazioni sulla funzione,
sulle derivate prime e sulle derivate seconde (quindi ricavano
l’informazione più completa possibile). Tali metodi sono quelli di Newton
e derivati.
Per ordine del metodo si intende la quantità di informazioni che una
metodologia iterativa acquisisce sulla funzione una volta che va a fare un
esperimento numerico; un algoritmo iterativo prova cosa accade assegnando
dei valori a certe variabili indipendente andando a vedere qual è il valore della
variabile dipendente e confronta tale risultato con altri esperimenti che ha fatto
per decidere in che direzione deve muoversi. A seconda del tipo di metodo, di
come è costruito e della matematica che c’è dietro, esistono vari livelli di
informazione che l’algoritmo ricava dal suo esperimento e che può essere di
carattere zero, primo, secondo. Ovviamente più è dettagliata l’informazione
che si ricava da un esperimento è più si ha possibilità di arrivare al giusto
risultato e in tempi veloci, quindi dovrebbero essere utilizzati sempre metodi
del secondo ordine; tuttavia devono esistere due condizioni: la prima è che
bisogna poter calcolare le derivate e ciò può essere fatto solo per funzioni
continue, la seconda è che tali informazioni devono essere giuste (se bisogna
arrivare in un bar di una certa città e si chiedono delle informazioni a un
passante è possibile trovarsi di fronte a tre situazioni: il primo passante dice di
andare avanti, girare a destra e chiedere a qualcun altro (informazione di
ordine zero), il secondo passante può essere più completo, dicendo di andare
avanti, girare a destra, prendere la seconda traversa a sinistra e dunque
chiedere (informazione di ordine uno), il terzo passante invece dice tutto il
percorso che bisogna fare (informazione di ordine due); quest’ultima
informazione è migliore delle altre a patto che sia giusta, perché se non lo è,
si è perso del tempo ad ascoltare tale informazione e magari poi ci si perde).
Per capire quanto può essere complicato trovare un minimo globale in un caso
generico è possibile fare un esempio utilizzando la funzione fmin messa a
disposizione da Matlab. Si va a creare praticamente una funzione che somiglia ad
una parabola, ovvero si parte da una funzione 𝑦1 = 𝑥 2 a cui però si sottrae un termine
𝑦2 = 1/((𝑥 − 𝑥0 )2 + 0.001); in sostanza la funzione risultante 𝑦 è definita come:
𝑦 = 𝑦1 − 𝑦2

210
Nella funzione 𝑦2, quando 𝑥 = 𝑥0 (dove 𝑥0 = 20 in questo caso), essa varrà proprio
1000, mentre in tutti gli altri casi il termine (𝑥 − 𝑥0 )2 cresce molto rapidamente.
Pertanto quando risulta 𝑥 = 𝑥0 alla parabola si sta sottraendo il valore 1000, mentre
quando ci si sposta dal valore di 𝑥0 , la funzione va rapidamente a zero, per cui alla
parabola si sottrae un valore nullo. Plottando la funzione 𝑦 risultante praticamente si
ottiene una parabola in tutto il campo, tranne che per 𝑥 = 𝑥0 = 20.

Figura 160

Chiedendo a Matlab di trovare il minimo di questa funzione e specificando il campo


in cui ricercare tale minimo (in tal caso tra −30 e +30, che è un range che include
sia il minimo locale che quello globale), esso fornirà il valore del minimo locale e non
quello del minimo globale.

Figura 161

L’algoritmo dopo tre iterazioni, ipotizza che la funzione si comporta come una
parabola, andando a calcolare analiticamente il punto di minimo della parabola

211
individuata: quando si ha convergenza l’algoritmo si ferma e fornisce il risultato. La
soluzione fornita in questo caso è: 𝑥 = 0, 𝑦 = 0 (minimo locale).
Se invece si fornisce un intervallo molto ristretto, intorno al minimo globale (in un
range tra 19.9 e 20.1), evidentemente l’algoritmo riesce a trovare il minimo globale:

Figura 162

In tal caso la soluzione fornita è: 𝑥 = 20, 𝑦 = −600 (minimo globale); tuttavia


praticamente con quel range ristretto la soluzione era già nota a prescindere.
È evidente che tale funzione è abbastanza complessa, tuttavia nella fisica esistono
alcuni fenomeni, soprattutto quando si trattano problemi di risonanza, …, dove
esistono funzioni che assumono dei picchi particolari e quindi non è un qualcosa del
tutto anomala.
Come detto sinora, se le derivate di una funzione sono dei valori precisi, la
conoscenza delle stesse aiuta certamente la convergenza del processo: esistono
tuttavia una serie di problematiche dietro al calcolo di tali derivate. In sostanza per
quanto riguarda la derivata e l’integrale a livello numerico accade esattamente il
contrario di ciò che accade studiando la matematica analitica; da un punto di vista
analitico la derivazione è un’operazione abbastanza semplice ed esistono un insieme
di regole che ne permettono il calcolo in maniera abbastanza agevole; viceversa, per
l’integrale, sebbene esistano un insieme di regole da poter applicare, se la funzione
è particolarmente complessa non è detto che si riesca a calcolare l’integrale stesso.
Nel calcolo numerico la situazione è invertita: l’integrale (a meno che la funzione non
sia strana) lo si calcola agevolmente essendo esso il limite di una somma (riducendo
molto il passo di integrazione è possibile fare delle somme che forniscono il valore
dell’integrale stesso), mentre la derivata è il limite di un rapporto incrementale. Nel
caso della derivata il denominatore, che è la perturbazione, deve tendere a zero:

212
quando si effettua un rapporto tra un numeratore ed un denominatore che tende a
zero nascono una serie di problemi.
La derivata prima di una funzione si calcola facendo il limite del rapporto
incrementale:
𝑦(𝑥 + 𝛥𝑥) − 𝑦(𝑥)
𝑦 ′ (𝑥) = lim
𝛥𝑥→0 𝛥𝑥
Tuttavia il valore della derivata, può essere approssimato col rapporto incrementale,
facendo assumere all’incremento 𝛥𝑥 valori tendenti allo zero, ma finiti. In tal caso
rispetto alla derivata si ottiene un certo errore detto errore di troncamento che si
riduce al ridursi di 𝛥𝑥:
𝑦(𝑥 + 𝛥𝑥 ) − 𝑦(𝑥)
𝑦 ′ (𝑥 ) = + 𝜀𝑡 (𝑑𝑒𝑟𝑖𝑣𝑎𝑡𝑎 𝑓𝑜𝑟𝑤𝑎𝑟𝑑: 𝑑𝑒𝑟𝑖𝑣𝑎𝑡𝑎 𝑖𝑛 𝑎𝑣𝑎𝑛𝑡𝑖)
𝛥𝑥
Ovviamente è possibile anche fare la derivata backward andando a perturbare la 𝑥
all’indietro: c’è una piccola differenza tra le due derivate, ma quando 𝛥𝑥 → 0 esse
coincidono.
Lo stesso discorso vale per la derivata seconda che può essere calcolata applicando
la stessa formula precedente alla derivata prima (la derivata seconda è nient’altro
che la derivata della derivata prima):
𝑦(𝑥 + 𝛥𝑥 ) − 𝑦(𝑥) 𝑦(𝑥) − 𝑦(𝑥 − 𝛥𝑥)
′(
𝑦 𝑥 + 𝛥𝑥) − 𝑦 𝑥)′( ( − )
𝛥𝑥 𝛥𝑥
𝑦 ′′ (𝑥) = =
𝛥𝑥 𝛥𝑥
𝑦(𝑥 + 𝛥𝑥 ) − 2𝑦(𝑥) + 𝑦(𝑥 − 𝛥𝑥)
=
𝛥𝑥 2
Lo schema numerico utilizzato (derivata forward o in avanti) è soltanto uno dei
possibili algoritmi a cui si può ricorrere per il calcolo della derivata numerica.
Col computer si hanno a disposizione dei metodi piuttosto semplici per calcolare la
derivata prima o la derivata seconda di una funzione ragionando proprio sul rapporto
incrementale: se attraverso delle simulazioni si è in grado di calcolare il valore della
funzione in un punto generico, applicando tali relazioni è possibile calcolare la
derivata prima e/o la derivata seconda. Tuttavia bisogna considerare che ci sono
delle fonti di errore, tra le quali, la prima è proprio l’errore di troncamento già citato e
la seconda è l’errore di arrotondamento. In effetti su un computer non si hanno a
disposizione un numero infinito di cifre significative per rappresentare un numero:
sebbene tale numero sia molto elevato è comunque finito. Ciò significa che un
determinato numero (valore analitico) è dato dalla sua rappresentazione numerica
sul computer (valore numerico) più un errore detto errore di arrotondamento:
𝑦(𝑥) = 𝑦̅(𝑥) + 𝜀𝑎

213
Per esempio il numero 1/3 sul computer, supposto di avere a disposizione solo sei
cifre, viene rappresentato nel seguente modo:
1
= 0.33333 + 0. 3̅ ∙ 10−6
3
L’errore di arrotondamento con i primi computer rappresentava un errore abbastanza
serio, oggigiorno il problema si è ridotto, ma in alcuni casi non è possibile non tenerne
conto giacché influenza notevolmente il risultato. Tra l’altro in tal caso è possibile
conoscere con precisione qual è il valore dell’errore di arrotondamento giacché era
noto il valore esatto del numero, tuttavia nel caso di espressioni complesse
(espressione algebrica complessa o risultato di una serie di calcolo), l’errore di
arrotondamento non è in genere calcolabile in modo esatto, se non come ordine di
grandezza (l’ordine di grandezza è dato dall’ultima cifra significativa che è possibile
avere nel valore numerico: nell’esempio l’ordine di grandezza è proprio 10−6 ). Inoltre
nel corso di una sequenza di calcoli, l’errore di arrotondamento può combinarsi in
modo non facilmente prevedibile, riducendosi o amplificandosi (o magari rimanendo
dello stesso ordine di grandezza), potendo giungere in alcuni casi ad inficiare
seriamente la precisione dei risultati: quest’ultima cosa è proprio quello che accade
nel caso delle derivate.
Nel caso della derivata prima, per quanto detto precedentemente, da un punto di
vista numerico può essere calcolata nella maniera seguente:
𝑦(𝑥 + 𝛥𝑥 ) − 𝑦(𝑥)
𝑦 ′ (𝑥 ) = + 𝜀𝑡
𝛥𝑥
Tuttavia in virtù di quanto detto, ad ogni valore della funzione deve essere sostituito
la sua rappresentazione numerica sul computer tenendo conto dell’errore di
arrotondamento:
𝑦̅(𝑥 + 𝛥𝑥 ) + 𝜀1 − 𝑦̅(𝑥) − 𝜀2
𝑦 ′ (𝑥 ) = + 𝜀𝑡
𝛥𝑥
Pertanto si avrà:
𝑦̅(𝑥 + 𝛥𝑥 ) − 𝑦̅(𝑥) 𝜀1 − 𝜀2
𝑦 ′ (𝑥 ) = + + 𝜀𝑡
𝛥𝑥 𝛥𝑥
Dove:
𝑦 ′ (𝑥) = 𝑣𝑎𝑙𝑜𝑟𝑒 𝑣𝑒𝑟𝑜 (𝑎𝑛𝑎𝑙𝑖𝑡𝑖𝑐𝑜) 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑑𝑒𝑟𝑖𝑣𝑎𝑡𝑎
𝑦̅(𝑥 + 𝛥𝑥 ) − 𝑦̅(𝑥)
= 𝑟𝑎𝑝𝑝𝑟𝑒𝑠𝑒𝑛𝑡𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑖𝑐𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑑𝑒𝑟𝑖𝑣𝑎𝑡𝑎
𝛥𝑥
𝜀1 − 𝜀2
= 𝑒𝑟𝑟𝑜𝑟𝑒 𝑑𝑜𝑣𝑢𝑡𝑜 𝑎𝑙𝑙′ 𝑎𝑟𝑟𝑜𝑡𝑜𝑛𝑑𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜
𝛥𝑥
𝜀𝑡 = 𝑒𝑟𝑟𝑜𝑟𝑒 𝑑𝑖 𝑡𝑟𝑜𝑛𝑐𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜

214
Al numeratore dell’errore dovuto all’arrotondamento si ha la differenza 𝜀1 − 𝜀2 : tale
differenza dà vita ad un numero che ha lo stesso ordine di grandezza di ciascuno dei
due termini (pertanto nell’esempio fatto esso sarà 10−6 ). Volendo andare a calcolare
con precisione le derivate, si tende ad avvicinarsi al caso analitico e cioè a calcolare
la derivata come limite del rapporto incrementale per 𝛥𝑥 che tende a zero: in questo
modo, scegliendo un passo molto piccoli l’errore di troncamento tenderà a zero;
tuttavia quando 𝛥𝑥 → 0, non tenderà a zero anche il termine 𝜀1 − 𝜀2 giacché esso si
mantiene sempre dello stesso ordine di grandezza dell’errore di arrotondamento: a
𝜀 −𝜀
un certo punto il 𝛥𝑥 diventa minore del numeratore e dunque il termine 1 2 tende a
𝛥𝑥
crescere (ciò accade quando il passo di derivazione scende al di sotto dell’ordine di
grandezza dell’errore di arrotondamento).
A titolo di esempio, si consideri la funzione elementare:
𝑦 = log(1 + 𝑥)
Analiticamente la derivata prima di tale funzione vale:
1
𝑦′ =
1+𝑥
Mentre la derivata seconda vale:
1
𝑦 ′′ =
(1 + 𝑥 ) 2
È possibile andare a calcolare la differenza tra il valore vero della derivata prima e
della derivata seconda ed il valore numerico calcolato attraverso il rapporto
incrementale, in modo da verificare quanto vale l’errore.
In particolare il grafico seguente (in scala logaritmica) riporta il valore assoluto
dell’errore commesso calcolando la derivata prima e la derivata seconda per via
numerica, al variare del passo 𝑑𝑥, per la funzione definita precedentemente:

Figura 163

215
In un primo tratto (𝐴), l’errore si riduce con il passo, perché diminuisce l’errore di
troncamento. Quando il passo si riduce oltre un valore limite, l’errore cresce
assumendo valori random (𝐵), perché prevale l’effetto dell’errore di arrotondamento:
esso inizia ad oscillare e a crescere. Per la derivata seconda l’errore si riduce anche
più rapidamente rispetto alla derivata prima (dipendenza quadratica dal 𝑑𝑥), ma esso
inizia a crescere già a partire da passi più grandi: per valori del passo dell’ordine di
10−8 , l’errore diventa addirittura dello stesso ordine di grandezza della funzione
stessa (l’errore travalica la funzione). Quindi il valore limite del passo è maggiore nel
caso della derivata seconda, e cresce con l’ordine della derivata. Pertanto calcolare
la derivata da un punto di vista numerico, è un’operazione delicata in quanto bisogna
scegliere in maniera oculata il passo di derivazione, soprattutto quando si vanno a
calcolare le derivate di ordine elevato. Ciò rappresenta un limite alla possibilità di
applicare un metodo che richieda il calcolo delle derivate e richiede un’attenzione
nella scelta del calcolo delle derivate (bisogna stare attenti a scegliere il passo di
derivazione: esistono dei metodi che sono capaci di scegliere qual è il passo più
adatto). Con funzioni di più variabili bisogna fare in modo che le diverse variabili
abbiano tutte lo stesso campo di variazione: se in una funzione di due variabili, la 𝑥1
varia nel campo [0, 1] e la 𝑥2 varia nel campo [−106 , +106 ] è bene ridefinire tali
variabili in modo che entrambe abbiano un campo di variazione simile, perché
altrimenti un passo di derivazione per una delle variabili sarà enorme, mentre per
l’altra sarà piccolissimo.
Tutto i ragionamenti fatti finora si possono estendere a funzioni di più variabili, dove
la matematica diventa più complessa, ma concettualmente il discorso rimane lo
stesso. In tal caso, dove prima si parlava di derivata prima, ora si parla del vettore
gradiente, che è un vettore formato dalle derivate parziali del primo ordine della
funzione rispetto ad ogni singola variabile indipendente:
∂𝑦 ∂y ∂y
𝐺=[ , ,…, ]
∂x1 ∂x2 ∂xn
In pratica la i-esima componente della derivata può essere calcolata andando a
perturbare la i-esima variabile, lasciando inalterate le altre. Operando secondo uno
schema di tipo forward si ha:
∂y 𝑦(𝑥1 , 𝑥2 , … , 𝑥𝑖 + 𝛥𝑥, … , 𝑥𝑛 ) − 𝑦(𝑥1 , 𝑥2 , … , 𝑥𝑖 , … , 𝑥𝑛 )
=
∂xi 𝛥𝑥
Andando di volta in volta a perturbare una delle 𝑛 variabili, è possibile calcolare tutte
le componenti del gradiente. Per il calcolo del gradiente 𝐺 (𝑥) in un punto generico,
si richiede quindi la valutazione della funzione negli 𝑛 + 1 punti (bisogna calcolarla
una volta nel punto base e poi 𝑛 volte bisogna andare a perturbare una delle
variabili):
𝑥1 , 𝑥2 , … , 𝑥𝑛
𝑥1 + 𝛥𝑥, 𝑥2 , … , 𝑥𝑛
216
𝑥1 , 𝑥2 + 𝛥𝑥, … , 𝑥𝑛
…,…,…,…
𝑥1 , 𝑥2 , … , 𝑥𝑛 + 𝛥𝑥
Per il calcolo della derivata seconda c’è una maggiore complessità; la matrice delle
derivate seconde è detta matrice Hessiana che è una matrice simmetrica. In
particolare le componenti della matrice 𝐻 (x) sono costituite dalle 𝑛2 derivate parziali
del secondo ordine (sulla diagonale si trova la derivata seconda rispetto alla generica
variabile, mentre i termini fuori diagonale sono le derivate miste):
∂2 𝑦 ∂2 𝑦 ∂2 𝑦

𝑑𝑥12 ∂x1 ∂x2 ∂x1 ∂xn
2 2
∂ 𝑦 ∂ 𝑦 ∂2 𝑦
𝐻= …
∂x2 ∂x1 𝑑𝑥22 ∂x2 ∂xn
… … … …
2 2 2
∂ 𝑦 ∂ 𝑦 ∂ 𝑦

[ ∂xn ∂x1 ∂xn ∂x2 ∂x𝑛2 ]
Anche in questo caso le componenti possono essere calcolate con le espressioni
seguenti:
∂2 𝑦 𝑦(𝑥1 , 𝑥2 , … , 𝑥𝑖 + 𝛥𝑥, … , 𝑥𝑛 ) − 2𝑦(𝑥1 , 𝑥2 , … , 𝑥𝑖 , … , 𝑥𝑛 ) + 𝑦(𝑥1 , 𝑥2 , … , 𝑥𝑖 − 𝛥𝑥, … , 𝑥𝑛 )
=
∂xi2 𝛥𝑥 2

∂2 𝑦 𝑦(𝑥1 , … , 𝑥𝑖 + 𝛥𝑥, … , 𝑥𝑗 + 𝛥𝑥, … , 𝑥𝑛 ) − 𝑦(𝑥1 , … , 𝑥𝑖 , … , 𝑥𝑗 + 𝛥𝑥, … , 𝑥𝑛 )


=
∂xi ∂xj 𝛥𝑥 2
−𝑦(𝑥1 , … , 𝑥𝑖 + 𝛥𝑥, … , 𝑥𝑗 , … , 𝑥𝑛 ) + 𝑦(𝑥1 , … , 𝑥𝑖 , … 𝑥𝑗 , … 𝑥𝑛 )
+
𝛥𝑥 2
Dove il primo indica i termini diagonali, mentre il secondo indica i termini misti.
Il calcolo della matrice Hessiana richiede un numero di valutazione della funzione
dell’ordine di 𝑛2 .
Quindi se si ha una funzione di 10 variabili serviranno grosso modo 10 valutazioni
per la derivata prima e 100 per la derivata seconda. Con una funzione di 100 variabili,
per calcolare le derivate seconde serviranno 10000 valutazioni della funzione:
quando l’entità delle funzioni da considerare cresce, anche fare questi calcoli può
essere molto gravoso e magari anche inutile nel caso in cui il passo non sia stato
scelto oculatamente. Si consideri che in un calcolo di progetto ingegneristico una
funzione di 100 variabili può facilmente presentarsi.
Esiste una metodologia che viene detta analisi di granularità che aiuta a capire fino
a che livello di precisione ci si può estendere quando si va a fare l’analisi di una
funzione. Presa una funzione, abbastanza complessa, si può andare a fare una
simulazione dei valori di tale funzione, in un campo molto piccolo e scegliendo un
217
passo di variazione sempre minore: plottando i risultati, mentre ci si aspetta di trovare
un pezzo di una retta a un certo punto si trova una spezzata (non più una funzione
continua), quando ciò accade vuol dire che il passo ha un valore troppo piccolo che
va al di sotto del livello di attendibilità del calcolo stesso. Si immagini ad esempio di
avere una funzione che macroscopicamente si presenta nella maniera seguente:

Figura 164

Scegliendo un certo 𝛥𝑥 è possibile calcolare la derivata della funzione come rapporto


incrementale: più il 𝛥𝑥 si riduce e più il valore calcolato nel punto considerato sarà
vicino al valore della derivata vera. Facendo uno zoom nel punto cerchiato in rosso
della figura precedente, ci si accorge magari che nell’intorno di quel punto la funzione
ha un diverso andamento:

Figura 165

Nel momento in cui si va a scegliere un passo di derivazione piuttosto piccolo la


derivata viene come indicato in figura, che evidentemente non è quella che si
avrebbe macroscopicamente.

218
Esistono una serie di effetti che possono portare alla presenza di queste
discontinuità. Se il modello all’interno ha dei calcoli di tipo iterativo in generale si
procede definendo un errore e quando esso risulta minore di una certa tolleranza si
va avanti; fissato un dato punto iniziale l’algoritmo per esempio fa tre iterazioni prima
di andare avanti, ovvero prima di aver ridotto l’errore sotto la soglia fissata;
spostandosi con la 𝑥, le tre iterazioni magari non bastano, ma ad esempio sono
necessarie quattro iterazioni; tale discontinuità rispetto al caso precedente può
generare degli errori facendo saltare il valore. Con calcoli iterativi uno all’interno
dell’altro è possibile che essi vadano a convergenza con un numero diverso di
iterazioni fissato che sia il livello di precisione (tolleranza) che si vuole ottenere:
passando dall’uno all’altro si ha una discontinuità che se si va a guardare la funzione
a livello macroscopico non è visibile, ma a livello microscopico sì. Quando si sta
simulando una funzione per darla in pasto a un algoritmo di ottimizzazione si devono
avere dei criteri di precisione più elevati rispetto a quelli che si devono avere quando
si vuole semplicemente vedere cosa accade. Ad esempio una tolleranza pari a 10−4
è più che sufficiente come precisione a livello ingegneristico (non la si può nemmeno
misurare), ma a livello matematico magari è necessaria una tolleranza dell’ordine di
10−6 perché altrimenti si hanno delle discontinuità. Quindi quando si ha a che fare
con una simulazione che viene poi analizzata da un programma di ottimizzazione
bisogna stare attenti a ciò che accade alle possibili discontinuità e quindi evitare di
scegliere passi di derivazione molto piccoli (sebbene in genere sia l’algoritmo che lo
sceglie, tra le opzioni del calcolo è possibile settarlo in modo che esso non risulti
minore di un valore prefissato; inoltre le variabili della funzione devono avere lo
stesso range di variazione altrimenti un passo di derivazione che va bene per l’una
non va bene per l’altra). Allestire un modello da utilizzare per un’ottimizzazione
richiede un certo numero di accorgimenti, che non sono quelli utilizzati quando si ha
un’interfaccia in cui si mettono dei numeri. Una cosa che sicuramente non accade
quando si utilizza un modello con un’interfaccia utente e lo si va ad interrogare è
quella di dare dei numeri sballati; se ad esempio si fornire il valore di una temperatura
misurata in Kelvin è evidente che l’utente non andrà mai a digitare un numero
negativo; tuttavia se tutto ciò viene dato in pasto a un programma di ottimizzazione
senza specificare niente, magari esce fuori una temperatura negativa in quanto esso
non è in grado di distinguere un’assunzione giusta da una sbagliata; in questo caso
è possibile che si verifichino due situazioni: nel caso più fortunato il programma va in
errore bloccandosi, mentre nell’altro caso il programma continua ad andare avanti
fornendo un risultato sballato; in quest’ultimo esistono ancora una volta due
possibilità: se si è fortunati il numero è sballato di parecchio per cui facilmente ci si
può accorgere del fatto che vi sia un errore, ma in altri casi esso può essere errato
di poco per cui a colpo d’occhio non ci si accorge dell’errore; in quest’ultimo caso si
rischia di avere un risultato sbagliato non in maniera macroscopica, ma di quel tanto
che basta per non far funzionare il sistema: un ponte con un pilastro
sottodimensionato del 20% evidentemente cade quindi piccoli errori possono essere
più pericolosi di quelli grandi.

219
Generalmente il problema di ottimizzazione vincolata si presenta nella maniera
seguente: c’è un vettore delle variabili da ottimizzare 𝑥 con una determinata
dimensione 𝑛, c’è una funzione obiettivo che in genere si cerca di rendere minima (o
massima) e ci sono una serie di vincoli che si distinguono in vincoli di disuguaglianza
(espressi da disequazioni) e vincoli di uguaglianza (espressi da equazioni) in un certo
numero.

Figura 166

Se sono presenti dei vincoli di uguaglianza il sistema di equazioni di vincolo, deve


essere sottodeterminato (ovvero deve ammettere infinite soluzioni). In effetti
dovendo minimizzare una funzione di 𝑥 se al problema di ottimizzazione gli si fornisce
un sistema di equazioni che ammette un’unica soluzione, esso non ha senso giacché
si ha appunto un’unica soluzione possibile (ovviamente ancor più il problema non ha
senso se il sistema non ammette alcuna soluzione, ovvero quando si hanno 𝑛
variabili in più di 𝑛 equazioni che non siano tra di loro linearmente dipendenti).
Pertanto a parte casi particolari con 𝑛 variabili devono aversi meno di 𝑛 equazioni
per poter avere un certo numero di soluzioni tra cui scegliere quella che rende minima
la funzione obiettivo.
Per quanto riguarda invece i vincoli di disuguaglianza, vale più o meno lo stesso
ragionamento: in tal caso è possibile avere anche più di 𝑛 vincoli di disuguaglianza,
ma essi devono essere strutturati in modo che la regione di ammissibilità
complessiva (intersezione tra le regioni di ammissibilità definite dalle equazioni) non
sia l’insieme nullo; in pratica, ogni disequazione definisce un sottospazio della 𝑥 dove
essa è soddisfatta e la restante parte dove invece non è soddisfatta: lo spazio in cui
ci si può muovere è dato dall’intersezione di tali sottospazi, ovvero dove tutti i vincoli
sono soddisfatti. Se non c’è alcun valore della 𝑥 che soddisfi contemporaneamente
tutte le disequazioni il problema non è risolvibile.
Una tecnica, già implementata all’interno di alcune routine è quella dei moltiplicatori
di Lagrange. Data una funzione da minimizzare (min 𝑓 (𝑥)) con un certo numero di
𝑥
equazioni da soddisfare (𝐸𝑖 (𝑥) = 0, 𝑖 = 1, … , 𝑚) e quindi dato un problema di minimo
con vincoli di uguaglianza è possibile definire la corrispondente funzione di Lagrange:
𝑚
𝐿(𝑥1 , 𝑥2 , … , 𝑥𝑛 , 𝜆1 , 𝜆2 , … , 𝜆𝑚 ) = 𝑓 (𝑥) − ∑ 𝜆𝑖 𝐸𝑖 (𝑥)
𝑖=1

Dove:
220
𝐿 = 𝑓𝑢𝑛𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝐿𝑎𝑔𝑟𝑎𝑛𝑔𝑒
𝑚 = 𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜 𝑑𝑖 𝑣𝑖𝑛𝑐𝑜𝑙𝑖
𝜆𝑖 = 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑖 𝑖𝑛𝑐𝑜𝑔𝑛𝑖𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑡𝑡𝑒 𝑚𝑜𝑙𝑡𝑖𝑝𝑙𝑖𝑐𝑎𝑡𝑜𝑟𝑖 𝑑𝑖 𝐿𝑎𝑔𝑟𝑎𝑛𝑔𝑒
In particolare dato un problema di minimo con vincoli di uguaglianza:
min 𝑓(𝑥)
𝑥

𝐸𝑖 (𝑥) = 0, 𝑝𝑒𝑟: 𝑖 = 1, … , 𝑚
È possibile ricondurre la minimizzazione della funzione con i vincoli di uguaglianza
dati, alla soluzione di un problema di equazioni lineari. In sostanza si va ad eguagliare
a zero le derivate della funzione di Lagrange rispetto alle 𝑥 e rispetto alle costanti 𝜆:
∂L
= 0, 𝑝𝑒𝑟: 𝑗 = 1, … , 𝑛
∂xj
∂L
= 0, 𝑝𝑒𝑟: 𝑖 = 1, … , 𝑚
∂λi
In tal modo si esprime la condizione necessaria di stazionarietà della funzione 𝐿
rispetto alle sue variabili: la condizione necessaria affinché una funzione continua
abbia un punto di stazionarietà (massimo, minimo, flesso) è che le sue derivate prime
siano nulle (quindi il sistema di 𝑛 + 𝑚 equazioni non lineari esprime proprio la
condizione di stazionarietà della funzione Lagrangiana).
In particolare le derivate della funzione Lagrangiana rispetto alle costanti 𝜆𝑖 , giacché
la prima parte della funzione non dipende dalle stesse, vengono calcolate dalla
seguente relazione:
∂L
= −𝐸𝑖 (𝑥) = 0, 𝑝𝑒𝑟 𝑖 = 1, … , 𝑚
∂λi
Pertanto la condizione sulla derivata si traduce nella condizione:
𝐸𝑖 (𝑥) = 0, 𝑝𝑒𝑟: 𝑖 = 1, … , 𝑚
E quindi il vincolo deve essere soddisfatto (la seconda parte del sistema equivale ad
imporre il soddisfacimento dei vincoli).
In particolare un teorema afferma che: se una soluzione del problema di
minimizzazione vincolata esiste, è contenuta tra le soluzioni del sistema di equazioni
definite (le equazioni alle derivate), a condizione che 𝑓(𝑥) e 𝐸 (𝑥) abbiano derivate
prime continue e che la matrice Jacobiana 𝐽 abbia rango 𝑚 per 𝑥 = 𝑥 ∗ (non devono
essere linearmente dipendenti tra di esse). In sostanza se si è in grado di risolvere il
sistema di equazioni 𝑛 + 𝑚 equazioni, si riesce a trovare la soluzione del problema
di minimo vincolato: la soluzione di un problema di ottimo si riconduce alla soluzione
di un sistema di equazioni che possono essere lineari oppure non lineari.
221
Anche nel caso in cui si abbia un problema di minimo con vincoli di uguaglianza e
disuguaglianza è possibile ragionare similmente:
min 𝑓(𝑥)
𝑥

𝐸𝑖 (𝑥) = 0, 𝑝𝑒𝑟: 𝑖 = 1, … , 𝑚 (𝑣𝑖𝑛𝑐𝑜𝑙𝑖 𝑑𝑖 𝑢𝑔𝑢𝑎𝑔𝑙𝑖𝑎𝑛𝑧𝑎 )


𝐺𝑗 (𝑥) ≤ 0, 𝑝𝑒𝑟: 𝑗 = 1, … , 𝑝 (𝑣𝑖𝑛𝑐𝑜𝑙𝑖 𝑑𝑖 𝑑𝑖𝑠𝑢𝑔𝑢𝑎𝑔𝑙𝑖𝑎𝑛𝑧𝑎)

In particolare i vincoli di disuguaglianza 𝐺 possono essere riformulati come ulteriori


vincoli di uguaglianza 𝐸 introducendo 𝑝 variabili addizionali (slack variables) non
negative 𝑥𝑛+𝑖 (numero positivo o nullo):
2
𝐸𝑗 (𝑥) = 𝐺𝑗 (𝑥) + 𝑥𝑛+𝑖 = 0, 𝑝𝑒𝑟: 𝑖 = 1, … , 𝑝
Soddisfare l’uguaglianza su scritta equivale a soddisfare la disuguaglianza di
partenza giacché certamente risulterà valida la relazione 𝐺𝑗 (𝑥) ≤ 0
I risultati precedenti possono applicarsi quindi anche a problemi con vincoli di
disuguaglianza.

222
Lezione 18 (Rizzo) 5/04/2017
Introduzione alla modellistica
Di seguito viene riportato un esempio di applicazione dei moltiplicatori di Lagrange
ad una funzione semplice:

Figura 167

La funzione che si vuole analizzare è la seguente:


𝑓 (𝑥) = 𝑥12 + 𝑥22 (𝑝𝑎𝑟𝑎𝑏𝑜𝑙𝑜𝑖𝑑𝑒)
Evidentemente il minimo assoluto di tale funzione (min 𝑓 (𝑥)) sta proprio nell’origine:
𝑥1 ,𝑥2
𝑥1 = 0, 𝑥2 = 0. Fornendo un opportuno vincolo è possibile andare a cercare proprio
il minimo che soddisfa tale vincolo; in particolare il vincolo viene dato nella maniera
seguente:
𝐸1 (𝑥) = 𝑥1 − 𝑥1∗ = 0
Da questo vincolo si evince sostanzialmente la condizione: 𝑥1 = 𝑥1∗ .
Pertanto fissato che sia il valore di 𝑥1∗ la superficie data dalla funzione assegnata
viene intersecata con un opportuno piano che passa proprio per il punto assegnato
𝑥1∗ ; la soluzione sarà trovata proprio lungo la linea in rosso intersezione della
superficie col piano verticale. Il polinomio di Lagrange per la funzione in esame sarà:
𝐿 = 𝑓 (𝑥) − 𝜆𝐸1 (𝑥) = 𝑥12 + 𝑥22 − 𝜆(𝑥1 − 𝑥1∗ )
Le derivate parziali rispetto alle diverse variabili saranno:
∂L
= 2𝑥1 − 𝜆 = 0
∂x1
223
∂L
= 2𝑥2 = 0
∂x2
∂L
= 𝐸1 (𝑥) = 𝑥1 − 𝑥1∗ = 0
∂λ
Pertanto la soluzione del problema (minimo vincolato) sarà:
𝑥1 = 𝑥1∗
{ 𝑥2 = 0
𝜆 = 2𝑥1 = 2𝑥1∗
Dunque il minimo vincolato sarà nel punto: 𝑥1 = 𝑥1∗ , 𝑥2 = 0.
Ovviamente questo caso è molto semplice in quanto viene fuori un sistema di
equazioni lineari, ma in generale potrebbe essere più complesso (equazioni non
lineari).
A questo punto si fanno una serie di esempi per chiarire quanto sinora detto.
Si vuole sempre cercare il minimo della funzione:
𝑓 (𝑥) = 𝑥12 + 𝑥22
Di seguito viene riportata la rappresentazione su curve di livello (circonferenze
concentriche che rappresentano i valori della funzione) della funzione assegnata:

Figura 168

Evidentemente il minimo assoluto della funzione si trova proprio al centro nel punto
𝑥1 = 0, 𝑥2 = 0. A questo punto si un impone un vincolo di disuguaglianza:
𝐺1 (𝑥) = −1 − 𝑥1 ≤ 0 ⟹ 𝑥1 ≥ −1

224
Tale vincolo divide il campo di variazione delle variabili in una regione di ammissibilità
dove il vincolo è soddisfatto e una regione di non ammissibilità dove al contrario esso
non è soddisfatto; pertanto la regione di ammissibilità è la zona in cui 𝑥1 ≥ −1. In
questo caso (un solo vincolo di disuguaglianza lineare) il minimo vincolato coincide
con il minimo non vincolato, e si trova all’interno della regione di ammissibilità (il
vincolo 𝐺1 non è attivo, ovvero non influenza la soluzione).
Ragionando sempre sulla stessa funzione ma modificando il vincolo chiaramente il
discorso è differente. In particolare si assegna il vincolo:
𝐺1 (𝑥) = 1 − 𝑥1 ≤ 0 ⟹ 𝑥1 ≥ 1

Figura 169

In tal caso la regione di non ammissibilità si è estesa rispetto al caso precedente ed


essa include il minimo non vincolato: pertanto non è più possibile trovare tale
soluzione come minimo giacché esso cade nella regione di non ammissibilità.
All’interno della regione di ammissibilità ovviamente il minimo sarà proprio quello che
cade sulla parte estrema della regione stessa e al suo centro: 𝑥1 = 1, 𝑥2 = 0. Dunque
in questo esempio il minimo non vincolato appartiene alla regione di non
ammissibilità; la soluzione si trova sui limiti della regione di ammissibilità (il vincolo
𝐺1 è attivo, poiché la soluzione ricade proprio sulla frontiera della regione di
ammissibilità di tale vincolo).
A questo punto sempre sulla stessa funzione vengono posti due vincoli:
𝐺1 (𝑥) = 1 − 𝑥1 ≤ 0 ⟹ 𝑥1 ≥ 1
𝐺2 (𝑥) = 2 − 𝑥2 ≤ 0 ⟹ 𝑥2 ≥ 2

225
Figura 170

Ovviamente la regione di ammissibilità sarà data dall’intersezione delle regioni di


ammissibilità fissate dai due vincoli imposti. Ancora una volta il minimo non vincolato
ricade all’interno della regione di non ammissibilità pertanto esso non sarà il minimo
trovato; in tal caso il minimo vincolato si trova all’intersezione dei limiti delle regioni
di ammissibilità dei vincoli (entrambi i vincoli 𝐺1 e 𝐺2 sono attivi e determinano la
posizione del vincolo vincolato).
Sempre per la stessa funzione si impongano i seguenti vincoli:
𝐺1 (𝑥) = 1 − 𝑥1 ≤ 0 ⟹ 𝑥1 ≥ 1
𝐺2 (𝑥) = 2 + 𝑥1 ≤ 0 ⟹ 𝑥2 ≤ −2
Ovviamente in tal caso l’intersezione delle regioni di ammissibilità è nulla, per cui il
problema non ammette soluzioni; di fatto i due vincoli si escludono a vicenda per cui
non c’è soluzione possibile. È evidente che questo rappresenta un caso banale
giacché i vincoli vengono dati sulla variabile stessa, ma essi potrebbero anche
essere dati su un qualcosa di più complesso che non è immediatamente visibile: se
si sta progettando una turbina multistadio si devono fissare limiti sul titolo, sul numero
di Mach, … e non è banale capire a priori se un vincolo esclude l’altro.

226
Figura 171

Ragionando sempre sulla stessa funzione, ai due vincoli di disuguaglianza in tal caso
si aggiunge un terzo vincolo (di uguaglianza):
𝐺1 (𝑥) = 1 − 𝑥1 ≤ 0 ⟹ 𝑥1 ≥ 1
𝐺2 (𝑥) = 2 − 𝑥2 ≤ 0 ⟹ 𝑥2 ≥ 2
𝐸1 (𝑥) = 𝑥1 + 𝑥2 − 5 = 0

Figura 172

L’equazione di vincolo di uguaglianza esprime l’equazione di una retta che viene


riportata in figura (in verde). Pertanto la soluzione va cercata proprio sul tratto di retta
che attraversa la regione di ammissibilità definita dagli altri due vincoli (vincoli di
227
disuguaglianza): tra tali punti va trovato quello di minimo (evidentemente sarà quello
che avrà la distanza minima dal centro). In questo caso il minimo vincolato si trova
all’interno delle regioni di ammissibilità (i vincoli 𝐺1 e 𝐺2 non sono attivi, poiché il
minimo non sta sulla frontiera) e lungo la curva (una retta) in cui è soddisfatto il
vincolo lineare 𝐸1 .
Un ultimo esempio può essere fatto, dando i seguenti vincoli:
𝐺1 (𝑥) = 1 − 𝑥1 ≤ 0 ⟹ 𝑥1 ≥ 1
𝐺2 (𝑥) = 2 − 𝑥2 ≤ 0 ⟹ 𝑥2 ≥ 2
𝐸1 (𝑥) = 𝑥12 − 𝑥22 − 4 = 0

Figura 173

In tal caso il vincolo di uguaglianza esprime una funzione di secondo grado ed in


particolare un’iperbole che ha un ramo superiore e un ramo inferiore (riportati in
figura). Pertanto la soluzione va cercata sul ramo di iperbole che attraversa la regione
di ammissibilità: ancora una volta la soluzione sarà rappresentata dal punto più vicino
all’origine della funzione. In questo caso il minimo vincolato si trova all’interno delle
regioni di ammissibilità (𝐺1 non attivo e 𝐺2 attivo) e lungo una delle curve in cui è
soddisfatto il vincolo non lineare 𝐸1 .
In molti casi i problemi presentano più di due variabili per cui diventa impossibile
andare a visualizzare ciò che accade.
In alcune librerie scientifiche sono disponibili metodi (algoritmi) per la risoluzione di
problemi di ottimo vincolato (esempio: fmincon, Matlab, Excel). In molti casi sono
disponibili soltanto routines di minimizzazione di una funzione di 𝑛 variabili. È quindi
necessario trasformare il problema di ottimo vincolato (constrained) in un problema

228
di minimizzazione senza vincoli (unconstrained). I problemi di ottimo vincolato
possono essere ricondotti a problemi di minimo non vincolato con tecniche quali:
 Funzioni di penalizzazione (penalty functions): utilizzata per casi semplici
 Lagrangiana aumentata (Augmented Lagrangian): più complessa
Per quanto riguarda le funzioni di penalizzazione si immagini di avere un problema
di minimizzazione con vincoli di disuguaglianza e di uguaglianza:
min 𝑓(𝑥) (1) 𝑓𝑢𝑛𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑜𝑏𝑖𝑒𝑡𝑡𝑖𝑣𝑜
𝑥

𝐺𝑖 (𝑥) ≤ 0, 𝑝𝑒𝑟: 𝑖 = 1, … , 𝑁𝑑 (2) 𝑣𝑖𝑛𝑐𝑜𝑙𝑖 𝑑𝑖 𝑑𝑖𝑠𝑢𝑔𝑢𝑎𝑔𝑙𝑖𝑎𝑛𝑧𝑎


𝐸𝑗 (𝑥) = 0, 𝑝𝑒𝑟: 𝑗 = 1, … , 𝑁𝑒 (3) 𝑣𝑖𝑛𝑐𝑜𝑙𝑖 𝑑𝑖 𝑢𝑔𝑢𝑎𝑔𝑙𝑖𝑎𝑛𝑧𝑎
È possibile creare una nuova funzione data dalla somma della funzione originaria
con la sommatoria di un certo numero di termini pari al numero dei vincoli di
disuguaglianza e con la sommatoria di altri termini pari al numero di vincoli di
uguaglianza:
𝑁𝑑 𝑁𝑒
min 𝐹 (𝑥) = 𝑓 (𝑥) + ∑ 𝑃𝑖 + ∑ 𝑃𝑗 (4) 𝑓𝑢𝑛𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑜𝑏𝑖𝑒𝑡𝑡𝑖𝑣𝑜 𝑟𝑖𝑠𝑢𝑙𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒
𝑥 𝑖=1 𝑗=1

I termini 𝑃𝑖 e 𝑃𝑗 vengono detti termini di penalizzazione.

Si va a cercare il minimo della funzione appena definita, che coincide con la funzione
originaria, dove i termini di penalizzazione diventano nulli o positivi; in particolare
sono dei termini nulli se il vincolo è soddisfatto, mentre diventano positivi e molto
elevati se il vincolo non è soddisfatto: in tal modo si riesce a “convincere” l’algoritmo
a mettersi in una zona dove il vincolo è soddisfatto e dove si va a minimizzare la
funzione. Per fare ciò si definiscono le funzioni nella maniera seguente:
𝑃𝑖 = 𝐻𝐺𝑖 (𝑥)2 , 𝑠𝑒: 𝐺𝑖 (𝑥) > 0 (𝑣𝑖𝑛𝑐𝑜𝑙𝑜 𝑛𝑜𝑛 𝑟𝑖𝑠𝑝𝑒𝑡𝑡𝑎𝑡𝑜) (5𝑎)
𝑃𝑖 = 0, 𝑠𝑒 𝐺𝑖 (𝑥) ≤ 0 (𝑣𝑖𝑛𝑐𝑜𝑙𝑜 𝑟𝑖𝑠𝑝𝑒𝑡𝑡𝑎𝑡𝑜) (5𝑏)
𝑃𝑗 = 𝐻𝐸𝑖 (𝑥)2 è 𝑚𝑎𝑔𝑔𝑖𝑜𝑟𝑒 𝑑𝑖 𝑧𝑒𝑟𝑜 𝑠𝑜𝑙𝑜 𝑠𝑒 𝑖𝑙 𝑣𝑖𝑛𝑐𝑜𝑙𝑜 𝐸 𝑛𝑜𝑛 è 𝑟𝑖𝑠𝑝𝑒𝑡𝑡𝑎𝑡𝑜 (6)

Dove:
𝐻 = 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑝𝑜𝑠𝑖𝑡𝑖𝑣𝑎
In sostanza si va a penalizzare la funzione da minimizzare di un qualcosa che è
proporzionale al quadrato dell’infrazione che si sta commettendo.
Quanto detto funziona soprattutto nei casi più semplici. Per far funzionare il tutto la
costante 𝐻 deve tendere all’infinito e in questo caso la soluzione del problema
3, 4, 5, 6 coincide con quella del problema originario 1, 2. Per 𝐻 finito, la soluzione
appartiene alla regione di non ammissibilità dei vincoli (sia pure di poco): per evitare
questo problema 𝐻 (fattore di penalizzazione) deve appunto tendere all’infinito, ma
quando esso è molto elevato a livello numerico possono insorgere problemi di
229
malcondizionamento numerico (in tal caso l’algoritmo di ottimizzazione va in crisi).
La presenza del termine quadratico nella 5𝑎 conserva la continuità della derivata
prima nel punto di frontiera.
La Lagrangiana aumentata è una tecnica già implementata in un algoritmo di Matlab.
Anche in tal caso si parte da una funzione obiettivo a cui vengono assegnati dei
vincoli di disuguaglianza (esiste anche il caso in cui vengano assegnati vincoli di
uguaglianza):
min 𝑓(𝑥) (1) 𝑓𝑢𝑛𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑜𝑏𝑖𝑒𝑡𝑡𝑖𝑣𝑜
𝑥

𝐺𝑖 (𝑥) ≤ 0, 𝑝𝑒𝑟: 𝑖 = 1, … , 𝑁𝑑 (2) 𝑣𝑖𝑛𝑐𝑜𝑙𝑖 𝑑𝑖 𝑑𝑖𝑠𝑢𝑔𝑢𝑎𝑔𝑙𝑖𝑎𝑛𝑧𝑎


Si definisce la funzione Lagrangiana aumentata:
𝑀
𝐿(𝑥, 𝜆) = 𝑓 (𝑥) + ∑ 𝜉𝑖 (3) 𝑓𝑢𝑛𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝐿𝑎𝑔𝑟𝑎𝑛𝑔𝑖𝑎𝑛𝑎 𝑎𝑢𝑚𝑒𝑛𝑡𝑎𝑡𝑎
𝑖=1

In sostanza alla funzione 𝑓(𝑥) si aggiungono dei termini aggiuntivi (simili ai termini di
penalizzazione). La funzione 𝜉𝑖 è definita nel seguente modo:
𝜌 𝜆𝑖
𝜉𝑖 = −𝜆𝑖 𝐺𝑖 (𝑥) + 𝐺𝑖 (𝑥)2 , 𝑠𝑒: 𝐺𝑖 (𝑥) ≤ (4𝑎)
2 𝜌
𝜆2𝑖 𝜆𝑖
𝜉𝑖 = − , 𝑠𝑒: 𝐺𝑖 (𝑥) > (4𝑏)
2𝜌 𝜌
Dove:
𝜆𝑖 = 𝑚𝑜𝑙𝑡𝑖𝑝𝑙𝑖𝑐𝑎𝑡𝑜𝑟𝑒 𝑑𝑖 𝐿𝑎𝑔𝑟𝑎𝑛𝑔𝑒 (≥ 0) 𝑎𝑠𝑠𝑜𝑐𝑖𝑎𝑡𝑜 𝑎𝑙𝑙′ 𝑖 − 𝑒𝑠𝑖𝑚𝑜 𝑣𝑖𝑛𝑐𝑜𝑙𝑜
𝜌 = 𝑓𝑎𝑡𝑡𝑜𝑟𝑒 𝑑𝑖 𝑝𝑒𝑛𝑎𝑙𝑖𝑧𝑧𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 (> 0)
La soluzione del problema prevede:
 La minimizzazione non vincolata della funzione Lagrangiana (3, 4𝑎, 4𝑏).
 La ridefinizione (updating) dei moltiplicatori di Lagrange (essi vengono
ricalcolati con una formula iterativa), per esempio con il seguente algoritmo:
𝜆𝑖 = 𝜆𝑖 − min(𝜌𝐺𝑖 (𝑥), 𝜆𝑖 )
 Il controllo della convergenza e la eventuale ripetizione dei passi 1 − 3.
L’adozione di questa tecnica presenta dei vantaggi rispetto alla tecnica delle Penalty
Functions, perché consente di calcolare la soluzione in presenza di vincoli anche con
valori moderati del fattore di penalizzazione 𝜌, evitando l’insorgere di problemi di
malcondizionamento numerico (è quella implementata nelle routines di Matlab, per
la risoluzione di problemi di ottimo vincolato).
Si consideri dunque una funzione 𝑓 (𝑥) = 𝑥 3 , di cui si vuole ricercare il minimo
(min 𝑓 (𝑥)). Ovviamente volendo ricercare il minimo assoluto di tale funzione esso
𝑥
starebbe a −∞. Tuttavia si impone un vincolo di disuguaglianza che è il seguente:
230
𝐺 (𝑥) = 𝑥 + 1 ≤ 0 ⟹ 𝑥 ≥ −1
Ovviamente la soluzione si troverà esattamente a −1, giacché più la 𝑥 è piccola e
più la funzione scelta si riduce.
Nella figura seguente viene riportata la risoluzione grafica del problema utilizzando
la funzione di penalizzazione (a sinistra) e la Lagrangiana aumentata (a destra).

Figura 174

Nel caso della funzione di penalizzazione si ha:


min 𝐹 (𝑥) = 𝑓 (𝑥) + 𝑃
𝑥

𝑥 ≤ −1: 𝑃 = 𝐻 (𝑥 + 1)2 (𝑣𝑖𝑛𝑐𝑜𝑙𝑜 𝑛𝑜𝑛 𝑠𝑜𝑑𝑑𝑖𝑠𝑓𝑎𝑡𝑡𝑜)


𝑥 > 1: 𝑃 = 0 (𝑣𝑖𝑛𝑐𝑜𝑙𝑜 𝑠𝑜𝑑𝑑𝑖𝑠𝑓𝑎𝑡𝑡𝑜)
Quando 𝐻 = 0 ovviamente la funzione 𝐹 (𝑥) coincide con la funzione originaria 𝑓(𝑥).
Quando 𝐻 = 1, la funzione 𝐹 (𝑥) coinciderà con 𝑓 (𝑥) nella zona in cui il vincolo è
soddisfatto, mentre assumerà un valore leggermente differente nella regione in cui il
vincolo non è rispettato (linea discontinua a tratto lungo). Dando ad 𝐻 il valore 10,
evidentemente nella zona in cui il vincolo è rispettato la 𝐹(𝑥) coinciderà sempre con
la 𝑓(𝑥), ma nella zona in cui il vincolo non è soddisfatto l’andamento della 𝐹 (𝑥) si
discosta nettamente dall’andamento della 𝑓(𝑥) (linea discontinua a tratto breve): la
cosa inizia dunque a funzionare giacché la 𝐹(𝑥) inizia a risentire dell’effetto della
“multa”, ma il suo punto di minimo comunque non cade dove dovrebbe (è spostato
un po’ più a sinistra: ci vuole un po’ di “infrazione” prima che la “multa” abbia effetto);
in sostanza in questo caso la soluzione è stata trovata a patto che il soddisfacimento
del vincolo non sia un qualcosa di molto rigoroso: ciò dipende dal problema.
Assumendo a questo punto 𝐻 = 100 nella zona in cui il vincolo è rispettato ancora
una volta 𝐹(𝑥) e 𝑓(𝑥) coincidono, mentre si discostano notevolmente nella zona in
cui il vincolo non è soddisfatto (linea discontinua punteggiata); in tal caso si è ancora
più vicini alla soluzione che si vuole trovare in quanto nella zona di vincolo non
rispettato la funzione 𝐹 (𝑥) si impenna molto, sebbene il minimo ricada ancora un po’
più a sinistra ovvero sempre nella regione di non ammissibilità. Tuttavia ci si rende
231
conto che man mano che 𝐻 aumenta, la funzione da un andamento piuttosto dolce
si impenna improvvisamente: questo fatto non è gradito agli algoritmi proprio a causa
di come essi ragionano; gli algoritmi di fatto vanno a fare degli esperimenti numerici
andando a vedere il valore della funzione, della derivata, …; successivamente essi
fanno un’ipotesi sul comportamento della funzione tra determinati punti e in genere
ipotizzano che la funzione abbia un andamento di tipo quadratico: tra i punti
considerati essi fanno passare una parabola (o un paraboloide in 𝑛 dimensioni) e
analiticamente si vanno a calcolare il punto di ottimo (punto di minimo); ciò funziona
tanto meglio quanto più la funzione ha un andamento quadratico: una funzione
invece che è molto discontinua (presenta un salto evidente) si discosta molto da una
quadratica per cui l’algoritmo che c’è alla base non funziona bene e in alcuni casi
non riesce a convergere. Quindi in tal caso più si vuole essere precisi e più si mette
in crisi il metodo: questo è il motivo per cui tale metodo funziona nei casi più semplici
e meno rigorosi.
Nel caso della Lagrangiana aumentata invece si ottiene un qualcosa di differente. La
funzione Lagrangiana sarà:
𝜌
𝐿(𝑥, 𝜆) = 𝑥 3 − 𝜆(𝑥 + 1) + (𝑥 + 1)2
2
Quindi la funzione Lagrangiana è composta nell’ordine dalla funzione, dal termine
Lagrangiano e dal termine di penalizzazione. L’ottimo che viene calcolato in questo
caso è proprio 𝑥 = −1 (e 𝜆 = 3), proprio come ci si aspettava. Ovviamente anche in
questo caso a seconda del valore del termine di penalizzazione 𝜌 si avranno diversi
andamenti. In particolare per 𝜌 = 0 si ottiene la funzione a tratto lungo discontinuo:
essa ha un punto di stazionarietà, ma non è un punto di minimo, bensì è un punto di
massimo: l’algoritmo di ricerca del minimo non funzionerebbe. Nel caso in cui 𝜌 = 6
la funzione è quella a tratto breve discontinuo: in tal caso il punto di stazionarietà è
diventato un punto di flesso e dunque anche in questo caso l’algoritmo non
funzionerebbe. Tuttavia per 𝜌 = 20 si ottiene la curva punteggiata: l’andamento della
funzione è estremamente dolce e dunque può essere trattato in maniera agevole
dagli algoritmi di ottimizzazione per trovare appunto il minimo. Pertanto con la
Lagrangiana aumentata basta utilizzare dei termini di penalizzazione non molto
elevati, per avere una funzione con un andamento molto graduale, che viene ben
trattata dai metodi di ottimizzazione.
La maggior parte dei metodi “classici” di minimizzazione (metodi di Newton e derivati)
sono basati sulla approssimazione quadratica della funzione 𝑓 da minimizzare: ciò è
dovuto al fatto che nella maggior parte dei casi, attorno al punto di minimo, una
funzione è ben approssimabile da un andamento di questo tipo (quadratico in 𝑛
dimensioni). Per studiare le metodologie di soluzione dei problemi di minimo di
funzioni in più dimensioni, è utile rifarsi al problema della ricerca del minimo di una
funzione quadratica in una variabile.

232
Nel caso semplice di una funzione quadratica in una variabile (parabola), a partire
dal valore della funzione e della derivata prima e seconda in un generico punto 𝑥 si
possono ricavare i coefficienti della curva (𝑎, 𝑏, 𝑐) e determinarne analiticamente le
coordinate del vertice (punto di massimo o minimo):
𝑦 = 𝑎𝑥 2 + 𝑏𝑥 + 𝑐
𝑦 ′ = 2𝑎𝑥 + 𝑏
𝑦 ′′ = 2𝑎
Conoscendo i valori numerici della funzione e delle derivate in un dato punto è
possibile calcolare i coefficienti 𝑎, 𝑏, 𝑐 e di conseguenza ricavare le coordinate del
vertice:
𝑏
𝑥𝑣 = −
2𝑎
4𝑎𝑐 − 𝑏2
𝑦𝑣 =
4𝑎
Le condizioni per l’esistenza del minimo sono:
𝑦 ′ = 0 𝑐𝑜𝑛𝑑𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑛𝑒𝑐𝑒𝑠𝑠𝑎𝑟𝑖𝑎
𝑦 ′′ > 0 𝑐𝑜𝑛𝑑𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑠𝑢𝑓𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒
Questa è la matematica di base che ispira i metodi più complessi.
Quando si ha a che fare con funzioni non lineari in più variabili il modo di ragionare
è simile, ma più complesso. Una funzione non lineare in più variabili può essere
approssimata al suo polinomio di Taylor del secondo ordine attorno ad un punto
generico 𝑥0 :
1
𝑓(𝑥0 + 𝑠) = 𝑓(𝑥0 ) + 𝐺(𝑥0 )𝑠 + 𝑠 𝑇 𝐻(𝑥0 )𝑠 + ⋯ 𝑃𝑜𝑙𝑖𝑛𝑜𝑚𝑖𝑜 𝑑𝑖 𝑇𝑎𝑦𝑙𝑜𝑟 𝑡𝑟𝑜𝑛𝑐𝑎𝑡𝑜 𝑎𝑙 2° 𝑜𝑟𝑑𝑖𝑛𝑒
2
Dove:
𝑠 = 𝑣𝑒𝑡𝑡𝑜𝑟𝑒 𝑠𝑝𝑜𝑠𝑡𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑎 𝑝𝑎𝑟𝑡𝑖𝑟𝑒 𝑑𝑎𝑙 𝑝𝑢𝑛𝑡𝑜 𝑥0
∂f
𝐺=[ ] 𝑣𝑒𝑡𝑡𝑜𝑟𝑒 𝑔𝑟𝑎𝑑𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒 (𝑑𝑒𝑟𝑖𝑣𝑎𝑡𝑒 𝑝𝑟𝑖𝑚𝑒)
∂xi

∂2 𝑓
𝐻=[ ] 𝑚𝑎𝑡𝑟𝑖𝑐𝑒 𝐻𝑒𝑠𝑠𝑖𝑎𝑛𝑎 (𝑑𝑒𝑟𝑖𝑣𝑎𝑡𝑒 𝑠𝑒𝑐𝑜𝑛𝑑𝑒)
∂xi ∂xj

Quindi la funzione in 𝑛 variabile viene scritta come una funzione di secondo grado.
Le condizioni per il minimo si esprimono come:
𝐺 = 0 (𝑐𝑜𝑛𝑑𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑛𝑒𝑐𝑒𝑠𝑠𝑎𝑟𝑖𝑎 𝑝𝑒𝑟 𝑖𝑙 𝑚𝑖𝑛𝑖𝑚𝑜)
𝐻 𝑑𝑒𝑓𝑖𝑛𝑖𝑡𝑎 𝑝𝑜𝑠𝑖𝑡𝑖𝑣𝑎 (𝑐𝑜𝑛𝑑𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑠𝑢𝑓𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑝𝑒𝑟 𝑖𝑙 𝑚𝑖𝑛𝑖𝑚𝑜)
233
Anzitutto si va a calcolare l’approssimazione di Taylor del gradiente:
𝐺 (𝑥0 + 𝑠) = 𝐺 (𝑥0 ) + 𝐻 (𝑥0 )𝑠
Ovviamente la derivata prima del gradiente è proprio l'Hessiano: in tal modo è stata
calcolata la variazione del gradiente attorno al punto 𝑥0 . A partire dalla relazione
precedente imponendo la condizione di gradiente nullo si va a calcolare il punto di
stazionarietà della funzione 𝑓:
𝐺 (𝑥0 + 𝑠) = 0 ⟹ 𝑠 = −𝐻 −1 (𝑥0 )𝐺 (𝑥0 )
In altre parole considerato un punto 𝑥0 generico nel quale sono note la derivata prima
e la derivata seconda è possibile calcolare il valore di 𝑠, che porta in un punto dove
il gradiente è nullo (𝑠 indica di quanto ci si deve spostare da 𝑥0 per trovare il punto a
derivata nulla).
A partire da un valore qualunque di 𝑥0 , il valore 𝑥0 + 𝑠 calcolato rappresenta il punto
di stazionarietà (o un punto di minimo relativo se la matrice 𝐻 è definita positiva) se:
 La funzione è quadratica: la matematica vista si applica con precisione soltanto
se la funzione è quadratica.
 È noto il gradiente (che richiede 𝑛1 valutazioni).
 È nota la matrice delle derivate seconde (che richiede 𝑛2 valutazioni).
 I valori della funzione e delle derivate (soprattutto per le derivate seconde) non
sono affetti da errori di troncamento e arrotondamento: solo se le derivate e la
funzione sono precise il calcolo dà un buon risultato.
 L’inversione della matrice 𝐻 non introduce errori numerici: problemi di
carattere numerico possono insorgere soprattutto quando i termini della
matrice hanno ordini di grandezza differenti.
Pertanto nel caso in cui le condizioni non siano rispettate, il punto 𝑥0 + 𝑠 più che
rappresentare il minimo, rappresenta un’approssimazione del punto di minimo, che
viene quindi calcolato attraverso una metodologia iterativa. In particolare a partire da
un punto calcolato, si può ripartire iterando l’iterazione per avvicinarsi sempre di più
al minimo effettivo.
Nelle routines implementate, vengono spesso utilizzati dei metodi di Quasi-Newton.
Se la funzione ha molte variabili, il calcolo delle derivate seconde richiede molto
tempo (𝑛2 valutazioni: quindi una funzione di 100 variabili richiede 10000 valutazioni,
con il rischio che poi si abbia comunque una forte imprecisione). I metodi di Quasi-
Newton prevedono le seguenti fasi:
 Valutazione numerica della funzione e delle derivate prime in un punto iniziale
𝑥0 : tali metodi si accontentano di valutare solo la funzione e le derivate prime.
 Stima della matrice Hessiana (o della sua inversa) con valutazione diretta o
con metodi approssimati, a partire dai valori del vettore gradiente (per esempio
algoritmi DFP, BFGS): piuttosto che calcolare le derivate seconde vanno ad

234
effettuare una stima. Il principio di base degli algoritmi menzionati è quello di
andare ad individuare la variazione delle derivate prime da un punto ad un altro
desumendo delle informazioni sulla loro derivata, ovvero sulla derivata
seconda, piuttosto che calcolarla esplicitamente.
 Calcolo del vettore spostamento 𝑠 (con l’espressione già vista).
 Ricerca del minimo della funzione nella direzione così individuata (ricerca
lineare a partire dal punto 𝑥0 e lungo la direzione 𝑠), basata su:
o Individuazione del punto di inversione delle derivate prime.
o Calcolo del punto di derivata nulla con metodi di interpolazione inversa
safeguard.
 Calcolo del gradiente e verifica dei criteri di terminazione (si cerca di capire se
si è terminato: spesso una delle cose più complesse è capire a che livello di
precisione fermarsi e se la soluzione è stata trovata o meno; di fatto in un caso
reale non si conosce la soluzione, quindi quando l’algoritmo si ferma bisogna
capire se la soluzione fornita è giusta e magari se è quella migliore; è possibile
però riprovare a fare il calcolo, magari partendo da punti diversi; spesso dopo
un po’ di iterazioni il calcolo converge verso una soluzione e per molte
iterazioni continua a dare valori molto vicini tra di loro: capire se si è fermato
perché la soluzione è stata trovata effettivamente o se si è bloccato in un punto
dove se ci si sposta le cose vanno meglio è abbastanza complesso); eventuale
ripetizione dei passaggi precedenti a partire dal punto trovato.
Uno dei primi metodi che veniva utilizzato per cercare il minimo di una funzione era
quello del gradiente: a partire da un punto si andavano a calcolare le componenti del
gradiente e note tali componenti si andava a vedere in quale direzione tale gradiente
avesse la discesa più rapida, spostandosi dunque in quella direzione e così via; in
molti casi tale metodo, apparentemente elementare non funzionava, per cui sono
state adottate delle varianti tra cui una delle più famose è il metodo del gradiente
coniugato. Il metodo del gradiente coniugato è una variante del metodo del gradiente
(steepest descent), che in alcuni casi può non funzionare o essere caratterizzato da
oscillazioni e da tempi di calcolo eccessivi; è quindi un metodo del primo ordine (non
prevede il calcolo o la stima delle derivate seconde). Le fasi di ricerca lineare sono
effettuate su opportune direzioni (coniugate), definite in funzione delle componenti
del gradiente. La teoria assicura che, per una funzione quadratica di 𝑛 variabili è
possibile determinare il punto di minimo dopo 𝑛 ricerche lineari esatte lungo le
direzioni coniugate. Il metodo del gradiente coniugato è implementato nel
programma VAPOTT, per il progetto ottimizzato degli impianti a vapore.
Le fasi del calcolo, nel metodo del gradiente coniugato sono le seguenti:
 Assegnazione del vettore 𝑥0
 Calcolo delle 𝑛 componenti ∂f/ ∂xi del gradiente della funzione nel punto 𝑥0
2
 Valutazione del modulo del vettore gradiente: 𝐺 = ∑𝑖(∂f/ ∂xi )
 Confronto con il valore minimo accettato per terminare il calcolo

235
 Calcolo della direzione di discesa (direzione coniugata), in funzione del valore
attuale delle componenti del gradiente
 Ricerca numerica del minimo della funzione 𝑓(𝑥) lungo la direzione coniugata
passante per il punto 𝑥0 (ricerca lineare)
 Ritorno alla seconda fase, a partire da un nuovo punto 𝑥0 corrispondente alla
soluzione della fase precedente
Molti metodi iterativi precedono la ricerca del minimo della funzione lungo una
direzione di discesa. Definiti i coseni direttori 𝛼 della direzione di discesa, si ricerca il
valore della ascissa 𝑠 che corrisponde al minimo della funzione 𝑓 (𝑥) lungo tale
direzione. La ricerca lineare è effettuata per via numerica, secondo tre fasi:
 Individuazione del verso di discesa, corrispondente ad un valore negativo della
derivata direzionale ∂f/ ∂s.
 Calcolo della funzione 𝑓 (𝑠) e della derivata direzione ∂f/ ∂s ed individuazione
del primo punto per il quale risulti ∂f/ ∂s > 0.
 Ricerca della soluzione all’interno dell’intervallo 𝑠𝑖−1 − 𝑠𝑖 , con metodi di
interpolazione inversa, con tecniche safeguard per evitare casi singolari; la
ricerca ha termine quando risulta |∂f/ ∂s| < 𝜀.
A questo punto si riportano degli esempi di soluzione trovati con le routines che si
hanno a disposizione in Matlab. In Matlab sostanzialmente si hanno a disposizione
due funzioni: fminunc (funzione di minimizzazione non vincolata) che trova il minimo
non vincolato e fmincon (funzione di minimizzazione vincolata) che trova il minimo
vincolato. In particolare la funzione fminunc è stata testata su una funzione che viene
molto spesso utilizzata dai matematici applicati per testare dei metodi (per analizzare
le prestazioni dei metodi di ottimizzazione), che viene chiamata funzione di
Rosenbrock (trovare il minimo di questa funzione non è semplice):
𝑓 = 100 ∙ (𝑥2 − 𝑥12 )2 + (1 − 𝑥1 )2
Questa è una funzione di quarto grado in due variabili che ammette un minimo, pari
a zero nel punto [1,1]. In sostanza la funzione di Rosenbrock è data dalla somma di
due termini positivi: il secondo termine ha il minimo per 𝑥1 = 1, nel qual caso esso
vale zero, mentre quando anche 𝑥2 = 1 pure il primo termine è nullo (minimo della
funzione).
Quando si cerca l’ottimo con un metodo iterativo è sempre necessario fornire un
punto di partenza (se esso è molto lontano dalla zona di minimo, l’algoritmo potrebbe
essere non in grado di trovare l’ottimo):

Figura 175

236
Tra le opzioni si fissa, di andare a visualizzare le iterazioni che vengono effettuate.
In ingresso alla funzione fminunc vengono dati in sostanza, il nome della funzione
dov’è implementato il legame tra 𝑥 e 𝑓 (𝑚𝑦𝑓𝑢𝑛), il punto iniziale 𝑥0 e le opzioni
(𝑜𝑝𝑡𝑖𝑜𝑛𝑠). In uscita si ottiene: il valore della 𝑋 dove c’è l’ottimo (ovvero il minimo), il
valore della funzione nel punto di minimo (𝐹𝑉𝐴𝐿), un flag ovvero un indicatore
(𝐸𝑋𝐼𝑇𝐹𝐿𝐴𝐺) che dà indice di come va a finire il calcolo (se è terminato per qualche
motivo, …) e una struttura di Matlab (𝑂𝑈𝑇𝑃𝑈𝑇) dove sono contenute diverse
informazioni, come il numero di iterazioni eseguite, il numero di valutazioni della
funzione, il passo, l’algoritmo utilizzo, …. Andando ad eseguire il programma si
ottiene il risultato corretto come di seguito riportato:

Figura 176

Com’è possibile notare l’algoritmo ha funzionato (𝐸𝑋𝐼𝑇𝐹𝐿𝐴𝐺 = 1), dopo 27 iterazioni


con un metodo di Quasi-Newton, avendo calcolato la funzione 165 volte.
Inoltre con l’opzione 𝐷𝑖𝑠𝑝𝑙𝑎𝑦 = ′𝐼𝑡𝑒𝑟′ è possibile visualizzare le informazioni relative
a:
 Iterazioni effettuate
 Numero di valutazioni della funzione
 Valore della funzione
 Passo
 Derivata

237
Figura 177

È possibile operare un confronto tra diversi algoritmi di ottimizzazione. Di seguito si


riportano i risultati ottenuti minimizzando una funzione non lineare di due variabili in
genere utilizzata per questo scopo (funzione di Rosenbrock) con la routine fminunc
di Matlab, con diversi algoritmi di minimizzazione, attraverso il Demo di Matlab:
𝑓 = 100 ∙ (𝑥2 − 𝑥12 )2 + (1 − 𝑥1 )2 (𝑓𝑢𝑛𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝑅𝑜𝑠𝑒𝑛𝑏𝑟𝑜𝑐𝑘 )
𝑥1 = 1, 𝑥2 = 1 ⟹ 𝑓 (𝑥) = 0 (𝑚𝑖𝑛𝑖𝑚𝑜)
𝑥1 = −1.9, 𝑥2 = 2 (𝑝𝑢𝑛𝑡𝑜 𝑖𝑛𝑖𝑧𝑖𝑎𝑙𝑒)
Il metodo di Gauss-Newton (del secondo ordine) approssima la funzione ad una
forma quadratica, calcolando le derivate prime e seconde (il calcolo della matrice
Hessiana può risultare gravoso per una funzione di molte variabili, ed affetto da errori
numerici):

Figura 178

238
A partire da un punto iniziale tale algoritmo è riuscito ad arrivare al punto finale con
relativamente poche iterazioni.
Il metodo BFGS è un metodo del secondo ordine (quasi-Newton) in cui la matrice
Hessiana è stimata iterativamente a partire dai valori del gradiente:

Figura 179

In tal caso il numero di iterazioni per arrivare alla soluzione è maggiore.


Il metodo DFP è n metodo del secondo ordine (quasi-Newton) in cui l’inversa della
matrice Hessiana è stimata iterativamente a partire dai valori del gradiente:

Figura 180

Anche in tal caso dopo un certo numero di iterazioni (maggiori rispetto al metodo di
Gauss-Newton) si riesce ad arrivare a soluzione.
Il metodo di Levenberg-Marquard ha caratteristiche intermedie tra un metodo del
gradiente ed un metodo di Gauss-Newton. È adatto a problemi di minimi quadrati
(approssimazione ed identificazione).

239
Figura 181

Il metodo Steepest Descent (metodo del gradiente, primo ordine) effettua successive
ricerche sulla direzione di massima pendenza.

Figura 182

In questo caso, tale algoritmo, nn riesce a calcolare il punto di minimo (non arriva a
soluzione).
Il metodo di Nelder-Mead si basa sul metodo del simplesso (metodologia del primo
ordine), sviluppato nell’ambito della programmazione lineare.

240
Figura 183

Sebbene esso arrivi a soluzione, è poco efficiente su una funzione del quarto ordine,
come quella utilizzata.
Riepilogando quanto detto, è possibile dire che i metodi del secondo ordine (basati
sulla conoscenza delle derivate seconde) forniscano i risultati migliori:

Figura 184

Ovviamente questo vale per la funzione assegnata, ma non sempre è così.


In Matlab è possibile anche risolvere problemi di ottimizzazione vincolata. In
particolare la routine fmincon di Matlab cerca il minimo vincolato di una funzione di
più variabili, con vincoli di uguaglianza e disuguaglianza. Per una maggiore efficienza
computazionale, i vincoli lenari, non lineari ed i limiti sulle variabili indipendenti sono
trattati separatamente.
min 𝐹 (𝑋 )
𝑋

In particolare per quanto riguarda i vincoli lineari, essi sono espressi da relazioni del
tipo:

241
𝐴𝑋 ≤ 𝐵 (𝑣𝑖𝑛𝑐𝑜𝑙𝑖 𝑑𝑖 𝑑𝑖𝑠𝑢𝑔𝑢𝑎𝑔𝑙𝑖𝑎𝑛𝑧𝑎 )
𝐴𝑒𝑞 𝑋 = 𝐵𝑒𝑞 (𝑣𝑖𝑛𝑐𝑜𝑙𝑖 𝑑𝑖 𝑢𝑔𝑢𝑎𝑔𝑙𝑖𝑎𝑛𝑧𝑎 )
Sono praticamente espressi con l’algebra lineare.
Per quanto riguarda invece i vincoli non lineari, in maniera generica essi sono
espressi dalle seguenti relazioni:
𝐶 (𝑋 ) ≤ 0 (𝑣𝑖𝑛𝑐𝑜𝑙𝑖 𝑑𝑖 𝑑𝑖𝑠𝑢𝑔𝑢𝑎𝑔𝑙𝑖𝑎𝑛𝑧𝑎)
𝐶𝑒𝑞 (𝑋 ) = 0 (𝑣𝑖𝑛𝑐𝑜𝑙𝑖 𝑑𝑖 𝑢𝑔𝑢𝑎𝑔𝑙𝑖𝑎𝑛𝑧𝑎)
Infine si hanno dei vincoli particolari che esprimono dei limiti sulle variabili
indipendenti (lower bound – upper bound) che possono variarie da un valore minimo
a un valore massimo:
𝐿𝐵 ≤ 𝑋 ≤ 𝑈𝐵
Negli esempi successivi si cerca il minimo della seguente funzione quadratica (data
dalla somma dei quadrati), imponendo vari tipi di vincoli sulle variabili:
𝑁
𝐹 (𝑋 ) = ∑ 𝑋 (𝑖 ) 2
𝑖=1

Evidentemente l’ottimo non vincolato sta proprio nel punto in cui tutte le 𝑋 si
annullano.
Nella chiamata della funzione fmincon va specificato il nome della funzione (𝑓𝑢𝑛1),
il valore di tentativo (𝑋0 ), le matrici degli eventuali vincoli lineari di disuguaglianza
(𝐴, 𝐵), le matrici degli eventuali vincoli lineari di uguaglianza (𝐴𝑒𝑞 , 𝐵𝑒𝑞 ), il lower bound
e l’upper bound delle variabili (𝐿𝐵, 𝑈𝐵) (nel caso in esame la 𝑥1 è compresa tra −10
e 10, la 𝑥2 è compresa tra −20 e 20, mentre la 𝑥3 è compresa tra −30 e 30), eventuali
vincoli non lineari (′𝑣𝑖𝑛𝑐𝑜𝑙𝑖′) (nel caso in esame 𝐶, 𝐶𝑒𝑞 sono vuoti) e le opzioni
(𝑜𝑝𝑡𝑖𝑜𝑛𝑠).

Figura 185

In tal caso dopo sole 2 iterazioni e 10 valutazioni della funzione, l’algoritmo riesce a
calcolare il minimo vincolato: i valori delle tre variabili (𝑥1 , 𝑥2 , 𝑥3 ) sono con ottima
approssimazione nulli e anche la funzione (𝐹𝑉𝐴𝐿) si annulla in quel punto;
ovviamente questo è un caso banale in cui il minimo vincolato coincide col minimo
242
assoluto giacché il campo di variazione delle tre variabili (lower bound – upper bound)
comprende l’origine (i vincoli non sono attivi).

Figura 186

Nel caso in cui si vanno a cambiare solo i limiti di variazione della 𝑥1 fissando che
essa deve variare tra 10 e 10 (ovvero in sostanza deve essere uguale a 10) le cose
cambiano.

Figura 187

In tal caso ovviamente il minimo vincolato sarà dato da (è attivo solo il primo vincolo):
𝑥1 = 10, 𝑥2 = 0, 𝑥3 = 0
Evidentemente la funzione non avrà più valore nullo, ma sarà pari a:
𝑓𝑣𝑎𝑙 = 100

Figura 188

A questo punto si va a cambiare solo il lower bound di tutte e tre le variabili ed in


particolare si fa variare la 𝑥1 tra 1 e 10, la 𝑥2 tra 2 e 20 e la 𝑥3 tra 3 e 30.

243
Figura 189

La soluzione è evidentemente quella che per tutte e tre le variabili risulterà


l’uguaglianza proprio con il valore del lower bound (valore minimo) e di fatto si avrà:
𝑥1 = 1, 𝑥2 = 2, 𝑥3 = 3
In tale punto la funzione vale:
𝑓𝑣𝑎𝑙 = 14
Il risultato è stato ottenuto con sole 9 valutazioni della funzione ed in tal caso tutti e
tre i vincoli sono attivi.

Figura 190

Se per quanto riguarda i vincoli sul lower bound si danno gli stessi valori
precedentemente adottati, ma sotto forma di vincoli non lineari (il limite sul valore
minimo di 𝑥1 , 𝑥2 , 𝑥3 , non sono assegnati tramite 𝐿𝐵, ma con la matrice 𝐶 per i vincoli
non lineari), l’algoritmo riesce comunque a trovare la soluzione, che è la stessa del
caso precedente, ma le valutazioni della funzione passano da 9 a 14 .

Figura 191

244
Figura 192

Ciò serve a far capire, come esprimere un vincolo non nella maniera più appropriata,
provoca un’efficienza (che nei casi più complessi può fare la differenza).
Infine, sempre con riferimento al lower bound e all’upper bound è possibile andare a
cambiare gli estremi per quanto riguarda la variabile 𝑥1 e fissare che essa deve
essere maggiore di 1, ma minore di 0.

Figura 193

Evidentemente il problema in questo caso non ammette soluzione, giacché il limite


superiore di 𝑥1 è minore del suo limite inferiore. L’algoritmo di fatto restituisce dei
valori per le variabili 𝑥, che sono praticamente gli stessi dati come 𝑥0 iniziali, non
fornisce il valore della funzione 𝑓𝑣𝑎𝑙 e il flag è pari a −1, indice del fatto che il
problema non può essere risolto.

Figura 194

In effetti però il programma comunque ha restituito dei valori della 𝑥: in questo caso
è evidente che essi sono pari a quelli iniziali, ma se da questo calcolo usciva un
qualcosa che poi alimentava un’altra parte dell’algoritmo facilmente esso sarebbe
potuto continuare senza accorgersi che il problema non è risolubile.
Un ambito in cui le tecniche studiate sono utili è quello di progetto ottimizzato di un
impianto e di controllo ottimale di un impianto. In fase di progetto di un impianto, è
necessario definire una struttura e fissare i valori delle relative variabili (variabili di
245
progetto) che consentano di conseguire il funzionamento ottimale. Un’analoga
esigenza riguarda la gestione ed il controllo di un impianto esistente o già progettato,
al fine di determinare i valori delle variabili operative che assicurino il comportamento
ottimale (ottimizzazione delle strategie di controllo e di gestione). In alcuni casi è
anche possibile andare a risolvere il problema congiunto ovvero andare a
dimensionare (progettare) e controllare quel sistema in maniera simultanea. È
necessario quindi definire un criterio quantitativo per poter valutare e confrontare
diverse soluzioni, in riferimento alle variabili che ne descrivono le prestazioni.
Come esempio di progettazione, si esaminerà il caso di un impianto a vapore.
Sarebbe possibile individuare diversi criteri di progettazione, tra i quali:
 Il massimo rendimento termodinamico, al fine di ottenere il massimo lavoro
meccanico a parità di energia termica in ingresso.
 Il massimo lavoro per unità di massa di vapore, che consente di realizzare la
potenza desiderata con la minima portata di fluido, e quindi con ingombri e
pesi contenuti.
 Il minimo costo complessivo, combinando opportunamente l’effetto dei costi di
impianto, dei costi di esercizio, degli ammortamenti e del costo del denaro,
secondo i metodi dell’analisi termo-economica.
 Il minimo impatto ambientale.
 Una opportuna combinazione dei criteri citati: magari la soluzione che
minimizza l’impatto ambientale è quella che massimizza i costi e quindi poi
bisogna trovare n compromesso.
La risoluzione del problema di ottimo è ricondotto quindi alla ricerca del minimo (o
del massimo) di una opportuna funzione obiettivo (per esempio, massimo
rendimento, minimo costo, …). La formulazione del problema di ottimo in presenza
di obiettivi multipli ed in possibile reciproco contrasto è invece oggetto dei metodi di
ottimizzazione multi-criterio: tale metodologia permette di tener conto
simultaneamente di più parametri. Non sempre è però possibile ricondurre la ricerca
della condizione ottimale alla sola ricerca del minimo di una funzione, o di una
opportuna combinazione di funzioni. In tal caso, la definizione del problema è
completata dalla imposizione di opportuni vincoli, espressi generalmente come
equazioni o disequazioni.
Nel caso del progetto di un impianto a vapore, opportune relazioni di disuguaglianza
possono esprimere le seguenti condizioni:
 Che il titolo al termine della espansione non risulti troppo basso (per esempio
maggiore di 0.85), altrimenti la turbina funziona male.
 Che la pressione massima risulti minore del valore critico: al di sopra del valore
critico si va verso un’altra tipologia di impianti che vengono denominati
ipercritici (al crescere ulteriore della pressione non è possibile proprio
realizzare l’impianto stesso).

246
 Che la pressione minima sia maggiore di un valore minimo assegnato (per
esempio pari a 0.05 𝑏𝑎𝑟, che corrisponde alla pressione di saturazione a
temperatura ambiente).
 Che la temperatura massima sia inferiore di un limite massimo (per esempio
850𝐾) per motivi legati alla resistenza dei materiali di cui è fatto l’impianto.
In molti casi, la presenza di vincoli supplisce alla disponibilità di un modello del
sistema sufficientemente accurato e completo (modello semplificato del sistema).
Per esempio:
 Un modello che consideri gli effetti della presenza di vapore umido sul
rendimento interno della turbina renderebbe superfluo il vincolo sul titolo
(primo vincolo dell’elenco precedente): con tale modello viene simulato il
flusso bifasico e dunque si va a calcolare effettivamente il rendimento reale
se aver bisogno di utilizzare il vincolo; in tal caso sarà proprio il modello ad
accorgersi che se si va al di sotto di un certo valore del titolo il rendimento
scade e dunque non è possibile andare avanti.
 Un modello che comprenda gli aspetti strutturali ed economici e che descriva
in maniera accurata le proprietà termodinamiche del vapore in condizioni
supercritiche non richiederebbe il secondo e il quarto vincolo imposti
precedentemente; in tal caso sarebbe il modello a capire che andare verso la
direzione di un impianto supercritico non è conveniente da un punto di vista
economico; il modello in tal caso dovrebbe essere in grado di calcolare
l’aspetto strutturale in funzione di temperatura e pressione e di conseguenza
l’aspetto economico legato a quell’assetto strutturale.
 Un modello che fosse in grado di valutare i costi connessi alla costruzione del
condensatore ed alla localizzazione dell’impianto in siti alternativi,
caratterizzati da valori diversi per la temperatura del fluido refrigerante, non
richiederebbe l’imposizione del terzo vincolo. Se si vuole studiare dove voler
installare in maniera ottimale un impianto a vapore è possibile avere un
modello che magari sceglie di mettere l’impianto al Polo Nord e dunque può
andare a lavorare con pressioni di saturazione minori.
Pertanto la necessità di imporre dei vincoli è legata al livello di dettagli del modello
che si ha a disposizione: più il modello è semplificato e più si ha necessità di imporre
delle condizioni che fanno in modo da vincolare il modello in un’area in cui abbia
significato.
Nel caso in cui si voglia determinare il rapporto di miscela di minimo consumo in un
motore a combustione interna, in mancanza di un modello che descriva le condizioni
di accendibilità della miscela, è necessario fissare i limiti massimi e minimi del
rapporto di miscela (oltre i quali non c’è accendibilità). Quindi nella formulazione del
problema di ottimo, se il modello a disposizione è completo (ovvero predice i limiti di
accendibilità) si avrà:

247
min 𝐶𝑠𝑝 (𝛼)
𝛼

Mentre nel caso in cui si ha a disposizione un modello semplificato (non predice i


limiti di accendibilità) si ha:
min 𝐶𝑠𝑝 (𝛼)
𝛼

𝛼 ≥ 𝛼𝑚𝑖𝑛
𝛼 ≤ 𝛼𝑚𝑎𝑥
Nel caso di un impianto a vapore, è possibile scegliere una funzione obiettivo da
minimizzare che, tramite un fattore di peso 𝑤, realizzi una media pesata tra le
condizioni di massimo rendimento limite e di massimo lavoro specifico (funzione
multi-obiettivo):
𝐹 = 𝑤 ∙ (1 − 𝜂 ) ∙ 100 + (1 − 𝑤) ∙ (−𝐿/1000) 0 ≤ 𝑤 ≤ 1
si può quindi imporre la ricerca del massimo rendimento limite (𝑤 = 1), del massimo
lavoro (𝑤 = 0), o di una combinazione lineare di queste due condizioni (le costanti
numeriche introdotte hanno lo scopo di rendere i due termini dello stesso ordine di
grandezza): andando verso una direzione, piuttosto che verso un’altra, si privilegia il
rendimento oppure il lavoro (ovviamente sta a chi implementa il modello andare a
scegliere il valore del fattore di peso e magari andare a confrontare più soluzioni
differenti al variare di esso). La disponibilità di un modello tecnico economico
sufficientemente completo avrebbe permesso di esprimere il costo di impianto in
funzione delle variabili di progetto ed il costo di esercizio, legato al rendimento ed al
fattore di utilizzo, e di conglobarli in un unico indice di costo, che avrebbe potuto
rappresentare la funzione obiettivo da minimizzare.
È opportuno che le variabili da ottimizzare siano opportunamente definite e
normalizzare, per i seguenti motivi:
 Evitare l’insorgere di problemi numerici dovuti alla presenza di variabili con
ordine di grandezza molto diverso tra loro: quando si va a scegliere un passo
per calcolare le derivate, esso non deve essere troppo grande per una variabile
e troppo piccolo per un’altra; di fatto se è troppo grande c’è l’effetto dell’errore
di troncamento, se è troppo piccolo c’è l’effetto dell’errore di arrotondamento.

 Assicurare che ad ogni scelta delle variabili da parte dell’algoritmo di


ottimizzazione corrisponda un problema fisico congruente: bisogna fare in
modo che il problema da risolvere non sia assurdo e dunque le diverse variabili
devono avere una congruenza tra di loro; se così non fosse il programma
potrebbe andare in errore, oppure è possibile che l’algoritmo generi dei risultati
sbagliati (la qual cosa è anche più pericolosa).

248
Nel caso della ottimizzazione di un impianto a vapore con risurriscaldamenti
(nell’esempio viene riportato un ciclo Hirn con due risurriscaldamenti), la variabile
corrispondente alla pressione di fine espansione 𝑝𝑠,𝑖 è definita in termini relativi.

Figura 195

Attraverso un modello è possibile andare ad ottimizzare le variabili di pressione


(pressione massima, pressione minima e pressioni intermedie). Se al modello non
viene fornita alcuna informazione e si vogliono trovare i valori di queste pressioni in
maniera tale che il rendimento sia massimo l’algoritmo non sa che 𝑝1 deve essere
minore di tutte le altre pressioni o che 𝑝3 è quella più elevata di tutte o ancora che
𝑝𝑠,1 > 𝑝𝑠,2 , ...; se ciò non viene prefissato è molto probabile che alla fine si arriva ad
una soluzione che non soddisfa questi criteri: in alcuni casi il calcolo si blocca in altri
casi può dare dei numeri plausibili che però sono sbagliati. Pertanto, per ognuno
degli 𝑁𝑠 risurriscaldamenti si introduce una pressione relativa di fine espansione 𝛾𝑖 ,
definita dalle relazioni:
(𝑝𝑠𝑢𝑝,𝑖 − 𝑝𝑖𝑛𝑓 ) ∙ 𝛾𝑖
𝑝𝑠,𝑖 = 𝑝𝑖𝑛𝑓 + 𝑝𝑒𝑟: 𝑖 = 1, … , 𝑁𝑠
100
0 ≤ 𝛾𝑖 ≤ 100 𝑝𝑒𝑟: 𝑖 = 1, … , 𝑁𝑠
𝑝𝑠𝑢𝑝,𝑖 = 𝑝𝑠,𝑖−1 (𝑖 > 1), 𝑝𝑠𝑢𝑝,1 = 𝑝3 (𝑖 = 1)
𝑝𝑖𝑛𝑓 = 𝑝1

I valori di 𝛾𝑖 , vanno a definire i valori delle pressioni a partire dalla pressione superiore
fino alla pressione inferiore: ogni pressione viene definita come una certa
percentuale rispetto al valore superiore; in tal modo è sicuro che i quattro valori di
pressione siano congruenti tra di loro.
La pressione finale della singola espansione può quindi variare tra la pressione finale
della espansione precedente (ovvero, la pressione massima del ciclo nel caso della

249
prima espansione) e la pressione minima del ciclo. La scelta di pressioni relative
comprese tra 0 e 100 assicura la congruenza dei dati di ingresso al calcolo.
Similmente si può fare se si vogliono calcolare le pressioni a cui andare a fare degli
spillamenti: anche in tal caso esse devono trovarsi in un certo range tra un valore
massimo e un valore minimo i quali a loro volta sono variabili.

Figura 196

Pertanto nel caso di impianti con spillamenti le variabili 𝜑𝑖 corrispondenti alla


pressione di spillamento possono essere definite da relazioni analoghe:
(𝑝𝑅,𝑠𝑢𝑝,𝑖 − 𝑝𝑖𝑛𝑓 ) ∙ 𝜑𝑖
𝑝𝑅,𝑖 = 𝑝𝑖𝑛𝑓 + 𝑝𝑒𝑟: 𝑖 = 1, … , 𝑍
100
0 ≤ 𝜑𝑖 ≤ 100 𝑝𝑒𝑟: 𝑖 = 1, … , 𝑍
𝑝𝑅,𝑠𝑢𝑝,𝑖 = 𝑝𝑅,𝑖−1 (𝑖 > 1), 𝑝𝑅,𝑠𝑢𝑝,1 = 𝑝3 (𝑖 = 1)
𝑝𝑖𝑛𝑓 = 𝑝1

250
Lezione 19 (Rizzo) 6/04/2017
La similitudine nelle macchine
In quest’ambito si parlerà di modelli intesi non come modelli matematici, bensì come
modelli in scala. Di fatto un’altra visione dell’ingegneria è quella di abbinare a un
modello matematico un modello fisico e vedere in quali condizioni quest’ultimo può
rappresentare l’impianto reale. In molti casi viene sviluppato un modello in scala di
un fenomeno che si vuole studiare, soprattutto se tale fenomeno è in una scala tale
da non riuscire ad essere riprodotto in laboratorio, che però deve seguire certe
regole; a questo si abbina lo sviluppo di un modello matematico che viene validato
ed infine si effettua una estrapolazione al caso reale; anche in tal caso quando si va
a fare un impianto su scala ridotta è necessario seguire delle regole.
La teoria della similitudine si è sviluppata per permettere di riprodurre esperimenti su
modelli, in scala diversa (in genere, minore) rispetto a quella del prototipo.
Storicamente lo studio di tale disciplina (dunque lo studio attraverso modelli) si è
rivelato particolarmente utile per lo studio delle macchine idrauliche: esse, rispetto
alle macchine termiche, hanno minori complicazioni (minori fattori di approssimazioni
nel loro funzionamento). Particolare utilità nello studio delle macchine e dei modelli
rivestono l’analisi dimensionale i gruppi adimensionali. Ovviamente il concetto di
dimensione è strettamente correlato alle unità di misura con cui una data grandezza
si misura, sebbene essi siano due concetti diversi: una lunghezza ad esempio
(dimensione), può essere misurata in metri, o i millimetri, … (unità di misura). I numeri
adimensionali sono in molti ambiti di fondamentale importanza (come il numero di
Reynolds).
Si vuole dunque definire il concetto di similitudine geometrica. Si consideri in
particolare una macchina ed in particolare una turbina idraulica che abbia una certa
geometria:

Figura 197

251
Per ogni macchina si possono individuare delle dimensioni ed in particolare è
possibile individuare una lunghezza fondamentale 𝑙 (nell’esempio, il diametro della
girante: non è l’unica evidentemente, ma essa viene scelta come dimensione di
riferimento). Rispetto a questa lunghezza può essere rapportata la generica
dimensione 𝑙𝑖 di ogni altro organo (nell’esempio, l’altezza della sezione rotorica
all’ingresso): ogni lunghezza può essere messa in relazione alla dimensione
principale. Pertanto l’intera geometria della macchina risulta definita dall’insieme dei
rapporti (minori o maggiori di uno):
𝑙𝑖
𝐿={ }
𝑙
Essi sono i rapporti tra le diverse dimensioni rispetto alla dimensione principale; tali
rapporti costituiscono un insieme finito e numerabile.
Le macchine omotetiche sono caratterizzate dallo stesso insieme 𝐿
precedentemente definito: esse appartengono ad una famiglia di macchine
geometricamente simili. Quindi se due turbina sono caratterizzate dallo stesso
insieme 𝐿, esse saranno due turbine simili: differiranno solo per un fattore di scala.
Pertanto ogni individuo della famiglia può essere caratterizzato da un particolare
valore della lunghezza fondamentale 𝑙

Figura 198

Avendo 𝑛 macchine omotetiche (geometricamente simili), è possibile assumere una


di queste macchine come prototipo (quella incorniciata in rosso ad esempio), e
considerare la sua lunghezza fondamentale 𝑙0 come riferimento: essa rappresenta
sostanzialmente la macchina di dimensioni reali. Ogni individuo della famiglia
(modello: incorniciati in verde) può essere caratterizzato dal rapporto di scala 𝜆:
𝑙
𝜆=
𝑙0
Ovviamente se il modello è più piccolo del prototipo il fattore di scala sarà minore
dell’unità, mentre se è più grande il fattore di scala sarà maggiore di uno.
In genere i modelli risultano più piccoli del prototipo, per consentire di sperimentare
in laboratorio macchine di grandi dimensioni (per esempio turbine idrauliche di
elevata potenza); tipicamente nell’ingegneria si devono studiare dei sistemi molto
grandi in contesti più limitati per motivi di spazio, costo, ….
252
Figura 199

𝑙
𝜆={ }<1
𝑙0
Può anche presentarsi la necessità di realizzare modelli di dimensioni maggiori del
prototipo, quando questo fosse di dimensioni molto ridotte (per esempio macchine
miniaturizzate per applicazioni mediche, macchine realizzate con naotecnologie); per
esempio se si devono studiare delle valvole cardiache o qualsiasi oggetto che deve
essere impiantato nel corpo umano, può essere utile realizzarlo di dimensioni
maggiori per poter mettere dei sensori di pressione (o altri tipi di sensori) per
studiarne il comportamento.

Figura 200

𝑙
𝜆={ }>1
𝑙0
Anche quando si studia un qualcosa che evolve nel tempo (evoluzione temporale),
ha senso andare a considerare il concetto di similitudine: si parla in tal caso di
similitudine temporale. In ogni macchina si verificano eventi nel piano temporale: nel
caso di un motore alternativo a combustione interna nel tempo varia la posizione
reciproca degli organi (l’albero di rotazione gira, le valvole si aprono e si chiudono,
…). La rapidità di tali fenomeni in genere non è costante, ma può variare in funzione
delle condizioni di esercizio: sempre nel caso del motore, il regime di giri varia e
dunque variano i tempi con cui si aprono e si chiudono le valvole, …. Anche in tal
caso è possibile definire un tempo fondamentale 𝑡 (detto regime) al quale possono
essere rapportate le durate 𝑡𝑖 degli altri fenomeni. Nel caso del motore il tempo
fondamentale può essere il tempo impiegato dall’albero per fare una rotazione:
rispetto a tale tempo è possibile definire il tempo durante il quale è aperta la valvola
di aspirazione, il ritardo o l’anticipo rispetto a un punto morto, …. La cronologia del

253
funzionamento della macchina risulta quindi definita dall’insieme dei rapporti
(insieme numerabile):
𝑡𝑖
𝑇={ }
𝑡
L’insieme di questi tempi definisce l’evoluzione temporale di tutto il sistema (sia gli
istanti in cui accadono, sia le durate).
Se l’insieme dei rapporti resta inalterato al variare del regime, il suo comportamento
temporale è costante (spesso è verificata questa condizione in maniera
approssimata): sempre nel caso del motore se il numero di giri raddoppia (e dunque
si dimezza il tempo necessario a compiere un giro dell’albero motore) si dimezza
anche il tempo in cui la valvola di aspirazione rimane aperta, … esistono in sostanza
una serie di tempi che variano proporzionalmente al regime di giri (esistono però altri
fenomeni che non sono collegati al regime di giri: è il caso di alcuni fenomeni
fluidodinamici (fenomeni di risonanza) che si verificano nei collettori, le cui velocità
caratteristiche sono legate alla velocità del suono che è indipendente dalla velocità
del motore: essi non vengono più descritti “rigidamente”). Limitandosi al caso in cui
è possibile ritenere che tutti i tempi siano collegati al tempo fondamentale, è possibile
definire un rapporto 𝜏, tra il suo regime 𝑡 ed un regime di riferimento 𝑡0 :
𝑡
𝜏=
𝑡0
Quindi è possibile ancora una volta definire dei sistemi che abbiano la stessa
cronologia, ma che lavorano a tempi caratteristici differenti, ovvero a numeri di giri
diversi (ovviamente i sistemi devono essere simili, ovvero deve trattarsi ad esempio
di due motori, … e non di un motore e un frullatore).
È possibile mettere assieme le due grandezze appena definite (lunghezze e tempi)
per comporre la similitudine cinematica. Se un punto 𝑃 percorre una lunghezza 𝑙, in
un tempo 𝑡, si muove con una velocità media:
𝑙
𝑣=
𝑡
Si può quindi considerare il rapporto tra le velocità del punto nel modello e nel
prototipo, e definire il rapporto tra le velocità 𝐾. Risulta:
𝑣 𝑙 𝑡0 𝑙 𝑡0 𝜆
𝐾= = ∙ = ∙ =
𝑣0 𝑡 𝑙0 𝑙0 𝑡 𝜏
Il rapporto tra le velocità (tra i due sistemi geometricamente e temporalmente simili)
è dato dal rapporto tra la scala delle lunghezze e quella dei tempi.
Così com’è possibile parlare di un modello più o meno grande rispetto al prototipo, è
anche possibile parlare di un modello più o meno veloce rispetto al prototipo.

254
Il rapporto tra le accelerazioni 𝐾′ (in un sistema in moto stazionario esse sono nulle)
è invece dato dal rapporto tra la scala delle lunghezze e quella dei tempi al quadrato:


𝑎 𝑙 𝑡02 𝑙 𝑡02 𝜆
𝐾 = = 2∙ = ∙ 2= 2
𝑎0 𝑡 𝑙0 𝑙0 𝑡 𝜏
Anche in tal caso conoscendo la scala delle lunghezze e il rapporto dei tempi tra
modello è prototipo è possibile dire che rapporto c’è tra le accelerazioni dei singoli
punti tra modello e prototipo (lo stesso vale per le velocità).
Combinando l’ultima relazione con quella precedente (sulle velocità) si ha:
𝜆 𝐾∙𝜏 𝐾
𝐾′ = = =
𝜏2 𝜏2 𝜏
C’è dunque una relazione tra il rapporto delle velocità e il rapporto delle accelerazioni:
i due rapporti non sono uguali a meno che i sistemi non lavorino con gli stessi tempi
di riferimento (se i due modelli lavorano con tempi non potranno avere
contemporaneamente le stesse velocità e le stesse accelerazioni). Quindi facendo
un modello in scala e facendolo girare a tempi diversi non è possibile riprodurre
contemporaneamente velocità è accelerazione del sistema (questo è un fatto molto
importante).
È utile rappresentare i parametri di similitudine 𝜆 e 𝜏 su un diagramma logaritmico
(sulle ascisse si riporta 𝜆, mentre sulle ordine si riporta 𝜏:

Figura 201

Il punto di coordinate (1,1) è evidentemente il punto caratteristico del prototipo (per


definizione). I punti a destra (𝜆 > 1) rappresentano modelli più grandi, mentre quelli
a sinistra (𝜆 < 1) modelli più piccoli. Analogamente, i punti in alto (𝜏 > 1)
rappresentano modelli con durate maggiori rispetto al prototipo, mentre quelli in
255
basso (𝜏 < 1) modelli con durate temporali minori. Il punto 𝑃, per esempio,
rappresenta un modello in scala geometrica 1: 10 con lo stesso regime di
funzionamento del prototipo (stessi tempi del prototipo). Le sue velocità (𝐾 = 𝜆/𝜏)
sono 1/10 di quelle del prototipo (di fatto gli spazi si sono ridotti di un fattore 10,
mentre i tempi sono rimasti inalterati).
Punti che hanno la stessa velocità sono caratterizzati da un rapporto:
𝜆
𝐾= = 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒
𝜏
Passando ai logaritmi si ha:
log(𝜆) = log(𝜏) + log(𝐾)
Sul piano 𝜆 − 𝜏, in scala logaritmica quanto precedentemente riportato rappresenta
l’equazione di una retta (log(𝐾) = 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒):

Figura 202

In particolare le rette che rappresentano la velocità sul piano logaritmico


rappresentato hanno una pendenza unitaria (retta in blu), mentre l’intercetta con
l’asse delle ascisse è pari a log(𝐾). Le rette passanti per l’origine sono caratterizzate
da 𝐾 = 1 (log(𝐾) = log(1) = 0): essi sono modelli che hanno la stessa velocità del
prototipo però più piccoli o più grandi (affinché essi abbiano la stessa velocità
lunghezza e tempo devono variare in sincronia).
Facendo lo stesso ragionamento per le accelerazioni la relazione che viene fuori è
la seguente:
𝜆
𝐾′ =
𝜏2
Per cui passando ai logaritmi:
256
log(𝜆) = 2 ∙ log(𝜏) + log(𝐾 ′ )
Anche in questo caso si ottiene una retta (retta in verde), che però questa volta ha
una pendenza pari a 0.5, mentre l’intercetta con l’asse delle ascisse è pari a log(𝐾 ′ ).
Su tale retta ricadono i modelli che hanno la stessa accelerazione: la retta passante
per l’origine esprime modelli che hanno la stessa accelerazione del prototipo.
Quindi riassumendo, la retta 𝐾 = 1 passante per il punto (1,1) rappresenta situazioni
cinematiche con velocità uguali a quelle del prototipo al regime di riferimento. Modelli
caratterizzati dalle stesse velocità, ma diverse da quelle del prototipo al regime 𝑡0 , si
trovano su rette parallele alla bisettrice. La retta 𝐾 ′ = 1 passante per il punto (1,1),
rappresenta invece modelli con accelerazioni uguali a quelle del prototipo al regime
𝑡0 . Modelli con le stesse accelerazioni, ma diverse da quelle del prototipo, sono su
fasci di rette parallele a questa.

Figura 203

In molti sistemi ha molta influenza anche la massa, per cui è possibile fare un
ragionamento analogo. In ogni macchina si può considerare quale massa
fondamentale 𝑚 quella contenuta in un certo spazio in un certo istante: in un motore
che gira ad un certo regime di giri, a pieno carico, la massa potrebbe essere quella
contenuta all’interno del cilindro alla chiusura della valvola di aspirazione; in quello
stesso istante è possibile considerare la massa contenuta all’interno del collettore di
aspirazione, la massa contenuta all’interno del collettore di scarico, … e rapportare
tutte queste masse alla massa di riferimento definendo l’insieme della distribuzione
delle masse. Pertanto tutte le masse 𝑚𝑖 contenute in determinati spazzi nello stesso
istante possono essere rapportate alla massa fondamentale. La distribuzione delle
masse della macchina risulta quindi definita dall’insieme dei rapporti:
𝑚𝑖
𝑀={ }
𝑚

257
Se l’insieme di questi rapporti rimane inalterato durante il funzionamento, anche al
variare della massa fondamentale 𝑚 e della densità del fluido, si ha una similitudine
di massa: se nel motore quando si dimezza la massa contenuta nel cilindro, si
dimezzano anche la massa nel collettore di aspirazione, la massa nel collettore di
scarico, … allora si ottiene questa similitudine di massa (spesso essa non vale
rigorosamente, ma è approssimata). Anche in questo caso si può individuare il
rapporto 𝜇 tra la massa fondamentale 𝑚 (del modello) e quella di riferimento 𝑚0 (del
prototipo):
𝑚
𝜇=
𝑚0
Tale similitudine di massa è più facile che non sia perfetta lavorando con un flusso
comprimibile piuttosto che con un liquido (flusso incomprimibile); di fatto nel caso del
liquido, nella maggior parte dei casi, salvo quando si ha cavitazione, ci sarà una
stretta proporzionalità tra le diverse quantità di fluido contenute nelle varie parti di
una turbina idraulica ad esempio; quando la macchina è a flusso comprimibile è
possibile che ci siano fenomeni di rarefazione o di compressione (legati magari a
risonanze: questo è ciò che accade nei motori da competizione), per cui il rapporto
tra le masse può variare: questo è il motivo per cui tale teoria si applica meglio alle
macchine idrauliche, rispetto alle macchine termiche (dove ci sono più fattori di
incertezza).
Quando si ha la coesistenza di similitudine geometrica, temporale e di massa
definisce la similitudine dinamica. È possibile estendere quanto precedentemente
detto con una rappresentazione grafica tridimensionale, con tre assi logaritmici:

Figura 204

Il prototipo avrà evidentemente coordinate (1,1,1). Il generico modello, rappresentato


dal punto 𝑃, è caratterizzato dalle coordinate (𝜆, 𝜏, 𝜇), che definiscono
rispettivamente il rapporto delle dimensioni, il rapporto dei tempi e il rapporto delle
masse, rispetto al prototipo.

258
Questo modo di ragionare è molto utile giacché è possibile calcolare il rapporto tra
una grandezza relativa al modello e quella relativa al prototipo a partire dalle
dimensioni della grandezza. Per esempio una forza è data dal prodotto di una massa
per un’accelerazione e dunque le dimensioni fisiche saranno:
𝐹 = 𝑚𝑎 = [𝑀𝐿𝑇 −2 ]
Il rapporto tra la forza 𝐹 del modello e la forza 𝐹0 del prototipo sarà pari a: 𝜇𝜆𝜏 −2 ;
pertanto quanto detto vale in generale per tutte le grandezze che hanno delle
dimensioni (tutte le grandezze, eccetto quelle dove compare la temperatura, si
esprimono attraverso le dimensioni fondamentali: lunghezza, massa, tempo; per tutte
queste grandezze valgono tutti i ragionamenti fatti sinora). Conoscendo dunque i
rapporti di lunghezza, massa, tempo, tra prototipo e modello, nota la distribuzione
delle forze sul prototipo, sarà nota la distribuzione delle forze sul modello (e
viceversa): pertanto misurando le forze sul modello in scala ridotta è possibile risalire
alle forze sul sistema reale.
Analogamente, è possibile ragionare per la densità:
𝑚
𝜌= = [𝑀𝐿−3 ]
𝑉
Il rapporto tra la densità 𝜌 del modello e la densità 𝜌0 del prototipo è pari a: 𝜇𝜆−3 .
Ancora per la potenza si avrà:
𝐿 𝐹𝑠 𝑚𝑎𝑠
𝑃= = = = [𝑀𝐿𝑇 −2 𝐿𝑇 −1 ] = [𝑀𝐿2 𝑇 −3 ]
𝑡 𝑡 𝑡
Il rapporto tra la potenza 𝑃 del modello e la potenza 𝑃0 del prototipo è pari a: 𝜇𝜆2 𝜏 −3 .
Se si vuole costruire una macchina in laboratorio e per motivi di potenza elettrica
installata, … non è possibile superare certi valori, ciò guida a capire il fattore di scala
da scegliere per il modello affinché non si ecceda: volendo simulare una turbina di
300 𝑀𝑊, magari è possibile costruire una turbina di 30 𝑘𝑊, così da definire il
rapporto di scala, e potendo giocare su tre variabili per arrivare proprio a quella
potenza ridotta (non solo sulle dimensioni, ma anche su tempi e masse).
Quindi in generale, per realizzare un modello in similitudine meccanica, esistono in
linea di principio tre gradi di libertà, corrispondenti ai parametri di similitudine 𝜇, 𝜆, 𝜏.
Tuttavia esigenze diverse possono vincolare alcune delle scelte e ridurre il numero
di gradi di libertà. Per esempio, se si sta costruendo una turbina, e si vuole variare in
maniera arbitraria il rapporto delle masse, è probabile che si debba utilizzare un fluido
di densità arbitraria e ciò non è detto che sia semplice: per cui magari si sceglie di
utilizzare l’acqua sia per il modello che per il prototipo. Pertanto può essere difficile
o impossibile utilizzare nel modello un fluido con una densità arbitraria o diversa da
quella del fluido usato nel prototipo (spesso aria o acqua), anche per motivi di costo;
se le densità coincidono, risulta:

259
𝜌
𝜌 = 𝜌0 ⟹ = 𝜇𝜆−3 = 1 ⟹ 𝜇 = 𝜆3
𝜌0
Per cui i gradi di libertà nella scelta della similitudine scendono da 3 a 2, essendo 𝜇
e 𝜆 legati da una relazione (fissato 𝜆 resta fissato anche 𝜇 o viceversa). Volendo
avere 3 gradi di libertà deve esserci la possibilità di scegliere un fluido qualunque di
densità qualunque.
In definitiva se le similitudini sono sufficientemente realizzate, è possibile fare degli
esperimenti sul modello ed attraverso la conoscenza dei fattori di scala, trasportare
questi risultati al prototipo. Tuttavia man mano che ci si scosta da fattori di scala
unitari (ed in particolare per la scala delle lunghezze) possono intervenire dei
fenomeni secondari che possono giocare un ruolo diverso sul prototipo e sul modello.
I processi termo-fluidodinamici di fatto dipendono in genere anche da fenomeni
(strato limite, capillarità, rugosità), spesso considerati “secondari” in quanto il loro
effetto in una macchina ben costruita ed operante alle condizioni di progetto può
essere di entità trascurabile. Può essere difficile o impossibile rispettare le condizioni
di similitudine per tutti i fenomeni secondari presenti. Per esempio se si immagina di
avere una turbina idraulica, il fenomeno principale è il flusso che c’è all’interno della
girante che provoca lo scambio di lavoro; esistono però dei fenomeni secondari, tra
i quali il trafilamento tra il bordo della girante e la cassa della macchina (deve esserci
un certo gioco, per evitare interferenza: in quello spazio passerà del liquido che non
partecipa allo scambio di lavoro); realizzando un modello in scala 1: 10 ad esempio,
teoricamente dovrebbe essere ridotto di un fattore 10 anche il gioco che c’è tra la
girante e la cassa: ciò può non essere tecnologicamente possibile (se la turbina è
molto performante è già quella a dimensioni naturali ha un gioco molto ridotto, ridurlo
ulteriormente di un fattore 10 può non essere possibile); ciò significa che nel modello
l’effetto del gioco avrà un peso maggiore rispetto a quello che esso aveva nel
prototipo: più la scala è ridotta e più ci si discosta da ciò che accade sul prototipo.
Un altro esempio può essere rappresentato dalla rugosità: in una macchina si cerca
di ridurre quanto più possibile gli attriti, realizzando le superfici lisce con lavorazioni
meccaniche di precisione (al limite con lavorazioni di lappatura) che permettono di
avere una rugosità superficiale molto ridotta; realizzando un modello in scala 1: 10,
la rugosità superficiale dovrà ridursi di un fattore 10, quindi la superficie andrà
lavorata in maniera differente; tuttavia se quella superficie era già al limite
tecnologico, al di sotto di tale limite non è possibile scendere per cui sulla macchina
su scala minore il peso dei fenomeni di attrito sarà maggiore rispetto a quello che si
ha sul prototipo (quindi anche tutto ciò che è legato alla viscosità peserà di più). I
fenomeni secondari giocano quindi un ruolo diverso nel prototipo e nel modello, tanto
più quanto il rapporto di scala 𝜆 si allontana da 1, rendendo meno attendibili i risultati
e più problematica la loro trasferibilità al prototipo (perché magari nel prototipo erano
trascurabili e nel modello invece no): si parla in questo caso di effetti di scala (i quali
possono inficiare il risultato).
Si consideri un’equazione, che viene espressa nella maniera seguente:
260
𝑓 (𝐺1 , 𝐺2 , 𝐺3 , … , 𝐺𝑛 ) = 0 (1)
Una generica equazione (la maggior parte) tra le 𝑛 grandezze fisiche 𝐺𝑖 può essere
espressa nella forma seguente, come serie di potenze, dove gli addendi hanno le
stesse dimensioni:
𝜀 𝜀 𝜀 𝜀 𝜀 𝜀
𝑘1 𝐺1 11 𝐺2 12 … 𝐺𝑛1𝑛 + 𝑘2 𝐺1 21 𝐺2 22 … 𝐺𝑛2𝑛 + ⋯ = 0 (2)
Dove:
𝑘 = 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑖
È evidente che gli addendi devono avere le stesse dimensioni, affinché la relazione
abbia un significato fisico. Tra le altre cose, una delle prime cose da andare a
guardare in un’equazione è se i diversi addendi hanno le stesse dimensioni, giacché
è il modo più veloce per capire se l’equazione è sbagliata.
A titolo di esempio si consideri la relazione composta dalle tre grandezze (𝑛 = 3)
seguenti:
𝐹 = 𝑚𝑎 ⟹ 𝐹 − 𝑚𝑎 = 0
È possibile applicare quanto detto, riscrivendo la relazione come una serie di
potenze:
(1)𝐹1 𝑚0 𝑎0 + (−1)𝐹 0 𝑚1 𝑎1 + (0)𝐹 0 𝑚0 𝑎0 = 0
In sostanza è stata riscritta, in diverso modo la relazione riportata sopra (𝐹 − 𝑚𝑎 =
0). Tuti gli addendi hanno evidentemente le stesse dimensioni: ogni termine è
composto dalle tre grandezze moltiplicate per una costante.
In particolare l’equazione (2) può essere espressa in forma adimensionale dividendo
tutti gli addendi per uno di essi (non nullo). Per esempio dividendo per il primo
addendo si ha:
𝜀 𝜀 𝜀 𝜀 𝜀 𝜀
𝑘2 𝐺1 21 𝐺2 22 … 𝐺𝑛2𝑛 𝑘3 𝐺1 31 𝐺2 32 … 𝐺𝑛3𝑛
1+ 𝜀 𝜀 𝜀 + 𝜀 𝜀 𝜀 +⋯=0
𝑘1 𝐺1 11 𝐺2 12 … 𝐺𝑛1𝑛 𝑘1 𝐺1 11 𝐺2 12 … 𝐺𝑛1𝑛
In tal modo il tutto è stato ridotto ad una somma di termini adimensionali. È ancora
possibile manipolare l’equazione riscrivendola come somma di prodotti di termini
adimensionali:
(𝜀21 −𝜀11 ) (𝜀22 −𝜀12 ) (𝜀2𝑛 −𝜀1𝑛 ) (𝜀31 −𝜀11 ) (𝜀32 −𝜀12 ) (𝜀3𝑛 −𝜀1𝑛 )
1 + 𝑘2 𝑘1−1 𝐺1 𝐺2 … 𝐺𝑛 + 𝑘3 𝑘1−1 𝐺1 𝐺2 … 𝐺𝑛 +⋯=0

La relazione (1), contenente 𝑛 grandezze, può quindi essere espressa in forma


adimensionale con una relazione contenente 𝑞 gruppi adimensionali 𝜋𝑖 funzioni delle
𝑛 grandezze fisiche 𝐺𝑖 , del tipo:
𝑓(𝜋1 , 𝜋2 , 𝜋3 , … , 𝜋𝑞 ) = 0

261
In generale i gruppi adimensionali sono in numero diverso rispetto alle grandezze da
cui si è partiti.
In sostanza si è partiti da un’equazione dimensionale in 𝑛 grandezze e ci si è
ricondotti ad un’equazione che esprime la stessa cosa, ma come somma di termini
adimensionali.
La formulazione adimensionale comporta una riduzione nel numero delle variabili
rappresentative del fenomeno (𝑞 < 𝑛). Nel caso dell’esempio presentato, l’equazione
può essere posta nella seguente forma:
𝑚𝑎
𝐹 = 𝑚𝑎 ⟹ 𝐹 − 𝑚𝑎 = 0 ⟹ 1 − =0
𝐹
In sostanza quindi da una formulazione dimensionale con 3 grandezze (𝑛 = 3: forza,
massa, accelerazione) si passa a una relazione con un solo gruppo adimensionale
(𝑞 = 1):
𝑓 (𝐺1 , 𝐺2 , 𝐺3 ) = 0 ⟹ 𝑓(𝜋1 ) = 0
A questo punto è possibile introdurre il teorema di Buckingham. In un sistema
meccanico (ovvero un sistema retto dalle dimensioni lunghezza, massa e tempo),
caratterizzato da 𝑛 grandezze 𝐺𝑖 (in cui ogni grandezza è esprimibile in funzione di
𝐿, 𝑀, 𝑇), è possibile scegliere tre grandezze fisiche 𝐴, 𝐵, 𝐶 (giacché tre sono le
dimensioni) attraverso cui esprimere le dimensioni di tutte le altre grandezze, con
relazioni del tipo:
[𝐺𝑖 ] = [𝐴𝛼𝑖 𝐵𝛽𝑖 𝐶 𝛾𝑖 ]

Quindi ognuna di queste grandezze (𝐴, 𝐵, 𝐶) viene elevata ad un opportuno


esponente (in effetti una qualunque grandezza fisica è data da una lunghezza
elevata a un certo esponente, per una massa elevata a un certo esponente e per un
tempo elevato a un certo esponente).
Si scelgano quindi tre grandezze 𝐺𝑖 (pari al numero delle grandezze fondamentali:
lunghezza, massa e tempo), per esempio 𝐺1 , 𝐺2 , 𝐺3 e si consideri il termine ottenibile
elevando ogni grandezza ad un esponente per ora arbitrario:
𝑦
𝐺1𝑥 𝐺2 𝐺3𝑧
Si moltiplichi questo monomio per ciascuna delle grandezze rimanenti (ne rimangono
𝑛 − 3: 𝐺4 … 𝐺𝑛 ). Per esempio con riferimento alla 𝐺4 si avrà:
𝑦
𝐺1𝑥 𝐺2 𝐺3𝑧 𝐺4
È possibile scegliere gli esponenti 𝑥, 𝑦, 𝑧 in modo da rendere il prodotto su scritto (e
tutto gli altri prodotti considerando 𝐺5 , 𝐺6 , …) adimensionale.
Si considerino dunque le seguenti espressioni:
𝑦
𝐺1𝑥 𝐺2 𝐺3𝑧 𝐺4
262
[𝐺𝑖 ] = [𝐴𝛼𝑖 𝐵𝛽𝑖 𝐶 𝛾𝑖 ]

Combinando si ottiene:
𝑦 𝑥 𝑦 𝑧
𝐺1𝑥 𝐺2 𝐺3𝑧 𝐺4 = [𝐴𝛼1 𝐵𝛽1 𝐶 𝛾1 ] [𝐴𝛼2 𝐵𝛽2 𝐶 𝛾2 ] [𝐴𝛼3 𝐵𝛽3 𝐶 𝛾3 ] [𝐴𝛼4 𝐵𝛽4 𝐶 𝛾4 ] = [𝐴0 𝐵0 𝐶 0 ]
Affinché quel prodotto sia adimensionale tutto quello scritto al primo membro deve
essere equivalente al prodotto 𝐴0 𝐵0 𝐶 0 .
In particolare i valori 𝑥, 𝑦, 𝑧 che rendono il prodotto adimensionale possono essere
ottenuti dalla soluzione di un sistema lineare di tre equazioni nelle tre incognite 𝑥, 𝑦, 𝑧:
𝛼1 𝑥 + 𝛼2 𝑦 + 𝛼3 𝑧 + 𝛼4 = 0
{ 𝛽1 𝑥 + 𝛽2 𝑦 + 𝛽3 𝑧 + 𝛽4 = 0
𝛾1 𝑥 + 𝛾2 𝑦 + 𝛾3 𝑧 + 𝛾4 = 0
La relazione scritta rappresenta un sistema di equazioni lineari. Il numero dei diversi
gruppi adimensionali che possono ottenersi con questo metodo è quindi pari a 𝑛 − 3
(o in generale a 𝑛 − 𝑓, dove 𝑓 è il numero di dimensioni fondamentali del sistema).
Quindi a partire da un’equazione espressa in forma dimensionale con 𝑛 grandezze,
si è arrivati ad un numero di gruppi adimensionali pari a 𝑛 − 3 (giacché le prime tre
variabili sono state isolate), che esprimono la stessa legge dell’equazione di
partenza.
Il teorema di Buckingham (o del 𝜋) stabilisce che se in un fenomeno intervengono 𝑛
grandezze 𝐺, l’equazione che lo governa può essere sostituita da un’equazione tra
gli 𝑛 − 𝑓 gruppi adimensionali che si possono formare con queste grandezze (dove
𝑓 è il numero di dimensioni fondamentali):
𝑓 (𝐺1 , 𝐺2 , 𝐺3 , … , 𝐺𝑛 ) = 0 ⟹ 𝑓(𝜋1 , 𝜋2 , 𝜋3 , … , 𝜋𝑞 ) = 0
Con:
𝑞 = 𝑛 − 𝑓 (𝑞 = 𝑛 − 3 𝑖𝑛 𝑢𝑛 𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑎 𝑚𝑒𝑐𝑐𝑎𝑛𝑖𝑐𝑜 )
Esistono casi in cui la massa non interviene giacché viene considerato un problema
di cinematica e dunque le dimensioni saranno due.
I vantaggi della adimensionalizzazione sono i seguenti:
 Unicità della rappresentazione: una grandezza adimensionale non varia al
variare sia delle unità di misura che del sistema di misura.
 Semplificazione nella rappresentazione: la riduzione del numero di variabili
permette di rappresentare un fenomeno in modo molto più sintetico, riducendo
il numero di esperimenti da compiere; quello che era un problema retto da 𝑛
variabili, diventa un problema retto da 𝑞 varabili dove 𝑞 < 𝑛; un esempio viene
dallo studio delle perdite di carico nei condotti: esistono in tal caso dei grafici,
dove le grandezze che influenzano tali fenomeni (lunghezza, viscosità,
densità, …) si riducono ad una sola grandezza che è il numero di Reynolds; in
263
tal modo non si hanno bisogna di più grafici per capire quello che accade al
variare delle diverse grandezze, ma un solo grafico descrive tutto.
 Ricerca di leggi fisiche: maggiore facilità nella ricerca delle leggi che regolano
un fenomeno. Per esempio, un fenomeno retto da 5 grandezze può essere
analizzato al variare di 5 − 3 = 2 variabili adimensionali. Approssimando
l’andamento con una relazione analitica si ottiene la legge che governa il
fenomeno. Sapendo che un fenomeno è retto da un gruppo adimensionale,
che raggruppa quattro variabili non è necessario fare un’analisi parametrica
delle quattro variabili, ma basta fare un’analisi parametrica rispetto a quel solo
gruppo adimensionale.
A questo punto si analizza il problema del pendo semplice, ipotizzando che il periodo
𝑇 possa dipendere dalla massa 𝑀, dalla accelerazione di gravità 𝑔 e dalla lunghezza
𝑙 del filo.

Figura 205

Per cui si considera un’equazione (al momento incognita) che lega tra di loro le
grandezze menzionate:
𝑓 (𝐺1 , 𝐺2 , 𝐺3 , … , 𝐺𝑛 ) = 0 ⟹ 𝑓 (𝑇, 𝑙, 𝑀, 𝑔) = 0
A questo punto si cerca una rappresentazione adimensionale:
𝑓(𝜋1 , 𝜋2 , 𝜋3 , … , 𝜋𝑞 ) = 0

In questo caso: 𝑛 = 3 e 𝑞 = 4 − 3 = 1, quindi teoricamente si deve arrivare a un unico


gruppo adimensionale che lega le diverse grandezze. Pertanto scegliendo come
grandezze 𝑙, 𝑀, 𝑔, si può ottenere un gruppo adimensionale del tipo:
𝜋1 = 𝑙 𝑥 𝑀𝑦 𝑔 𝑧 𝑇
Dato che si vuole una relazione che esprime il periodo, è conveniente lasciare il
periodo senza esponente (era possibile anche ragionare diversamente, il risultato
sarebbe stato lo stesso).
Imponendo la condizione di adimensionalità, si possono ottenere gli esponenti 𝑥, 𝑦, 𝑧:
[𝑙 𝑥 𝑀𝑦 𝑔 𝑧 𝑇] = [𝐿1 ]𝑥 [𝑀1 ]𝑦 [𝐿𝑇 −2 ]𝑧 [𝑇] = [𝐿0 𝑀 0 𝑇 0 ]
Per cui si avrà:

264
𝑥+𝑧 =0
{ 𝑦=0
−2𝑧 + 1 = 0
Da cui:
1
𝑥=−
2
𝑦=0
1
{ 𝑧 =
2
Per cui il gruppo adimensionale sarà:
1 1
𝜋1 = 𝑙 −2 𝑔2 𝑇
Nella relazione scritta non compare la massa: senza andare ad applicare le leggi
della fisica (equazioni della dinamica) è stato ottenuto lo stesso risultato, ovvero che
la massa non influenza il periodo, soltanto facendo delle considerazioni di carattere
dimensionale. Il periodo 𝑇 può quindi essere espresso in funzione di 𝑙 e 𝑔, con una
relazione del tipo:

1 1 𝑙
𝑇 ∝ 𝑙 2 𝑔−2 = 𝑘√
𝑔

Ovviamente c’è una costante 𝑘 che andrebbe determinata. Basta tuttavia un unico
esperimento per trovare il valore della costante 𝑘 (che peraltro è uguale a 2𝜋).
L’analisi dimensionale ha dunque mostrato, pur senza svolgere uno studio dettagliato
del problema, come il periodo 𝑇 non dipenda dalla massa 𝑀 e con quale legge
dipenda dalle grandezze 𝑙 e 𝑔.
Un altro esempio un po’ più complesso, può essere effettuato sulla curva
caratteristica di un compressore centrifugo. Le curve caratteristiche ideali sono delle
rette a pendenza variabile sul piano portata (𝑄), prevalenza manometrica (𝛥𝑝/𝜌): la
pendenza dipende dall’angolo di uscita del fluido dal rotore.

Figura 206

265
Le curve riportate dipendono dal numero di giri della macchina: a ogni regime di giri
si avrà una curva differente.
La relazione tra portata e prevalenza di un compressore centrifugo, nel caso ideale,
può essere espressa da una famiglia di curve al variare di 𝑛 e 𝛽 nella forma seguente:
𝛥𝑝 𝑄
= 𝐴 ∙ 𝐷 2 ∙ 𝑛2 − 𝐵 ∙ ∙ 𝑛 ∙ cot(𝛽)
𝜌 𝑏
Dove:
𝐴, 𝐵 = 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑖
𝐷 = 𝑑𝑖𝑎𝑚𝑒𝑡𝑟𝑜
𝑛 = 𝑟𝑒𝑔𝑖𝑚𝑒 𝑑𝑖 𝑔𝑖𝑟𝑖
𝑄 = 𝑝𝑜𝑟𝑡𝑎𝑡𝑎
𝑏 = 𝑠𝑝𝑒𝑠𝑠𝑜𝑟𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑟𝑜𝑡𝑜𝑟𝑒 𝑎𝑙𝑙′ 𝑢𝑠𝑐𝑖𝑡𝑎
𝛽 = 𝑎𝑛𝑔𝑜𝑙𝑜 𝑝𝑎𝑙𝑒𝑡𝑡𝑎𝑡𝑢𝑟𝑎
Per una data macchina, l’angolo costruttivo 𝛽 ed il rapporto 𝐷/𝑏 geometrico tra il
diametro e la larghezza della sezione di uscita sono invarianti (𝐴 e 𝐵 sono delle
costanti numeriche). Si cerca una relazione adimensionale tra le quattro grandezze
rimanenti, del tipo:
𝛥𝑝
𝜑 ( , 𝑛, 𝑄, 𝐷) = 0
𝜌
Tale relazione è applicabile a una famiglia di macchine, dove le restanti variabili sono
costanti.
Volendo esprimere le dimensioni delle quattro variabili si ha:
𝛥𝑝
= [𝐿2 𝑇 −2 𝑀0 ]
𝜌
𝑛 = [𝐿0 𝑇 −1 𝑀0 ]
𝑄 = [𝐿3 𝑇 −1 𝑀0 ]
𝐷 = [𝐿1 𝑇 0 𝑀0 ]
Dato che in nessuna delle variabili compare la massa 𝑀, il problema è a due
dimensioni (𝑓 = 2). Si possono quindi determinare due gruppi adimensionali (𝑞 = 𝑛 −
𝑓 = 4 − 2 = 2), 𝜋1 e 𝜋2 : di fatto si è nell’ambito della cinematica. Quindi partendo da
quattro grandezze dimensionali è possibile trovare due gruppi adimensionali. È
possibile scegliere 2 variabili in funzione delle quali esprimere i gruppi adimensionali:
per esempio 𝑛 e 𝐷. Quindi si va a creare un primo gruppo adimensionale:

266
𝛥𝑝
𝜋1 = 𝑛 𝑥 𝐷 𝑦
𝜌
La condizione di adimensionalità impone:
[𝐿0 𝑇 0 𝑀0 ] = [𝐿0 𝑇 −1 𝑀0 ]𝑥 [𝐿1 𝑇 0 𝑀0 ]𝑦 [𝐿2 𝑇 −2 𝑀 0 ]
Pertanto il sistema di equazioni lineari che viene fuori sarà:
𝑦 + 2 = 0 (𝐿 )
{−𝑥 − 2 = 0 (𝑇)
0 = 0 (𝑀 )
Da cui:
𝑥 = −2
{
𝑦 = −2
Pertanto il primo gruppo adimensionale sarà:
𝛥𝑝
𝜋1 = 𝑛−2 𝐷 −2
𝜌
Introducendo la velocità periferica 𝑢 ∝ 𝑛𝐷 (si mantiene l’adimensionalità) è possibile
rendere più significativo dal punto di vista fisico il gruppo adimensionale, ottenendo
il coefficiente di pressione (è il rapporto tra la prevalenza manometrica e l’energia
cinetica associata alla velocità periferica):
𝛥𝑝 𝛥𝑝
𝜌 𝜌
𝜋1 = 2 2 = 2 = 𝜓
𝑛 𝐷 𝑢
2
A questo punto per il secondo gruppo si ha:
𝜋2 = 𝑛 𝑥 𝐷 𝑦 𝑄
Imponendo la condizione di adimensionalità:
[𝐿0 𝑇 0 𝑀0 ] = [𝐿0 𝑇 −1 𝑀0 ]𝑥 [𝐿1 𝑇 0 𝑀0 ]𝑦 [𝐿3 𝑇 −1 𝑀 0 ]
Il sistema che viene fuori (equazioni lineari) sarà:
𝑦 + 3 = 0 (𝐿 )
{−𝑥 − 1 = 0 (𝑇)
0 = 0 (𝑀 )
Quindi la soluzione sarà:
𝑥 = −1
{
𝑦 = −3
Pertanto:

267
𝜋2 = 𝑛−1 𝐷 −3 𝑄
Introducendo ancora una volta la velocità periferica 𝑢 ∝ 𝑛𝐷, nonché la larghezza
della sezione 𝑏 ∝ 𝐷 (diametro e bordo di uscita sono proporzionali tra di loro) e la
velocità radiale 𝑐𝑟 si rende più significativo il gruppo adimensionale da un punto di
vista fisico, individuando il coefficiente di portata:
𝑄 𝑄
𝑄 𝐷 = 𝐷𝑏 = 𝑐𝑟 = 𝛷
2
𝜋2 = =
𝑛𝐷3 𝑛𝐷 𝑢 𝑢
Dove:
𝐷𝑏 = 𝑠𝑒𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝑝𝑎𝑠𝑠𝑎𝑔𝑔𝑖𝑜
𝑄
= 𝑐𝑟 = 𝑣𝑒𝑙𝑜𝑐𝑖𝑡à 𝑟𝑎𝑑𝑖𝑎𝑙𝑒 𝑑𝑖 𝑎𝑡𝑡𝑟𝑎𝑣𝑒𝑟𝑠𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 (𝑣𝑒𝑙𝑜𝑐𝑖𝑡à 𝑟𝑎𝑑𝑖𝑎𝑙𝑒 𝑑𝑖 𝑢𝑠𝑐𝑖𝑡𝑎 𝑑𝑎𝑙 𝑟𝑜𝑡𝑜𝑟𝑒)
𝐷𝑏
𝑢 = 𝑣𝑒𝑙𝑜𝑐𝑖𝑡à 𝑝𝑒𝑟𝑖𝑓𝑒𝑟𝑖𝑐𝑎
Le curve caratteristiche teoriche di un compressore centrifugo, al variare della
velocità di rotazione, sono quindi esprimibili con una unica relazione tra due gruppi
adimensionali, il coefficiente di pressione ed il coefficiente di portata. La relazione
assume, sotto opportune ipotesi, la forma seguente (relazione lineare):
𝜓 = 𝑘(1 − 𝛷 cot 𝛽)
Dove:
𝑘 = 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒
In sostanza invece di avere la prevalenza manometrica 𝛥𝑝/𝜌 sulle ordinate si ha il
coefficiente 𝜓 (coefficiente di pressione), mentre invece di avere la portata
volumetrica, sulle ascisse si ha il coefficiente 𝛷 (coefficiente di portata).

Figura 207

Per verificare il risultato e determinare la costante 𝑘, si può fare riferimento al caso


di un compressore centrifugo con ingresso assiale (𝑐1𝑢 = 0) e pale radiali (𝛽2 = 90°);
il triangolo di velocità per questa macchina è dunque il seguente:

268
Figura 208

Applicando l’equazione di Eulero si ottiene:


𝛥𝑝
2
𝛥𝑝 𝛥𝑝 𝑢 𝜌
= 𝐿 = 𝑐2𝑢 𝑢2 = 𝑢22 = 𝑢2 ⟹ =2 ⟹ 2 =𝜓=2
𝜌 𝜌 2 𝑢
2
Dove:
𝐿 = 𝑙𝑎𝑣𝑜𝑟𝑜 𝑠𝑐𝑎𝑚𝑏𝑖𝑎𝑡𝑜
Per cui la curva caratteristica assume la forma:
𝜓 = 2(1 − 𝛷 cot 𝛽 )

Figura 209

Quindi per una data macchina, la prevalenza teorica in funzione della portata può
essere espressa da una famiglia di curve caratteristiche al variare di 𝛽 e di 𝑛.

Figura 210

269
Le curve caratteristiche dipendono inoltre dal diametro della macchina. Ogni
individuo, nell’ambito di una classe di macchine simili, avrà una propria curva
caratteristica.

Figura 211

L’uso dei parametri adimensionali permette invece di rappresentare tutte le curve


caratteristiche teoriche della famiglia di macchine simili, ed al variare del numero di
giri, con una retta funzione di 𝛽.

Figura 212

Pertanto in definitiva, partendo da una famiglia di curve, al variare del numero di giri
e al variare delle dimensioni della macchina (ogni macchina ha una sua famiglia di
curve), si è arrivati ad un’unica curva che esprime sia la variabilità in termini di
numero di giri, sia la variabilità in termini di diametro, con una rappresentazione
unificata (questo è certamente un vantaggio).

270
Lezione 20 (Sorrentino) 7/04/2017
Note introduttive a Matlab
Impianto a ciclo Joule (es_joule_id, joule_id_with_entropy)
Si calcolino il lavoro utile e l’efficienza globale di un impianto con turbina a gas in cui
il fluido evolve secondo il ciclo termodinamico di Joule. Le ipotesi che vengono
assunte sono:
 Funzionamento ideale
 Condizioni ambiente all’aspirazione
 Fluido di lavoro: aria
 Rapporto di compressione: 𝛽 = [1: 0.1: 200]
 Temperatura massima del ciclo: 𝑇3 = [1073, 1273, 1573]𝐾
Si risponda alle seguenti richieste:
 Si rappresentino gli andamenti dell’efficienza e del lavoro utile al variare di 𝛽 e
𝑇3
 Si calcolino i punti di massimo delle curve relative al lavoro utile
 Si rappresenti l’andamento dell’efficienza introducendo la rigenerazione (parte
del calore viene recuperato all’uscita della turbina per riscaldare il fluido di
lavoro): 𝑅 = [0.5, 0.9, 1] per 𝑇3 = 1273 𝐾
 Rappresentare il ciclo Joule sul piano 𝑇 − 𝑠 e ricavare i valori di lavoro utile,
calore addotto e rendimento dall’area del ciclo (attraverso un processo di
integrazione dell’area del ciclo Joule)
Il ciclo Joule ideale sul piano 𝑇 − 𝑠 è composto da quattro trasformazioni:
 Compressione adiabatica reversibile (1 − 2)
 Adduzione di calore a pressione costante (2 − 3)
 Espansione adiabatica reversibile (3 − 4)
 Sottrazione di calore a pressione costante (4 − 1)
Evidentemente: 𝑃1 = 𝑃4 e 𝑃2 = 𝑃3 .

Figura 213

271
Lo schema di riferimento per un impianto a ciclo Joule è il seguente:

Figura 214

Essendo le condizioni all’aspirazione pari a quelle ambiente si assume:


𝑃1 = 1 𝑏𝑎𝑟
𝑇1 = 25°𝐶
Inoltre il calore specifico a pressione costante del fluido di lavoro (in tal caso aria)
sarà:
𝑐𝑝 = 1005 𝐽/(𝑘𝑔 ∙ 𝐾)
Quando si introduce la rigenerazione lo schema d’impianto diventa il seguente:

Figura 215

Lo schema del ciclo di riferimento, nel caso di rigenerazione viene di seguito riportato:

Figura 216

272
Il lavoro utile sarà dato dalla differenza tra il lavoro fornito dalla turbina e quello
assorbito dal compressore:
𝑙𝑢 = 𝑙𝑡 − 𝑙𝑐 = 𝑐𝑝 (𝑇3 − 𝑇4 ) − 𝑐𝑝 (𝑇2 − 𝑇1 ) = 𝑐𝑝 (𝑇3 − 𝑇4 − 𝑇2 + 𝑇1 )
In generale il calore da addurre al sistema dipende dal grado di rigenerazione che si
sta adottando; il calore addotto dal punto 2 al punto 3, in assenza di rigenerazione
viene fornito interamente dall’esterno; con la rigenerazione invece parte del calore
viene recuperato in uscita dalla turbina; nel caso ideale (rigenerazione completa)
tutto il calore necessario viene fornito tramite rigenerazione per riscaldare il fluido in
uscita dal compressore, portandolo ad una temperatura di fine scambio 𝑇2𝑅 pari alla
temperatura 𝑇4 . In funzione del grado di rigenerazione si raggiungerà una
temperatura di fine scambio pari a 𝑇2𝑅 che in generale sarà minore di 𝑇4 . Per cui il
calore da fornire dall’esterno sarà pari alla differenza tra il calore totale e il calore
fornito dalla rigenerazione:
𝑞 = 𝑞32 − 𝑞𝑅𝐼
Se non c’è rigenerazione tutto il calore viene addotto interamente nella camera di
combustione.
Esplicitando i termini su scritti si ha:
𝑞32 = 𝑐𝑝 (𝑇3 − 𝑇2 )

𝑞𝑅𝐼 = 𝑐𝑝 (𝑇2𝑅 − 𝑇2 )
Quindi:
𝑞 = 𝑐𝑝 (𝑇3 − 𝑇2 ) − 𝑐𝑝 (𝑇2𝑅 − 𝑇2 ) = 𝑐𝑝 (𝑇3 − 𝑇2 − 𝑇2𝑅 + 𝑇2 ) = 𝑐𝑝 (𝑇3 − 𝑇2𝑅 )
Quindi il rendimento sarò pari a:
𝑙𝑢 𝑐𝑝 (𝑇3 − 𝑇4 − 𝑇2 + 𝑇1 ) 𝑇3 − 𝑇4 + 𝑇1 − 𝑇2
𝜂= = =
𝑞 𝑐𝑝 (𝑇3 − 𝑇2𝑅 ) 𝑇3 − 𝑇2𝑅
Per desumere le diverse temperature si fa ovviamente riferimento alle trasformazioni
politropiche ideali.
È evidente peraltro che quando 𝑇4 = 𝑇2 non è possibile avere rigenerazione (caso
limite).

273
Lezione 21 (Pianese) 11/04/2017
Motori alternativi a combustione interna: sistemi di aspirazione e scarico
Aumentando l’alzata della valvola si ha un incremento della sezione di passaggio
che apporta un effetto benefico soprattutto ad elevato regime di giri (elevate velocità
medie del pistone), condizioni in cui è possibile che si verifichi il bloccaggio della
portata. In effetti nel momento in cui il flusso è in condizioni di bloccaggio per variare
la portata non è possibile agire sul salto di pressione (proprio perché c’è il
bloccaggio), ma l’unica soluzione è fare in modo che la sezione aumenti.

Figura 217

Nel momento in cui si è in condizioni di bloccaggio e cioè il rapporto 𝑃𝑐 /𝑃0 è inferiore


al rapporto di pressione critico, non si riesce ad aspirare altra aria abbassando la
pressione a valle (𝑃𝑐 ); in sostanza aumentando la velocità di rotazione la pressione
a valle si riduce il che comporta un aumento della portata; tuttavia al di sotto di una
certa soglia, pur aumentando la velocità di rotazione si ha il bloccaggio della portata,
ovvero pur riducendosi la pressione a valle, la portata rimane sempre la stessa: da
questo punto in poi pur aumentando il regime di giri il riempimento del motore non
migliora; in condizioni di bloccaggio per aumentare la portata bisogna fare in modo
da aumentare la sezione. Aumentando la sezione di passaggio all’aspirazione, si
riesce a spostare la curva del riempimento verso l’alto: questo è il motivo per cui si
passa da cilindri a due valvole a cilindri a quattro valvole. Quindi in generale, l’alzata
della valvola va a modificare la curva del coefficiente di riempimento.

274
Anche la fasatura agisce sulla curva del coefficiente di riempimento volumetrico: con
bassi incroci e ritardi (o anticipi) poco ampi si ha un coefficiente di riempimento
elevato ai bassi regimi di giri, mentre aumentando gli incroci e con ritardi (o anticipi)
ampi ci si sposta verso destra e dunque il coefficiente di riempimento assume il valore
massimo ad elevati regimi di giri. Il timing (ovvero la fasatura) regola (controlla) i
fenomeni non stazionari che avvengono nei condotti: ai bassi regimi di giri i tempi
caratteristici sono relativamente lunghi, mentre ad elevati regimi di giri i tempi
caratteristici sono relativamente corti (la sequenza delle fasi di aspirazione, scarico,
… si sussegue più velocemente: periodo più corto). Volendo ipoteticamente
realizzare dei sistemi con una fasatura variabile continua, cioè partendo da incroci
piccoli e anticipi e ritardi minimi ai bassi regimi di giri, fino a fasature più estreme con
larghi incroci ad elevati regimi di giri, si realizza una curva del coefficiente di
riempimento (e quindi di coppia) elevata sia ai bassi regimi di giri sia ad alti regimi di
giri (inviluppo). Realizzare ciò non è semplice: oggigiorno esistono sistemi a fasatura
variabile, ma sono ad attuazione meccanica e dunque sono rigidi (ci sono delle leggi
più o meno lineari di anticipo e ritardo, ma non è possibile determinare ad oggi una
fasatura delle valvole indipendente dalla rotazione del motore: c’è sempre un vincolo
meccanico tra l’albero motore e l’apertura e/o la chiusura delle valvole stesse).
Esistono degli esperimenti che si portano avanti da diversi anni in cui la valvola
diventa un attuatore elettromeccanico: in pratica si realizza una valvola il cui stelo sia
avvolto da un solenoide ed in base al verso della corrente nasce una forza
elettromagnetica in grado di muovere la valvola stessa verso il basso o verso l’alto;
in tal modo con l’elettronica si riesce a svincolare la fasatura dell’apertura o della
chiusura della valvola in maniera completa.

Figura 218

Il problema che tali sistemi riscontrano è dovuto al fatto che le forze in gioco sono
molto elevate: quando ad esempio il pistone scende al punto morto inferiore nella
fase di espansione e la valvola di scarico deve aprirsi la pressione all’interno del
cilindro è anche superiore ai 4 𝑏𝑎𝑟 − 5 𝑏𝑎𝑟: la forza necessaria a far aprire la valvola
sebbene non elevatissima andrebbe generata attraverso la corrente inviata nel
275
solenoide per cui sono richieste delle correnti di spunto elevatissime per vincere
l’attrito della valvola e la pressione interna; inoltre quando la valvola si chiude essa
deve andare a battuta nella sede, ma senza sbatterci sopra, per cui il problema da
risolvere non è semplice; esistono tutta una serie di problematiche che non hanno
permesso lo sviluppo di tali sistemi se non a livello sperimentale. Tuttavia con un
sistema del genere giocando opportunamente sulle fasature si riuscirebbe
veramente ad avere una curva di coppia data dall’inviluppo di cui si parlava prima.
I sistemi meccanici sono invece molto complessi in cui le camme hanno delle forme
particolari.
Per quanto riguarda le alzate delle valvole esistono sempre delle particolari
applicazioni andando a modificare la camma. La camma convenzionale (camma
piatta) è fatta nella maniera seguente:

Figura 219

Invece di realizzare una camma piatta è possibile realizzare una camma di questo
tipo:

Figura 220

Consentendogli tra le altre cose di spostarsi verso destra e verso sinistra grazie ad
una forza che viene impressa con un sistema idraulico: quando la camma è spostata

276
verso sinistra l’alzata è bassa, mentre quando è spostata verso destra l’alzata è
massima.
In un motore convenzionale ad accensione comandata la portata di aria viene
regolata tramite la valvola a farfalla. In un motore innovativo, in cui c’è la possibilità
di fasare e dunque di anticipare e ritardare l’apertura e la chiusura delle valvole e di
modificare l’alzata delle valvole stesse è possibile immaginare di regolare la portata
d’aria agendo proprio sulle valvole e dunque realizzare un motore throttless (senza
valvola a farfalla): ciò ridurrebbe notevolmente il ciclo di bassa pressione (sarebbe
ridotto) e dunque sarebbe vantaggioso da un punto di vista energetico; giocando
opportunamente sulla fasatura sarebbe possibile regolare la portata d’aria riducendo
molto le perdite di carico.
Per variare la fasatura si potrebbe o anticipare tutto oppure ritardare tutto: quindi è
possibile o anticipare sia l’apertura sia la chiusura o posticipare sia l’apertura che la
chiusura; a parità di posizione angolare dell’albero motore è possibile far ruotare la
camma in un verso o nell’altro a seconda se si deve anticipare o posticipare l’apertura
e la chiusura delle valvole.
I sistemi VVT (Variable Valve Train – Variable Valve Timing) sono sistemi a fasatura
variabile in cui è possibile la reintroduzione di gas residui anticipando l’apertura della
valvola di aspirazione, ritardando la chiusura della valvola di scarico, oppure
sfasando entrambe le valvole di uno stesso angolo. Pertanto è possibile sfruttare tali
sistemi non solo per l’aumento del coefficiente di riempimento volumetrico ai vari
regimi, ma anche per aumentare l’EGR (creando un ricircolo senza utilizzare un
circuito esterno).
Anticipando molto l’apertura della valvola di aspirazione, vuol dire che quando il
pistone sta salendo per effettuare lo scarico la valvola di aspirazione risulta già
aperta; in tale condizione una parte dei gas caldi rifluisce nel collettore di aspirazione,
dopodiché durante la discesa del pistone essi vengono riaspirati dal motore e si
mescolano con l’aria. Questo ha evidentemente un effetto negativo sul riempimento
giacché il volume che dovrebbe essere occupato dalla carica fresca è in parte
occupato dai gas di scarico; è possibile accettare un scadimento delle prestazioni
per ottenere una riduzione della temperatura di combustione il che si traduce nella
riduzione delle emissioni inquinanti di ossidi di azoto. Per contro, considerando un
motore ad accensione comandata, è sempre possibile agire sulla valvola a farfalla
aprendola di più in maniera da fare entrare una quantità maggiore di aria il che va a
beneficio del ciclo di bassa pressione. Quindi l’EGR interno, che da un lato viene
utilizzato per ridurre le emissioni di ossidi di azoto, si potrebbe tradurre in un effetto
di riduzione delle perdite di pompaggio in quanto si è costretti ad aprire di più la
valvola a farfalla per incamerare più aria. Nella soluzione seguente ad esempio si
utilizzano due assi a camme indipendenti gestendone uno soltanto:

277
Figura 221

È possibile anche adottare delle soluzioni a rapporti di compressione variabili che in


alcune circostanze e con alcuni combustibili consente di aumentare e far fronte al
problema della detonazione: quando il problema è più sentito (detonazione più
spinta) si lavora con rapporti di compressione più bassi, mentre quando si vogliono
prestazioni più elevate si può aumentare tale rapporto. Questa soluzione è associata
a sistemi di iniezione di acqua all’interno del collettore di aspirazione: il vantaggio è
che l’acqua tende a raffreddare aumentando in parte il riempimento, ma soprattutto
abbassando la temperatura in camera in modo da poter alzare il rapporto di
compressione e dunque compensare al problema della detonazione che si verifica
proprio quando il rapporto di compressione aumenta (altrimenti con elevati rapporti
di compressione, la temperatura sarebbe troppo elevata).
Nel momento in cui si ha un solo asse a camme, si ha la fase di incrocio che occupa
un intervallo angolare che rimane costante, ma ritardando la chiusura della valvola
di scarico, in fase di discesa del pistone, ovvero durante la fase di aspirazione, si
vanno a riprendere i gas di scarico dal collettore di scarico. In tal modo si riesce a
fare la stessa cosa però giocando su altri meccanismi che potrebbero essere però
più vantaggiosi in quanto si evita di spingere il gas nel collettore di aspirazione.

278
Figura 222

Di seguito si riporta l’esempio di un sistema VVT (in rosso) a confronto con uno a
fasatura convenzionale (in blu), con riferimento al ciclo di bassa pressione.

Figura 223

Si tenga presente che i tre picchi individuabili sul ciclo blu sono legati ad errori di
misura: per quanto la camma possa essere perfetta (graduale) c’è un momento in
cui quando la valvola si apre c’è una sorta di ticchettio che provoca rumore; dato che
il sensore di pressione è basato su un piezo-quarzo esso sente tutte le vibrazioni e
dunque anche l’impulso a seguito dell’apertura della valvola: ciò genera quegli errori
di misura individuabili sul ciclo attraverso quei picchi. Le oscillazioni del ciclo invece
sono indotte dal fatto che nel collettore di scarico ci sono delle oscillazioni di

279
pressione generate dalle sequenze di scarico dei singoli cilindri e dei vari cicli
successivi.
Oggigiorno tutti i motori benzina hanno una fasatura variabile con un ciclo di
riferimento Atkinson, perché esso consente di avere la massima espansione fino al
punto morto inferiore (tutta la corsa del pistone) e di avere una fase di compressione
più breve: in tal modo il rendimento aumenta (il lavoro di compressione è minore di
quello che si avrebbe in un motore con una corsa di compressione più lunga).
Complessivamente se si fa un’analisi dell’area del ciclo di bassa pressione ci si rende
conto che nel caso VVT essa si riduce per cui il lavoro di pompaggio è più basso:
nella fase in cui la valvola di scarico è ancora aperta, quando il pistone scende esso
aspira non solo dal collettore di aspirazione, ma anche dal collettore di scarico,
pertanto la pressione minima resta più la stessa, ma i gas residui sono a pressione
più elevata per cui la pressione complessiva risulta essere più elevata e dunque il
ciclo di bassa pressione è un po’ più alto e più piccolo. In sintesi, il sistema VVT
consente di effettuare un EGR interno, ma allo stesso tempo può portare, in diverse
condizioni (soprattutto a carico parzializzato), ad avere un ciclo di bassa pressione
minore e dunque un lavoro di pompaggio ridotto.
La portata di aria nel motore può essere calcolata attraverso un modello lumped (ai
valori medi: parametri concentrati, per cui non c’è variabilità delle grandezze nella
dimensione spaziale, ma solo nel tempo) ed in particolare considerando un flusso
isoentropico e monodimensionale, con un coefficiente di efflusso che tiene conto
degli effetti di perdita (efflusso reale):
𝑉∙𝑛
𝑚̇𝑎,𝑒 = 𝜆𝑣 ∙ 𝜌0 ∙
60𝜀
Dove:
𝑚̇𝑎,𝑒 = 𝑝𝑜𝑟𝑡𝑎𝑡𝑎 𝑑 ′ 𝑎𝑟𝑖𝑎 𝑛𝑒𝑙 𝑚𝑜𝑡𝑜𝑟𝑒 (𝑒𝑛𝑔𝑖𝑛𝑒)
𝜆𝑣 = 𝑐𝑜𝑒𝑓𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑑𝑖 𝑟𝑖𝑒𝑚𝑝𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜
𝜌0 = 𝑑𝑒𝑛𝑠𝑖𝑡à 𝑑𝑒𝑙𝑙′ 𝑎𝑟𝑖𝑎 𝑎𝑚𝑏𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒
𝑉 = 𝑐𝑖𝑙𝑖𝑛𝑑𝑟𝑎𝑡𝑎
𝑛 = 𝑟𝑒𝑔𝑖𝑚𝑒 𝑑𝑖 𝑔𝑖𝑟𝑖
In particolare il coefficiente di riempimento, a seconda delle esigenze può essere
calcolato o in funzione del regime di giri e della pressione ambiente o in funzione del
regime di giri e della pressione nel collettore di aspirazione:
𝜆𝑣 = 𝑓 (𝑛, 𝑝0 )
𝜆𝑣 = 𝑔(𝑛, 𝑝𝑚 )

280
Figura 224

In particolare quando si utilizza l’espressione del 𝜆𝑣 con riferimento al collettore di


aspirazione è come se ci si mettesse in un sistema costituito dal collettore di
aspirazione, dalla valvola di aspirazione e dal cilindro. Se invece si utilizza
l’espressione del 𝜆𝑣 in funzione della pressione esterna è come se ci si mettesse
appunto all’esterno e si deve tenere conto degli effetti di perdita attraverso il filtro e
attraverso la valvola a farfalla. La pressione 𝑝𝑚 per quanto variabile non varia
moltissimo rispetto alla 𝑝𝑐 , per cui il coefficiente di riempimento volumetrico calcolato
in questo modo è tendenzialmente più elevato rispetto al caso in cui si considera 𝑝0 .
È evidente che nel caso si caratterizza 𝜆𝑣 in funzione di 𝑝𝑚 anche la densità nella
formula del calcolo della portata di aria nel motore bisogna sostituire 𝜌𝑚 (densità
dell’aria nel collettore di aspirazione) alla 𝜌0 .
Nel momento in cui si introduce un sistema a fasatura variabile il coefficiente di
riempimento dipenderà anche da una variabile legata alla fasatura (quindi entra in
gioco una terza dipendenza).
Rispetto alla portata di aria che si ha intorno alla valvola a farfalla, si immagina di
avere un fluido comprimibile e si utilizzano le formule standard per un flusso
comprimibile isoentropico attraverso un orifizio; ci saranno pertanto due condizioni:
una condizione di flusso non bloccato e una condizione di flusso bloccato. In
particolare il flusso non bloccato si ha quando il rapporto tra la pressione nel collettore
di aspirazione (𝑝𝑚 ) e la pressione a monte (𝑝0 ) è maggiore di 0.546 (rapporto di
pressione critico: 𝑝𝑐 /𝑝0 ), mentre il flusso bloccato si ha quando il rapporto tra la
pressione nel collettore di aspirazione e la pressione a monte è minore o al limite
uguale a 0.546. nel caso di flusso non bloccato la portata d’aria si valuta nel seguente
modo (essa dipenderà dalla pressione a valle e da quella a monte):
281
1 𝛾−1 0.5
𝐶𝐷 ∙ 𝐴𝑅 ∙ 𝑝𝑚 𝑝𝑚 𝛾 2 𝑝𝑚 𝛾
𝑚̇𝑎,𝑣 = ∙ ( ) ∙ [ ∙ (1 − ( ) )]
(𝑅 ∙ 𝑇𝑖 )0.5 𝑝0 𝛾+1 𝑝0

Dove:
𝐶𝐷 = 𝑐𝑜𝑒𝑓𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑑𝑖 𝑒𝑓𝑓𝑙𝑢𝑠𝑠𝑜
𝐴𝑅 = 𝑠𝑒𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝑝𝑎𝑠𝑠𝑎𝑔𝑔𝑖𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑣𝑎𝑙𝑣𝑜𝑙𝑎
𝑝𝑚 = 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑛𝑒𝑙 𝑐𝑜𝑙𝑙𝑒𝑡𝑡𝑜𝑟𝑒 𝑑𝑖 𝑎𝑠𝑝𝑖𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 (𝑚𝑎𝑛𝑖𝑓𝑜𝑙𝑑 )
𝑝0 = 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑎𝑚𝑏𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒
𝛾 = 𝑐𝑜𝑒𝑓𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑙𝑒𝑔𝑎𝑡𝑜 𝑎𝑙 𝑡𝑖𝑝𝑜 𝑑𝑖 𝑓𝑙𝑢𝑖𝑑𝑜
𝑇𝑖 = 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑒𝑟𝑎𝑡𝑢𝑟𝑎 𝑎𝑙𝑙′ 𝑎𝑠𝑝𝑖𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒
In condizioni di flusso bloccato, la pressione a valle non ha alcun peso (pur variando
la portata non cambia) per cui la portata d’aria sarà data dalla seguente relazione:
𝛾+1
𝐶𝐷 ∙ 𝐴𝑅 ∙ 𝑝0 0.5 2 2∙(𝛾−1)
𝑚̇𝑎,𝑣 = ∙ 𝛾 ∙ [ ]
(𝑅 ∙ 𝑇𝑖 )0.5 𝛾+1
In effetti andando a plottare l’andamento della portata massica di aria in funzione del
rapporto tra le pressioni a valle e a monte si ha:

Figura 225

Man mano che la pressione nel collettore di aspirazione si riduce ci si sposta verso
le condizioni di bloccaggio (a sinistra del rapporto 𝑝𝑐 /𝑝0 la portata risulta bloccata).
Quindi per 𝑝1 < 𝑝𝑐 si ha il bloccaggio della portata, mentre se risulta 𝑝1 > 𝑝𝑐 al ridursi
della pressione 𝑝1 la portata cresce. Ciò accade all’interno del motore al variare
dell’apertura della valvola a farfalla: chiudendo la valvola a farfalla la pressione nel
collettore si riduce (perdita di carico notevole) per cui è facile ricadere in condizioni
di bloccaggio. Ciò spiega perché in un motore Diesel il coefficiente di riempimento
volumetrico è più elevato: infatti in tal caso non c’è un organo di intercettazione come

282
la valvola a farfalla. In ogni caso, in condizioni di bloccaggio, qualunque cosa accada
a valle, l’informazione non risale la corrente perché si è in condizioni di flusso sonico.
È possibile dunque scrivere un bilancio di massa detto Filling-emptying, in cui in
ingresso c’è la portata di aria che passa attraverso la valvola a farfalla e in uscita c’è
la portata di aria che entra nel motore:

Figura 226

Quindi il bilancio dei due flussi determina la pressione nel collettore (a 𝑇 = 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒):
𝑑𝑃𝑚 𝑅 ∙ 𝑇𝑚
= (𝑚̇𝑎,𝑣 − 𝑚̇𝑎,𝑒 ) ∙
𝑑𝑡 𝑉𝑚
Quindi la pressione nel collettore di aspirazione si calcola attraverso tale equazione
differenziale ordinaria grazie al bilancio tra i flussi in ingresso e in uscita.
Si immagini di far aprire la valvola a farfalla, la portata di aria che entra nel collettore
di aspirazione aumenta, mentre ipoteticamente la portata di aria che va al motore la
si lascia costante: in tal caso la pressione aumenta (se in un ambiente entra più aria,
ma ne esce meno di quella che entra è evidente che la pressione aumenta): questo
è ciò che accade in un ipotetico transitorio dove si verifica una crescita repentina
della pressione. Diverso è il caso in cui a valvola a farfalla costante si fa variare il
regime di giri (il motore accelera); in tal caso aumenterà la portata al motore e ciò
metterà in depressione il collettore di aspirazione. Tutto ciò si estrinseca da un punto
di vista matematico proprio con la relazione Filling-emptying su scritta (la si ottiene
derivando l’equazione di stato ed assumendo la temperatura costante, altrimenti ci
sarebbe un altro termine).
Sempre dalla precedente relazione si comprende che, avendo un volume del
collettore di aspirazione 𝑉𝑚 molto piccolo, le variazioni di pressione sono molto rapide
(la derivata rispetto al tempo è grande): in particolare la derivata sarà tanto più
grande quanto più piccolo è il collettore di aspirazione (questo è ciò che accade
tipicamente nei motori sportivi); nei motori navali invece il volume del collettore di
aspirazione è molto elevato e quindi la derivata della pressione sarà minore; in
quest’ultimo caso, accelerando rapidamente la pressione nel collettore di aspirazione
si adegua più lentamente e dunque anche il transitorio rallenta perché la pressione
cresce più lentamente il che comporta il fatto che la densità dell’aria nei cicli
successivi crescerà più lentamente. Pertanto in un motore in cui si vuole una risposta
rapida di adeguamento della portata bisogna ridurre il volume del collettore di
aspirazione: il collettore di fatto funge da “condensatore” (quanto più è grande il
condensatore tanto maggiore sarà la costante di tempo in termini di ritardo: maggiore

283
è il volume, maggiore sarà la costante di tempo di adeguamento alle nuove
condizioni).
Esistono anche altri effetti che producono una variazione del coefficiente di
riempimento volumetrico che sono legati sia al comportamento del fluido all’interno
del collettore sia indotti dalla sequenza dei cicli; l’apertura e la chiusura delle valvole
sono evidentemente dei fenomeni periodici, per cui l’apertura e la chiusura delle
stesse determina delle pulsazioni: il collettore di aspirazione per quanto ampio possa
essere (più è ampio e più sarà in grado di smorzare le pulsazioni), giacché i quattro
cilindri insistono sullo stesso collettore, ma ciascuno di questi cilindri si apre in periodi
successivi, si determinano delle pulsazioni all’interno del collettore stesso il quale è
ovviamente collegato all’ambiente esterno; pertanto all’interno del collettore la
pressione non è stabile e pari a 𝑃𝑚 , ma subisce delle oscillazioni, legate al fatto che
la portata di aria che passa almeno attraverso la valvola di aspirazione è pulsata.
Nel mono-cilindro la valvola di aspirazione si apre con un periodo pari a 720°, quindi
ogni due giri, per cui la pulsazione di aria aspirata avrà un periodo pari a due giri;
pertanto la pressione avrà una pulsazione legata proprio a tale periodo: tale
pulsazione è inoltre caratterizzata da un’ampiezza che sarà tanto più grande quanto
più basso è il numero di cilindri. Nel momento in cui si hanno più cilindri, le pulsazioni
agiranno tutte all’interno del collettore, ma essendo tutte sfalsate tra di loro è come
se si andassero a sovrapporre tante onde di pressione, che hanno un’ampiezza
elevata, ma per il fatto che sono sfalsate, la risultate sarà una forma d’onda che avrà
un periodo molto inferiore rispetto alla massima.
Nel momento in cui si ha un motore con un solo cilindro, all’interno del collettore di
aspirazione si ha un’onda che avrà un picco durante una fase (sulle quattro fasi
complessive) dopodiché rimarrà più o meno stabile:

Figura 227

Con un motore due cilindri si avrà invece la seguente situazione:

284
Figura 228

Mentre con un motore a quattro cilindri la situazione sarà la seguente:

Figura 229

Nel momento in cui si vanno a sommare le onde di pressione nell’ultimo caso (motore
quattro cilindri) l’oscillazione sarà molto contenuta:

Figura 230

Con un motore sei cilindri, la forma d’onda sarà più complessa, ma l’ampiezza
dell’oscillazione sarà ancor più ridotta.
Le pulsazioni sono evidentemente dovute alla sequenza delle aspirazioni (o alla
sequenza di una qualunque altra fase) e determineranno dei fenomeni non
stazionari.
In particolare, gli effetti dinamici (non stazionari) nei condotti sono di due tipi:
 Effetto inerziale, dovuto al moto di trasporto non stazionario del fluido; in tal
caso si ragiona sulla conversione dell’energia cinetica in energia di pressione
(e viceversa).
 Effetti d’onda, legati al moto delle onde di pressione che si propagano con la
velocità del suono; esse sono onde di perturbazione di piccola ampiezza che
si muovono all’interno del collettore di aspirazione e generate ad esempio da
una valvola ce si apre.

285
Nel collettore di aspirazione, ad esempio, nel momento in cui si apre la valvola,
nascerà un’onda di depressione che risale il condotto; tale onda viaggerà all’interno
del condotto con una certa velocità (pari alla velocità del suono).

Figura 231

L’obiettivo è quello di sfruttare una colonna di fluido che avanza nel collettore e se la
valvola è ancora aperta, quando il fluido ha una certa velocità, convertire questa
energia cinetica dell’aria in energia di pressione. Di fatto non si fa altro che rallentare
il fluido che ha una certa velocità e dunque una sua pressione dinamica e convertire
quella pressione dinamica in una pressione statica.
L’effetto inerziale è dovuto alla frequenza propria del sistema gassoso: se la
frequenza con cui si susseguono le fasi di aspirazione è legata alla frequenza
naturale del sistema gassoso, è possibile sfruttare l’inerzia relativa convertendo
l’energia cinetica della fase iniziale di aspirazione in energia di pressione nella fase
finale del processo (quindi si sfrutta l’inerzia della colonna fluida). Tipicamente
quando il pistone sta nella seconda metà della propria corsa, rallenta, fino ad arrivare
al punto morto inferiore dove si inverte la corsa (e dunque si ferma), pertanto la
capacità di aspirazione e quindi la velocità dell’aria è molto bassa: a quel punto si
può compensare questa carenza di portata volumetrica con un aumento di pressione
a seguito di fenomeni inerziali. L’energia cinetica della colonna fluida può essere
calcolata nella maniera seguente:
1
𝐸𝑐 = ∙ 𝑚 ∙ 𝑢2
2
Dove:
𝑚 = 𝑚𝑎𝑠𝑠𝑎 𝑑𝑖 𝑓𝑙𝑢𝑖𝑑𝑜
𝑢 = 𝑣𝑒𝑙𝑜𝑐𝑖𝑡à 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑚𝑎𝑠𝑠𝑎 𝑑𝑖 𝑓𝑙𝑢𝑖𝑑𝑜
Pertanto si avrà:
2
1 𝑉̇ 𝐿
𝐸𝑐 = ∙ 𝜌 ∙ 𝐿 ∙ 𝑆 ∙ [ ] ≃
2 𝑆 𝑆
Dove:

286
𝜌 = 𝑑𝑒𝑛𝑠𝑖𝑡à 𝑑𝑒𝑙𝑙′ 𝑎𝑟𝑖𝑎
𝐿 = 𝑙𝑢𝑛𝑔ℎ𝑒𝑧𝑧𝑎 𝑑𝑒𝑙 𝑐𝑜𝑙𝑙𝑒𝑡𝑡𝑜𝑟𝑒
𝑆 = 𝑠𝑒𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝑝𝑎𝑠𝑠𝑎𝑔𝑔𝑖𝑜
𝑉̇ = 𝑝𝑜𝑟𝑡𝑎𝑡𝑎 𝑣𝑜𝑙𝑢𝑚𝑒𝑡𝑟𝑖𝑐𝑎 ("𝑑𝑒𝑟𝑖𝑣𝑎𝑡𝑎" 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑐𝑖𝑙𝑖𝑛𝑑𝑟𝑎𝑡𝑎 𝑛𝑒𝑙 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑜)
𝑚 = 𝜌∙𝐿∙𝑆
𝑢 = 𝑉̇ /𝑆
Quindi l’energia cinetica a disposizione è proporzionale al rapporto 𝐿/𝑆, per cui a
parità di portata volumetrica l’effetto di inerzia cresce con la lunghezza del collettore
e decresce con l’aumentare della sezione di passaggio. È evidente che sezioni
troppo strette o condotti troppo lunghi possono produrre un aumento delle perdite di
carico e dunque creare un effetto negativo e non più benefico: pertanto quanto detto
vale entro i limiti di un collettore non estremamente lungo e con sezione non
eccessivamente ridotta, proprio per problemi legati a perdite fluidodinamiche.
In un collettore relativamente lungo, dove la lunghezza è prevalente rispetto al
diametro è possibile assumere che il moto sia monodimensionale e che la massa di
fluido non subisca effetti di compressione e dunque la si può immaginare come una
massa rigida. Pertanto si immagini che la colonna di gas costituisca un sistema
oscillante smorzato, con elasticità distribuita e una frequenza 𝑓0 assimilabile ad un
sistema massa-molla. Le ipotesi che si fanno per una trattazione semplificata sono:
 La massa è costituita dal fluido nel condotto (collettore) con una sua inerzia e
si trascura la comprimibilità.
 L’elasticità del sistema è legata al fluido nel cilindro che si considera soggetto
a compressione o espansione adiabatica; pertanto l’elasticità viene
concentrata nel volume più ampio ovvero all’interno del cilindro.
Sulla base delle precedenti ipotesi è possibile dire che la massa che si muove
all’interno del collettore è rigida (fluido incomprimibile), ma all’interno del cilindro c’è
un gas che si trova in un volume molto più ampio e dunque si assume che questa
parte sia elastica (fluido comprimibile): in un ambiente molto ampio l’effetto di
comprimibilità si propaga molto facilmente (in un condotto molto lungo invece no); in
questo modo si vanno a trascurare effetti secondari che comunque nella realtà
esistono.
Quindi nel caso degli effetti inerziali si sfrutta l’inerzia della colonna di gas che è
proporzionale ad 𝐿/𝑆. La colonna di gas nel collettore e la parte nel cilindro
costituiscono un sistema oscillante smorzato con una massa 𝑚 ed elasticità
distribuita.
Di seguito si riporta la schematizzazione mediante un risonatore di Helmholtz, del
sistema gassoso contenuto nel condotto di aspirazione e nel cilindro, supponendo
che l’inerzia del sistema sia stata data prevalentemente dalla massa di gas presente
287
nel condotto (di lunghezza 𝐿 e sezione 𝑆) e l’elasticità da quella nel cilindro (di
costante elastica 𝐾𝑒 e volume medio 𝑉𝑚 ).

Figura 232

Di fatto il sistema diventa un risonatore di Helmholtz costituito appunto da una massa


e una molla (sistema massa-molla). Nel modello si assume che l’elasticità del
sistema sia quella del fluido all’interno del cilindro (fluido comprimibile) e che la
trasformazione di compressione (ma anche quella di espansione) sia adiabatica:
pertanto si potrà assumere valida l’equazione della politropica 𝑝𝑉 𝑘 = 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒. È
evidente che l’elasticità è legata alla variazione di pressione. Si immagina
evidentemente che il condotto sia abbastanza lungo affinché gli effetti di elasticità
non si risentano al suo interno (sistema rigido nel condotto). Ovviamente uno
spostamento di fluido 𝑑𝑥 positivo all’interno del collettore, corrisponderà ad una
variazione di volume 𝑑𝑉 negativa all’interno del cilindro: di fatto se l’elemento di fluido
esce dal cilindro ed entra nel collettore, un incremento di volume 𝑆 ∙ 𝑑𝑥 nel collettore
corrisponde ad una riduzione di volume pari a 𝑑𝑉 all’interno del cilindro (e viceversa).
Pertanto assumendo che:
𝑚 = 𝜌∙𝐿∙𝑆
È possibile studiare la politropica 𝑝𝑉 𝑘 = 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒 per cercare di capire cosa accade
all’interno del cilindro in termini di variazione di pressione. Pertanto differenziando
l’equazione della politropica si avrà:

288
𝑑𝑝𝑉 𝑘 + 𝑘𝑉 𝑘−1 𝑝𝑑𝑉 = 0
Da cui:
𝑑𝑝 = −(𝑘𝑝/𝑉)𝑑𝑉 = 𝑘𝑝𝑆𝑑𝑥/𝑉
Dove:
𝑑𝑉 = −𝑆𝑑𝑥 (𝑝𝑒𝑟 𝑞𝑢𝑎𝑛𝑡𝑜 𝑑𝑒𝑡𝑡𝑜)
In tal modo si lega il differenziale 𝑑𝑝 (variazione di pressione) alla variazione di
spostamento 𝑑𝑥.
La costante elastica della molla si ricava come rapporto tra la forza 𝑑𝐹 (che è data
dalla variazione di pressione per la sezione) e lo spostamento 𝑑𝑥:
𝑑𝐹 𝑑 (𝑆 ∙ 𝑝) 𝑆 ∙ 𝑑𝑝
𝐾𝑒 = = =
𝑑𝑥 𝑑𝑥 𝑑𝑥
Sostituendo alla relazione della costante elastica, quanto trovato in termini di 𝑑𝑝 si
ha:
𝑘 ∙ 𝑝 ∙ 𝑆2
𝐾𝑒 =
𝑉𝑚
Dove:
𝑉𝑚 = 𝑐𝑖𝑙𝑖𝑛𝑑𝑟𝑎𝑡𝑎 𝑚𝑒𝑑𝑖𝑎 𝑑𝑒𝑙 𝑚𝑜𝑡𝑜𝑟𝑒 (𝑣𝑜𝑙𝑢𝑚𝑒 𝑚𝑒𝑑𝑖𝑜 𝑑𝑒𝑙 𝑐𝑖𝑙𝑖𝑛𝑑𝑟𝑜)
Più grande è la cilindrata, minore sarà la costante elastica.
La pulsazione naturale del sistema (ovvero della massa all’interno del collettore di
aspirazione) sarà pari a:
𝐾𝑒 𝑘∙𝑝∙𝑆 𝑎2 ∙ 𝑆
𝜔02 = = =
𝑚 𝜌 ∙ 𝐿 ∙ 𝑉𝑚 𝐿 ∙ 𝑉𝑚
Dove:
𝑘∙𝑝
𝑎2 = (𝑣𝑒𝑙𝑜𝑐𝑖𝑡à 𝑑𝑒𝑙 𝑠𝑢𝑜𝑛𝑜)
𝜌
Quindi la frequenza naturale (frequenza del risonatore di Helmholtz: frequenza di
risonanza) sarà:

𝜔0 𝑎 𝑆
𝑓0 = = ∙√
2 ∙ 𝜋 2 ∙ 𝜋 𝐿 ∙ 𝑉𝑚

Ovviamente fissata 𝑉𝑚 la frequenza dipende dal rapporto tra la sezione di passaggio


e la lunghezza. Se la lunghezza è molto elevata, la frequenza naturale del sistema
si riduce e dunque si allungano i tempi caratteristici della massa oscillante.

289
L’obiettivo ovviamente è fare in modo che il sistema non sia smorzato, ma che si trovi
in risonanza, per cui la pulsazione naturale del sistema deve coincidere con la
pulsazione della forzante. Un buon “accordo” si ottiene fasando opportunamente la
sequenza delle aspirazioni con la frequenza naturale del sistema aria. Nel momento
in cui la massa avanza e arriva in prossimità del cilindro bisogna fare in modo che la
valvola non si stia chiudendo, ma bisogna fare in modo proprio da convertire l’energia
cinetica in energia di pressione per cui la valvola deve essere aperta.
Quindi con riferimento al diagramma polare, dal punto morto superiore al punto morto
inferiore si hanno 180° di sfasamento: alla fine della corsa del pistone (a partire da
0° fino ad arrivare ai 180°) deve aversi la massima inerzia: quindi il massimo effetto
si ha a fine corsa di aspirazione (180°), ovvero dopo mezzo giro (la capacità di
aspirare fluido man mano che il pistone scende verso il punto morto inferiore,
diminuisce, giacché il pistone superata la mezza corsa inizia a rallentare: in questa
fase bisogna fare in modo da massimizzare la densità del fluido in modo che a parità
di volume entri una massa maggiore; per tale motivo bisogna fare in modo che
l’energia cinetica del fluido si converta in energia di pressione e questo lo si può fare
sfruttando l’effetto di inerzia a fine corsa); il tempo caratteristico del sistema sarà pari
a:
1 1 1
𝑇0 = = = (𝑚𝑒𝑡à 𝑔𝑖𝑟𝑜)
𝑓0 2 ∙ 𝑛 2 ∙ 𝑓𝑚
Dove:
𝑓𝑚 = 𝑓𝑟𝑒𝑞𝑢𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑑𝑒𝑙 𝑚𝑜𝑡𝑜𝑟𝑒
Infatti 360° vengono percorsi in un giro e quindi in un tempo pari ad 1/𝑛 (con 𝑛
espresso già in secondi), dovendo percorrere però 180° il tempo sarà pari alla metà
del tempo caratteristico del motore.
Il massimo riempimento si ottiene dunque per la frequenza con cui si susseguono le
fasi di aspirazione, pertanto:
𝑓0 = 2 ∙ 𝑓𝑚 , 4 ∙ 𝑓𝑚 , 6 ∙ 𝑓𝑚 , …
Se non si rispetta tale rapporto è possibile avere un effetto parzialmente benefico; in
particolare, nel caso in cui il rapporto tra le due frequenze è un numero intero dispari
(1, 3, 5, …) si ha un effetto totalmente negativo in quanto si è in opposizione.
Quindi il rapporto tra la frequenza del sistema oscillante (frequenza naturale del
sistema di aspirazione) e la frequenza del motore (frequenza della forzante) deve
essere pari a 2 e quindi in generale deve essere un numero pari (condizione
ottimale):
𝑓0
= 2, 4, 6, …
𝑓𝑚

290
In particolare per 𝑓0 = 2 ∙ 𝑓𝑚 si avrà il regime di massimo “accordo” per un
monocilindrico 4 tempi:
𝑎 𝑆
𝑓0 ∙√ 𝑎 𝑆
2 ∙ 𝜋 𝐿 ∙ 𝑉𝑚
𝑓0 = 2 ∙ 𝑓𝑚 = 2 ∙ 𝑛 ⟹ =2= ⟹ 𝑛0 = ∙√
𝑓𝑚 𝑛 4 ∙ 𝜋 𝐿 ∙ 𝑉𝑚

Dove:
𝑛0 = 𝑟𝑒𝑔𝑖𝑚𝑒 𝑑𝑖 𝑟𝑜𝑡𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑚𝑜𝑡𝑜𝑟𝑒 (𝑖𝑛 𝑠𝑒𝑐𝑜𝑛𝑑𝑖)
Volendo aumentare il regime di rotazione (𝑛0 ) per il quale si ha il massimo accordo
per gli effetti inerziali, si dovrebbe aumentare il rapporto 𝑆/𝐿 e quindi si dovrebbe
auementare 𝑆 (sezione di passaggio) e/o diminuire 𝐿 (lunghezza del collettore).
Questo è il motivo per cui i motori da competizione devono avere i condotti di
aspirazione più corti possibile: in tale condizione si ha un accordo ad elevati regimi
di giri; le motopompe, i trattori, … hanno collettori di aspirazione relativamente lunghi
perché si vuole il massimo effetto di inerzia ai regimi di giri più bassi.
Di seguito si riporta l’andamento del coefficiente di riempimento 𝜆𝑣 (per un
monocilindro) in funzione del rapporto tra la frequenza propria del sistema 𝑓0 e quella
corrispondente al regime di rotazione (𝑓𝑚 = 𝑛), calcolato con la schematizzazione
semplificata massa-molla. Si ha un massimo in corrispondenza del rapporto 𝑓0 /𝑓𝑚 =
2, che costituisce la condizione trovata sperimentalmente per ottimizzare l’effetto
inerziale:

Figura 233

In alcuni motori da competizione accordando le fasi di aspirazione e scarico con la


lunghezza dei condotti si può avere una sovralimentazione dinamica, in cui il
coefficiente di riempimento viene aumentato a valori superiore all’unità grazie proprio

291
agli effetti dinamici indotti dai moti non stazionari nei condotti. È evidente che quando
il rapporto tra le frequenze si porta a valori superiori a 2 (quindi 4, 6, …), la massa che
oscilla inizia a smorzarsi: l’effetto maggiore lo si sfrutta proprio quando il rapporto è
pari a 2.
Pertanto, con riferimento al tuning ottimale è possibile dire che:
 A parità di cilindrata unitaria il regime ottimale si può ridurre:
o Diminuendo la sezione 𝑆 del collettore a parità di lunghezza 𝐿
o Aumentando la lunghezza 𝐿 a parità di sezione 𝑆
o Diminuendo il rapporto 𝑆/𝐿
 A parità di cilindrata unitaria e regime ottimale fissando 𝑆/𝐿 (lo si mantiene
costante):
o Piccole sezioni e condotti corti
o Grandi sezioni e condotti lunghi
 A parità di regime ottimale, all’aumentare della cilindrata unitaria occorre:
o Aumentare 𝑆 ad 𝐿 costante (volume proporzionale alla cilindrata
unitaria)
o Aumentare 𝑆/𝐿 in proporzione a 𝑉𝑚
Oltre agli effetti di inerzia, esistono altri effetti che si possono verificare durante la
fase di aspirazione noti come effetti d’onda. Nel momento in cui c’è l’apertura della
valvola di aspirazione, nasce un’onda di depressione che risale il condotto (ovvero
la corrente) andandosi a riflettere dall’altro lato del condotto, dove può esserci un
ambiente aperto oppure anche una parete.
In particolare, dove c’è un open boundary (ambiente aperto) l’onda incidente ritorna
indietro con segno opposto, pertanto un’onda di compressione si rifletterà e tornerà
indietro come onda di espansione (onda di depressione):

Figura 234

Invece nel caso in cui vi sia un wall boundary, ovvero una parete, se su di essa arriva
un’onda di compressione essa si rifletterà e tornerà indietro con lo stesso segno
ovvero sempre come onda di compressione:

292
Figura 235

Ciò ovviamente accade nelle due condizioni estreme di condotto completamente


chiuso o di condotto completamente aperto. Nel caso in cui invece vi sia un
restringimento o un ampliamento della sezione di passaggio l’onda in parte si riflette
e in parte avanzerà. In particolare nel caso in cui si ha un aumento di sezione, in
corrispondenza di tale incremento, l’onda avanzerà parzialmente con lo stesso
segno, mentre la restante parte tornerà indietro con segno opposto: è evidente che
la somma delle due perturbazioni deve essere uguale alla perturbazione incidente.
Quando invece si ha un restringimento la situazione è diametralmente opposta: la
perturbazione che torna indietro lo farà con lo stesso segno, mentre quella che
avanza, avanzerà con segno opposto; anche in questo caso ovviamente la somma
delle due perturbazioni deve essere uguale alla perturbazione di partenza. È
evidente che l’aliquota riflessa e quella che continua ad avanzare dipenderanno dal
grado di apertura/chiusura del condotto stesso. In particolare il ragionamento sarà
condotto nell’ipotesi ideale che non vi sia forzamento.

Figura 236

293
Lezione 22 (Pianese) 12/04/2017
Motori alternativi a combustione interna: sistemi di aspirazione e scarico
Si ricordi che il coefficiente di riempimento volumetrico ha una dipendenza forte dal
regime di giri:

Figura 237

Il tratto di forte riduzione del coefficiente di riempimento volumetrico col regime di giri
è strettamente legato alle perdite di carico e a fenomeni di bloccaggio della portata
all’interno del collettore di aspirazione.
Oltre ai fenomeni inerziali di cui si è ampiamente discusso esistono anche i cosiddetti
fenomeni d’onda che si possono realizzare all’interno del collettore di aspirazione.
Un’onda di perturbazione incidente alla velocità del suono viene riflessa da una
discontinuità secondo un processo legato alle leggi di continuità:
 Con segno opposto se vi è un aumento di sezione (open boundary) e procede
con lo stesso segno nelle sezioni successive con intensità minore.
 Con lo stesso segno se vi è una riduzione di sezione (wall boundary).
Si immagini di avere un collettore di aspirazione che termina in un cilindro, come
riportato nella schematizzazione seguente:

Figura 238

Nel momento in cui si apre la valvola di aspirazione (o anche di scarico), nasce una
perturbazione di pressione (ovvero un’informazione che risale la corrente alla

294
velocità del suono): tale perturbazione è legata a una differenza di pressione che
esiste tra il collettore di aspirazione e il cilindro (questa differenza di pressione esiste
sempre). Se si immagina che nasca un’onda di perturbazione di depressione (onda
negativa: si è in fase di aspirazione) essa avanzerà da destra (a partire dalla valvola
di aspirazione) verso sinistra, con una velocità pari alla velocità del suono (𝑎); se il
condotto di aspirazione è lungo 𝐿, evidentemente il tempo necessario affinché tale
onda percorra tutto il condotto sarà pari a:
𝐿 𝐿
𝑎= ⟹ 𝛥𝑡 =
𝛥𝑡 𝑎
In un motore quattro cilindri ad esempio ci sono i quattro piccoli collettori che arrivano
nel plenum principale (collettore grande) il quale a sua volta è collegato con
l’ambiente esterno (le valvole rappresentate sono quelle di aspirazione):

Figura 239

L’ambiente è infinito in questa analisi ed esso dà la condizione di open boundary; se


l’ambiente non fosse infinito, ma semplicemente fosse più ampio non si avrebbe un
open boundary, ma comunque vi sarebbe una discontinuità la quale provocherebbe
comunque delle perturbazioni: in questo caso però non si avrebbe un effetto puro di
riflessione, ma parte dell’onda continuerebbe a proseguire in avanti; esiste dunque
una certa gradualità ed in funzione di quanto sia più ampia (o meno ampia) la zona
che la perturbazione si trova di fronte, rispetto a quella che ha lasciato dietro, essa
si comporterà in un certo modo.
Se si vogliono analizzare i casi estremi allora si fa riferimento al caso in cui la
perturbazione trova un ambiente aperto infinito (open boundary) e al caso essa trova
una parete solida (wall boundary).

295
Quando la perturbazione arriva in un ambiente aperto (open boundary) per le leggi
di continuità, ritorna indietro con il segno opposto: ciò accade per la continuità intorno
al volume di controllo riportato nella figura seguente (in rosso), in quanto l’energia
deve conservarsi.

Figura 240

Nella condizione opposta invece (wall boundary) che può manifestarsi all’altra
estremità del condotto di aspirazione quando la valvola è chiusa, per le leggi della
continuità siccome la perturbazione trova una parete chiusa essa tornerà indietro con
lo stesso segno (sempre per la conservazione dell’energia sul volume di controllo
riportato in rosso):

Figura 241

Quindi nel momento in cui le perturbazioni trovano una discontinuità si riflettono


all’interno del condotto.
Si immagini invece di trovare una discontinuità generica, ovvero un ambiente non
completamente aperto, ma nemmeno chiuso:

Figura 242

296
Ovviamente non è detto che si passi da una sezione all’altra così bruscamente, ma
ci potrebbe anche essere un passaggio graduale (sezione conica): in tal caso vi è
una sequenza di successive variazioni per cui il fenomeno avviene in ogni sezione
successiva. In ogni caso con una discontinuità di questo tipo una parte dell’onda
continua ad andare avanti con intensità ridotta e con lo stesso segno (in blu) ed il
suo complemento torna indietro con il segno cambiato (in rosso).
Nella figura sottostante, a titolo di esempio, viene rappresentato ciò che accade nel
collettore di scarico:

Figura 243

È evidente che il tempo affinché l’onda si propaghi in tutto il condotto e torna indietro
dipende dalla lunghezza del condotto stesso; se le lunghezze in gioco (𝐿) sono
relativamente piccole, siccome la velocità 𝑎 è molto elevata, la scala di tempo è
inferiore al ciclo. Se invece il condotto è molto lungo il tempo caratteristico potrebbe
essere dell’ordine dei due-tre cicli.
Nel caso dello scarico, quando il pistone è in prossimità del punto morto superiore in
fase di salita esso tenderà a rallentare e la capacità di espulsione si riduce: se il
motore è ben progettato e in quella condizione si fa in modo che arrivi un treno di
onde di depressione lo scarico migliora. Quindi se l’onda di depressione risale nel
momento in cui la valvola è aperta, avendo una densità maggiore dentro e minore
fuori esso tende a spingere la massa d’aria migliorando lo scarico. Pertanto se si è
in grado di accordare la lunghezza del collettore di scarico col regime di giri al quale
si vuole la migliore evacuazione possibile si trova il punto di funzionamento ottimale
per quel condotto di scarico (lo stesso discorso vale per il condotto di aspirazione).
Per i motori a quattro tempi, dove la fasatura è controllata, tale fenomeno è molto
utile. Nei motori a due tempi invece, dove non c’è la valvola di scarico, quando lo
scarico è aperto, il problema è più complesso da risolvere in quanto comunque non
è possibile ottimizzare il sistema per tutti i regimi di giri (ovviamente lo stesso vale
per il motore quattro tempi, ma in questo caso le valvole ci sono).
Nei sistemi di aspirazione per sfruttare al massimo questi effetti sono stati realizzati
dei condotti a geometria variabile, in cui si fa in modo che tali condotti si allunghino
297
e si accorcino; in pratica si fa in modo che ai bassi regimi di giri tali collettori siano
lunghi, mentre ad elevati regimi di giri siano corti; ciò permette di allargare la curva
di coppia.
Oggigiorno si utilizzano dei sovralimentatori che consentono anche un downsizing; è
evidente che il sovralimentatore subisce queste variazioni di pressione e quindi se il
sistema non è ben progettato è possibile che tali onde vadano a vanificare gli effetti
del sovralimentatore stesso.
Nel caso in cui la sezione si riduce piuttosto che aumentare una parte dell’onda torna
indietro con lo stesso segno e il residuo va avanti sempre con lo stesso segno:

Figura 244

Il problema è ovviamente analogo nel caso in cui si ha un condotto di questo tipo:

Figura 245

In tal caso in ogni sezione si deve fare lo stesso ragionamento fatto finora.
A questo punto si ragioni sul diagramma polare:

Figura 246

298
Il motore evidentemente aspira tra 0° e 180°. Nel collettore di aspirazione bisogna
fare in modo che tra 90 ° e 180° l’aria venga spinta dentro al cilindro in quanto il
pistone da solo non ce la fa: di fatto nella seconda parte della corsa il pistone rallenta
per cui l’aria ha bisogna di una “spinta” per poter continuare ad entrare. Quindi
bisogna fare in modo che nel momento in cui il pistone è lento, la densità aumenti e
pertanto è necessaria in quella fase un’onda di compressione; pertanto nel collettore
di aspirazione deve esserci un’onda di sovrappressione che arrivi sulla valvola,
quando la valvola stessa si sta aprendo; ovviamente nel collettore di aspirazione tale
condizione si ritroverà dopo 540° dalla chiusura della valvola di aspirazione. Quindi
nel momento in cui il pistone sta a metà corsa deve arrivare questa onda di
compressione. L’ampiezza angolare 𝛥𝜃 corrisponde al periodo necessario a
percorrere il condotto di lunghezza 𝐿 è:
𝛥𝑡 𝐿
𝛥𝜃 ∶ 360° = 𝛥𝑡 ∶ 𝑇𝑚 ⟹ 𝛥𝜃 = 360° ∙ = 360° ∙ 𝛥𝑡 ∙ 𝑛 = 360° ∙ 𝑛 ∙
𝑇𝑚 𝑎
Quindi:
𝐿
𝛥𝜃 = 360° ∙ 𝑛 ∙ (𝑒𝑙𝑒𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑖𝑡𝑢𝑡𝑖𝑣𝑜 (𝑒𝑙𝑒𝑚𝑒𝑛𝑡𝑎𝑟𝑒) 𝑑𝑒𝑙𝑙′ 𝑎𝑛𝑎𝑙𝑖𝑠𝑖 𝑐𝑜𝑛𝑑𝑜𝑡𝑡𝑎 )
𝑎
Dove:
1
𝑇𝑚 = (𝑡𝑒𝑚𝑝𝑜 𝑚𝑒𝑑𝑖𝑜 𝑑𝑒𝑙 𝑚𝑜𝑡𝑜𝑟𝑒 (𝑝𝑒𝑟𝑖𝑜𝑑𝑜 𝑑𝑒𝑙 𝑟𝑒𝑔𝑖𝑚𝑒 𝑑𝑖 𝑔𝑖𝑟𝑖))
𝑛
In pratica ogni giro viene chiuso in un tempo pari a 𝑇𝑚 e 𝛥𝜃 indica la frazione dei 360°
che corrisponde all’intervallo di tempo 𝛥𝑡 (frazione del giro completo) in cui avviene
un’oscillazione.
In particolare il 𝛥𝜃 calcolato dà informazioni riguardo all’intervallo angolare
necessario a un’onda di perturbazione a coprire una lunghezza 𝐿 caratteristica del
motore a quel dato regime di giri. Variando il regime di giri il 𝛥𝜃 varierà per cui se si
vuole che esso rimanga costante, aumentando ad esempio il regime di giri bisogna
ridurre la lunghezza.
Per una fase di aspirazione, in cui la perturbazione di espansione risale il condotto e
si riflette come compressione a seguito della discontinuità (ambiente o plenum), la
condizione ottimale a valvola aperta è 2 ∙ 𝛥𝜃 = 90°, da cui:
90° 𝐿 90° 𝑎 𝑎
𝛥𝜃 = = 360° ∙ 𝑛 ∙ ⟹ 𝑛 ∙ 𝐿 = ∙𝑎 = ⟹𝑛 =
2 𝑎 720° 8 8 ∙𝐿
Quindi il regime di giri a cui si avrà il massimo accordo a valvole aperte è proprio
quello riportato nella relazione su scritta. Ovvero la lunghezza ottimale sarà pari a:
𝑎
𝐿=
8∙𝑛

299
La condizione ottimale è quella indicata in virtù di quanto riportato nello schema
seguente:

Figura 247

Nel momento in cui si apre la valvola di aspirazione, si genera un’onda di depressione


che risale il condotto con velocità 𝑎 in un certo intervallo di tempo 𝛥𝑡 arrivando
dall’altro lato, dove trova l’ambiente esterno (open boundary), per cui si rifletterà con
il segno opposto avanzando sempre con velocità 𝑎, ma ritornando indietro verso il
cilindro; pertanto arriverà come onda di compressione dall’altro lato del collettore: se
la lunghezza è stata ben progettata ci si troverà nella condizione in cui l’onda di
compressione si troverà tra i 90° e i 180°; per fare in modo che ciò avvenga i 90° di
angolo di manovella devono corrispondere al percorso compiuto dall’onda di
perturbazione pari a 2 ∙ 𝐿:

Figura 248

Quindi secondo tale fenomenologia quando l’onda di compressione “ritorna” e la


valvola di aspirazione è ancora aperta si riesce ad incrementare la pressione che si
sarebbe ridotta a seguito del rallentamento del pistone nel moto verso il punto morto
inferiore.
Volendo fare un esempio, supposto 𝑎 = 350 𝑚/𝑠, per 𝑛 = 6000 𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑚𝑖𝑛 =
100 𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑠, la lunghezza deve essere pari a 𝐿 = 0.44 𝑚, mentre per un numero di giri
pari a 𝑛 = 1800 𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑚𝑖𝑛 = 30 𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑠, la lunghezza deve esser 𝐿 = 1.46 𝑚. È
semplice comprendere come in realtà sui motori non si hanno queste lunghezze: in
effetti quanto calcolato è la condizione ottimale per un monocilindrico fissato un certo
regime di giri, mentre quando si hanno più cilindri è possibile sfruttare anche gli effetti
di sovrappressione dei cilindri vicini e quindi è possibile avere lunghezze minori.
È chiaro sarebbe possibile avere un effetto positivo non immediatamente a 90°, ma
in un tratto intermedio della corsa.

300
Quindi in definitiva si vogliono sfruttare gli effetti d’onda: a valvole aperte (stesso
ciclo), e a valvole chiuse (ciclo successivo).
Nel caso a valvole aperte, come visto, l’onda di compressione arriva quando la
valvola è ancora aperta. Al contorno si riflette un’onda opposta per garantire all’open
boundary la continuità per annullare la differenza di pressione tra incidente e riflessa:

Figura 249

L’onda deve compiere 2𝐿 in 90° (1/4 giro) alla velocità 𝑎:


2𝐿 1 𝑎
𝑇= = ⟹𝑛=
𝑎 4𝑛 8𝐿
L’altra fase è quella a valvole chiuse: quando la valvola di aspirazione si apre si vuole
una sovrappressione in quanto in quella fase il pistone ha una velocità ridotta (sta
accelerando) e quindi non riesce ad aspirare; in quella fase se si riesce ad aumentare
la densità dell’aria si riesce ad incrementare il coefficiente di riempimento.
Ovviamente l’onda può essere generata grazie alla discontinuità che si genera a
seguito della chiusura della valvola di aspirazione: quando la valvola di aspirazione
si chiude il fluido arriva sulla stessa “sbattendoci” sopra e generando un’onda di
compressione, la quale risale la corrente. Ovviamente la velocità dell’aria, a meno di
non trovarsi in condizioni di bloccaggio, è sempre più bassa della velocità dell’onda
di perturbazione; quando più ci si avvicina alla velocità del suono (condizioni di
bloccaggio) tanto più si possono avere difficoltà nella risalita dell’onda di pressione:
ciò che conta è il moto relativo (tuttavia quest’analisi è comunque piuttosto
complessa, per cui si immagina che il fluido sia fermo: se così non fosse la
perturbazione in un verso sarebbe rallentata (controcorrente) e nell’altro sarebbe
accelerata). Quando la valvola è chiusa, ovviamente il fluido è fermo per cui l’analisi
che si sta conducendo può essere applicata senza alcuna ipotesi semplificata.
Quando l’onda di compressione generata arriva dall’altro lato del condotto, si troverà
di fronte ad un open boundary per cui essa si rifletterà col segno opposto; arrivata
nuovamente in prossimità del cilindro, giacché la valvola risulta chiusa (wall
boundary) la perturbazione si rifletterà nuovamente, ma con lo stesso segno,
dopodiché arrivata nuovamente all’open boundary si riflette nuovamente, ma con
segno opposto, ritornando ancora una volta verso il cilindro. Nella schematizzazione
seguente viene sintetizzato quanto detto:
301
Figura 250

Per cui alla fine arriverà sulla valvola di aspirazione come onda di compressione (così
com’è partita), dopo aver fatto quattro giri (4𝐿). La lunghezza pari a 4𝐿 deve essere
coperta in 540° giacché la valvola è chiusa (teoricamente) durante questo intervallo
angolare. Durante le altre fasi (540° circa) il sistema di perturbazione oscillerà
secondo le caratteristiche di un oscillatore smorzato con un periodo pari a 𝑇0 =
1/𝑓0 = 4𝐿/𝑎. L’intervallo angolare necessario a coprire la lunghezza 𝐿 sarà:
𝐿
𝛥𝜃 = 360° ∙ 𝑛 ∙
𝑎
Quindi una perturbazione compie 4 corse in 540°, per cui:
4𝐿 3 𝑎
540° = 360° ∙ 𝑛 ∙ ⟹𝑛= ∙
𝑎 8 𝐿
Come prima, se la lunghezza aumenta il regime di giri si riduce e viceversa.
In generale, una valutazione dell’effetto è data dal numero 𝐾 di periodi 𝑇0 , convertiti
in angoli di manovella, contenuti nell’intervallo 540°:
540° 1 540° 1 𝑎 3 1 𝑎
𝐾= ∙ = ∙ ∙ = ∙ ∙
360° 𝑛 ∙ 𝑇0 360° 𝑛 4 ∙ 𝐿 8 𝑛 𝐿
Dove:
𝑇0 = 𝑝𝑒𝑟𝑖𝑜𝑑𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙′ 𝑜𝑠𝑐𝑖𝑙𝑙𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒
Evidentemente l’effetto è positivo per 𝐾 intero (1, 2, 3, …), mentre è negativo per 𝐾
frazionario (1.5, 2.5, 3.5, …) in quanto in quest’ultimo caso se l’onda parte positiva
ritornerà negativa. Ovviamente per contro se partisse un’onda negativa (ammesso
che possa partire) con un 𝐾 frazionario si avrebbe un beneficio (ma ciò non accade,
perché quando la valvola si chiude la perturbazione è positiva).
Ovviamente tali fenomeni esistono sempre durante tutto il processo: quando la
valvola è aperta comunque si generano delle onde di perturbazioni indotte da
fenomeni di discontinuità (anche effetti secondari quali valvole di EGR, …).
L’anticipo di apertura della valvola di aspirazione 10° − 25° prima del punto morto
superiore (coefficiente di riempimento poco influenzato), consente di evitare la forte
riduzione della pressione nel cilindro.
302
Ovviamente tutto il ragionamento è stato fatto sulla fasatura ideale (0° − 180° − …:
apertura e chiusura ai punti morti), ma nella realtà la fasatura è anticipata o ritardata
e dunque gli angoli possono variare: pertanto nella realtà bisogna tener conto di
questi aspetti.
Quanto detto sinora viene sintetizzato brevemente nelle seguenti figure:

Figura 251

Figura 252

303
Figura 253

Nel caso del collettore di scarico l’obiettivo è avere un’onda di depressione che
facilita la fuoriuscita del gas dal cilindro.
Tutti questi fenomeni vengono analizzati con modelli di calcolo monodimensionali, in
cui si fa l’ipotesi che la lunghezza del condotto sia molto maggiore rispetto al
diametro: a partire dalle equazioni di Navier-Stokes monodimensionali (equazione di
continuità (bilancio di massa), equazione di conservazione della quantità di moto,
equazione di conservazione dell’energia) il condotto viene discretizzato in tanti
elementi di calcolo e si implementano tecniche di calcolo numerico per la risoluzione
delle derivate parziali (l’equazione di Navier-Stokes è scritta nello spazio e nel
tempo).
Di seguito viene riportata una rappresentazione di ciò che accade dal punto di vista
sperimentale nei condotti:

Figura 254
304
Nel caso in cui la valvola a farfalla fosse parzializzata (non completamente aperta) ci
sarebbe una parte della perturbazione riflessa e una che continua ad andare avanti
(non sarebbe un open boundary puro), mentre quando è completamente aperta
teoricamente si tratta di un open boundary.
In un sistema a quattro cilindri ci saranno degli effetti di interferenza o di
amplificazione delle diverse perturbazioni. Volendo collocare le pressioni 𝑝1 , 𝑝2 e 𝑝3
riportate nella figura precedente in un sistema reale, esse saranno le pressioni
individuate nelle zone riportate nella schematizzazione seguente:

Figura 255

Nel caso di quattro cilindri evidentemente ogni 180° si ha un ciclo motore. Nella figura
riportante i diagrammi di pressione è possibile notare come vi sia una leggera
sovrapposizione (incrocio) tra la fase di apertura della valvola di aspirazione (IO: Inlet
Opening) e la fase di apertura della valvola di chiusura della valvola di scarico scarico
(EO: Exhaust Opening). A 1200 𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑚𝑖𝑛 la pressione 𝑝1 risulta essere influenzata
anche da piccole oscillazioni, che sono legate ad effetti secondari provocati da onde
di oscillazione che si muovono nei condotti (la pressione è molto oscillante). Nella
fase di chiusura della valvola di aspirazione, a partire dalla seconda metà
dell’apertura della stessa, è possibile notare un effetto positivo di sovrappressione
(risalita della pressione) che è benefico in quanto consente di incrementare la densità
del fluido aspirato proprio quando il pistone rallenta. La pressione 𝑝3 invece è
misurata molto lontano dai cilindri ed in quella zona è possibile distinguere
chiaramente le quattro sovrappressioni legate ai quattro sbuffi dei quattro cilindri allo
scarico: essa non è influenzata da altri fenomeni giacché ad una certa distanza dai
cilindri oramai le onde secondarie si sono attenuate (non ci sono oscillazioni piccole
come nel caso della 𝑝1 ), ma è possibile distinguere chiaramente la sequenza delle
pulsazioni dello scarico. Per quanto riguarda la pressione 𝑝2 misurata più in
prossimità dei cilindri, i treni d’onda sono più numerosi giacché c’è un’influenza
notevole di tutti i cilindri. Quando il regime di giri aumenta. Passando da
1200 𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑚𝑖𝑛 a 4800 𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑚𝑖𝑛, sebbene le onde di perturbazione avanzeranno
sempre con la stessa velocità e le lunghezze in gioco rimangono le stesse,
cambieranno evidentemente le forzanti che generano le onde di pressione (aumenta
305
la frequenza con cui le onde di pressione vengono generate); in questo caso lo
scenario cambia; con riferimento alla pressione 𝑝1 è possibile notare più chiaramente
la sequenza dei quattro picchi; per quanto riguarda la 𝑝2 è possibile notare che c’è
un effetto negativo nella fase di apertura della valvola di scarico dovuto ad una
sovrappressione, mentre un effetto positivo durante la chiusura della stessa in
quanto in quel caso la sovrappressione è desiderata. Per quanto riguarda la
pressione 𝑝3 , i quattro picchi, sebbene appaiano, essi risultano smorzati
probabilmente a causa del fatto che ci sono due cilindri in cui invece di arrivare una
sovrappressione arriva una depressione.
Nella schematizzazione seguente riportato l’effetto d’onda a valvola aperta. Se
l’impulso positivo di pressione, riflesso dall’estremità aperta del condotto, arriva alla
valvola nella seconda metà della fase di aspirazione, la pressione risultante favorisce
il riempimento del cilindro nel momento in cui la valvola sta per chiudersi. In assenza
di riflessione l’onda seguirebbe l’andamento del moto del pistone (in base alla
massima velocità del pistone si avrebbe la massima depressione); se invece l’onda
si riflette si avrà una pressione risultante positiva ed elevata a cavallo del punto morto
inferiore, quando cioè il pistone è lento o addirittura sta risalendo.

Figura 256

Di seguito viene invece riportato l’andamento del coefficiente di riempimento in


funzione del regime di rotazione, nel caso di un motore con condotti di aspirazione
separati e molto lunghi (𝐿𝑎 = 1.5 𝑚: lunghezza eccessiva per i motori moderni), in
modo da evidenziare l’effetto inerziale (ottimo a 35 𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑠), quello d’onda a valvola
aperta (ottimo a 30 𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑠 e a 80 𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑠) e quello d’onda a valvola chiusa (favorevole
a 30 𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑠, a 40 𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑠 e a 80 𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑠. Il “buco di riempimento a 35 𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑠 è dovuto
all’effetto d’onda a valvola chiusa sfavorevole.

306
Figura 257

Ovviamente in un motore reale, i condotti sono più corti ed inoltre c’è l’effetto
“condensatore” del collettore di aspirazione, che ha un volume molto maggiore della
cilindrata (anche cinque o sei volte maggiore) e che smorza le pulsazioni (quasi come
se fosse un ambiente aperto).
Per lo stesso motore, come è possibile vedere dalla figura precedente si può passare
tranquillamente da un coefficiente di riempimento pari a 0.8 a un coefficiente di
riempimento pari a 1.3 a seconda del regime di giri: ciò significa che il riempimento
aumenta del 50% circa il che si traduce in un aumento di potenza del 50%. Questo
fa capire l’importanza del sistema di aspirazione e scarico sulle prestazioni
complessive del motore. Questo è il motivo per cui negli ultimi 15 𝑎𝑛𝑛𝑖 ci si è
concentrati molto su tali sistemi. Con l’avvento della sovralimentazione poi è stato
possibile ridurre le dimensioni del motore (downsizing) e dunque la cilindrata e
migliorare le prestazioni ai bassi carichi (aumentando la cilindrata aumenta lo
scambio termico, aumentano gli attriti, … quindi riducendo la cilindrata si perde
meno). Invece il sistema di combustione non è stato ottimizzato molto, sebbene
oggigiorno si stia cercando un’ottimizzazione anche in questo senso. Oggigiorno
addirittura si utilizzano due turbine e due compressori per la sovralimentazione (alta
e bassa pressione) per fare in modo che in tutto il campo di funzionamento si ha una
copertura ottimale. Ovviamente migliorando il sistema di aspirazione e scarico non
si influenza direttamente il rendimento termico: facendo un downsizing si riducono
attriti e perdite di calore, … per cui vi è un’azione indiretta sul rendimento, ma
un’azione diretta sul peso, sugli ingombri, …. Dal punto di vista termodinamico della
combustione fino ad oggi non si è fatto molto, in futuro si prospetta di poter adottare
tecnologie con rapporti di compressione variabili ed altre tecnologie quale l’iniezione
307
di acqua che può ridurre il rischio di detonazione e incrementare il rapporto di
compressione volumetrico. I rendimenti sui motori dei camion oggigiorno sfiorano il
50%, mentre sulle autovetture si è intorno al 40%.
Di seguito vengono rappresentati tre grafici che riportano l’andamento in funzione
dell’angolo di manovella 𝜃, delle pressioni nei collettori di aspirazione 𝑝𝑎 e di scarico
𝑝𝑠 (in prossimità delle rispettive valvole) per un motore con condotti d’aspirazione
separati e molto lunghi. Le ampie oscillazioni di pressione influenzano sensibilmente
il processo di ricambio della carica. In particolare:
 Per 𝑛 = 30 𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑠 risulta buono l’effetto inerziale e favorevoli gli effetti d’onda:
a valvola di aspirazione aperta si ha un incremento della pressione.
 Per 𝑛 = 35 𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑠 risulta ottimo l’effetto, inerziale, buono quello d’onda a
valvola aperta, mentre è sfavorevole (𝐾 = 2.5) quello d’onda a valvola chiusa.
 Per 𝑛 = 40 𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑠 risulta buono l’effetto inerziale, discreto quello d’onda a
valvola aperta e favorevole (𝐾 = 2) quello d’onda a valvola chiusa.

Figura 258
308
Per la fase di scarico c’è uno sbuffo di pressione abbastanza pronunciato, giacché
la pressione di fine espansione è molto elevata, per cui si ha un picco di pressione
che poi tende a smorzarsi; in genere il collettore di scarico è relativamente lungo; lo
sbuffo di pressione genera delle onde di pressione che avanzano nel collettore di
scarico smorzandosi man mano. In genere nei motori a quattro tempi si fanno
condotti lunghi per sfruttare effetti di inerzia nel condotto ed avere una depressione
dinamica.
Di seguito viene riportato un diagramma tridimensionale illustrante l’andamento della
pressione in funzione dello spazio e del tempo, lungo un condotto con brusco
allargamento di sezione (in 𝐴: in pratica un condotto più piccolo è innestato su un
condotto più grande). Un impulso positivo di pressione proveniente dall’estremità di
destra, in corrispondenza del netto allargamento di sezione viene in buona parte
riflesso come onda di depressione che risale all’indietro il condotto di minore
diametro, mentre in parte si propaga come onda dello stesso segno (ma minore
ampiezza) nel tratto di sezione maggiore. In sostanza l’onda di pressione che arriva
alla giunzione ritorna indietro con intensità minore come onda di depressione, mentre
la restante parte prosegue come onda di compressione.

Figura 259

In effetti, la presenza delle marmitte a espansione soprattutto nei motori a due tempi
(non è detto che vi sia una variazione brusca, ma può esserci in generale una
variazione di sezione graduale, in modo da dare un ampio intervallo temporale al
fenomeno) serve proprio ad avere un’onda di pressione che avanza in modo da
favorire l’espansione del gas verso l’esterno (e dunque l’uscita del gas stesso) e
dall’altro lato ciò permette di far risalire un’onda di depressione che migliora lo
svuotamento del cilindro; se tale fenomeno si inverte, può essere positivo perché
nelle fasi finali, quando nel motore (due tempi) c’è anche la carica fresca può essere
opportuno avere un’onda di pressione che fa da tappo fluidodinamico. Il condotto, in
genere di forma conica, ha un tratto prima divergente, poi costante ed infine
convergente con un terminale poi a sezione costante.

309
Nel caso del motore a due tempi è molto complesso calcolare sezioni, angoli e
lunghezze: in genere si riesce a ottimizzare la lunghezza e le dimensioni dei vari
componenti della marmitta ad espansione per una zona relativamente stretta del
regime di giri in cui si vuole avere il massimo effetto di riempimento. Nel motore a
due tempi c’è una fase in cui la luce di travaso e quella di scarico sono
contemporaneamente aperte, per cui può aversi la fuoriuscita di miscela fresca il che
determina una perdita di energia: per tale motivo bisogna fare in modo che quando
le due luci sono contemporaneamente aperte ci sia un tappo fluidodinamico, ovvero
un’onda di pressione che si opponga alla fuoriuscita del gas.
L’onda di pressione che parte da un certo punto, quando arriva in 𝐴, trova una brusca
variazione di sezione: se a partire da questo punto ci fosse un ambiente
completamente aperto l’onda si rifletterebbe e tornerebbe indietro; tuttavia giacché
c’è un ambiente non infinito una parte dell’onda torna indietro col segno cambiato
(depressione) e un’altra parte va avanti con lo stesso segno (sovrappressione: essa
favorisce per esempio lo smaltimento della carica).

310
Lezione 23 (Pianese – Rizzo) 20/04/2017
Motori alternativi a combustione interna: sistemi di aspirazione e scarico
L’incremento di densità che si ottiene a seguito dei fenomeni inerziali e degli effetti
dinamici è dell’ordine di quale punto percentuale. In ogni caso tali fenomeni
influenzano la forma della curva del coefficiente di riempimento. Ovviamente le onde
di cui si è discusso fino a questo momento sono in realtà un treno di onde che
viaggiano e che si riflettono secondo i principi visti.
Nel caso monocilindrico la schematizzazione del motore è la seguente (le valvole di
aspirazione e scarico vengono aperte grazie ad un albero a camme):

Figura 260

In realtà il motore di un’autovettura è composto da più cilindri; immaginando di


guardare il sistema dall’altro è possibile fare la seguente schematizzazione (motore
quattro cilindri):

Figura 261
311
Evidentemente quando si vuole progettare un sistema di questo tipo
contemporaneamente si vuole progettare un aspetto funzionale (operativo) ed un
aspetto geometrico (dimensioni del collettore di aspirazione, sezione di passaggio,
lunghezza dei condotti, sezione di passaggio delle valvole, sezione di passaggio del
filtro, alzata delle valvole, dimensioni del collettore di scarico, …). Ovviamente
bisogna anche progettare la fasatura giacché essa è legata alla lunghezza del
condotto: pertanto è necessario fare una simulazione ragionando su un modello
dinamico (nell’ambito della fase di aspirazione (e non solo), che ha una durata di
180°, c’è una variazione di velocità del fluido dunque il fenomeno è fortemente
dinamico); ovviamente il pistone raggiunge delle velocità medie (media tra la velocità
nulla ai punti morti e la velocità massima più o meno al centro della corsa) che al
limite si aggirano intorno ai 15 𝑚/𝑠 − 20 𝑚/𝑠, laddove esistono fenomeni inerziali e
dinamici che hanno tempi caratteristici caratterizzati dalla velocità del suono (c’è un
ordine di grandezza di differenza). Pertanto in questo sistema, entrano in gioco scale
temporali dei fenomeni molto ampie: la dinamica da simulare è molto veloce e ha
tempi caratteristici inferiori al ciclo. Per quanto detto, un’analisi completa di ciò che
accade non può essere stazionaria. Quindi è difficile progettare in maniera chiusa
tutti i fenomeni che avvengono all’interno di un motore, se non con delle
approssimazioni. Il concetto di precisione bilanciata si applica proprio a questo tipo
di simulazioni: il sistema va simulato con sotto-modelli che rappresentano il
coefficiente di efflusso, le perdite di carico, gli effetti d’onda, … con uno stesso grado
di precisione altrimenti si rischia di rappresentare uno dei fenomeni in maniera
eccessivamente precisa e dunque impiegare tempo di calcolo elevato, senza
apportare grande vantaggio alla precisione complessiva; al contrario invece si rischia
di utilizzare un modello estremamente semplificato che fa perdere la fisica del
fenomeno. Dunque un progettista costruisce il modello di calcolo per poter poi andare
a fare delle analisi di ottimizzazione su: fasatura, lunghezza dei condotti, dimensioni
del motore (che entrano in gioco attraverso le perdite di carico: sezione di passaggio),
….
Dal punto di vista fluidodinamico è necessario fare delle ipotesi sul modello trattato.
Ovviamente all’interno di un motore la fluidodinamica, per sua natura, è
tridimensionale; tuttavia esistono dei fenomeni che hanno delle dimensioni
caratteristiche: ad esempio, in genere, quando si studia lo strato limite esso viene
analizzato come fenomeno bidimensionale. In questo caso, è necessario effettuare
una rappresentazione del fenomeno lungo la 𝑥 (rappresentazione longitudinale del
moto), e si deve tener conto anche dalla variazione lungo 𝑦 (rappresentazione
trasversale del moto), giacché il profilo di velocità varia lungo questa direzione:

312
Figura 262

Evidentemente il modello fluidodinamico nella zona dello strato limite non può essere
monodimensionale (al di fuori invece sì), ma deve essere bidimensionale. Nel caso
in cui si tratti di un condotto circolare, piuttosto che di una lastra piana, il flusso va
modellato addirittura come tridimensionale, giacché si deve tener conto anche dei
moti indotti dalla vorticità.
Nel caso del motore, all’interno dei condotti, è possibile immaginare che una
dimensione sia predominante rispetto alle altre (lunghezza del collettore), tranne in
alcuni casi (ovvero lungo le giunzioni dove ci sono delle caratteristiche geometriche
di cui tener conto e degli effetti indotti dalle perdite di carico), per cui è possibile
modellare il flusso come monodimensionale. La rappresentazione più corretta è
evidentemente, quella che bilancia meglio la precisione con l’onere di calcolo; il
problema unidimensionale è comunque un problema alle derivate parziali, giacché
le equazioni devono essere integrate nello spazio e nel tempo.
Quindi si considera un modello unidimensionale (white-box) del sistema di
aspirazione e scarico, con fluido comprimibile.
Per l’equazione di conservazione della massa (equazione di continuità si ha):
∂ ∂
(𝜌 ∙ 𝐴 ) = − (𝜌 ∙ 𝐴 ∙ 𝑈 )
∂𝑡 ∂x
Dove:
𝜌 = 𝑑𝑒𝑛𝑠𝑖𝑡à 𝑑𝑒𝑙 𝑓𝑙𝑢𝑖𝑑𝑜
𝐴 = 𝑠𝑒𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒
𝑈 = 𝑣𝑒𝑙𝑜𝑐𝑖𝑡à
In sostanza c’è la variazione della massa nel tempo e nello spazio.
Per l’equazione di conservazione della quantità di moto:
∂ ∂ ∂
(𝜌 ∙ 𝐴 ∙ 𝑈 ) = − (𝜌 ∙ 𝐴 ∙ 𝑈 2 ) − (𝑝 ∙ 𝐴 ) − 𝜏 𝑤 ∙ 𝑃
∂t ∂x ∂x
313
Dove:
𝑝 = 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒
𝜏𝑤 = 𝑠𝑓𝑜𝑟𝑧𝑜 (𝑝𝑒𝑟𝑑𝑖𝑡𝑎 𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑝𝑎𝑟𝑒𝑡𝑒)
In tal caso c’è la variazione nel tempo e nello spazio della quantità di moto, la
variazione nello spazio del termine legato alle forze di pressione e un termine legato
alle forze di attrito.
Infine, per quanto riguarda il bilancio di energia si ha:
∂ ∂ ∂
(𝜌 ∙ 𝐴 ∙ 𝑒 ) = − (𝜌 ∙ 𝐴 ∙ 𝑈 ) − 𝑝 ∙ (𝑈 ∙ 𝐴 ) + 𝜏 𝑤 ∙ 𝑃 ∙ 𝑈 − 𝑞 ∙ 𝑃
∂t ∂x ∂x
Dove:
𝑒 = 𝑒𝑛𝑒𝑟𝑔𝑖𝑎
In tal caso si tiene conto, anche dell’attrito e dunque dell’energia dissipata dallo
stesso e degli effetti di scambio termico tra il fluido e le pareti del condotto.
Il modello è di tipo white-box in quanto vengono scritte le equazioni costitutive del
problema; tuttavia rispetto al comportamento viscoso (e dunque rispetto all’attrito), il
problema viene semplificato introducendo un sotto-modello, che non è quello del
tensore degli sforzi, ma è rappresentato da un termine indicativo degli sforzi alla
parete 𝜏𝑤 (modello grey-box: modello ibrido); in sostanza, congruentemente con
l’ipotesi di flusso monodimensionale (e non bidimensionale), non si tiene conto del
gradiente della velocità nella direzione ortogonale a quella prevalente del flusso (se
si volesse tenere conto degli sforzi sia del fluido che della parete, bisognerebbe fare
un’analisi bidimensionale). Quindi il modello va semplificato in maniera coerente:
invece di avere un modello fluidodinamico completo, dal punto di vista degli sforzi si
assume la perdita alla parete (il fluido che avanza per effetto dell’attrito troverà delle
perdite di carico sintetizzate con il coefficiente 𝜏𝑤 ).
Il sistema di equazioni differenziali viene integrato lungo i condotti numericamente,
suddividendo il condotto in tanti elementi di calcolo elementare (le equazioni vengono
integrate numericamente su ogni elemento di calcolo). Ovviamente c’è un’interazione
tra il sistema di aspirazione e scarico e il ciclo termodinamico: la pressione
all’apertura della valvola di scarico dipende dal ciclo termodinamico il quale a sua
volta dipende dalla pressione all’aspirazione, la quale influenza la pressione
massima. Tuttavia nel momento in cui le valvole sono chiuse è possibile separare gli
effetti e dunque seguire il ciclo con un modello più semplice (che può essere anche
il modello standard in cui si va ad integrare l’equazione di ∂p/ ∂𝜗) utilizzando una
legge di rilascio del calore più fisica (e non certamente un’adduzione di calore a
volume costante). Per esempio, come legge di rilascio del calore (ciclo a valvole
chiuse) si potrebbe utilizzare la legge di Wiebe (grey-box):

314
𝜗 − 𝜗𝑠 𝑛
𝑥 (𝜗) = 1 − exp [−𝑎 ( ) ]
𝜗𝑏
Dove:
𝜗𝑏 = 𝑑𝑢𝑟𝑎𝑡𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑐𝑜𝑚𝑏𝑢𝑠𝑡𝑖𝑜𝑛𝑒
𝑛, 𝑎 = 𝑐𝑜𝑒𝑓𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑐ℎ𝑒 𝑑𝑒𝑡𝑒𝑟𝑚𝑖𝑛𝑎𝑛𝑜 𝑙𝑎 𝑓𝑜𝑟𝑚𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑙𝑒𝑔𝑔𝑒 𝑑𝑖 𝑟𝑖𝑙𝑎𝑠𝑐𝑖𝑜 𝑑𝑒𝑙 𝑐𝑎𝑙𝑜𝑟𝑒
𝜗 = 𝑎𝑛𝑔𝑜𝑙𝑜 𝑑𝑖 𝑚𝑎𝑛𝑜𝑣𝑒𝑙𝑙𝑎
Per un motore ad accensione comandata l’andamento della 𝑥 (𝜗) e dalla sua derivata
𝑥̇ (𝜗) è il seguente:

Figura 263

Ovviamente è anche possibile andare ad integrare le equazioni tridimensionali nel


tempo: questo lo si fa, ma non con l’obiettivo di progettare i condotti, bensì con
l’obiettivo di capire cosa accade nella parte vicina al cielo del cilindro ad esempio, o
anche con l’obiettivo di capire qual è l’interazione tra il flusso di combustibile che
esce dall’iniettore e l’aria (per evitare che il combustibile si vada ad addensare sulla
parete portando alla formazione di idrocarburi incombusti).

Figura 264

L’obiettivo magari è quello di allargare quanto più possibile la curva del coefficiente
di riempimento volumetrico e questo lo si può fare: utilizzando quattro valvole invece
di due, aumentando l’alzata delle valvole, fasando opportunamente l’apertura e la
chiusura, …. In un problema di ottimizzazione di un motore rientrano moltissime

315
variabili, per cui ridurre l’ordine del problema da tra dimensioni a una dimensione,
comporta una velocità di calcolo maggiore.
Ovviamente integrando numericamente nei diversi tratti le equazioni, è necessario
scegliere un passo (sono necessari un certo numero di elementi di calcolo); ci
saranno però dei punti di discontinuità dovuti ad esempio a delle zone d confluenza
tra due collettori, per cui sarà necessario scrivere delle equazioni di congruenza
(tenendo conto delle portate che confluiscono in quella zona, della perdita di carico
che si verifica in quella zona, …). Quindi dove il condotto è rettilineo è possibile
procedere analiticamente, ma è necessario far ricorso a dati sperimentali (di natura
empirica) o ad ipotesi semplificative quando vengono trattate le giunzioni
(discontinuità).
Le equazioni scritte sono disponibili attualmente in alcuni codici di calcolo
ampiamente utilizzati dalle case automobilistiche.
Si dà vita in sostanza ad una sorta di CAD fluidodinamico, dove il progettista si
costruisce il modello del motore in cui vengono rappresentate tutte le varie fasi:

Figura 265

Il motore ad esempio viene rappresentato come un black-box ed in cui viene integrata


l’equazione ∂p/ ∂ϑ per ogni cilindro. Poi c’è la turbina, il compressore, l’aspirazione,
il filtro, … nonché diverse sezioni in cui ci sono elementi di calcolo standard che
simulano curve, tratti rettilinei, … (è necessario introdurre condizioni al contorno tra i
due elementi contigui). Viene anche rappresentato l’EGR dove una parte del fluido
viene presa dallo scarico e viene inviata all’aspirazione.

316
Di seguito viene rappresentato lo stesso modello, ma esploso su tutta la fase di
aspirazione e scarico:

Figura 266

Di seguito invece viene rappresentato il motore con i quattro cilindri:

Figura 267

Ogni elemento (in giallo) porta all’interno del calcolo delle condizioni al contorno
(quali ad esempio la perdita di carico).
Alla fine il risultato è quello di ottenere, rispetto all’angolo di manovella, e fissato il
regime di giri, l’andamento della pressione. Ovviamente tale andamento della
317
pressione, può essere confrontato con i dati sperimentali qualora essi siano
disponibili.
Le figure seguenti mostrano i valori misurati e calcolati della pressione in una
posizione del collettore di aspirazione di un motore automobilistico 4 cilindri, al
variare della velocità di rotazione e dell’apertura della valvola a farfalla:

Figura 268

È possibile notare in maniera esplicita le quattro sequenze delle fasi di aspirazione:


il modello (in rosso), segue con una buona precisione i dati sperimentali (in blu).
Ovviamente le frequenze principali non sono difficili da prendere in maniera
adeguata, giacché sono legate alla forzante (e dunque al ciclo), ma le frequenze
intermedie, legate alle onde di perturbazione che si muovono nel collettore, sono più
complesse da riuscire ad afferrare.

Figura 269

318
In questo caso il regime di giri è doppio rispetto al caso precedente, mentre l’apertura
della valvola a farfalla rimane la stessa. È possibile comunque individuare i quattro
picchi principali, sebbene in questo caso vi siano due picchi più elevati rispetto ai
restanti due. Anche in questo caso il modello simula abbastanza bene il trend dei
dati sperimentali.

Figura 270

In tal caso l’apertura della valvola a farfalla viene variata rispetto ai casi precedenti.

Figura 271

In quest’ultimo caso invece l’apertura della valvola a farfalla è uguale a quella del
caso precedente, ma il regime di giri raddoppia.

319
La similitudine nelle macchine
Esiste un’ulteriore metodologia con cui comunque si riescono a mettere assieme, in
forma adimensionale, le grandezze che influenzano il funzionamento di un
determinato sistema.
Nello studio delle macchine idrauliche (in particolare, delle turbine idrauliche) si
ricorre ad un gruppo adimensionale di notevole interesse pratico, detto numero di giri
specifico. Questo indice permette di raggruppare le principali variabili operative (sono
quelle variabili, il cui valore può variare una volta che l’impianto è stato costruito)
quali:
 Portata volumetrica 𝑄
 Salto utile 𝐻
 Numero di giri 𝑛
 Potenza 𝑃
In tal caso si è partiti da una grandezza adimensionale che determina il
funzionamento della macchina ed in particolare che ne influenza il rendimento; in
particolare, la variabile adimensionale che determina la ottimalità dei triangoli di
velocità è il rapporto 𝑢/𝑐1 . In sostanza si esprime la dipendenza funzionale tra le
variabili operative (𝑛, 𝑄, 𝐻, 𝑃) ed il rapporto caratteristico 𝑢/𝑐1 (rapporto
adimensionale), legato alla forma dei triangoli di velocità e quindi al rendimento della
macchina. Nel ragionamento, non ci si rifà ad equazioni in senso stretto, ma si
effettuano delle semplici considerazioni di similitudine (ragionando sulla
proporzionalità tra le diverse variabili):
𝑢 ∝ 𝐷𝑛
1
𝑐1 ∝ √𝐻 ∝ 𝐻 2
La portata è invece legata alla sezione di passaggio (proporzionale ad una
dimensione al quadrato: in un discorso di similitudine tutte le dimensioni di una
macchina sono proporzionali tra di loro e proporzionali alla dimensione principale che
può essere il diametro 𝐷) ed alla velocità di attraversamento (componente normale
alla sezione: tuttavia in una logica di similitudine fluidodinamica e cinematica tutte le
velocità sono proporzionali tra loro e dunque può essere considerata una qualunque
velocità):
1 1 1
𝑄 ∝ 𝐷 2 𝑐 ∝ 𝐷 2 𝐻 2 ⟹ 𝐷 ∝ 𝑄 2 𝐻 −4
Quanto espresso, vale per una famiglia di macchine tra loro geometricamente simili:
quando la portata volumetrica e il salto variano in questa famiglia di macchine il
diametro varia con la legge su scritta.
Combinando le relazioni sulle velocità per quanto detto si avrà:

320
1 1
𝑢 𝑛𝐷 𝑛𝑄2 𝐻 −4 1 3
∝ 1∝ 1 ∝ 𝑛𝑄2 𝐻 −4
𝑐1 𝐻 2 𝐻2
Al rapporto individuato si dà il nome di numero di giri specifico (o numero di giri
caratteristico), per cui:
1 3
𝑛𝑠 = 𝑛𝑄2 𝐻 −4
Essa è evidentemente una grandezza adimensionale, come si può facilmente
verificare:
1 3 1 3 3 3
𝑛𝑠 = [𝑇 −1 (𝐿3 𝑇 −1 )2 (𝐿2 𝑇 −2 )−4 ] = [𝑇 −1−2+2 𝐿2−2 ] = [𝑇 0 𝐿0 ]

Introducendo la potenza, si ottiene una seconda espressione:


𝑃 ∝ 𝑄𝐻 ⟹ 𝑄 ∝ 𝑃𝐻 −1
Pertanto:
1 3 1 5
𝑛𝑠 = 𝑛(𝑃𝐻 −1 )2 𝐻 −4 = 𝑛𝑃2 𝐻 −4
Macchine idrauliche geometricamente simili che operino con lo stesso valore del
numero di giri specifico (stesso rapporto 𝑢/𝑐1 ) hanno triangoli di velocità simili, ed
operano quindi con gli stessi rendimenti (in prima approssimazione, a meno di effetti
secondari: tenute, attriti, rugosità superficiale, …). Pertanto se una macchina sta
operando nelle condizioni di massimo rendimento di progetto, volendo fare un
modello di macchina da far lavorare nelle stesse condizioni, essa deve lavorare con
lo stesso numero di giri specifico: quindi conoscendo il numero di giri, la portata e il
salto della turbina reale e calcolato il numero di giri specifico, in laboratorio si
dovranno combinare le diverse grandezze del modello affinché sia rispettato lo
stesso numero di giri specifico. Pertanto volendo realizzare una prova sperimentale
in scala su modello di un prototipo, per poter ottenere un funzionamento
fluidodinamico e cinematico simile è necessario adottare valori di 𝑄, 𝐻, 𝑃 e 𝑛 , tali che
risulti:
1 3 1 3
− −
𝑛𝑠,𝑚 = 𝑛𝑠,𝑝 ⟹ 𝑛𝑚 𝑄𝑚 𝐻𝑚4
2
= 𝑛𝑝 𝑄𝑝 𝐻𝑝 4
2

Dove:
𝑚 = 𝑚𝑜𝑑𝑒𝑙𝑙𝑜
𝑝 = 𝑝𝑟𝑜𝑡𝑜𝑡𝑖𝑝𝑜
Ovvero in termini di potenze:
1 5 1 5
− −
𝑛𝑚 𝑃𝑚2 𝐻𝑚4 = 𝑛𝑝 𝑃𝑝2 𝐻𝑝 4

321
Inoltre il numero di giri specifico è un utile strumento per individuare il campo di
funzionamento ottimale (con elevati rendimenti: triangoli di velocità ottimizzati,
massimo rendimento di palettatura, velocità di uscita parallele all’asse, …) di una
macchina, e quindi per guidare la scelta del tipo di macchina in funzione delle
condizioni di progetto. Analizzando gli impianti realizzati, si può ricavare una precisa
correlazione tra il numero di giri specifico 𝑛𝑠 , il tipo di macchina (ognuna di queste
macchine avrà una propria condizione di funzionamento ottimale in termini di portata,
giri e salto), il tipo di flusso e il grado di reazione 𝑅:

Figura 272

Evidentemente lo schema riportato si riferisce al numero di giri specifico che


corrisponde al funzionamento ottimale (chiaramente la macchina può lavorare anche
in condizioni differenti, ma con rendimenti minori).
Si ricordi che nelle turbine Pelton tutto il salto tra energia potenziale ed energia
cinetica è effettuata nello statore (il rotore converte solamente l’energia cinetica in
energia meccanica: 𝑅 = 0). Nelle turbine Francis invece c’è un grado di reazione
intermedio, fino ad arrivare alle turbine Kaplan in cui una buona parte della
conversione di energia potenziale in energia cinetica viene effettuata nel rotore.
La sussistenza di questa relazione fornisce un criterio di scelta e di progettazione di
una certa tipologia di macchina; note le caratteristiche di un determinato sito, in
termini di portata e salto, si hanno gli strumenti per scegliere il tipo di turbina più
adatto (ipotizzato che sia il numero di giri: le turbine idrauliche sono in genere
accoppiate a un generatore elettrico, il quale normalmente produce corrente
alternata a 50 𝐻𝑧, che gira tipicamente a una velocità di 3000 𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑚𝑖𝑛 o a
1500 𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑚𝑖𝑛). Quindi conoscendo la portata, il salto e il numero di giri è possibile
calcolare il numero di giri specifico, vedere dove si colloca sulla scala riportata sopra,
e andare a scegliere il tipo di turbina più adatto. È chiaro che è anche possibile
giocare sul frazionamento della portata tra più turbine (il salto normalmente rimane
quello che è) e quindi si ha un ulteriore parametro sulla base del quale andare a
scegliere la tipologia di macchina più adatta (questo è uno dei criteri di progettazione
più utilizzati).
Un’altra importante applicazione della similitudine riguarda la definizione dei
parametri corretti (o ridotti) per lo studio delle curve caratteristiche delle
322
turbomacchine termiche (turbine e compressori: macchine operatrici a flusso
comprimibile). L’esigenza in questo caso è quella di aumentare la generalizzabilità
delle curve caratteristiche, rendendone il tracciamento indipendente (almeno in prima
approssimazione) dalle condizioni esterne (per esempio pressione e temperatura di
aspirazione per un compressore). Un importante vantaggio è quello di ridurre il
numero di rilievi sperimentali e di rappresentazioni grafiche necessari a
caratterizzare la macchina. In effetti andando a cercare delle curve caratteristiche di
compressori (o turbine), sulle ascisse e sulle ordinate del grafico di tali curve non si
trovano semplicemente le variabili quali portata e rapporto di compressione, ma c’è
un qualcosa di più complesso: ciò è dovuto proprio a quanto detto.
Le curve caratteristiche di un compressore sono tracciate in laboratorio
(sperimentalmente): si mette un compressore a funzionare a diversi valori della
portata, andando a regolare il circuito esterno (regolando cioè una valvola) e si
riportano i punti di funzionamento su un piano cartesiano, ottenendo dunque una
curva caratteristica (caratteristica interna del compressore). Quando si effettuano
queste prove sperimentali, esse vengono fatte ovviamente in certe condizioni
ambientali (pressione e temperatura); in generale le prove dovrebbero essere
effettuate per un dato fluido e per assegnate condizioni di riferimento all’aspirazione
(alcuni laboratori sono dotati di sistemi di termostatazione per poter effettuare le
prove sempre nelle stesse condizioni di temperatura); se la macchina opera con
condizioni all’aspirazione diverse da quelle di riferimento, a parità di portata e numero
di giri si misurerà un rapporto di compressione in generale non appartenente alla
curva, e situato in una fascia di dispersione. La dispersione è attribuibile all’influenza
che le condizioni all’aspirazione esercitano sul comportamento fluidodinamico della
macchina e sulle perdite.
La curva è riportata su un piano cartesiano sulle cui ordinate c’è il rapporto di
compressione, mentre sulle ascisse c’è la portata massica (la curva si ottiene per un
dato numero di giri):

Figura 273

In sostanza quando si vanno ad utilizzare le curve caratteristiche per una data


applicazione, non è detto che ci si trova sotto le stesse condizioni di pressione e
temperatura per cui la curva è stata tracciata. Siccome le prestazioni di un
323
compressore dipendono dalle condizioni esterne di pressione e temperatura questo
può rappresentare un problema: teoricamente chi vende la macchina dovrebbe
fornire tutto un insieme di mappe ricavate in una serie di condizioni al variare di
pressione e temperatura e questa cosa diventerebbe troppo onerosa (questo sia per
chi vende la macchina, sia per chi deve consultare le curve).
Il principale effetto della fascia di dispersione è dovuto alla variazione del numero di
Mach (c’è in realtà anche un effetto del numero di Reynolds), il quale dipende dalla
temperatura. Il numero di Mach è ovviamente una grandezza adimensionale. È
possibile esprimere la dipendenza funzionale del numero di Mach dalla portata e dal
numero di giri, in funzione delle condizioni all’aspirazione (𝑝, 𝑇: pressione e
temperatura), dei parametri geometrici (diametro 𝐷 e area 𝐴, la quale è proporzionale
a 𝐷 2 ) e del tipo di fluido (𝑘, 𝑅: il primo dipende dall’atomicità del gas, mentre la
seconda è nient’altro che la costante del gas).
𝑐 𝐷𝑛
𝑀= ∝
𝑎 √𝑘𝑅𝑇
Dove:

𝑎 = √𝑘𝑅𝑇 = 𝑣𝑒𝑙𝑜𝑐𝑖𝑡à 𝑑𝑖 𝑝𝑟𝑜𝑝𝑎𝑔𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒


Considerando la portata:

𝑝 𝑝 𝑝 √𝑅𝑇
𝑚̇ ∝ 𝐴𝑐𝜌 ∝ 𝐷 2 𝑀𝑎 ∝ 𝐷 2 𝑀√𝑘𝑅𝑇 ∝ 𝐷 2 𝑀√𝑘 ⟹ 𝑀 ∝ 𝑚̇
𝑅𝑇 𝑅𝑇 √𝑅𝑇 𝐷 2 𝑝√𝑘
Ovviamente il raggruppamento di variabili trovato costituisce un gruppo
adimensionale (il numero di Mach è proporzionale alla portata). In sostanza i gruppi
adimensionali su cui ragionare sono i seguenti:
𝑐 𝐷𝑛
𝑀= ∝ (1)
𝑎 √𝑘𝑅𝑇

√𝑅𝑇
𝑀 ∝ 𝑚̇ (2)
𝐷2 𝑝√𝑘
Quando tali raggruppamenti di variabili rimangono costanti, resta costante il numero
di Mach: ciò significa che gli effetti legati a tale numero non cambiano.
È possibile anche considerare dei casi particolari, ottenibili fissando la geometria
della macchina ed il tipo di fluido. In particolare per una data macchina (𝐷 assegnato:
non si sta lavorando su modelli a diversa dimensione, ma le dimensioni della
macchina sono state fissate) si avrà:
𝑛
𝑀∝ (3)
√𝑘𝑅𝑇

324
√𝑅𝑇
𝑀 ∝ 𝑚̇ (4)
𝑝√𝑘
Inoltre per una data macchina e per un dato fluido (anche 𝑘 e 𝑅 sono assegnati) si
avrà:
𝑛
𝑀∝ (5)
√𝑇
√𝑇
𝑀 ∝ 𝑚̇ (6)
𝑝
In particolare le grandezze espresse dalle (1), (3), (5) vengono chiamate numero di
giri ridotto, mentre le grandezze espresse dalle (2), (4), (6) vengono chiamate portata
ridotta. Tuttavia solo la (1) e la (2) sono adimensionali, mentre le restanti no (perché
eliminando alcune variabili si perde l’adimensionalità della rappresentazione):
ovviamente per essi vale lo stesso discorso fatto sulla (1) e sulla (2).
Si ragioni, per semplicità, sull’ultima rappresentazione ((5) e (6)). Per una data
macchina operante con un fluido assegnato, l’uso dei parametri ridotti nella
rappresentazione di una curva caratteristica rende la curva indipendente dalle
condizioni all’aspirazione (per quanto riguarda gli effetti del numero di Mach). Al
variare delle condizioni all’aspirazione, la dispersione dei risultati è quindi minore. La
residua dispersione è attribuibile all’influenza di ulteriori variabili (per esempio il
numero di Reynolds) che influenzano il fenomeno, e che possono variare in funzione
delle condizioni all’aspirazione.

Figura 274

In tal modo è stato creato uno strumento, che permette con un’unica curva (poiché
la dispersione è trascurabile) di capire cosa accade al variare di pressione e
temperatura, giacché esse rientrano esplicitamente tra le variabili utilizzate per
tracciare il grafico.
Quando si utilizza la curva caratteristica si vanno a mettere i valori di temperatura e
pressione che si hanno nel caso in esame ed è quindi possibile andare a leggere lo
stesso diagramma, fornito dal costruttore (sebbene esso sia stato ottenuto per valori
di temperatura e pressione differenti). Una curva del genere permette quindi di
compensare gli effetti della temperatura e della pressione.
325
Più in generale è possibile tenere conto anche del tipo di fluido; quindi si ha la
possibilità di andare a prevedere, su una curva caratteristica che è stata misurata
con un determinato tipo di fluido (per esempio aria), cosa accade quando quella
macchina lavora con altro fluido (metano, ammoniaca, …), a patto di utilizzare una
curva caratteristica che includa anche i valori di 𝑘 e 𝑅; quindi a partire da una curva
caratteristica generata con un determinato tipo di fluido si è in grado di prevedere
cosa accade al variare di pressione, temperatura e tipo di gas.
In sostanza per una data macchina operante con fluidi diversi, l’uso dei parametri
ridotti (nella forma in cui compaiono anche 𝑘 e 𝑅) rende la curva indipendente dalle
condizioni all’aspirazione (per quanto riguarda gli effetti del numero di Mach) e dal
tipo di gas. Disponendo quindi di una curva caratteristica con parametri ridotti, è
possibile quindi prevedere il comportamento del compressore anche al variare del
tipo di gas elaborato (almeno per quanto riguarda gli effetti legati al numero di Mach).

Figura 275

È possibile ovviamente considerare anche il diametro così da prevedere con un’unica


curva caratteristica, misurata su una macchina di determinate dimensioni, come si
comporterebbe una macchina simile geometricamente, ma di dimensioni differenti
(vale lo stesso ragionamento fatto nel caso precedente).
A titolo di esempio di seguito vengono riportati i principali gruppi adimensionali
utilizzati nello studio delle macchine:

Figura 276
326
Lezione 24 (Sorrentino) 21/04/2017
Note introduttive a Matlab
Nella fase di identificazione di un modello è sempre necessario assicurarsi di
applicare tutti i criteri studiati, per creare un modello utile per un’applicazione
ingegneristica. Per modello utile, si intende in generale un modello performante ossia
un modello che sia allo stesso tempo preciso e generalizzabile (predittivo): pertanto
è necessario un compromesso tra questi due diversi aspetti. In prima istanza la
precisione si può definire solo sui dati noti, ossia su quelli utilizzati per
l’identificazione; applicando bene i criteri di scelta e sviluppo di un modello è possibile
essere abbastanza tranquilli sul fatto che nel momento in cui esso viene applicato in
fase di simulazione, o per un’analisi parametrica o anche per un’analisi di
ottimizzazione, dia risultati affidabili (se così non fosse non avrebbe proprio senso
andare a fare analisi di questo tipo). Quindi in generale si parla di precisione solo
laddove è possibile andare a calcolare un errore tra i dati del modello e quelli
sperimentali (errore deterministico); quando invece il modello viene esteso in fase di
simulazione non è detto che si hanno dati sperimentali a disposizione per il confronto;
pertanto è in fase di identificazione che bisogna assicurarsi che nell’estensione del
modello ad altri dati di input sia garantita la sua affidabilità, ovvero che esso sia
generalizzabile. In particolare i modelli più interessanti sono quelli di tipo
approssimante, mentre i modelli interpolanti da un punto di vista ingegneristico sono
molto meno utilizzati; di fatto i modelli interpolanti funzionano solo nel dominio
stabilito, facendo ad esempio interpolazioni di tipo lineare, quadratico, ….
Sotto le funzioni built-in di Matlab (come ad esempio polyfit, polyval, regress, …) c’è
molta statistica giacché esse sono in grado di fornire gli intervalli di confidenza ossia
delle stime di affidabilità di un modello per capire se esso è generalizzabile o meno.
Ciò è evidente giacché, nel momento in cui non si hanno dati sperimentali a
disposizione per effettuare il confronto, capire se il modello è affidabile o meno è più
complesso ed è necessario ricorrere a metodi statistici; in particolare è necessario
capire i dati sperimentali a disposizione a quale distribuzione appartengono, facendo
delle ipotesi (in funzione degli input ricevuti si effettua una valutazione in termini
probabilistici). La statistica viene utilizzata in fase operativo quando non è possibile
utilizzare un metodo deterministico; questo è quello che si fa, quando sviluppato un
modello, lo si utilizza in fase di ottimizzazione. Anche nel momento in cui è
necessario effettuare dei controlli su determinati pezzi, ad esempio dei controlli su
autovetture, è evidente che essi vengano effettuati a campione; la determinazione
del campione ottimale, dei pezzi da testare (ed in quale numero) è oggetto della
statistica.
In Matlab un polinomio, viene essenzialmente visto come un vettore, pertanto è
possibile crearlo assegnando semplicemente dei parametri, a partire proprio da un
vettore:
𝑝 = [1, 0, −1]
327
I coefficienti assegnati all’interno del vettore creato, definiscono nient’altro che i
coefficienti di un polinomio di secondo grado (essendo il vettore composto da tre
elementi da sinistra a destra si assegnano i coefficienti del termine al quadrato, del
termine lineare e del termine di grado zero ossia del termine noto). In sostanza la
scrittura precedente definisce il polinomio 𝑥 2 − 1 (polinomio di secondo grado).
È evidente che il vettore definito può assumere diversi significati ed in funzione di
come lo si utilizza esso può assumere o meno il significato effettivo di polinomio.
Giacché con tre elementi si definisce un polinomio di secondo grado (con grado
decrescente da sinistra a destra), in generale è possibile definire un polinomio di
grado 𝑛, composto dunque da 𝑛 + 1 elementi, in cui gli elementi, da sinistra a destra,
saranno i coefficienti dei diversi termini di grado 𝑛, 𝑛 − 1, 𝑛 − 2, … ,1 , 0.
Con il comando roots è possibile ottenere le radici di un polinomio:
𝑟𝑜𝑜𝑡𝑠(1,0 − 1) ⟹ 𝑥1 = 1, 𝑥2 = −1
È possibile anche fare l’operazione inversa, ossia assegnare un vettore di radici e
ricostruire il polinomio che presenta quelle soluzioni col comando poly:
𝑟𝑎𝑑𝑖𝑐𝑖 = [−1, 1]
𝑝𝑜𝑙𝑦(𝑟𝑎𝑑𝑖𝑐𝑖)
Inoltre è possibile effettuare il prodotto tra due polinomio nonché il rapporto. In
particolare con il comando conv (convolution) si effettua il prodotto:
𝑎 = [1, 0, 1]
𝑏 = [1,1]
𝑐 = 𝑐𝑜𝑛𝑣 (𝑎, 𝑏) ⟹ 𝑐 = [1, 1,1,1]
Mentre con il comando deconv (deconvolution) si effettua il rapporto:
[𝑞, 𝑟] = 𝑑𝑒𝑐𝑜𝑛𝑣(𝑎, 𝑏) ⟹ 𝑞 = [1, −1], 𝑟 = [0,0,2]
Quando si utilizza la funzione deconv in generale in uscita si vogliono quoziente (𝑞)
e resto (𝑟). Nell’esempio riportato in sostanza è stata effettuata la seguente
operazione:
𝑥2 + 1 2
= (𝑥 − 1) +
𝑥+1 𝑥+1
Dove:
𝑞 = 𝑥 − 1 (𝑞𝑢𝑜𝑧𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒)
2
𝑟= (𝑟𝑒𝑠𝑡𝑜)
𝑥+1

328
Il comando deconv, per effettuare il rapporto tra due polinomi, è molto importante nel
campo dell’elettronica, quando si effettua il passaggio dal dominio del tempo al
dominio della frequenza (funzioni di trasferimento).
Esistono poi i comandi polyval e polyder che calcolano rispettivamente il valore di un
polinomio in un dato punto e la derivata del polinomio:
𝑣𝑎𝑙 = 𝑝𝑜𝑙𝑦𝑣𝑎𝑙 (𝑎, 3) ⟹ 𝑣𝑎𝑙 = 𝑥 2 + 1 = 32 + 1 = 10
𝑑𝑒𝑟 = 𝑝𝑜𝑙𝑦𝑑𝑒𝑟(𝑎) ⟹ 𝑑𝑒𝑟 = [2,0] = (𝑥 2 + 1)′ = 2𝑥
Con le funzioni appena introdotte è possibile effettuare lo studio di una funzione su
Matlab. In particolare si vogliono calcolare i punti estremali, le intersezioni con gli
assi e gli eventuali punti di flesso della funzione (es_polinomi):
𝑓 (𝑥) = 𝑥 4 + 5𝑥 3 + 1
Il comando polyfit viene invece utilizzato per il fitting dei dati. Si supponga di avere
una funzione 𝑦, definita in un certo intervallo 𝑥. In particolare si consideri il seguente
esempio (es_polyfit1):
𝑥 = −1: 0.1: 1
𝑦 = 2 ∗ 𝑥 + 1 + 2 ∗ 𝑟𝑎𝑛𝑑(1, 𝑙𝑒𝑛𝑔𝑡ℎ(𝑥))

In sostanza ad una funzione lineare del tipo 2𝑥 + 1 (funzione generatrice), è stato


sovrapposto del “rumore” (2 ∗ 𝑟𝑎𝑛𝑑(1, 𝑙𝑒𝑛𝑔𝑡ℎ(𝑥)), in modo da creare un segnale
“random”.
A questo punto si vuole creare una funzione interpolante utilizzando un polinomio. In
particolare elevando il grado del polinomio il fitting dei dati migliora (più è basso il
grado del polinomio e più tendenzialmente si ha un polinomio approssimante, mentre
più è elevato è più si tende verso un’interpolazione).
In particolare la funzione polyfit si utilizza nel seguente modo:
𝑝𝑜𝑙𝑦𝑓𝑖𝑡(𝑥, 𝑦, 1) ⟹ 𝑐𝑟𝑒𝑎 𝑢𝑛 𝑝𝑜𝑙𝑖𝑛𝑜𝑚𝑖𝑜 𝑑𝑖 𝑝𝑟𝑖𝑚𝑜 𝑔𝑟𝑎𝑑𝑜
𝑝𝑜𝑙𝑦𝑓𝑖𝑡(𝑥, 𝑦, 2) ⟹ 𝑐𝑟𝑒𝑎 𝑢𝑛 𝑝𝑜𝑙𝑖𝑛𝑜𝑚𝑖𝑜 𝑑𝑖 𝑠𝑒𝑐𝑜𝑛𝑑𝑜 𝑔𝑟𝑎𝑑𝑜
………
Dall’esempio fatto si comprende che pur arrivando ad un polinomio di grado dieci,
sebbene si abbia un miglioramento nel fitting dei dati, in ogni caso non si ottiene un
polinomio interpolante vero e proprio. Per questo motivo si passa al comando spline
(le spline più utilizzate sono quelle cubiche). La spline offre due vantaggi sostanziali:
 Permette di assegnare comunque un significato fisico (andamento continuo
della funzione, con la possibilità eventualmente di calcolare una derivata,
evitando che vi siano punti angolosi, discontinuità, …).

329
 Possibilità di dividere il dominio dei punti sperimentali in tanti sotto-domini. Con
la spline si riesce a far passare la funzione risultante per tutti i dati sperimentali.
In sostanza si va ad infittire l’intervallo tra i campioni e tra questi si cerca
un’approssimazione polinomiale e si assicura la differenziabilità fino ad un
certo ordine nei punti di giunzione (la cosiddetta pp-form).
Utilizzando la spline cubica ad esempio, si va ad identificare un polinomio di terzo
grado, per ogni intervallo di punti. Pertanto con la spline si riesce a calcolare
effettivamente la funzione interpolante.
𝑥 = −1: 0.1: 1
𝑦 = 2 ∗ 𝑥 + 1 + 2 ∗ 𝑟𝑎𝑛𝑑(1, 𝑙𝑒𝑛𝑔𝑡ℎ(𝑥))
𝑥𝑥 = −1: 0.1/2: 1
𝑦𝑦 = 𝑠𝑝𝑙𝑖𝑛𝑒 (𝑥, 𝑦, 𝑥𝑥 )
Esistono altri comandi in Matlab per effettuare un’interpolazione, come il comando
interp1 che effettua l’interpolazione monodimensionale e interp2 che effettua
l’interpolazione bidimensionale.
In particolare il comando interp1 riceve in ingresso 𝑥 e 𝑦 (ossia i dati sperimentali) e
𝑥𝑖 che sono invece dati diversi da quelli sperimentali: in questo modo si applica il
concetto di interpolazione. In pratica 𝑥𝑖 ha un passo più piccolo di 𝑥, in modo da
effettuare l’interpolazione.
𝑥 = −1: 0.1: 1
𝑦 = 2 ∗ 𝑥 + 1 + 2 ∗ 𝑟𝑎𝑛𝑑(1, 𝑙𝑒𝑛𝑔𝑡ℎ(𝑥))
𝑥𝑖 = −1: 0.03: 1
𝑦𝑖 = 𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟𝑝1(𝑥, 𝑦, 𝑥𝑖 ,′ 𝑛𝑒𝑎𝑟𝑒𝑠𝑡 ′ )
𝑦𝑖𝑙 = 𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟𝑝1(𝑥, 𝑦, 𝑥𝑖 , ′𝑙𝑖𝑛𝑒𝑎𝑟′)
Nel caso di interpolazione bidimensionale (interp2) l’output non è più rappresentabile
su un diagramma bidimensionale, ma su un diagramma tridimensionale. Inoltre in tal
caso, la funzione interp2 riceve in input tre elementi, ossia 𝑋, 𝑌, 𝑍, dove 𝑋 e 𝑌 sono
le variabili indipendenti, mentre 𝑍 è la variabile dipendente. Inoltre si fa in modo di
avere delle matrici per quanto riguarda 𝑋 e 𝑌.
Per un motore ad accensione comandata, sono state effettate le seguenti misure di
emissioni di 𝑁𝑂𝑥 al variare del rapporto di miscela 𝐴/𝐹 (es_nox):

330
Figura 277

Le emissioni sono evidentemente quelle allo scarico del motore a combustione


interna, ossia subito a valle della valvola di scarico (engine) e non quelle allo scarico
dell’autovettura (after-treat). La combustione che avviene all’interno di un motore non
è ideale e ciò comporta la formazione di sostanze inquinanti, quali gli ossidi di azoto.
Quando la miscela è più magra tendenzialmente le emissioni di ossidi di azoto
aumentano, fino ad un certo valore dopo il quale si riducono. Ovviamente nei dati
sperimentali subentra anche l’effetto di fenomeni del secondo ordine, ma in ogni caso
è possibile vedere come man mano che la miscela diventa meno ricca, gli 𝑁𝑂𝑥
tendono ad aumentare in virtù della maggiore presenza di ossigeno: superate le
condizioni stechiometriche, intorno a valori del rapporto di miscela pari a 15, si
raggiungono i valori massimi di emissioni di ossidi di azoto, dopodiché si ha una
riduzione; è evidente che più aumenta l’aria presente in camera e più aumenta l’azoto
(gas inerte) che tende ad abbassare la temperatura (contrasta l’incremento di
temperatura) il che impedisce la formazione di ossidi di azoto, che per potersi formare
necessitano di temperature elevate.
Rappresentare dunque l’andamento delle emissioni in funzione del rapporto di
miscela 𝐴/𝐹 (che ha un effetto più diretto sulla formazione degli ossidi di azoto), e
determinare la migliore rappresentazione polinomiale delle emissioni in funzione di
tale rapporto in termini di precisione e generalizzabilità. Stimare inoltre il valore delle
emissioni per 𝐴/𝐹 = 15.2.
Ovviamente il rapporto di miscela entra anche nella formula della potenza, quindi da
esso dipendono anche le performance.
In effetti in questo caso giacché si ha una sola variabile dipendente (emissioni di
ossidi di azoto) che dipende da una sola variabile indipendente (rapporto di miscela)
è possibile utilizzare una funzione polinomiale di un certo grado per approssimare il
trend dei dati sperimentali. Inoltre, è necessario assicurarsi anche del fatto che il
modello approssimante sia generalizzabile, giacché si prevede di utilizzarlo anche in
fase predittiva. In questo caso specifico, tra il secondo e il terzo grado si riesce ad
avere una buona approssimazione che sostanzialmente ha un senso fisico, mentre
andando oltre si osservano degli andamenti strani (come ad esempio una ricrescita

331
delle emissioni di ossidi di azoto dopo un certo valore del rapporto di miscela, la qual
cosa non ha molto senso).
Nel caso in esame si utilizza la funzione polyfit che trova i coefficienti di un polinomio
di grado 𝑛, che riproducano i dati nel miglior modo possibile. Inoltre aggiungendo un
ulteriore output alla funzione polyfit, essa restituirà, oltre ad i coefficienti (𝑝𝑛), anche
una struttura (𝑆), da utilizzare successivamente nella funzione polyval per ottenere
una stima dell’errore sulla predizione (tale struttura permette dunque di andare a
valutare l’indice di generalizzabilità del modello).
[𝑝𝑛, 𝑆] = 𝑝𝑜𝑙𝑦𝑓𝑖𝑡(𝑎𝑓𝑟, 𝑛𝑜𝑥, 𝑛)
Dove:
𝑎𝑓𝑟 = 𝑣𝑎𝑟𝑖𝑎𝑏𝑖𝑙𝑒 𝑖𝑛𝑑𝑖𝑝𝑒𝑛𝑑𝑒𝑛𝑡𝑒
𝑛𝑜𝑥 = 𝑣𝑎𝑟𝑖𝑎𝑏𝑖𝑙𝑒 𝑑𝑖𝑝𝑒𝑛𝑑𝑒𝑛𝑡𝑒
𝑛 = 𝑔𝑟𝑎𝑑𝑜 𝑑𝑒𝑙 𝑝𝑜𝑙𝑖𝑛𝑜𝑚𝑖𝑜
Ovviamente per dare una stima, la funzione polyfit fa ricorso alla statistica.
Per cui la funzione polyval avrà la seguente struttura:
[𝑛𝑜𝑥𝑛, 𝐷𝐸𝐿𝑇𝐴] = 𝑝𝑜𝑙𝑦𝑣𝑎𝑙(𝑝𝑛, 𝑎𝑓𝑟𝑛, 𝑆)
Dove:
𝑛𝑜𝑥𝑛 = 𝑣𝑎𝑙𝑜𝑟𝑖 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑒𝑚𝑖𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑑𝑖 𝑁𝑂𝑥 𝑛𝑒𝑖 𝑣𝑎𝑙𝑜𝑟𝑖 𝑑𝑖 𝐴𝐹𝑅, 𝑐𝑜𝑛𝑠𝑖𝑑𝑒𝑟𝑎𝑡𝑜 𝑖𝑙 𝑝𝑜𝑙𝑖𝑛𝑜𝑚𝑖𝑜 𝑝𝑛
𝐷𝐸𝐿𝑇𝐴 = 𝑠𝑡𝑖𝑚𝑎 𝑑𝑒𝑔𝑙𝑖 𝑒𝑟𝑟𝑜𝑟𝑖 𝑑𝑖 𝑝𝑟𝑒𝑑𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒
La predizione del modello più o meno 𝐷𝐸𝐿𝑇𝐴, definisce un intervallo in cui si ha il
50% di probabilità di trovare effettivamente il dato sperimentale. Fatta la simulazione,
ottenuto il valore di 𝑦, esso non sarà uguale al dato sperimentale, giacché il modello
è approssimato (ci sarà un errore). Ciò permette di valutare l’incertezza (più è ampio
𝐷𝐸𝐿𝑇𝐴 e più è alta l’incertezza).
È bene precisare che un grado del polinomio più basso, paradossalmente in fase di
estrapolazione può comportarsi meglio di un grado elevato; di fatto elevando il grado
del polinomio, aumentano i gradi di libertà e quindi è evidente che sui dati
sperimentali si riduce l’errore: può sorgere tuttavia un problema di overfitting dei dati,
ossia si ottiene un risultato ottimo sul dominio noto, ma scarso in tutte le altre zone.
Nel caso lineare, sostanzialmente, si cerca di riuscire a ad acchiappare un po’ tutti i
valori: in fase di estrapolazione il comportamento non è molto diverso da ciò che
accade dentro il dominio. Elevando il grado del polinomio, è possibile avere dei
comportamenti molto più variabili e dunque in estrapolazione il problema potrebbe
amplificarsi e ciò va a scapito della generalizzabilità. In effetti nel caso lineare il
𝐷𝐸𝐿𝑇𝐴 varia poco spostandosi dal dominio di identificazione alla fase di
estrapolazione. Col secondo grado, nel caso in esame, le cose iniziano a migliorare

332
e l’intervallo 𝐷𝐸𝐿𝑇𝐴 si restringe. Con il terzo grado, gli intervalli 𝐷𝐸𝐿𝑇𝐴 si riducono
ulteriormente, ma si inizia a penalizzare un po’ la fase di estrapolazione. Andando
avanti col grado del polinomio, l’incertezza si riduce sempre di più nella zona di
identificazione, ma le cose peggiorano in fase di estrapolazione in quanto in quelle
zone 𝐷𝐸𝐿𝑇𝐴 inizia a divergere. A partire dal quarto grado, nell’esempio specifico,
sebbene la precisione del modello continui a migliorare la sua generalizzabilità inizia
a calare notevolmente. D’altro canto sebbene sia vero che la precisione migliori
all’aumentare del grado del polinomio, tale miglioramento è sempre meno evidente
(ossia l’errore si riduce sempre meno), man mano che si va avanti (si ha una sorta
di saturazione, con miglioramenti marginali). Nell’esempio esaminato in particolare,
l’errore di predizione più basso si ottiene proprio per il secondo grado; tuttavia con
un polinomio di secondo grado si ottiene una precisione ancora piuttosto scarsa,
quindi conviene scegliere un polinomio di terzo grado (o al limite di quarto, sebbene
in quest’ultimo caso l’incertezza sia aumentata parecchio rispetto al terzo grado).
Scelto dunque il grado del polinomio si riescono a stimare i valori di emissione per
qualunque valore di 𝐴/𝐹 utilizzando la funzione polyval. Ovviamente l’utilizzo del
𝐷𝐸𝐿𝑇𝐴 presuppone una serie di ipotesi, tra le quali il fatto che l’errore deve
appartenere ad una distribuzione normale, la varianza deve essere costante, … per
cui non è detto che si ottenga sempre un indice di incertezza che prima decresce e
poi risale (esistono dei casi in cui questo comportamento non è ottenibile). In effetti
tali modelli sono di tipo black-box, la fisica viene utilizzata solo per operare una scelta
(scelta del polinomio approssimante migliore), ma il tutto deriva dai dati sperimentali
(non ci sono equazioni), per cui il ruolo del decision maker è fondamentale.

333
Lezione 25 (Pianese) 26/04/2017
Motori alternativi a combustione interna: motori a 2 tempi
Tutte le considerazioni fatte sul motore a quattro tempi riguardo ai sistemi di
aspirazione e scarico, valgono anche per il motore a due tempi.
Nel motore a due tempi il ciclo di lavoro si chiude in un solo giro dell’albero motore e
quindi in due sole corse (anziché in quattro come accade nel motore a quattro tempi).
Pertanto un’analisi della formula della potenza fa capire che potenzialmente il motore
a due tempi può avere una potenza doppia rispetto al motore a quattro tempi a parità
delle altre condizioni (cilindrata, sistema di alimentazione, …): in sostanza in tal caso
il lavoro nell’unità di tempo raddoppia. Ciò si traduce nel fatto che, a parità di potenza,
è possibile avere una massa e un volume pare alla metà (a parità di cilindrata si ha
una potenza doppia e a parità di potenza la cilindrata è la metà); è evidente che la
massa e l’ingombro sono proporzionali alla cilindrata. Questo è il motivo per cui il
motore a due tempi, viene utilizzato in tutte quelle applicazioni dove ridurre il peso e
l’ingombro è fondamentale: la motofalciatrice a spalla ad esempio, che viene
utilizzata per tagliare l’erba, è dotata di un motore a due tempi per avere un’elevata
leggerezza. In realtà c’è anche un altro vantaggio del motore a due tempi rispetto al
quattro tempi legato alla velocità massima: il motore a due tempi in genere non ha
valvole e dunque non c’è il limite della velocità massima legata alla frequenza di
risonanza dell’apertura delle valvole; ciò si traduce nel fatto che la potenza nel caso
di motore a due tempi, e rispetto a un quattro tempi, potrebbe crescere più che
linearmente dato che il pistone può raggiungere velocità più elevate (non c’è il vincolo
di velocità massima imposta dalla risonanza delle valvole: non c’è problema di
eventuale sfarfallamento, ossia di pericolo che le valvole possano toccare il pistone).
I grandi motori navali, sono spesso motori a due tempi, proprio per una questione di
ingombro, ma anche per avere una potenza elevata (i motori in questo caso hanno
grandi cilindrate). Bisogna fare attenzione al fatto che in generale quando si parla di
motore a due tempi bisogna distinguere tra motori di piccola cilindrata (come nel caso
della motofalciatrice) e motori di grande cilindrata (motori navali). La motosega ad
esempio, dotata di un motore a due tempi, deve avere un’elevata caratteristica di
leggerezza, per renderne più agevole l’uso: esistono in tal caso tutta una serie di
problematiche tecnologiche legate al fatto che essa deve avviarsi velocemente, deve
lavorare magari per poco tempo e rimanere ferma per molto, …. Il motore a due tempi
nasce sostanzialmente anche per applicazioni motociclistiche; in effetti il motociclo
nasce come bicicletta a motore, che doveva dunque possedere una struttura leggera:
uno dei primi esempi di ciclomotore, derivato proprio da una bicicletta, era il Solex
(era sostanzialmente una bicicletta a motore in cui questo era montato sulla ruota
anteriore). Oggigiorno si è passati alla trazione elettrica nelle biciclette in cui nel
mozzo posteriore è integrato un motore elettrico. Passando dal motore a due tempi
al motore a quattro tempi, la manutenzione diventa evidentemente più complessa. In
passato sono esistite anche delle soluzioni applicative come quella di provare a
mettere un motore a due tempi Diesel veloce sugli aerei. Sulle autovetture montando
334
un motore a due tempi si potrebbero ridurre molto gli ingombri (lo spazio occupato)
e il peso della vettura stessa, il problema fondamentale di questi motori è però legato
alle emissioni (non essendoci un controllo “rigido” della fase di scarico, in quanto
l’incrocio viene gestito dal pistone, con un controllo fluidodinamico, non c’è alcun
determinismo nel processo che è appunto regolato dalla fluidodinamica che per sua
natura è un po’ aleatoria: ciò determina una fuoriuscita di combustibile aspirato). Si
tenga presente che negli anni ′70 l’iniezione di nafta, nei motori Diesel a quattro
tempi, era di tipo meccanico, e la pompa utilizzata a questo scopo era di tipo
volumetrico; in sostanza essa era quindi costituita da un pistoncino il cui periodo è
doppio rispetto al regime di giri dell’albero motore: il pistone per l’iniezione deve
percorrere una corsa ogni due corse del pistone principale, per cui l’albero motore
della pompa deve girare ad una velocità pari alla metà di quella dell’albero motore
principale. Passando dal motore a quattro tempi al motore a due tempi, con la stessa
tecnologia di iniezione, ossia utilizzando una pompa volumetrica, essa deve girare
ad un regime di giri pari a quello del motore, e doppio rispetto all’applicazione del
quattro tempi: ciò significa che mentre nel caso del motore a quattro tempi la pompa
doveva girare magari a 2500 𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑚𝑖𝑛, in tal caso si doveva arrivare a 5000 𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑚𝑖𝑛
e dato che i pistoncini utilizzati per l’iniezione erano molto piccoli, senza fasce di
tenuta, ciò era molto complesso; per tale motivo i motori Diesel veloci a due tempi
non sono mai stati sviluppati. Oggigiorno, con il controllo elettronico, c’è una pompa
che mette in pressione la nafta ed è svincolata meccanicamente dall’albero motore,
potendo girare ad un regime di giri indipendente dallo stesso. Ovviamente il motore
a due tempi ha un rapporto peso/potenza più basso rispetto al motore a quattro
tempi, sebbene tale rapporto sia comunque maggiore rispetto ad una turbina a gas.
L’idea oggigiorno è quella di sostituire i motori a benzina utilizzati per l’aviazione
leggera con un motore Diesel veloce a due tempi, il che consentirebbe di ridurre il
peso (essendo a due tempi) e di ridurre i consumi (essendo un Diesel). Di recente,
alcuni tosaerba a mano (non a spalla), vengono realizzati anche a quattro tempi, il
che permette di ridurre i consumi: molto spesso le soluzioni che si adottano sono
legate anche ad aspetti di tipo economico piuttosto che tecnico.
In un motore a due tempi, la sostituzione della carica avviene quando il pistone è in
prossimità del punto morto inferiore, attraverso una macchina separata, detta pompa
di lavaggio. In questi motori nella fase di incrocio sono contemporaneamente aperte
la luce di travaso e la luce di scarico. Nella risalita il pistone chiude prima la luce di
travaso e poi quella di scarico; nel motore a quattro tempi quando si ha l’incrocio si
chiude prima la valvola di scarico, mentre quella di aspirazione è aperta; in questo
caso invece si chiude prima la luce di travaso, attraverso cui viene trasferita la carica
fresca all’interno del motore, e poi la luce di scarico: è banale capire che in una
visione statica del problema ci sarà una fuoriuscita di gas fresco verso lo scarico. Il
travaso è collegato a una macchina esterna che può essere azionata anche
elettricamente o attraverso l’albero motore (può essere sia una macchina dinamica
che volumetrica); nei piccoli motori, la pompa di lavaggio è nient’altro che una pompa
volumetrica costituita dalla parte inferiore del pistone principale del motore (carter
335
pompa); ne grandi motori navali invece tale fase viene realizzato con una macchina
esterna.
Il motore a due tempi, viene analizzato solamente dal punto di vista del ricambio della
carica, giacché sostanzialmente la fase di combustione (una volta che le luci sono
chiuse) non è molto dissimile rispetto a quella del motore a quattro tempi.
Nel motore a due tempi inoltre la temperatura media è più elevata rispetto a quella
del motore a quattro tempi. Ciò è dovuto al fatto che la frequenza di un motore a due
tempi è più elevata di quella del motore a quattro tempi: nel motore a due tempi ad
ogni giro c’è la combustione e dunque una forzante di temperatura, mentre nel
motore a quattro tempi la combustione avviene ogni due giri. Ciò rende più
vulnerabile il motore da un punto di vista della tenuta, in quanto più facilmente può
avvenire una rottura a seguito di grippaggio e ci sono problemi di deformazione
termica.
Inoltre nel motore a due tempi, la riduzione della pressione nello scarico spontaneo,
è maggiore del quattro tempi, perché le aree di passaggio sono grandi già nella fase
iniziale.

Figura 278

I campi di applicazione dei motori due tempi sono:


 Piccoli motori ad accensione comandata
 Grandi motori Diesel
La struttura di un motore a due tempi viene di seguito riportata:

336
Figura 279

L’albero motore ha evidentemente una massa nella parte bassa, che serve per
bilanciare. In tal caso la testa è caratterizzata da alette di raffreddamento, giacché
essendo un motore piccolo, non conviene appesantirlo con soluzioni di
raffreddamento più spinte; oggigiorno i motori a due tempi sono raffreddati ad acqua
per ridurre velocemente la temperatura, ma i piccoli motori hanno delle alette per il
raffreddamento ad aria: in tal caso si utilizza una ventola che convoglia l’aria
dall’esterno sulla testa del motore. I motori ad accensione comandata hanno inoltre
una candela in testa. La luce di aspirazione è sottoposta alla luce di scarico; quando
il pistone si trova al punto morto superiore si apre la luce di aspirazione e la carica
fresca viene aspirata dall’esterno, giacché il pistone muovendosi verso l’alto provoca
una riduzione della pressione all’interno del carter, il che induce un movimento di aria
dall’esterno verso l’interno. Quando poi il pistone scende verse il basso, comprime
la carica contenuta nel carter e quando esso scopre la luce di travaso, si ha un
trasferimento della carica verso il cilindro; nella discesa il pistone scopre anche la
luce di scarico.
Di seguito vengono riportate le diverse fasi nel dettaglio.

Figura 280
337
Nella fase di aspirazione e compressione il pistone va verso il punto morto superiore
ed è aperta la luce di aspirazione, mentre le luci di lavaggio e quella di scarico sono
chiuse; in tale fase si ha il massimo volume del carter pompa che viene riempito.
Nella parte superiore invece il fluido viene compresso fino a che non si ha la
combustione.

Figura 281

Nella fase di espansione, a seguito della combustione, tutte le luci sono chiuse (fase
attiva).

Figura 282

Nella fase di lavaggio e scarico il pistone man mano che scende scopre prima la luce
di scarico e poi quella di travaso. Quando la luce di scarico è aperta, i gas combusti
ad elevata pressione fuoriescono; successivamente si apre la luce di travaso e
338
poiché nella fase di discesa del pistone si era messa in pressione la carica all’interno
del carter pompa il fluido tende a risalire verso l’alto. In fase di risalita il pistone chiude
prima la luce di travaso e dopo la luce i scarico.
In alcune applicazioni, si preferisce avere un deflettore sulla testa del pistone, in
modo da riuscire a dare una spinta verso l’alto alla carica fresca e favorire la discesa
verso il basso alla carica che ha già bruciato, evitando il mescolamento:

Figura 283

È evidente che nel momento in cui la carica fresca si mescola con la carica che ha
già bruciato, si ha una fuoriuscita di una parte della carica fresca verso l’esterno. Per
cui nel momento in cui in fase di aspirazione viene aspirata una miscela di aria e
combustibile (aspirazione attraverso carburatore o attraverso iniezione indiretta nel
collettore di aspirazione) vi sarà una fuoriuscita di combustibile all’esterno il che
incrementa le emissioni (oltre al fatto che si riduce il rendimento giacché una parte
di miscela viene persa).
Le fasi di un motore a due tempi possono essere descritte dal diagramma polare
della distribuzione, in funzione dell’angolo di manovella:

Figura 284

339
Si noti che c’è una perfetta simmetria dell’apertura dello scarico e della chiusura dello
scarico, dell’apertura del lavaggio e della chiusura del lavaggio. Se si utilizza una
valvola in testa per lo scarico, comandata dall’albero motore, le due fasi di lavaggio
(aspirazione e travaso), vengono disaccoppiate dalla fase di scarico: in tal modo si
otterrebbe un diagramma non completamente simmetrica e questo potrebbe essere
un vantaggio. Ovviamente quando il pistone scende la pressione elevata all’interno
della camera favorisce la fuoriuscita verso lo scarico del gas (scarico spontaneo) e
quando il pistone risale, poiché il volume si riduce, il gas viene spinto verso l’unica
luce aperta, ossia quella di scarico (scarico forzato).
Quindi i vantaggi di un motore a due tempi rispetto ad un motore a quattro tempi sono
i seguenti:
 A parità di velocità di rotazione e di cilindrata, la potenza potrebbe
teoricamente raddoppiare.
 Le valvole possono essere sostituite da luci, comandate dal moto del pistone:
semplicità costruttiva, migliore rendimento meccanico (non viene spesa
energia per l’azionamento delle valvole, …), maggiori velocità di rotazione
raggiungibili (ovviamente è possibile anche inserire delle valvole e questo
farebbe in parte perdere questo vantaggio: il tutto va chiaramente valutato in
funzione dei benefici che si ottengono).
Gli svantaggi invece sono:
 Maggiori carichi termo-meccanici: il ciclo ha una frequenza doppia e quindi le
forzanti termiche hanno una frequenza doppia a parità di velocità di rotazione
(ovviamente la temperatura raggiunta non sarà doppia).
 La fase di sostituzione della carica (lavaggio) risulta più critica rispetto al
motore a quattro tempi; ciò comporta:
o Nei motori ad accensione comanda, perdita di combustibile allo scarico
(maggiori consumi ed emissioni di idrocarburi incombusti). Questo è
quello che ha determinato sostanzialmente la fine del motore a due
tempi (oggigiorno viene utilizzato solo per piccole cilindrate).
o Nei motori Diesel, maggiori perdite energetiche per il pompaggio di aria.
 Nei motori Diesel, la pompa di iniezione deve girare ad una velocità doppia
rispetto al quattro tempi; ciò può limitare il regime massimo e la potenza nei
motori veloci.
Ovviamente se il combustibile viene iniettato direttamente in camera di combustione,
ossia quando le luci sono chiuse, si ha un grande vantaggio perché ciò può
permettere di evacuare meglio i gas di scarico (evitando la fuoriuscita di
combustibile) e di far trattare più aria al motore. Tuttavia far trattare più aria alla
pompa di lavaggio rispetto a quella richiesta porta a un rendimento di lavaggio più
basso (energia persa).

340
Si tenga presente che in generale, il motore a due tempi aspira una miscela di aria,
combustibile e olio e questo è il motivo sostanziale per cui esso è stato abbandonato
(notevoli emissioni allo scarico e consumi elevati). Inoltre esistono diverse soluzioni
per la disposizione delle luci di aspirazione, scarico e lavaggio, per cui non è detto
che le soluzioni siano sempre uguali a quelle viste negli schemi precedenti. È
evidente che la gestione fluidodinamica del motore a due tempi è più critica rispetto
al caso del motore a quattro tempi in quanto in quest’ultimo caso la carica entra nel
cilindro per variazione di volume ed esce per lo stesso motivo (sebbene la fase di
aspirazione e scarico sia comunque influenzata dalla forma e della geometria dei
condotti); nel caso del motore a due tempi invece la carica entra non solo per effetti
di variazione di volume, che determinano variazioni di pressione, ma è in gioco anche
la forma dei condotti:

Figura 285

Nel caso riportato in figura ad esempio, si fa in modo che il flusso, che passa
attraverso le due luci di travaso laterali, converga nel centro e poi nella fase di scarico
si muoverà nella direzione orizzontale verso la luce di scarico.
Nel momento in cui invece si decidesse di adottare una soluzione come quella
riportata nella figura sottostante, si correrebbe il rischio di realizzare un corto circuito:

Figura 286

341
Ovviamente sarebbe possibile adottare anche una soluzione come riportato nella
figura seguente:

Figura 287

In sostanza bisogna fare in modo che il fluido che entra all’interno del motore deve
salire verso l’alto, quindi bisogna fare in modo che il condotto sia sagomato in
maniera tale da conferire quella direzione al fluido in ingresso, mentre all’uscita
bisogna fare in modo che il fluido scenda e si incanali nel condotto di scarico.
Nel motore a quattro tempi, il cilindro viene trattato come un ambiente a volume
variabile, in cui si determina una certa depressione che richiama l’aria dall’esterno
nella fase di aspirazione e una certa sovrappressione che spinge la miscela
all’esterno nella fase di scarico. Nel motore a due tempi i volumi che variano
determinano le depressioni che caratterizzano l’aspirazione e lo scarico (nonché il
moto del fluido dall’esterno all’interno e dall’interno all’esterno), ma anche la forma
dei condotti ha un peso molto maggiore rispetto al caso del motore a quattro tempi,
in quanto a seconda della loro geometria si ottengono risultati molto differenti.
A seconda della disposizione delle luci è possibile avere diversi tipi di lavaggio:
 Lavaggio unidirezionale (con luci a flusso unidirezionale), ossia senza
inversione nella direzione del moto nel cilindro:
o Stantuffi contrapposti: in tal caso si ha un unico cilindro all’interno del
quale si muovono due pistoni con due alberi motore, che sono poi
collegati tra di loro da una catena di ingranaggi e da cinghie.

Figura 288

342
Tale soluzione era molto in auge prima della seconda guerra mondiale
e nasceva per sfruttare le correnti unidirezionali (da un lato c’è
l’aspirazione e dall’altro c’è lo scarico) e per esigenze termodinamiche;
di fatto realizzando una camera di combustione ricavata tra i due pistoni
rispetto ad una soluzione standard (riportata nella figura sottostante) si
ha il vantaggio di avere minori perdite di calore verso l’esterno; in effetti
lo scambio termico con l’ambiente esterno avverrebbe solamente
attraverso le superfici laterali, laddove in una soluzione standard oltre
allo scambio attraverso tali superfici si avrebbe anche uno scambio tra
il cielo del cilindro (peraltro è la parte più calda) e l’esterno. Pertanto
l’adozione di due pistoni contrapposti può portare a un miglioramento
del rendimento del motore; un motore lento dove i fenomeni di scambio
termico hanno tutto il tempo di instaurarsi questa è certamente una
buona soluzione; l’inconveniente sta nel fatto di avere ovviamente due
alberi motore (e ciò significa avere una massa maggiore, problemi di
inerzia, …).

Figura 289

In definitiva in questo caso si ha un miglioramento del lavaggio e della


pressione media indicata, con complicazioni costruttive ed ingombri
maggiori.
o Luci a manicotto (con fasatura indipendente): in tal caso si hanno
problemi di natura meccanica (usura, attrito, inerzie).
o Valvola di scarico a fungo: in tal caso le valvole di scarico vengono
messe sulla testa. In tal caso si hanno buone prestazioni, una
complicazione costruttiva e possibili limitazioni al regime massimo di
rotazione nonché alla potenza. Tale soluzione viene adottata sui motori
Diesel lenti a corsa lunga.
 Lavaggio a correnti riflesse (si ha una deviazione del flusso):
o Luci trasversali: la forte inclinazione dei condotti devia il flusso in
ingresso verso l’alto; in tal caso c’è possibilità di corto circuiti.
o Luci in controcorrente: c’è una sovrapposizione delle luci di lavaggio e
di scarico. Si evitano in tal caso i corto circuiti, ma la superficie di efflusso
è minore; tale soluzione utilizzata nei motori Diesel lenti.
343
Nei motori veloci si adotta un lavaggio a correnti riflesse con:
 Luci trasversali e deflettore sul pistone (ciò appesantisce e sbilancia il pistone,
con problemi di smaltimento termico).
 Luci tangenziali o ad anello, a 2 o 3 luci di lavaggio.
Di seguito vengono riportati degli esempi di disposizione delle luci ed in particolare
nel caso di lavaggio unidirezionale:

Figura 290

Nella figura 𝑎, viene rappresentato il caso di stantuffi contrapposti in cui la luce di


travaso è sulla parte superiore, mentre quella di scarico è sulla parte inferiore; in tal
modo si determina un andamento del flusso unidirezionale. Nella figura 𝑐, si
inseriscono le luci di scarico di testa utilizzando delle valvole a fungo; il travaso
avviene grazie alle luci poste nella parte inferiore e lo scarico avviene nella parte
superiore attraverso le valvole a fungo (due valvole in particolare), che sono collegate
al moto dell’albero motore. Nella figura 𝑑 invece viene rappresentato il caso in cui c’è
una singola valvola in testa (valvola a fungo) per la fase di scarico, mentre nella parte
inferiore ci sono le luci di travaso; anche in questo caso ovviamente si fa in modo

344
che il flusso sia unidirezionale. Nella figura 𝑏 viene invece riportata una soluzione
con luci a manicotto (due manicotti); con i due manicotti è possibile fasare l’apertura
e la chiusura: ovviamente ci sono problemi di usura e di tenuta (è un’applicazione
che va bene per motori particolarmente lenti, dove il motore lavora prevalentemente
in una determinata condizione di regime di giri, individuata la posizione ottimale si
ferma il manicotto in quella determinata posizione; tale sistema dunque non è
pensabile per un’applicazione quale un’autovettura in cui la dinamica ha un impatto
notevole). Infine nella figura 𝑒, viene riportato il caso in cui vi sono due cilindri gemelli
ad 𝑈; in pratica in tal caso i due pistoni non sono contrapposti, ma affiancati e non
completamente fasati; a sinistra c’è la luce di travaso e a destra c’è la luce di scarico;
tale soluzione è evidentemente molto complessa e poco interessante.

Figura 291

Nella figura 𝑎, viene riportato il diagramma polare a cui viene sovrapposto il ciclo di
pressione (sul diagramma pressione-volume) e nella parte sottostante viene riportato
il sistema pistone-cilindro. Il motore rappresentato è un motore a due tempi con due
valvole in testa per lo scarico; l’aria viene pompata attraverso una luce di travaso da
una camera esterna; quando il pistone scende verso il basso apre la luce di travaso
e l’aria che arriva dalla pompa di lavaggio (air from compressor) può essere immessa
all’interno del cilindro (l’idea è quella di realizzare un lavaggio monodirezionale).
L’apertura e la chiusura del lavaggio sono ovviamente simmetriche rispetto al punto
morto; le due valvole di scarico sono invece comandate attraverso un sistema con
345
una fasatura legata all’albero motore, fatta in modo da anticipare rispetto al punto
morto inferiore l’apertura, e la chiusura è in anticipo rispetto a quella che si avrebbe
nel caso in cui ci fosse una semplice luce di scarico che viene coperta dal moto del
pistone (in tal caso sarebbe simmetrica); nel punto 𝑏 si ha l’apertura della valvola di
scarico con una fase di scarico spontaneo in cui la pressione si riduce notevolmente;
nel punto 𝑙 si ha invece l’apertura della luce di travaso ed il fluido viene pompato
(all’interno trova una pressione inferiore rispetto a quella di mandata); ovviamente la
pressione a partire dal punto 𝑙, continua ad abbassarsi in quanto il pistone continua
a scendere per far fuoriuscire i gas combusti; una volta che la pressione è scesa al
di sotto quella di mandata del compressore (𝑝𝑐 ), il pistone è ormai arrivato al punto
morto inferiore, dopodiché inizia la sua risalita e la pressione aumenta; nel punto 𝑎
si chiude dunque la luce di travaso, mentre la valvola di scarico continua a rimanere
aperta fino al punto 𝑚. Le linee orizzontali riportate nel diagramma pressione-volume
indicano la pressione di mandata 𝑝𝑐 e la pressione dell’ambiente esterno 𝑝0 : la fase
di scarico avviene proprio grazie ad un gradiente di pressione favorevole al
movimento del fluido. Tra il punto 𝑙 e il punto 𝑎, la pressione tende a stabilizzarsi e
poi dopo si inverte l’andamento iniziando a crescere (il pistone inizia a pompare). Il
trasferimento della carica fresca dalla pompa di lavaggio al cilindro occupa un
intervallo angolare relativamente piccolo, perché nella zona in cui il pistone rallenta
e inizia a risalire la capacità di aspirazione del motore è praticamente inesistente:
l’effetto di depressione nella parte finale non c’è giacché la velocità è talmente bassa
che non si riesce ad aspirare (la capacità di aspirazione è molto ridotta), per cui è
fondamentale il ruolo della pompa di lavaggio. Ci può essere un effetto dinamico
legato ai gas che escono dal cilindro, ma rispetto al motore a quattro tempi comunque
non c’è una spinta di tali gas verso l’esterno, quindi il tutto deve avvenire in maniera
relativamente spontanea e sfruttando l’effetto di spinta del gas fresco che arriva; nel
motore a quattro tempi invece si gioca tutto sulla variazione di volume e il tutto è
amplificato dagli effetti dinamici; nel motore a due tempi in una visione
completamente statica paradossalmente si fa aumentare il volume quando c’è lo
scarico verso l’esterno, per cui lo scarico avviene per effetto della pressione elevata
all’interno del cilindro rispetto all’ambiente esterno e non perché il pistone spinga
fuori i gas di scarico, almeno per una buona parte della corsa e lo stesso discorso
vale per l’aspirazione; il riempimento in un motore a due tempi deve essere
completato in un intervallo molto piccolo, laddove in un motore a quattro tempi
l’intervallo angolare è maggiore di 180°. La fase di aspirazione avviene grazie al fatto
che la pressione imposta dal compressore è superiore rispetto a quella che si ha
all’interno della camera per tutta la fase di travaso ed è anche superiore alla
pressione ambiente per favorire la fase di incrocio. In ogni caso, la pressione
all’interno del cilindro è sempre superiore rispetto a quella dell’ambiente esterno (ma
inferiore rispetto a quella del compressore), laddove nel caso del motore a quattro
tempi, durante la fase di aspirazione nel cilindro c’era una depressione (pressione
inferiore di quella ambiente) per richiamare la carica fresca dall’esterno). Pertanto la

346
fluidodinamica in questo caso gioca un ruolo molto più spinto rispetto al motore a
quattro tempi.
Nella figura 𝑏, viene invece rappresentato lo stesso ciclo, ma nel diagramma
pressione-angolo di manovella (ciclo svolto rispetto all’angolo di manovella). La fase
di exhaust blowdonw è nient’altro che la fase di scarico spontaneo; la fase di apertura
contemporanea delle valvole (valvola di scarico e luce di travaso) viene definita
scavenging (incrocio). La distanza 𝑏 − 𝑙 (apertura valvola di scarico – apertura luce
di travaso) è maggiore rispetto alla distanza 𝑎 − 𝑚 (chiusura luce di travaso –
chiusura valvola di scarico) e ciò dimostra la non simmetria tra la fase di travaso e la
fase di scarico. Il simbolo 𝐿𝑣 , rappresenta invece l’alzata della valvola, che è
simmetrica rispetto al punto di massima apertura (che non è il punto morto inferiore,
giacché si ha un leggero anticipo), mentre 𝐴𝑠𝑐 è la sezione di passaggio che è
massima più o meno intorno al punto morto inferiore.
Nella figura sottostante si riportano tre configurazioni differenti di camera di
combustione:

Figura 292

Nella figura 𝑎, il pistone è dotato di un deflettore: il fluido entra da sinistra (luce di


travaso) e viene indirizzato dal pistone verso l’alto, mentre nella fase di scarico, data
la geometria del pistone, il flusso tende a scendere verso il basso raggiungendo la
luce di scarico. Nella figura 𝑏, invece il fluido arriva dal basso (luce di travaso) e viene
imposta al moto del flusso una traiettoria più circolare (movimento più circolare).
Nella figura 𝑐, invece si ha un moto “swirlato” ossia di rotazione intorno all’asse: la
corrente è mediamente unidirezionale, perché il travaso avviene dal basso, mentre
le due valvole di scarico sono poste in alto; facendo sì che vi sia un moto rotatorio
del flusso d’aria dal basso verso l’alto si riesce a pulire la camera in una maniera
migliore.
Di seguito vengono invece riportate le rappresentazioni in sezione:

347
Figura 293

Nella figura 𝑎, la disposizione è fatta in modo tale che il fluido entra da sinistra e va
verso destra: nel piano ciò sembrerebbe un corto circuito, ma in realtà le frecce del
travaso (a sinistra) sono dirette verso l’alto, mentre le frecce dello scarico (a destra)
vanno verso il basso (in direzione ortogonale al foglio). Nella figura 𝑏 invece il
lavaggio è ottenuto con una serie di flussi che convergono verso il centro e che vanno
verso l’alto. Nella figura 𝑐 al fluido viene invece imposto un moto sostanzialmente
rotatorio. Nella figura in basso a sinistra invece le luci di travaso sono disposte sulla
semicirconferenza di sinistra, mentre le luci di scarico sono disposte sulla
semicirconferenza di destra. Infine nella figura in basso a destra si realizza un moto
in cui il fluido viene preso nella parte più a sinistra (lavaggio) e viene spinto per lo
scarico nella parte destra.

348
Lezione 26 (Pianese) 27/04/2017
Motori alternativi a combustione interna: motori a 2 tempi
Nella seguente figura vengono riportati degli esempi di disposizione delle luci con
riferimento al lavaggio a correnti riflesse (in sezione longitudinale e ortogonale):

Figura 294

In particolare nella figura 𝑎 si ha una disposizione trasversale, nella 𝑏 si ha una


disposizione in controcorrente, nella 𝑐 si ha una disposizione tangenziale o ad anello
(il fluido fresco entra e tende ad abbracciare il fluido caldo e a spingerlo verso
l’esterno), nella 𝑑 si ha una disposizione intrecciata (in cui si crea un moto di
rotazione intorno all’asse e di risalita dei gas freschi e discesa dei gas caldi).
Di seguito viene invece riportata una rappresentazione di luci di lavaggio a correnti
riflesse per motori veloci:

Figura 295
349
Nella figura 𝑎 si ha una disposizione trasversale in cui il pistone è dotato di un
deflettore allo scopo di indirizzare la carica fresca verso l’alto e favorire la fuoriuscita
verso destra (ovviamente ciò non è controllabile in maniera deterministica, ma il tutto
è determinato dalla fluidodinamica). Nella figura 𝑏 si ha una disposizione tangenziale
o ad anello a due luci di lavaggio in cui i due flussi in ingresso tendono ad abbracciare
il fluido e spostarlo verso l’esterno. Nella figura 𝑐 si ha invece una disposizione
tangenziale o ad anello a tre luci di lavaggio. Per motori due tempi veloci si intendono
i motori della vespa ad esempio (sono veloci rispetto ai grandi motori navali che
hanno regimi di rotazione piuttosto bassi), in cui si arriva a 12000 𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑚𝑖𝑛 −
15000 𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑚𝑖𝑛 (più è piccolo il motore e più è elevato il regime di rotazione a cui è
possibile spingersi).
La pompa di lavaggio può essere sia realizzata utilizzando la parte inferiore del
pistone ottenendo il cosiddetto carter-pompa sia costituita da una pompa esterna che
può essere volumetrica e dunque azionata in maniera sincrona al moto del pistone
attraverso un aggancio sulla biella o sull’albero motore o dinamica (compressore
centrifugo radiale); è evidente che il tutto dipende anche dal livello di
sovrappressione; quando questo livello non supera i 0.2 𝑏𝑎𝑟 allora è ancora possibile
utilizzare una pompa di lavaggio, laddove quando invece ci si porta su valori superiori
è necessario applicare una sovralimentazione (pertanto se la pressione di lavaggio
è al massimo pari a 1.2 𝑏𝑎𝑟 è ancora possibile utilizzare una pompa di lavaggio
altrimenti si passa alla sovralimentazione).
Esistono delle grandezze specifiche che mirano a quantificare la bontà del processo
di lavaggio. In particolare si definiscono le seguenti grandezze:
𝑚𝑐 = 𝑚𝑎𝑠𝑠𝑎 𝑑𝑖 𝑚𝑖𝑠𝑐𝑒𝑙𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑟𝑖𝑚𝑎𝑛𝑒 𝑛𝑒𝑙 𝑐𝑖𝑙𝑖𝑛𝑑𝑟𝑜
È la massa che viene bruciata e che poi fornisce energia (𝑚𝑐 𝐻𝑖 è nient’altro che
l’energia potenziale chimica presente all’interno del motore che è possibile convertire
in calore e dunque in lavoro). L’obiettivo è ovviamente massimizzare tale massa.
𝑚𝐿 = 𝑚𝑎𝑠𝑠𝑎 𝑑𝑖 𝑚𝑖𝑠𝑐𝑒𝑙𝑎 𝑖𝑚𝑚𝑒𝑠𝑠𝑎 𝑑𝑎𝑙𝑙𝑒 𝑙𝑢𝑐𝑖 𝑑𝑖 𝑙𝑎𝑣𝑎𝑔𝑔𝑖𝑜
In sostanza è la massa di miscela che viene trattata dalla pompa di lavaggio; se essa
tende all’infinito si avrebbe un costo elevatissimo (in termini di energia).
𝑚𝑡 = 𝑚𝑎𝑠𝑠𝑎 𝑑𝑖 𝑚𝑖𝑠𝑐𝑒𝑙𝑎 𝑡𝑒𝑜𝑟𝑖𝑐𝑎 (𝑐𝑜𝑟𝑟𝑖𝑠𝑝𝑜𝑛𝑑𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑎𝑙𝑙𝑒 𝑐𝑜𝑛𝑑𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑒𝑠𝑡𝑒𝑟𝑛𝑒)
La massa teorica è nient’altro che la quantità massima di miscela che può entrare
all’interno del motore riempiendo la cilindrata:
𝑚𝑡 = 𝑉 ∙ 𝜌𝑎
Dove:
𝑉 = 𝑐𝑖𝑙𝑖𝑛𝑑𝑟𝑎𝑡𝑎
𝜌𝑎 = 𝑑𝑒𝑛𝑠𝑖𝑡à 𝑑𝑒𝑙𝑙′ 𝑎𝑟𝑖𝑎 𝑎𝑚𝑏𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒 (𝑒𝑠𝑡𝑒𝑟𝑛𝑜)

350
Ovviamente subentrano diversi fenomeni quali ritardo, espansione dei gas residui,
… che fanno sì che non tutto il volume a disposizione venga riempito.
È evidente che in generale si parla di miscela, ma per un motore Diesel, ad iniezione
diretta (o per un due tempi benzina ad iniezione diretta in camera), essa è da
intendersi semplicemente come aria fresca che entra dall’esterno.
Date le grandezze appena definite è possibile individuare tre grandezze
fondamentali. Anzitutto il coefficiente di riempimento che è dato dal seguente
rapporto:
𝑚𝑐
𝜆𝑣 = ⟹ 𝑚 𝑐 = 𝑚 𝑡 ∙ 𝜆𝑣
𝑚𝑡
Più è elevato il coefficiente di riempimento e maggiore è la quantità immmessa nel
cilindro rispetto a quella teorica; nel caso in cui esso è maggiore di uno si passa ai
sistemi di sovralimentazione.
Si introduce inoltre il coefficiente di lavaggio che è dato dal seguente rapporto:
𝑚𝐿
𝐶𝐿 = ⟹ 𝑚𝐿 = 𝑚𝑡 ∙ 𝐶𝐿
𝑚𝑡
Ovviamente nel caso ideale la massa di lavaggio è proprio pari alla massa teorica
(massima massa possibile).
Dalle grandezze appena definite è possibile ricavare la terza ed ultima grandezza e
cioè il rendimento di lavaggio che è espresso come segue:
𝑚 𝑐 𝜆𝑣
𝜂𝐿 = =
𝑚𝐿 𝐶𝐿
Il rendimento di lavaggio tiene conto di quanta massa (utile) rimane alla fine
all’interno del motore rispetto a tutta quella che ha attraversato le luci di lavaggio; nel
caso ideale esso è ovviamente unitario. Con tale relazione è possibile dunque legare
i tre coefficienti.
Dato che tutto è legato alla fluidodinamica esisteranno due regimi fluidodinamici
opposti, ossia regime di pistone fluido e regime di mescolamento perfetto. Nel caso
di pistone fluido, si riescono a tenere separati perfettamente il fluido fresco dal fluido
che ha bruciato: non si ha mescolamento tra gas fresco e gas residui e questo è un
risultato positivo; invece nel caso di mescolamento perfetto (diametralmente opposto
al caso di pistone fluido) ogni massa elementare di aria che entra nel cilindro va a
mescolarsi col gas residuo.
In sostanza nel caso di pistone fluido in ogni istante c’è una separazione tra gas
residui e carica fresca. Si immagini che il pistone scopra la luce di lavaggio (dopo
aver scoperto quella di scarico) e la carica fresca (in blu) inizi ad entrare all’interno
del cilindro in cui sono contenuti ancora una parte dei gas residui (in rosso):

351
Figura 296

Nell’ipotesi di pistone fluido in un istante successivo, si avrà ancora una separazione


netta tra i due fluidi:

Figura 297

Sempre nell’ipotesi di pistone fluido, può accadere che, quando si chiude la luce di
scarico, all’interno del cilindro resti intrappolata una quantità di gas residuo
(ovviamente man mano che si va avanti il pistone sale andando a chiudere prima la
luce di travaso e poi quella di scarico e non rimane fermo sempre nella stessa
posizione come invece viene riportato nelle figure solo per semplicità). In tal caso ci
si troverà in una condizione negativa sia rispetto al coefficiente di riempimento
perché certamente nel cilindro ci sarà meno miscela di quella teorica sia rispetto al
coefficiente di lavaggio perché certamente si sarà pompata meno aria di quella
teorica. Tuttavia da un punto di vista del rendimento di lavaggio, tutta l’aria inviata
all’interno del cilindro è rimasta in esso per cui in sostanza tale rendimento è unitario.
La situazione appena descritta viene di seguito riportata (in tale situazione si
immagina che il pistone abbia già coperto le luci di travaso e scarico):

352
Figura 298

Altra ipotesi, sempre nel caso di pistone fluido, potrebbe essere quella in cui la
separazione tra gas fresco e gas caldo la si ritrova nello scarico: in tal caso
praticamente dell’aria fresca entrata all’interno del cilindro viene buttata all’esterno.
Dal punto di vista del coefficiente di riempimento ciò potrebbe essere positivo
giacché all’interno del cilindro entra una quantità di miscela fresca che è
praticamente pari più o meno a quella teorica; al contrario, il rendimento di lavaggio
è certamente non favorevole giacché attraverso le luci di lavaggio si è fatta passare
più aria di quella che poi effettivamente rimane nel cilindro (una parte viene buttata
all’esterno).

Figura 299

Nel caso di mescolamento perfetto invece il gas fresco (in blu) e il gas residuo (in
rosso) si mescolano tra di loro (ogni elemento di massa di gas fresco che entra si
mescolerà con la massa di gas esausti):

353
Figura 300

Ovviamente in una fase iniziale, come quella rappresentata nella figura sopra
riportata, il gas di scarico occupa la maggior parte del volume (linee rosse più fitte),
mentre il gas fresco è in una percentuale molto ridotta (linee blu meno fitte).
Dopo un certo intervallo di tempo, sempre nell’ipotesi di mescolamento perfetto, la
carica fresca aumenta notevolmente, laddove il gas residuo tende sempre di più ad
abbandonare il cilindro: in sostanza la percentuale di carica fresca aumenta sempre
di più e la percentuale di gas combusto si riduce (alla fine la carica fresca occuperà
la maggior parte del volume disponibile: evidentemente man mano che la
percentuale si incrementa il pistone sale).

Figura 301

Ovviamente le due ipotesi di pistone fluido e mescolamento perfetto sono estreme e


per quanto semplificate non sono molto lontane dalla realtà; ovviamente quello che
in realtà avviene è intermedio tra queste due condizioni estreme che per certi regimi
di giri è più vicino al pistone fluido, mentre per altri regimi di giri sarà più vicino al
mescolamento perfetto.
Nella seguente figura viene riportato il grafico relativo alle due ipotesi di pistone fluido
e mescolamento perfetto sia con riferimento al coefficiente di riempimento sia con
riferimento al rendimento di lavaggio (rappresentati in funzione del coefficeinte di
lavaggio):

354
Figura 302

Nel caso del pistone fluido si avrà un rendimento di lavaggio (curva in verde) sempre
unitario nel primo tratto ed in particolare sino ad un valore del coefficiente di lavaggio
pari ad uno. Quando il coefficiente di lavaggio è pari ad uno la massa di gas fresco
che passa attraverso le luci di lavaggio corrisponde a quella teorica; giacché il
rendimento di lavaggio è sempre unitario fino alla condizione di coefficiente di
lavaggio pari ad uno, significa che tutto quello che passa attraverso le luci di lavaggio
rimane intrappolato dentro al cilindro. Il coefficiente di riempimento (curva in rosso)
invece, sarà inferiore al valore unitario fintanto che il coefficiente di lavaggio non
raggiunge il valore unitario; questo è dovuto al fatto che, in questa ipotesi, la massa
che passa attraverso le luci di lavaggio è minore di quella teorica (coefficiente di
lavaggio minore di uno) e dunque di conseguenza la massa d’aria che rimane
intrappolata nel cilindro a maggior ragione sarà minore di quella teorica (nel cilindro
si mette una quantità di miscela fresca minore di quella teorica); il rendimento di
lavaggio invece, in tale condizione, è unitario perché tutto quello che si fa passare
attraverso le luci di lavaggio rimane intrappolato nel cilindro; quindi il lavaggio è
positivo perché tutto quello che passa rimane nel cilindro, ma il coefficiente di
riempimento è basso perché sta entrando poca miscela rispetto a quella teorica.
Ovviamente man mano che il coefficiente di lavaggio aumenta fino a portarsi a valori
superiori all’unità, poiché entra più aria rispetto a quella teorica, sicuramente il
coefficiente di riempimento sarà unitario (quando si arriva almeno a quella teorica
esso raggiunge il valore unitario, saturando su tale valore): il residuo ovviamente lo
si perde e quindi certamente il rendimento di lavaggio calerà.
Nell’ipotesi di mescolamento perfetto il coefficiente di riempimento (curva in blu)
parte da zero e man mano che il coefficiente di lavaggio aumenta esso cresce
monotonicamente fino a tendere al valore unitario; in sostanza quando il coefficiente
di lavaggio aumenta si fa passare molta aria rispetto a quella teorica e ovviamente
in virtù del fatto che il coefficiente di riempimento non è unitario molta di questa aria
viene buttata all’esterno (perché si mescola coi gas di scarico); per questo motivo il
rendimento di lavaggio (curva in nero) ha un valore unitario all’inizio e man mano che
il coefficiente di lavaggio aumenta, poiché aumenta la percentuale di aria che passa

355
nelle luci di lavaggio e siccome buona parte di essa viene inviata all’esterno, esso si
riduce monotonicamente.
Evidentemente l’ipotesi migliore tra le due è quella di pistone fluido, mentre il
mescolamento perfetto è un qualcosa da evitare. Nel caso di pistone fluido ci si
potrebbe trovare in una condizione di corto circuito, in cui il gas fresco va
direttamente all’esterno.
Ovviamente la massa complessiva della miscela è data dalla seguente somma:
𝑚𝑚 = 𝑚𝑎 + 𝑚𝑟

Figura 303

Nel seguente grafico viene riportato l’andamento del coefficiente di riempimento e


del rendimento di lavaggio, al variare del coefficiente di lavaggio (nei casi reali):

Figura 304

Di seguito vengono invece riportati due grafici (reali) del coefficiente di riempimento
al variare del coefficiente di lavaggio. In particolare nel primo (a sinistra) le curve
vengono distinte in funzione della tipologia di lavaggio (lavaggio unidirezionale,
lavaggio ad anello e lavaggio trasversale), mentre nel secondo la distinzione è fatta
in funzione del regime di giri (per un motore a due tempi con lavaggio tangenziale a
cinque luci):

356
Figura 305

Nel caso del lavaggio unidirezionale si ha il migliore coefficiente di riempimento in


quanto ci si riesce ad avvicinarsi al limite teorico della perfetta espulsione. Nelle
condizioni di 100 𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑠 (regime intermedio tra 133 𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑠 e 66 𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑠) ci si avvicina
alla condizione di espulsione perfetta (il coefficiente di riempimento tende al valore
massimo per un regime di giri intermedio).
Si tenga presente che in un piccolo motore a due tempi, il moto dell’aria è legato alla
velocità del pistone attraverso il carter-pompa; in un motore a due tempi lento (grandi
motori navali), in generale invece si utilizza o una pompa volumetrica o una pompa
dinamica; nel caso della pompa volumetrica si ritrova lo stesso tipo di fenomenologia
del funzionamento del carter-pompa, perché essendo una macchina volumetrica
essa è fasata col moto del pistone; con una pompa di lavaggio dinamica invece, che
può essere azionata da un motore elettrico, è possibile svincolare la pressione di
esercizio dal moto del pistone; tuttavia tendenzialmente la pompa dinamica è
azionata da una turbina e dunque comunque è legata alle condizioni di carico (è
difficile che sia azionata da una macchina elettrica), dunque comunque c’è una sorta
di fasatura tra la velocità con cui entra l’aria e il regime di rotazione (il legame
ovviamente non è così diretto come nel motore a quattro tempi).
Di seguito vengono riportate delle mappe realizzate con il cosiddetto test di Jante:
esse forniscono la componente assiale della velocità (positiva se rivolta verso l’alto)
nella sezione trasversale del cilindro di motori a due tempi.

357
Figura 306

Nel caso 𝑎, c’è una lingua di flusso che si avvicina troppo alla luce di scarico (non
molto efficace); nel caso 𝑏 la corrente di carica fresca rimane troppo vicina alla parete
e tende ad intrappolare il fluido (dunque nemmeno in tal caso si ha un qualcosa di
soddisfacente; in tal caso localmente non c’è mescolamento, ma complessivamente
sì). Nel caso 𝑐 invece si ha una buona condizione, mentre nel caso 𝑑 la condizione
è ottimale in quanto c’è una separazione netta.
Di seguito vengono invece riportati dei tipici esempi di pompe di lavaggio per motori
a due tempi:

Figura 307

358
In genere i motori di grandi dimensioni hanno sempre un sistema testa-croce: la biella
non è collegata direttamente al pistone, ma è collegata ad un’asta.

Figura 308

In tale sistema le forze di spinta della biella si scaricano grazie alla presenza dell’asta
e del pattino in modo da ridurre l‘usura dei pistoni perché non ci sono forze di
chiusura variabili; di fatto la forza, che può essere scomposta in due componenti,
viene scaricata sul pattino.
Il compressore volumetrico rotativo è azionato in genere dall’albero motore e ciò
consente di dosare anche la portata dell’aria attraverso il regime di giri, in funzione
della quantità richiesta dal motore a tale regime.
Di seguito viene riportato un confronto tra il ciclo indicato (rilevato da trasduttori) di
un motore quattro tempi aspirato e di un motore due tempi aspirato sul piano
pressione-volume:

Figura 309

In particolare il primo diagramma (a sinistra) si riferisce ad un motore quattro tempi


aspirato a carico parziale (in modo da evidenziare il ciclo di ricambio del fluido),
mentre nel secondo diagramma (a destra) si riporta il caso di un motore due tempi
aspirato a piena ammissione. Si tenga presente che le scale delle pressioni nei due
diagrammi sono diverse. Nel caso del motore a due tempi aspirato manca il ciclo di
359
bassa pressione, giacché il lavoro di pompaggio in questi motori non si misura con il
ciclo indicato, ma lo si calcola valutando il lavoro speso dalle pompe di lavaggio: il
lavoro utile sarà quello del ciclo (ossia quello misurato col sensore di pressione)
meno quello speso dalla pompa di lavaggio. In questo esempio specifico, per il
motore a due tempi è stata assunta una fasatura simmetrica rispetto al punto morto
inferiore e nell’ordine si ha: apertura della luce di scarico (1), apertura della luce di
travaso (2), chiusura della luce di travaso (3), chiusura della luce di scarico (4).
Di seguito viene riportato l’andamento schematico della pressione nel carter-pompa
(ciclo di bassa pressione) in funzione dello spostamento del pistone (quando si lavora
con un sistema di questo tipo è possibile mettere un sensore di pressione nel carter
per poter misurare questo ciclo):

Figura 310

Nel caso 𝑎 la luce di aspirazione è controllata dal pistone, mentre nel caso 𝑏 la luce
di aspirazione è controllata da un disco rotante.
Ragionando sul caso 𝑎, l’albero motore ruota in verso orario; si parte dal punto morto
inferiore dove il pistone inizia a salire e a comprimere il gas nella parte superiore del
cilindro: in questa fase la pressione nel carter-pompa si riduce, fino a quando la parte
inferiore del pistone non scopre la luce di aspirazione; da questo momento in poi la
pressione nel carter risale perché esso viene messo in comunicazione con l’ambiente
esterno a pressione maggiore. Quando poi il pistone inizia a scendere c’è un
incremento di pressione all’interno del carter-pompa rispetto all’ambiente: nella sua

360
discesa il pistone chiude la luce di aspirazione. Nella fase di discesa, il picco di
pressione si manifesta proprio nel momento in cui c’è l’apertura della luce di travaso
e il fluido viene trasferito alla parte superiore del cilindro che si trova ad una pressione
minore.
Nel caso 𝑏 la fasatura dell’aspirazione non è più collegata alla posizione del pistone,
ma può essere svincolata giacché è possibile calettare una lamella rotante circolare
(valvola) che è tagliata alle estremità e il taglio può essere variato a piacimento (in
tal modo è possibile fasare a piacimento). Ovviamente in questo caso il
ragionamento è più o meno analogo; il vantaggio della valvola rotante è che le
depressioni non sono molto spinte.
Nel caso in cui la luce di aspirazione sia controllata dal pistone aumentare la sezione
di passaggio significa variare la fasatura.
Le minori depressioni prodotte durante la fase di aspirazione, portano nel secondo
caso ad un lavoro globale di compressione (area tratteggiata) più piccolo.
È evidente che anche in questo caso il lavoro si può ottenere come l’integrale di 𝑝𝑑𝑉.
Un altro sistema interessante è quello che prevede l’impiego di una valvola a lamelle,
come riportato di seguito:

Figura 311

Tale valvola (una sorta di cuneo forato) si apre nel momento in cui c’è un gradiente
di pressione decrescente da destra a sinistra (ossia se la pressione a destra è
maggiore della pressione a sinistra). Ciò significa che quando alle spalle della valvola
c’è un incremento di pressione rispetto a quella a valle (o viceversa a valle c’è una
depressione) tale lamella si apre. In tal modo si riesce a realizzare una fasatura non
meccanica, ma fluidodinamica in quanto tale valvola si apre solo quando c’è un
battente di pressione positivo; pertanto a qualunque regime di giri c’è una fasatura
ottimale per quanto riguarda l’aspirazione. Inoltre in questa rappresentazione è
possibile vede come si sfrutta un vano dell’aspirazione come travaso; questo sistema
è molto intelligente in quanto se per qualsiasi motivo all’interno c’è una depressione
361
la valvola si apre qualunque sia la fase (anche se si è in fase di compressione, …) e
non è rigidamente vincolata al moto dell’albero motore; di fatto non è da escludere
che ci si potrebbe trovare in una condizione in cui a luce di aspirazione aperta non
c’è depressione nel carter a causa di una serie di fenomeni che si possono verificare
(in ogni caso la lamella si apre solo se e soltanto se tale depressione esiste).
Di seguito viene riportato l’andamento tipico delle pressioni in funzione dell’angolo di
manovella, dentro il cilindro 𝑝𝑐 , e nei condotti di lavaggio 𝑝𝑙 e di scarico 𝑝𝑠 di un
motore a due tempi, durante il processo di sostituzione della carica. Sono inoltre
evidenziate le fasature delle luci:
𝐴𝐴𝑆 = 𝐴𝑛𝑡𝑖𝑐𝑖𝑝𝑜 𝐴𝑝𝑒𝑟𝑡𝑢𝑟𝑎 𝑙𝑢𝑐𝑒 𝑑𝑖 𝑆𝑐𝑎𝑟𝑖𝑐𝑜
𝑅𝐶𝑆 = 𝑅𝑖𝑡𝑎𝑟𝑑𝑜 𝐶ℎ𝑖𝑢𝑠𝑢𝑟𝑎 𝑙𝑢𝑐𝑒 𝑑𝑖 𝑆𝑐𝑎𝑟𝑖𝑐𝑜
𝐴𝐴𝐿 = 𝐴𝑛𝑡𝑖𝑐𝑖𝑝𝑜 𝐴𝑝𝑒𝑟𝑡𝑢𝑟𝑎 𝑙𝑢𝑐𝑒 𝑑𝑖 𝐿𝑎𝑣𝑎𝑔𝑔𝑖𝑜
𝑅𝐶𝐿 = 𝑅𝑖𝑡𝑎𝑟𝑑𝑜 𝐶ℎ𝑖𝑢𝑠𝑢𝑟𝑎 𝑙𝑢𝑐𝑒 𝑑𝑖 𝐿𝑎𝑣𝑎𝑔𝑔𝑖𝑜

Figura 312

Fintanto che la pressione di lavaggio è maggiore di quella del cilindro che a sua volta
è maggiore di quella allo scarico, si ha un flusso positivo e dunque il fluido può
passare attraverso la valvola a lamelle. Ci può essere una situazione opposta in cui
la pressione allo scarico è maggiore di quella del cilindro: ciò da un lato tenderebbe
a far risalire i gas residui dallo scarico (condizione negativa), ma dall’altro lato a non
far fuoriuscire i gas freschi che stanno nel cilindro (condizione positiva).
Si tenga presente che anche nel caso del motore a due tempi valgono le stesse
considerazioni fatte per il motore a quattro tempi, per quanto riguarda gli effetti
d’onda:

362
Figura 313

La complessa interazione tra processo di scarico e fase di lavaggio richiede


un’opportuna progettazione dei condotti di scarico per limitare al minimo la fuoriuscita
di miscela fresca attraverso la luce di scarico. L’impiego di condotti a sezione
variabile (a espansione) consente di sfruttare i fenomeni di propagazione delle onde
di pressione e, per alcune condizioni operative, di ridurre la fuoriuscita di gas fresco.
Durante lo scarico forzato (luce di travaso chiusa) si deve realizzare una pressione
allo scarico maggiore della pressione interna al cilindro. La lunghezza dei diversi tratti
del collettore influenza il regime di giri ottimale massimo al quale è possibile ottenere
il massimo effetto di riempimento e dunque di prestazione.
Nella figura seguente viene invece riportata una rappresentazione di come varia la
potenza effettiva in funzione del regime di giri e della fasatura della luce di scarico,
di un motore a due tempi di cilindrata pari a 250 𝑐𝑚3 , sia a piena ammissione che al
50% del carico:

Figura 314

In particolare vengono riportate quattro condizioni diverse di anticipo e ritardo (81° −


87° − 93° − 96°). Inoltre l’anticipo all’apertura dello scarico rispetto al punto morto
363
inferiore risulta uguale al ritardo alla chiusura dello stesso, per la simmetria nel moto
del pistone. Con riferimento al caso di pieno carico, man mano che all’aumentare del
regime di giri, aumenta l’anticipo all’apertura e il ritardo alla chiusura dello scarico
(che in tal caso sono uguali), aumenta la potenza: in particolare essa passa da 20 𝑘𝑊
a 30 𝑘𝑊 (aumenta più o meno del 50 %) facendo variare la fasatura di 15° in anticipo
e di 15° in ritardo (il che significa aumentare di 30° complessivamente la fase di
scarico). Lo stesso ragionamento vale al 50% di carico.
Motori alternativi a combustione interna: sistemi di sovralimentazione
I sistemi di sovralimentazione possono essere di diverso tipo. In particolare i
compressori che vengono utilizzati per la realizzazione di un sovralimentatore
possono essere di tipo volumetrico o di tipo dinamico e questi ultimi sono i più diffusi.
Il sovralimentatore viene montato sul motore per aumentare la densità dell’aria
aspirata e nasce da un punto di vista storico per applicazioni aeronautiche per
recuperare la pressione in quota (man mano che si sale la pressione si riduce); si
tenga presente che anche una variazione di pressione del 5% (ossia ad una
variazione di densità di pari entità) porta ad una variazione di potenza pari al 5%; su
un aereo le variazioni di densità sono molto più spinte, sebbene compensate in parte
da un abbassamento della temperatura, per cui per avere in quota le stesse
prestazioni che si ottengono a livello del mare si introducono dei sistemi di
sovralimentazione. Il limite di questi sistemi non è tanto sulla prestazione della
turbomacchina, quanto sulla tenuta sul motore: aumentare la pressione di qualche
bar sul motore, significa aumentare la pressione di inizio compressione e dunque di
conseguenza anche la pressione a inizio combustione (che peraltro continua ad
aumentare anche a seguito della combustione stessa). I sovralimentatori sono in
genere azionati dai gas di scarico (si recupera l’entalpia dei gas di scarico) e sono
costituiti da una turbina (più grande) ed un compressore (più piccolo) accoppiati in
asse. La turbina in genere è una macchina dinamica radiale centripeta (essendo una
macchina motrice) e ciò non è efficace in quanto nella direzione in cui il fluido
espande si riduce la sezione di passaggio (Eulero); tuttavia l’energia viene
recuperata dai gas di scarico per cui non è molto interessante andare a valutare il
rendimento in quanto comunque tali gas sarebbero gettati in atmosfera; ovviamente
l’energia recuperata dalla turbina viene utilizzata per azionare il compressore. La
turbina e il compressore sono ovviamente fatti di materiali differenti: la turbina in
genere viene realizzata in ghisa giacché deve sostenere temperature elevate, mentre
il compressore viene realizzato in alluminio. La valvola wastegate, montata sulla
turbina, serve per bypassare la turbina stessa; quando il motore raggiunge pressioni
di aspirazione elevate la valvola wastegate si apre, evitando che i gas di scarico
vadano nella turbina per generare lavoro ed incrementare di conseguenza
ulteriormente la pressione dell’aria aspirata. Per un motore Diesel, il sistema di
sovralimentazione può arrivare a velocità di 140000 𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑚𝑖𝑛 − 150000 𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑚𝑖𝑛: il
problema della lubrificazione è uno dei più seri in questo caso. Si ricordi che l’angolo
di ingresso del fluido in una turbomacchina è fondamentale: per rendere ottimale

364
l’inclinazione della velocità del fluido sul rotore che deve essere quanto più tangente
possibile alla palettatura è possibile realizzare dei vani orientabili (che possono
muoversi). Esistono anche dei sovralimentatori a due stadi, ossia con due stadi di
turbina (alta e bassa pressione) e due stadi di compressore (alta e bassa pressione):
talvolta tali soluzioni sono molto complesse e servono a massimizzare quanto più
possibile le prestazioni del motore. Si ricordi che uno dei problemi maggiori in questo
caso è proprio l’accoppiamento tra una macchina dinamica (turbocompressore) e
una macchina volumetrica (motore): la macchina volumetrica di fatto lavora con
basse portate ed elevate prevalenze, mentre al contrario le macchine dinamiche
lavorano con elevate portate e basse prevalenze.
Quindi in sintesi la sovralimentazione è un’operazione che permette di aumentare la
massa d’aria aspirata nel cilindro, rispetto a quella che si avrebbe a seguito
dell’aspirazione naturale e dei processi dinamici. Evidentemente se il compressore
venisse azionato direttamente dal motore, una parte di lavoro utile verrebbe
impiegato per comprimere il fluido in ingresso (tutti i compressori volumetrici sono in
generale azionati dal motore); i turbo-sovralimentatori invece prendono l’energia dai
gas di scarico (che altrimenti verrebbe persa) e la convertono in lavoro meccanico
che viene trasferito al compressore per comprimere l’aria in ingresso; in quest’ottica
ovviamente il sistema di sovralimentazione è un qualcosa di molto conveniente:
tuttavia non bisogna dimenticare che il motore vede la turbina come una perdita di
carico (c’è una contropressione allo scarico che decurta un po’ gli effetti positivi); la
condizione ottimale ovviamente è quella che massimizza il risultato e quindi la
condizione in cui il lavoro ottenuto in più della turbina è maggiore del lavoro di
pompaggio richiesto per lo scarico (da un punto di vista delle perdite di carico); quindi
sebbene all’interno entri più aria, per buttare fuori il gas durante l’espulsione bisogna
spendere più lavoro (si deve trovare in qualche modo un bilanciamento tra questi due
aspetti massimizzando il beneficio). Oggigiorno si ragiona anche sull’azionamento
elettrico che consente un disaccoppiamento vantaggioso ai fini del controllo.
Un motore a due tempi si definisce sovralimentato se la pressione della carica è
superiore a quella necessaria per il processo di lavaggio (20 𝑘𝑃𝑎 − 50 𝑘𝑃𝑎).
Ricordando la formula della potenza espressa in funzione di regime di giri e pressione
media effettiva, si ha:
𝑃 ∝ 𝑛 ∙ 𝑝𝑚𝑒
Ciò significa che per aumentare la potenza del motore, bisogna aumentare il regime
di giri e/o la pressione media effettiva. L’aumento del regime di giri comporta un
aumento delle forze d’inerzia, con legge quadratica (e dunque si è limitati in questa
direzione). L’aumento della pressione media è legato linearmente alle sollecitazioni
meccaniche (è questione di robustezza del motore).
In particolare nel caso di sovralimentazione si ha:

365
 A pari cilindrata si aumenta la massa d’aria con aumento del combustibile e
conseguente incremento di lavoro.
 Lasciando inalterato il rapporto volumetrico di compressione si raggiungono
pressioni elevate con conseguente problema di sollecitazioni meccaniche; in
alcuni casi i motori sovralimentati devono compensare l’incremento della
pressione con una riduzione del rapporto di compressione volumetrico, il che
può inficiare l’efficienza sui motori ad accensione comandata; nei motori Diesel
si ha invece un effetto certamente benefico in quanto l’elevato rapporto di
compressione garantisce elevate pressioni favorevoli per la combustione.
 Riducendo il rapporto di compressione si “gonfia” l’area del ciclo con lo stesso
valore della pressione massima (un minore rapporto di compressione
determina una riduzione del rendimento termodinamico).

366
Lezione 27 (Pianese) 28/04/2017
Motori alternativi a combustione interna: sistemi di sovralimentazione
Il vantaggio della sovralimentazione è quello di aumentare la potenza agendo sulla
pressione media effettiva, senza innalzare troppo il regime di rotazione; le forze di
inerzia di fatto crescono con legge quadratica: raddoppiare la potenza raddoppiando
il regime di rotazione significa quadruplicare le forze di inerzia; ovviamente ci sono
anche problemi di attrito che poi hanno un impatto forte sulla durata del motore.
Ovviamente l’incremento della pressione media effettiva comporta una crescita
lineare delle forze nel cilindro: raddoppiare la pressione media effettiva significa
raddoppiare la potenza nonché il carico meccanico che agisce sul sistema.
Di seguito viene rappresentato un confronto tra cicli limite di un motore a quattro
tempi Diesel, aspirato (linea continua) e sovralimentato (linea tratteggiata):

Figura 315

Mantenendo inalterato il rapporto di compressione (caso 𝑎), la pressione massima


del ciclo aumenta in misura minore del lavoro utile. Riducendo opportunamente il
rapporto di compressione (caso 𝑏), è addirittura possibile conservare la pressione
massima costante, pur ottenendo un maggior lavoro utile (area racchiusa dal ciclo
sul piano 𝑝 − 𝑉).
Nel caso di ciclo sovralimentato la pressione nel collettore di aspirazione è più
elevata rispetto al caso in cui il motore sia aspirato; pur non agendo sul rapporto di
compressione volumetrico si raggiunge una pressione più elevata. È evidente che
nel caso del motore Diesel, raggiungere una pressione più elevata è vantaggioso in
quanto facilita l’innesco della combustione, mentre in un motore ad accensione
comandata questo è un aspetto più critico in quanto si può avere detonazione
(innesco di una combustione non controllato). Pertanto in molte condizioni si tende a
ridurre il rapporto di compressione volumetrico cosicché a fine compressione la
pressione finale raggiunta sarà la stessa, ma il volume al punto morto superiore sarà
maggiore (𝑉𝑐′ > 𝑉𝑐 ) rispetto al caso del motore aspirato; giacché il ciclo “si gonfia”

367
vuol dire che il calore viene addotto in tal caso a temperatura più bassa il che
comporta una riduzione del rendimento; questo poi di fatto è uno dei motivi per cui i
motori Diesel hanno consumi inferiori rispetto ai motori benzina, giacché hanno un
rendimento più elevato (rapporto volumetrico di compressione più elevato, oltre al
fatto che con la sovralimentazione il lavoro di pompaggio diventa “gratuito”). D’altro
canto non bisogna dimenticare che nel motore benzina c’è la valvola a farfalla che
intercetta il fluido (aria) in ingresso determinando una perdita di carico: utilizzando
un sovralimentatore sostanzialmente si conferisce energia (sotto forma di pressione
al fluido) che però viene dissipata attraverso la valvola a farfalla. Negli ultimi anni si
è fatto avanti però il concetto di downsizing la qual cosa ha permetto di superare
alcuni problemi.
Si supponga per esempio di avere la seguente situazione:

Figura 316

Il motore aspirato e il motore sovralimentato (benzina) hanno la stessa potenza


massima pari a 100 𝑘𝑊 (potenza a massima apertura della valvola a farfalla). In un
percorso urbano la potenza necessaria ad esempio è pari a 10 𝑘𝑊. La
sovralimentazione permette di ridurre la cilindrata (downsizing) a parità di potenza
massima passando per esempio da 1500 𝑐𝑚3 a 1200 𝑐𝑚3 ; ovviamente in un
percorso urbano poiché viene richiesta una potenza minore la valvola a farfalla non
è totalmente aperta, ma è parzialmente chiusa; il grado di parzializzazione in un
motore più piccolo (di cilindrata inferiore) è più basso il che significa che la valvola a
farfalla risulta essere più aperta rispetto al caso del motore aspirato (che ha una
cilindrata maggiore). In sostanza riducendo il carico si ha una riduzione più che
proporzionale del contributo del sovralimentatore: ai bassi carichi il sovralimentatore
non funziona il che significa che per avere una potenza di 10 𝑘𝑊 da un motore di
1200 𝑐𝑚3 di cilindrata la valvola a farfalla deve presentare una apertura maggiore
rispetto ad un motore di cilindrata maggiore; ciò determina un impatto sul ciclo di
bassa pressione, in quanto una maggiore apertura della valvola a farfalla comporta
minori perdite di carico (il ciclo di bassa pressione pesa meno).

368
Figura 317

Ragionando invece su un motore sovralimentato che ha la stessa cilindrata di un


motore aspirato si ha la seguente situazione:

Figura 318

Poiché la cilindrata è la stessa la potenza massima del motore sovralimentato


risulterà maggiore (per esempio pari a 150 𝑘𝑊). Ciò comporta il fatto che l’apertura
della valvola a farfalla durante un ciclo urbano per un motore sovralimentato potrebbe
addirittura essere inferiore rispetto all’apertura della valvola stessa per un motore
aspirato di pari cilindrata. Ciò comporta un peggioramento nel senso che l’aggiunta
del sovralimentatore determina un’apertura minore della valvola a farfalla e dunque
delle perdite di carico maggiori.
In un sistema di sovralimentazione convenzionale, spesso non si ragiona su un
approccio di tipo downsizing, ma solamente in funzione di voler aumentare la
potenza: ciò comporta un peggioramento perché la valvola a farfalla deve essere
ulteriormente chiusa. Si tenga comunque presente che il turbo-sovralimentatore non
funziona bene in tutto il campo di funzionamento del motore ed in particolari ai bassi
carichi.
Questo è il motivo per cui alcune aziende adottano una doppia sovralimentazione:
una di tipo tubo e l’altra di tipo volumetrico; la sovralimentazione volumetrica,
essendo legata al regime di giri, si ha sempre una proporzionalità tra il regime di giri
e la portata (la quale è legata al regime di giri); in tal modo ai bassi carichi si fa entrare
in funzione il sovralimentatore volumetrico, mentre agli alti carichi si utilizza il
sovralimentatore. In tal modo si riesce a rendere piatta la curva di coppia.

369
Quindi concludendo la sovralimentazione a gas di scarico (turbo-sovralimentatore)
ha un range di funzionamento molto limitato; esso è legato al regime di giri non
perché sia vincolato allo stesso, ma solo per una questione di carico. Nel caso di
downsizing è possibile utilizzare una cilindrata minore (masse e ingombri più bassi)
a parità di potenza: in tal modo giocando sul fatto di poter aprire di più la valvola a
farfalla si ha una riduzione dell’area del ciclo di basso pressione e dunque del
consumo grazie al fatto che il rendimento aumenta (il lavoro di pompaggio si riduce).
La sovralimentazione meccanica (volumetrica) essendo strettamente legata al
regime di rotazione del motore e dato che la portata dipende da quest’ultimo, in tutto
il campo di funzionamento si ha un incremento di massa d’aria proporzionale al
regime di giri; questo è positivo ai bassi carichi, ma non agli alti carichi in quanto in
quest’ultimo caso utilizzando una turbina (turbo-sovralimentatore) si potrebbe avere
un effetto maggiore (ai bassi carichi la turbina funziona male, mentre agli altri carichi
funziona meglio rispetto al caso di sovralimentazione volumetrica). Per cui la
sovralimentazione volumetrica aumenta la coppia ai bassi regimi di giri, mentre agli
alti regimi di giri non va molto oltre all’aspirazione naturale.
Prima non si ragionava molto sul concetto di downsizing e si utilizzava il
sovralimentatore per incrementare la potenza: in tal caso ai bassi carichi le
prestazioni si riducevano (in termini di consumi).
I vantaggi della sovralimentazione sono:
 Riduzione di ingombro a pari potenza.
 Può migliorare il rendimento nei motori Diesel, in particolare se si sfrutta
l’energia residua dei gas combusti in turbina: nella turbo-sovralimentazione il
gas di scarico, altrimenti perso, viene utilizzato per azionare la turbina la quale
a sua volta cede lavoro al compressore che incrementa la pressione dell’aria
aspirata e dunque la portata (il ciclo in tal caso non è parzializzato in quanto
non c’è la valvola a farfalla e dunque certamente si ha un incremento del
rendimento).
 Migliora la combustione nei motori Diesel: la pressione della miscela aumenta
e ciò facilita l’innesco della combustione.
 Combustione graduale (Diesel): grazie al fatto che la pressione viene gestita
anche attraverso il sovralimentatore.
Gli svantaggi invece sono:
 Aumento dei carichi meccanici: la pressione media effettiva aumenta il che
comporto l’utilizzo di prigionieri di diametro maggiore per sopportare le
maggiori sollecitazioni. È evidente che se aumenta la potenza anche i carichi
termici aumentano a causa dell’incremento di temperatura.
 Detonazione per i motori ad accensione comandata: aumentando la pressione
si corre il rischio di avere un’auto-accensione della miscela non controllata;
pertanto nel motore a benzina è necessario spesso ridurre il rapporto
370
volumetrico di compressione per compensare l’aumento di pressione: questo
comporta però una riduzione del rendimento.
 Curva di coppia poco adatta alla trazione stradale per elevati rapporti di
sovralimentazione; di seguito vengono riportate diverse curve di coppia in
relazione alla strategia di sovralimentazione adottata:

Figura 319

Un motore turbo-compresso può avere un peggioramento della coppia ai bassi


regimi di giri oltre al fatto che determina un tratto di instabilità molto ampio
(curva poco adatta alla trazione stradale). Con un compressore volumetrico
invece si riesce ad ampliare ancora di più il tratto di stabilità. Questo è il motivo
per cui ai bassi carichi conviene utilizzare un compressore volumetrico e agli
alti carichi conviene usare un turbo-compressore. Abbinando questi due
sistemi opportunamente si riesce ad ottenere una curva di coppia come quella
tracciata in viola.
 Problemi di risposta in transitorio (turbo sovralimentazione); di seguito viene
riportato lo schema di un motore sovralimentato:

Figura 320

371
Se il motore è ad iniezione, in un certo istante di tempo viene ad esempio
iniettato più combustibile il che comporta una generazione di entalpia
maggiore nei gas di scarico: tale entalpia viene convertita dalla turbina in
lavoro meccanico, ma ovviamente ci sarà un’inerzia legata al bilancio del
turbo-sovralimentatore:
𝑑𝜔
𝐼𝑇 ∙ = 𝐶𝑚 − 𝐶𝑟
𝑑𝑡
In sostanza la turbina trasferisce lavoro al compressore, ma una parte
dell’entalpia serve ad accelerare la turbina stessa, mentre la restante parte va
al compressore; dunque il “primo impulso di energia” lo riceve la turbina per
accelerare sé stessa. Ovviamente l’incremento della pressione dell’aria in
ingresso al motore comporta il fatto che il motore richiede più combustibile: ciò
determina un loop che ha un tempo caratteristico per potersi assestare (c’è un
ritardo che dal punto di vista dinamico determina anche a livello di comfort di
guida delle condizioni non gradevoli). Pertanto solo dopo un certo intervallo di
tempo il sovralimentatore fa sentire il suo effetto sulla curva di coppia.
Oggigiorno con i sistemi VGT tale problema è in parte risolto; inoltre giacché
le turbine girano ad elevati regimi di giri l’effetto di inerzia si riduce molto.
La sovralimentazione deve essere trattata come una pratica che serve ad aumentare
l’aria aspirata dal motore: il compressore aumenta la portata di aria ed esso deve
essere azionato in qualche modo (si ha bisogno cioè di un sistema che dia del lavoro
meccanico al compressore).
Il compressore, in generale, potrebbe essere azionato in tantissimi modi, ad esempio
addirittura utilizzando un motore ausiliario esterno. Qualunque sia il tipo di
compressore (volumetrico o dinamico) esso può essere azionato anche
elettricamente. Oggigiorno un compressore volumetrico viene azionato dal motore
ed è quindi “rigido” perché gira in funzione del regime di giri del motore stesso; se
invece si utilizza una macchina elettrica per poterlo azionare, la quale è
completamente disaccoppiata dal motore, il compressore viene gestito
indipendentemente dal motore termico; l’energia necessaria al compressore
ovviamente deve essere presa da una batteria che viene caricata dal motore. Nel
complesso il bilancio meccanico è sempre lo stesso, ma l’energia meccanica viene
presa per caricare una batteria la quale poi a sua volta trasferisce energia al sistema.
Ovviamente è possibile adottare una serie di strategie per poter ottimizzare tale
sistema: nel traffico per esempio non si fa funzionare l’alternatore in quanto ha
efficienze molto basse e si utilizza l’energia elettrica caricata nella batteria (tale
energia magari è stata caricata in autostrada quando le efficienze sono più elevate).
Pertanto in generale la batteria potrebbe essere caricata quando è conveniente e
quell’energia accumulata potrebbe poi essere utilizzata per azionare gli ausiliari: in
tal modo di fatto si consuma meno energia e dunque aumentano le prestazioni del
motore in termini di consumi. Il vantaggio di avere un motore elettrico che azioni un
compressore, sia esso volumetrico o dinamico, è che esso funziona come e quando
si vuole.
372
Si immagini dunque di avere una macchina elettrica reversibile montata tra turbina e
compressore:

Figura 321

Per risolvere il problema del turbo che non funziona ai bassi giri, è possibile fornire
energia elettrica (prelevata da una batteria) alla macchina elettrica la quale aziona il
compressore realizzando un e-turbo ed evitando di utilizzare un compressore
volumetrico (accoppiato al turbo-sovralimentatore). In alcune condizioni inoltre è
possibile che si abbia un eccesso di entalpia dai gas di scarico che comporterebbe
la generazione di un carico eccessivo sul motore; per evitare questo si potrebbe
utilizzare una valvola west-gate (in blu) che permette di by-passare la turbina qualora
necessario; tuttavia con l’utilizzo di una macchina elettrica (reversibile) l’energia in
eccesso, invece di inviarla al compressore (che potrebbe incrementare
eccessivamente la pressione dell’aria all’aspirazione), potrebbe essere utilizzata per
generare energia elettrica nella macchina elettrica che viene poi stoccata nella
batteria. Il limite di questa soluzione tecnologica sta nel fatto che le macchine
dinamiche (quali il compressore) girano a 100000 𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑚𝑖𝑛 − 150000 𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑚𝑖𝑛 e le
macchine elettriche, per quanto piccole, non possono girare a queste velocità (esse
sono coassiali quindi dovrebbero girare a velocità troppo elevate). Ovviamente
sarebbe possibile utilizzare un riduttore, ma in ogni caso la macchina elettrica può
arrivare massimo a 20000 𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑚𝑖𝑛 il che significa che il rapporto di riduzione
sarebbe elevatissimo (intorno a 6 il che significa avere un diametro sei volte maggiore
rispetto all’altro: ci sono perdite per attrito, …). L’altro problema fondamentale è
legato al gradiente termico: all’uscita dal compressore l’aria ha una temperatura
intorno ai 60°𝐶, mentre all’ingresso della turbina la temperatura è circa di 600°𝐶; in
sostanza in pochissimi centimetri (intorno a 10 𝑐𝑚 = 0.1 𝑚 ad esempio) c’è un
gradiente termico elevatissimo (600 − 60 = 540 ⟹ 540/0.1 = 5400 °𝐶/𝑚).
Come evidenziato precedentemente per poter muovere il compressore è possibile
utilizzare un motore esterno (ausiliario), ma ci sono scarse applicazioni. È in studio
373
per migliorare il tempo di risposta nei sistemi turbo-sovralimentati, una macchina
elettrica reversibile che consentirebbe di recuperare energia elettrica dalla turbina
azionata dai gas di scarico. Un’altra soluzione è l’accoppiamento meccanico tra
compressore ed albero motore (accoppiamento diretto tra motore e
sovralimentatore) che:
 Riduce i problemi di ritardo nella risposta dinamica
 È adatto ai bassi regimi di giri
 Non consente di raggiungere elevate prestazioni, tipiche del sovralimentatore
a gas di scarico.
Una configurazione di questo tipo di soluzione può essere la seguente (l’asse del
motore è collegato attraverso un riduttore al compressore):

Figura 322

Tendenzialmente questa soluzione viene adottata con i compressori volumetrici


essendo il motore una macchina volumetrica. Il compressore volumetrico può essere
ad esempio un compressore a palette (o anche di tipo roots o elicoidali) che viene
azionato con una cinghia dentata impegnata sulla puleggia dell’albero motore.
L’altra soluzione, che è quella più nota, è quella di azionare il compressore attraverso
una turbina azionata a sua volta dai gas di scarico: in tal caso si combina un motore
a pistoni con piccole portate ed elevati salti di pressione con un sistema che elabora
grandi volumi a basse prevalenze. Esistono diverse tipologie di configurazioni termo-
fluidodinamiche scelte in funzione dell’applicazione:
 Sovralimentazione a pressione costante: si smorzano le oscillazioni di
pressione nei condotti di scarico, il flusso alla turbina è praticamente costante;
si determina una produzione entropica a seguito della riduzione dell’energia
cinetica acquisita durante lo scarico spontaneo che è dissipata nel volume di
scarico. In tal caso i gas di scarico vengono immessi in un volume di
dimensioni molto elevate per smorzare le pulsazioni dovute ai vari cilindri i cui
gas convergono in questo volume per fare in modo che la turbina lavori a
pressione costante. È evidente che avendo un condotto che arriva in un
volume più grande si determina una generazione entropica dovuta alla
374
riduzione di energia (i gas di scarico all’uscita dal motore non vengono
rallentati in maniera guidata).
 Sovralimentazione ad impulsi: si impiegano piccoli condotti consentendo al
flusso di mantenere il proprio livello di energia cinetica da sfruttare
successivamente nella turbina; in genere si possono raggruppare più scarichi
con una leggera sfasatura per evitare reciproci disturbi (la migliore
combinazione è quella di avere tre cilindri (o sei) che convergono su una
turbina). Sulla turbina in tal caso arriva un fluido che oltre ad un suo livello di
pressione ha anche un livello di energia cinetica che non è stata dissipata.
 Sovralimentazione turbo-compound: si impiegano uno o più turbo
sovralimentatori collegati meccanicamente con il motore termico per
recuperare una parte dell’energia dei gas di scarico non impiegata per la
sovralimentazione; è possibile un flusso di energia dal motore al
sovralimentatore per ottenere un opportuno livello di sovralimentazione.
Oggigiorno si sta lavorando anche su turbo-compund elettrici che sono
disaccoppiati meccanicamente dal motore.
Le configurazioni possibili sono le seguenti:

Figura 323

Nella sovralimentazione meccanica (caso 𝑎), il compressore dinamico è azionato dal


motore termico attraverso un moltiplicatore di giri. Nel caso 𝑏 invece si ha una
turbosovralimentazione classica con un sistema compressore-turbina che
tendenzialmente sono due macchine dinamiche. Nel caso 𝑐 invece si ha un
turbocompressore con uno stadio di bassa pressione azionato dal motore, mentre
uno stadio di alta pressione azionato da una turbina. Nel caso 𝑑 invece si ha una
configurazione bi-stadio che prevede l’utilizzo di due compressori e due turbine (di
375
alta e di bassa pressione): è possibile invece si ha una configurazione bi-stadio che
prevede l’utilizzo di due compressori e due turbine (di alta e di bassa pressione): è
possibile by-passare lo stadio di alta pressione nel caso sia necessario. Nel caso 𝑒
invece si ha una turbo-compressione con sistema turbo-compund: in tal caso oltre
ad una turbina e ad un compressore accoppiati in asse, c’è una seconda turbina,
collegata all’albero motore, che sfrutta un’eventuale energia residua dei gas di
scarico dopo il primo stadio di turbina (di alta pressione) trasferendo lavoro al motore
termico. Infine nel caso 𝑓 si adotta una strategia con intercooler tra compressore e
motore: in tal modo si riesce ad abbassare la temperatura dell’aria in ingresso al
motore, aumentando di conseguenza la densità e quindi le prestazioni (a seguito
della compressione la temperatura si alza e ciò comporta una riduzione della
densità).
Altre configurazioni tipiche più comuni dei sistemi di sovralimentazione sono di
seguito riportate:

Figura 324

Nel caso 𝑎 viene riportato un motore sovralimentato mediante un compressore


trasinato meccanicamente (già vista precedentemente). Nel caso 𝑏 viene riportata
una turbosovralimentazione con pressione costante a monte della turbina: i gas di
scarico vanno a finire in un ambiente relativamente ampio anche sei volte maggiore
della cilindrata del motore (ciò permette di smorzare tutte le pulsazioni dissipando
parte dell’energia cinetica). Nel caso 𝑐, viene riportata una sovralimentazione ad
impulsi di pressione in quanto ogni cilindro ha un suo condotto di scarico
relativamente piccolo in cui non c’è variazione di energia cinetica; in genere si fa in
modo da accoppiare i cilindri a due a due (in modo che vi sia una periodicità più o
meno stabilita ed avere un livello stabile delle oscillazioni). È facile intuire che in
376
condizioni dinamiche il caso 𝑏 ha un risposta dinamica più scarsa rispetto al caso 𝑐,
perché oltre alla dinamica di motore, turbina e compressore, c’è anche una dinamica
di riempimento dello scarico. Infine nel caso 𝑑 c’è un sistema turbo-compound con
collegamento meccanico tra l’albero del motore e quello del turbocompressore: i tal
modo vi può essere un trasferimento di energia dal motore alla turbina e dalla turbina
verso il motore (si può avere energia meccanica che dal motore va verso il
turbocompressore e quindi aziona il compressore o anche energia meccanica
generata dalla turbina che viene trasferita al motore). Nel caso del turbo-compound
ci può essere anche una condizione in cui la macchina elettrica agisce per vincere
l’inerzia della turbina: il problema della dinamica potrebbe essere risolto con una
macchina elettrica che dà una coppia maggiore per accelerare la turbina che
altrimenti dovrebbe prendersi energia dai gas di scarico per poterlo fare.
Di seguito viene riportato uno schema di un sovralimentatore standard:

Figura 325

In questo schema il compressore è una macchina radiale centrifuga. Lo scarico


invece arriva in un volume più o meno ampio e la turbina è una macchina radiale
centripeta. La valvola west-gate invece by-passa la turbina se le condizioni di
pressione all’aspirazione sono troppo elevate: tale valvola è collegata all’aspirazione.
Oggigiorno le valvole west-gate sono di tipo pneumatico, ma ce ne sono alcune
azionate elettricamente (si tenga presente che buona parte della potenza di una
vettura serve per accelerare la stessa in tempi brevi: a velocità costante la potenza
richiesta è molto più bassa).

377
Di seguito viene riportato il caso di sovralimentazione con turbocompressore per un
motore a sei cilindri:

Figura 326

Com’è possibile vedere dallo schema, sono accoppiati tre cilindri per volta per
garantire alla turbina la giusta sequenza degli impulsi di pressione nei due giri
dell’albero motore 720°).
Di seguito vengono rappresentate delle immagini reali dei sovralimentatori:

Figura 327

Nell’immagine in alto a sinistra è possibile vedere come i gas di scarico arrivino dal
basso e vengono divisi in due condotti (vengono da cilindri differenti): essi poi
raggiungono l’estremità del rotore per azionare la turbina. Nell’immagine in alto a
destra è possibile invece notare come la temperatura dei gas di scarico sia talmente
elevata che il collettore di scarico diventa incandescente (condizioni particolarmente
critiche).
A questo punto si vuole analizzare in maniera più quantitativa ed analitica il caso
della sovralimentazione a pressione costante. In questa analisi, si cercherà di andare
378
a valutare il lavoro scambiato nel caso di sovralimentazione a pressione costante. Di
seguito viene riportato il ciclo di bassa pressione, nel caso ideale, sul diagramma
pressione volume; si tenga presente che, nel caso ideale:
 Si inserisce un volume sufficientemente ampio da smorzare tutte le oscillazioni
di portata e pressione.
 La trasformazione 2 − 3 − 4 rappresenta l’espansione adiabatica nel
collettore.
 La trasformazione 2 − 1 − 8 rappresenta la riduzione di pressione nel cilindro.
 La pressione di ingresso in turbina 𝑝𝑠 (pressione allo scarico) è maggiore di 𝑝𝑎
(pressione ambiente) in quanto la turbina funge da strozzatura (è una perdita
di carico per il motore):
o Inizialmente i gas escono spontaneamente dal cilindro ed espandono
fino alla pressione 𝑝𝑠 lungo la 2 − 3, la pressione nel cilindro si riduce
lungo la 2 − 8.
o Dal punto 8 il pistone inizia a risalire trovando una contropressione pari
a 𝑝𝑠 lungo la 8 − 7.
 Durante la 2 − 3 i gas combusti espandono nei condotti dissipando la propria
energia cinetica (area 2 − 3 − 8) determinando un incremento nella
temperatura di ristagno da 𝑇3 a 𝑇3′ che determina un parziale recupero
dell’area 2 − 3 − 8 (essa rappresenta l’energia che possiedono i gas e che
potrebbe essere convertita in lavoro). Parte del lavoro viene recuperato
nell’area 3 − 3′ − 4′ − 4 (l’incremento di volume specifico, dovuto al calore
generato, consente di aumentare il lavoro, ma comunque non permette di
arrivare mai al lavoro idealmente ottenibile).
 L’energia sfruttata dalla turbina è costituita da due parti:
o L’area 8 − 3′ − 4′ − 5 che rappresenta un parziale recupero dell’energia
di scarico spontaneo (area 2 − 4 − 5: essa rappresenta il lavoro
potenzialmente recuperabile dai gas di scarico).
o L’area 5 − 6 − 7 − 8 che rappresenta l’energia prelevata dal motore
durante lo scarico forzato, i gas combusti sono compressi nel collettore
di scarico alla pressione 𝑝𝑠 .
 La pressione 𝑝𝑠 cresce riducendo l’area di efflusso della turbina. In sostanza
aumentando la pressione 𝑝𝑠 a valle del motore (e a monte della turbina) si
riduce la sezione di passaggio della turbina: quando un fluido viene spinto
attraverso un orifizio riducendo la sezione di passaggio si determina una
perdita di carico e dunque si ha un incremento di pressione a monte (pertanto
per avere una pressione 𝑝𝑠 più elevata si deve avere una sezione di passaggio
ridotta). In sostanza il livello di pressione 𝑝𝑠 può essere gestito il che permette
di gestire il lavoro generato dalla turbina: aumentando di fatto la pressione 𝑝𝑠
è possibile aumentare il lavoro erogato dalla turbina grazie ad un battente di
pressione maggiore (ovviamente la 𝑝𝑠 minima che si può ottenere è proprio la
𝑝𝑎 ).
379
Figura 328

Figura 329

In condizione di sovralimentazione la pressione di inizio compressione è superiore a


quella ambiente ed è pari a 𝑝𝑚 (pressione nel manifold di aspirazione), per cui la
curva di compressione partirebbe dal punto 1. Il punto 2 invece è quello che si trova
lungo la linea di espansione (per comodità grafica si è scelto di non rappresentare la
parte di alta pressione del ciclo). Se non si avesse sovralimentazione, aprendo la
valvola di scarico istantaneamente al punto morto inferiore (caso ideale), la pressione
all’interno del cilindro inizierebbe a diminuire fino alle condizioni di pressione
ambiente (punto 4).
Vale il seguente schema:

Figura 330

380
La pressione di sovralimentazione 𝑝𝑠 è intermedia tra la pressione ambiente (𝑝𝑎 ) e
quella nel manifold (𝑝𝑚 ).
Un osservatore solidale al cilindro vedrebbe il fluido uscire dallo stesso e vedrebbe
ridursi la pressione all’interno del cilindro; un osservatore che invece si muove con il
fluido vedrebbe che il fluido che va verso lo scarico espandendo fino alla pressione
𝑝𝑠 : ovviamente nel caso ideale il fluido non può che espandere secondo la
trasformazione adiabatica isoentropica sino al punto 3 (fino a raggiungere quindi la
pressione 𝑝𝑠 ). Durante l’espansione però il gas perderà dell’energia (si genera
entropia) giacché il fluido non è guidato in un condotto convergente-divergente:
l’energia cinetica persa verrà convertita in calore (dissipata) che rimane all’interno
del fluido innalzandone il volume specifico; in sostanza il fluido che esce dal cilindro
espande nel collettore di scarico fino al livello di pressione del punto 3 (pressione 𝑝𝑠 );
nel collettore una parte dell’energia che il fluido ha con sé viene dissipata e
incrementa il volume specifico cosicché il volume complessivo passa da quello del
punto 3 a quello del punto punto 3′ (una parte dell’energia dissipata viene
recuperata); successivamente il fluido espande nella turbina dal punto 3′ fino a
raggiungere la pressione ambiente 𝑝𝑎 al punto 4′. Potenzialmente il fluido che si trova
nelle condizioni del punto 2 potrebbe espandere sino al punto 5 (condizione di
pressione ambiente) generando un lavoro dato dall’integrale di 𝑣𝑑𝑝 rappresentato
dall’area 𝐴(5234) che è nient’altro che l’energia teorica disponibile; tale lavoro
potrebbe essere trasferito al compressore per innalzare la pressione dell’aria dalla
pressione ambiente fino alla pressione 𝑝𝑚 . In realtà il lavoro sulla turbina è ridotto ed
è legato all’espansione 3′4′: in sostanza l’energia legata all’area 𝐴(283) viene persa;
per cui il lavoro che si riesce ad ottenere (lavoro trasferito alla turbina) è quello
rappresentato dall’area 𝐴(83′ 4′ 5). Si tenga presente tuttavia che il pistone dal punto
morto inferiore inizia a risalire trovandosi di fronte una pressione che non è pari a
quella ambiente, ma si trova una contropressione corrispondente a 𝑝𝑠 : pertanto il
pistone, nella risalita, compie un certo lavoro che è rappresentato dall’area 𝐴(5876);
il lavoro che complessivamente si riesce a trasferire alla turbina è rappresentato
dall’area 𝐴(673′ 4′ ) che si compone dell’area 𝐴(853′ 4′ ) che è il lavoro di espansione
del gas e dell’area 𝐴(5876) che è il lavoro indiretto compiuto dal pistone per espellere
il gas durante la fase di risalita dal punto morto inferiore al punto morto superiore.
Sulla turbina il livello di espansione è dato dal seguente rapporto:
𝑝𝑠
𝛽𝑒 =
𝑝𝑎
Quindi al punto morto inferiore il gas esce alla pressione 𝑝2 espandendo fino alla
pressione 𝑝𝑠 ; a partire da questo livello di pressione si ha poi una successiva
espansione in turbina fino alla pressione 𝑝𝑎 (a pistone fermo). Tuttavia il pistone è in
movimento cosicché inizia a risalire (si è avuta una riduzione di pressione da 𝑝2 a 𝑝8
all’interno del cilindro), trovandosi una contropressione e trasferendo una certa
quantità di energia, generando un altro lavoro.

381
Alla fine nel caso ideale il lavoro che il pistone compie nello spingere il fluido
attraverso la turbina viene recuperato dalla turbina stessa, ma viene perso dal motore
(quel lavoro viene però trasferito al compressore aumentando la quantità di aria in
ingresso: è chiaro che nella realtà ci saranno delle dissipazioni in tutto il percorso).
Nel caso reale invece:
 Il volume del collettore può anche arrivare ad essere sei volte la cilindrata.
 Durante lo scarico la pressione nel cilindro 𝑝𝑐𝑙 si riduce fino alla 𝑝𝑠 (costante
nel collettore) di ingresso in turbina, per un tratto 𝑝𝑐𝑙 /𝑝𝑠 maggiore del valore
critico con efflusso sonico alla velocità del suono 𝑎1 (si sfrutta male l’energia
di scarico spontaneo; 𝑎1 è la velocità del suono).
 Si determina la formazione di onde d’urto con produzione di entropia fino alla
pressione 𝑝𝑠 (dissipazione attraverso moti turbolenti nel collettore) l’energia
cinetica dissipata è 𝑎12 /2. L’energia disponibile risulta degradata rispetto alla
possibilità di conversione in lavoro meccanico. Un parziale recupero è legato
all’aumento della temperatura (e del volume specifico) rispetto ad una ipotetica
espansione isoentropica fino alla pressione 𝑝𝑠 .
 Il salto entalpico disponibile è (𝐿𝑖𝑠 )𝑐 > (𝐿𝑖𝑠 )𝑡 (dove: 𝑐 = 𝑐𝑖𝑙𝑖𝑛𝑑𝑟𝑜, 𝑡 = 𝑡𝑢𝑟𝑏𝑖𝑛𝑎).
Si nota che ℎ01 = ℎ03 , l’efficienza del trasferimento di energia è 𝜂 =
(𝐿𝑖𝑠 )𝑡 /(𝐿𝑖𝑠 )𝑐 cresce all’aumentare di 𝑝𝑠 (aumenta il battente di pressione)
riducendosi la fase di scarico spontaneo (si potrebbero avere degli effetti
indesiderati di intrappolamento).
 Per bassi livelli di sovralimentazione (𝑝𝑠 /𝑝𝑎 = 1.5 e 𝑝2 /𝑝𝑎 = 6) per i motori
marini 𝜂 = 40 %; per 𝑝𝑠 /𝑝𝑎 = 3 l’efficienza raggiunge valori pari all’80 %
(spostando 𝑝𝑠 verso l’alto aumenta l’efficienza).
Di seguito viene riportato il ciclo di pressione in funzione dell’anglo di manovella:

Figura 331

382
Ovviamente anche in questo caso si ha una pressione 𝑝𝑎 che è quella dell’ambiente
esterno ed una pressione 𝑝𝑠 che è quella a monte della turbina, oltre alla pressione
nel cilindro 𝑝𝑐𝑙 . Il fluido espande all’interno del cilindro fino all’apertura della valvola
di scarico (AAS: anticipo apertura valvola di scarico) dopodiché il fluido continua a
ridurre la propria pressione, sempre all’interno del cilindro fino alla pressione 𝑝𝑠 . Il
battente di pressione sul collettore è evidentemente variabile e tende a ridursi,
mentre il battente di pressione sulla turbina è costante ed è pari a 𝑝𝑠 /𝑝𝑎 . Lungo la
linea di espansione il rapporto di pressione può essere anche superiore al rapporto
di pressione critico e dunque si potrebbe avere il bloccaggio della portata o anche
che la velocità di efflusso non supera quella del suono. Di seguito viene riportato ciò
che accade sul piano entalpia-entropia:

Figura 332

Nel momento in cui si apre la valvola di scarico la pressione (𝑝01 ) è superiore a quella
critica (𝑝1 ): il gas espande fino alla pressione critica e la velocità è pari a quella del
suono. Dopodiché si recupera un certo livello di entalpia con una trasformazione ad
entropia crescente passando dal livello di pressione critica al livello di pressione
𝑝03 = 𝑝𝑠 ; successivamente a valle della turbina si raggiunge la pressione 𝑝𝑎 . Dunque
il lavoro isoentropico sulla turbina è pari proprio alla distanza verticale tra le due
isobare 𝑝𝑠 e 𝑝𝑎 , mentre quello reale è minore in quanto la trasformazione da 𝑝𝑠 a 𝑝𝑎
è ad entropia crescente. Ovviamente potenzialmente sarebbe possibile sfruttare tutto
il battente di pressione che va da dall’isobara 𝑝01 all’isobara 𝑝𝑎 lungo la verticale:
esso rappresenta il lavoro isoentropico potenziale che sarebbe possibile recuperare
dai gas che escono dal cilindro; di tutto questa energia alla fine quella che si riesce
a recuperare isoentropicamente è quella indicata in figura (𝐿𝑖𝑠 )𝑡 .

383
Figura 333

Di seguito viene riportata l’andamento dell’efficienza nella trasmissione dell’energia


tra il motore e la turbina che cresce con la contropressione allo scarico 𝑝𝑠 . A parità
di pressione allo scarico 𝑝2 , infatti, diminuisce la durata della fase di scarico
spontaneo sotto forti salti di pressione, cui competono le maggiori dissipazioni di
energia; le curve sono rappresentate in funzione del rapporto 𝑝𝑠 /𝑝𝑎 e sono
parametrizzate in funzione del rapporto 𝑝2 /𝑝𝑎 .

Figura 334

All’aumentare del rapporto 𝑝2 /𝑝𝑎 l’efficienza tende ad aumentare a parità di rapporto


𝑝𝑠 /𝑝𝑎 ; inoltre l’efficienza aumenta all’aumentare del rapporto 𝑝𝑠 /𝑝𝑎 a parità del
rapporto 𝑝2 /𝑝𝑎 .
384
Tendenzialmente nei motori automobilistici non si adotta una sovralimentazione a
pressione costante perché c’è un problema di ritardo; nei motori marini invece, si
adotta una pressione di sovralimentazione costante.
Di seguito viene riportata una schematizzazione del sistema di scarico di un motore
turbo-sovralimentato con turbina a pressione costante. I quattro cilindri sono collegati
con brevi condotti ad un unico collettore di ampio volume. L’onda di pressione dovuta
allo scarico spontaneo del cilindro 𝐶1 viene quindi smorzata in modo da non
ostacolare lo svuotamento del cilindro 𝐶3 che nello stesso momento sta terminando
la fase di espulsione dei gas combusti.

Figura 335

In sintesi i vantaggi della sovralimentazione a pressione costante sono:


 Semplicità costruttiva: utilizzando un serbatoio di dimensioni relativamente
grandi (fino a cinque-sei volte la cilindrata) è possibile mettere i condotti di
scarico che vanno nella turbina senza problemi di lunghezze e di
accoppiamenti.
 Lay-out più appropriato per il posizionamento del sovralimentatore.
 Pressione di sovralimentazione regolare: ciò consente alla turbina di lavorare
sempre nelle condizioni ottimali (nel momento in cui il sistema funziona in
condizioni stazionarie).
 Miglior rendimento globale: comportamento più stabile del sistema.
 Turbina con un unico ingresso.
Gli svantaggi invece sono:
 L’energia dei gas di scarico è sfruttata in modo inefficiente: l’energia dei gas
viene dissipata quando l’energia cinetica viene convertita in energia di
pressione in maniera non isoentropica.
 Scarsa risposta dinamica: quando si passa da una condizione operativa la
richiesta di carico non viene fornita immediatamente dal motore perché i grandi
volumi hanno bisogno di adeguarsi alle variate condizioni.

385
Lezione 28 (Sorrentino) 2/05/2017
Note introduttive a Matlab
Per poter coprire tutto il dominio di funzionamento di una pompa o di un qualsiasi
altro sistema, bisognerebbe poter fare infiniti esperimenti il che richiederebbe un
tempo infinito. Per questo motivo quando si acquisiscono dei dati sperimentali
bisogna farlo seguendo un certo criterio: a partire da tali dati è poi possibile
sviluppare un modello di tipo black-box alle regressioni lineari multiple per poter
ricavare l’andamento di determinate grandezze; per fare questo si ha bisogna di un
certo numero di dati sperimentali che devono essere raccolti in maniera adeguata;
inoltre, sebbene il modello sia di tipo black-box l’aggiunta di qualche conoscenza
fisica, può servire in parte alla costruzione del modello stesso (in quanto si ha un’idea
di quali siano le dipendenze tra le diverse grandezze: il rendimento di un motore a
combustione interna dipende ad esempio dal quadrato del regime di giri, così come
in una pompa centrifuga si ha dipendenza quadratica della prevalenza dal regime di
giri stesso). Ovviamente i dati sperimentali devono essere acquisiti in maniera tale
da garantire, in fase di costruzione del modello, contemporaneamente precisione e
generalizzabilità.
Passando alle regressioni lineari multiple si ha la possibilità di sviluppare un modello
non lineare in cui si lega una certa variabile dipendente a più variabili indipendenti
(diversamente da quanto accadeva nel caso polinomiale in cui si legava una variabile
dipendente ad una singola variabile indipendente).
Anzitutto a partire dalle curve di coppia di un motore si vuole individuare l’andamento
della stessa in funzione del regime di giri e dell’apertura della valvola a farfalla,
secondo una regressione lineare del tipo (es_linreg):
𝑥1 + 𝑥2 ∗ (𝑟𝑝𝑚) + 𝑥3 ∗ (𝑟𝑝𝑚)2 + 𝑥4 ∗ (𝑡ℎ𝑟𝑜𝑡𝑡𝑙𝑒) = 𝑡𝑜𝑟𝑞𝑢𝑒
Ovviamente la coppia disponibile sull’albero motore non può che dipendere da questi
due parametri; in particolare l’apertura della valvola a farfalla è legata a quanto si
spinge sul pedale dell’acceleratore (nei motori Diesel ciò che conta è invece il tempo
di iniezione: ciò vale anche nel caso in cui si ha un motore benzina ad iniezione
diretta in camera), mentre il regime di giri è legato alla marcia inserita.
Quando si vuole sviluppare una regressione lineare multipla conviene ragionare su
dati rappresentati in forma matriciale:

Figura 336
386
Da un lato si hanno le variabili di input (ossia le variabili indipendenti: regime di giri e
apertura della valvola a farfalla), dall’altro lato c’è la variabile di output (ossia la
variabile dipendente: coppia). Ad ogni coppia di valori di input si associa un valore
dell’output. Ovviamente in questo tipo di regressione è stato inserito anche un
termine quadratico per cui è necessario anche andare a calcolare il valore di 𝑟𝑝𝑚2 ;
ciascuna colonna della matrice sarà dunque associata a ciascuna dipendenza che si
vuole considerare. Per identificare l’intercetta è necessario creare una colonna di tutti
𝑥1 (il coefficiente davanti ad 𝑥1 è di fatto unitario). Il vettore 𝑡𝑜𝑟𝑞𝑢𝑒 invece rappresenta
il vettore dei termini noti. In tal modo si rappresenta un sistema del tipo 𝐴𝑥 = 𝑏 che è
un sistema di equazioni lineari (il modello è però non lineare): le equazioni sono
lineari rispetto ai coefficienti (una cosa è il sistema di equazioni, che è nient’altro che
lo strumento utilizzato, un’altra cosa è il modello che è di fatto non lineare: di fatto
oltre ai termini lineari si considerano anche termini non lineari quali ad esempio 𝑟𝑝𝑚2 ;
è chiaro che nulla vietava di utilizzare altre dipendenze).
In effetti dietro la funzione regress di fatto c’è un algoritmo che risolve sistemi di
equazioni: tale sistema di equazioni non deve essere risolvibile, ma deve essere
impossibile da risolvere; di fatto si hanno più che equazioni che incognite e dunque
il sistema non si può risolvere perché ci sono troppi vincoli. D’altro canto quando si
vuole creare un modello approssimante non si vogliono soddisfare tutte le equazioni,
anzi addirittura è possibile non soddisfare nessuna equazione (soddisfare tutte le
equazioni porterebbe più verso un modello interpolante). In effetti dati una serie di
punti sperimentali le curve approssimanti che si vogliono trovare potrebbero anche
non passare per nessun punto:

Figura 337

I punti sperimentali hanno un andamento altalenante perché ci possono essere degli


errori di misura o anche degli effetti secondari dovuti ad altre variabili. Le curve
tracciate potrebbero appunto non passare per nessun punto sperimentale e quindi
nessuna equazione verrebbe soddisfatta. Attraverso regress si riesce ad ottenere
una soluzione (sebbene essa non esista da un punto di vista matematico) a minore
387
errore: il metodo alla base è quello di ottimizzazione ai minimi quadrati
(minimizzazione della somma degli errori al quadrato: si utilizza il quadrato per
evitare che vi siano delle elisioni tra termini positivi e negativi dovuti a sovrastime e
sottostime).
Quando si implementano le diverse dipendenze è bene cercare di rendere
confrontabili i valori delle variabili dipendenti: ad esempio il regime di giri essendo
espresso in migliaia è bene dividerlo per mille in modo che i coefficienti che si vanno
ad identificare siano più facilmente comparabili: in tal modo essi hanno più o meno
lo stesso ordine di grandezza (vengono uniformate); ciò in effetti ha un impatto anche
numerico sulla funzione regress anche se nella maggior parte dei casi cambia ben
poco. È inoltre molto importante andare a testare diversi legami funzionali per capire
quale di essi dà un andamento migliore. Magari è possibile effettuare un’analisi
stepwise di tipo backward andando a rimuovere man mano delle dipendenze, o
anche forward aggiungendo cioè delle dipendenze.
Ovviamente il sistema di equazioni può anche essere risolto con il semplice comando
backslash che è in grado di fornire una soluzione.
Si tenga presente che se il modello ammettesse una soluzione il valore di coppia
stimata in questo caso sarebbe perfettamente uguale al valore di coppia
sperimentale (fissato che sia il regime di giri e l’apertura della valvola a farfalla);
siccome però il sistema è impossibile da risolvere allora dal modello si ottiene la
coppia sperimentale a meno di un errore (si ottiene quindi una stima). Il fine dunque
non è quello di trovare una soluzione al problema. Ovviamente alla fine bisogna
capire, in base ai risultati, se il modello è stato realizzato in maniera adeguata ossia
se è generalizzabile, se è preciso, ….
Il comando backslash dà un numero limitato di informazioni, ossia solo i coefficienti
dei diversi parametri, per cui è meglio utilizzare la funzione regress che fornisce un
numero di informazioni maggiori. Pertanto la funzione backslash viene utilizzata in
genere quando la forma funzionale è già nota, mentre nel caso in cui bisogna
individuarla è bene utilizzare la funzione regress. La struttura della funzione regress
è la seguente:
[𝑏, 𝑏𝑖𝑛𝑡, 𝑟, 𝑟𝑖𝑛𝑡] = 𝑟𝑒𝑔𝑟𝑒𝑠𝑠 (𝑡𝑜𝑟𝑞𝑢𝑒, 𝐴, 0.05)
Dove:
𝑏 = 𝑣𝑎𝑙𝑜𝑟𝑒 𝑑𝑒𝑖 𝑝𝑎𝑟𝑎𝑚𝑒𝑡𝑟𝑖 (𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑖𝑑𝑒𝑛𝑡𝑖𝑐𝑖 𝑎 𝑞𝑢𝑒𝑙𝑙𝑖 𝑜𝑡𝑡𝑒𝑛𝑢𝑡𝑖 𝑐𝑜𝑛 𝑏𝑎𝑐𝑘𝑠𝑙𝑎𝑠ℎ) (𝑜𝑢𝑡𝑝𝑢𝑡 )
𝑏𝑖𝑛𝑡 = 𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟𝑣𝑎𝑙𝑙𝑜 𝑑𝑖 𝑐𝑜𝑛𝑓𝑖𝑑𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑑𝑒𝑖 𝑝𝑎𝑟𝑎𝑚𝑒𝑡𝑟𝑖 (𝑜𝑢𝑡𝑝𝑢𝑡 )
𝑟 = 𝑠𝑡𝑖𝑚𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙′ 𝑒𝑟𝑟𝑜𝑟𝑒 𝑐𝑜𝑛 𝑖𝑙 𝑝𝑟𝑜𝑝𝑟𝑖𝑜 𝑠𝑒𝑔𝑛𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑜𝑔𝑛𝑖 𝑝𝑢𝑛𝑡𝑜 𝑠𝑝𝑒𝑟𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑎𝑙𝑒 (𝑜𝑢𝑡𝑝𝑢𝑡 )
𝑟𝑖𝑛𝑡 = 𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟𝑣𝑎𝑙𝑙𝑜 𝑑𝑖 𝑐𝑜𝑛𝑓𝑖𝑑𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙′ 𝑒𝑟𝑟𝑜𝑟𝑒 (𝑜𝑢𝑡𝑝𝑢𝑡 )
𝑡𝑜𝑟𝑞𝑢𝑒 = 𝑣𝑎𝑟𝑖𝑎𝑏𝑖𝑙𝑒 𝑑𝑖𝑝𝑒𝑛𝑑𝑒𝑛𝑡𝑒 (𝑖𝑛𝑝𝑢𝑡 )

388
𝐴 = 𝑙𝑒𝑔𝑎𝑚𝑖 𝑓𝑢𝑛𝑧𝑖𝑜𝑛𝑎𝑙𝑖 (𝑖𝑛𝑝𝑢𝑡 )
0.05 = 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑙𝑒𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑎 𝑢𝑛𝑜 𝑑𝑒𝑙 𝑙𝑖𝑣𝑒𝑙𝑙𝑜 𝑑𝑖 𝑐𝑜𝑛𝑓𝑖𝑑𝑒𝑛𝑧𝑎 (𝑖𝑛𝑝𝑢𝑡 )
Attraverso rint si riesce a valutare quanto è affidabile il modello. Volendo ottenere un
livello di confidenza elevato pari al 95 % (certezza elevata) le tolleranze si
mantengono piuttosto larghe; in sostanza il livello di confidenza esprime l’intervallo,
centrato sulla stima, che può contenere la misura nel momento in cui si utilizza il
modello in modalità predittiva (ossia in fase di simulazione); ciò significa che se il
modello stima un certo valore, il livello di confidenza fornisce una stima di quale
tolleranza va definita per avere la certezza che al 95 %, la misura ricada in
quell’intervallo. Se il livello di confidenza è ridotto e si richiede una certezza del 50 %
ovviamente l’intervallo si restringe in quanto si concede una maggiore probabilità di
errore.
È bene precisare che in generale un parametro 𝑏 per essere significativo non deve
essere nullo (nel caso in esame la prima dipendenza, ossia l’intercetta, è poco
significativa giacché il coefficiente è praticamente nullo). È chiaro che magari
rimuovendolo potrebbe comparire un altro parametro che potrebbe essere rimosso:
quindi va fatta sempre un’analisi di tipo trial and error (magari rimuovendolo si ottiene
un risultato peggiore). Pertanto una volta rimossa l’intercetta in questo caso, è bene
poi testare che effettivamente quel parametro pesava poco. In secondo luogo i
parametri che hanno un intervallo di confidenza 𝑏𝑖𝑛𝑡 che contiene lo zero potrebbero
essere poco significativi. Nel caso in esame per esempio l’ultimo parametro (legato
a 𝑡ℎ𝑟𝑜𝑡𝑡𝑙𝑒 2 ) è molto piccolo ed il suo intervallo di confidenza contiene lo zero (esso
potrebbe essere di fatto nullo). Quindi 𝑏𝑖𝑛𝑡 fa capire come bisogna procedere
nell’analisi stepwise: in base ad esso è possibile decidere quali termini mantenere e
quali eliminare.
È evidente peraltro che, sommando al dato sperimentale l’errore 𝑟, si ottiene proprio
la stima giacché esso viene dato proprio dalla differenza tra il dato sperimentale e
l’output del modello:
𝑟 = 𝑦 − 𝑦̂ ⟹ 𝑦̂ = 𝑦 − 𝑟
Dove:
𝑦 = 𝑣𝑎𝑙𝑜𝑟𝑒 𝑠𝑝𝑒𝑟𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑎𝑙𝑒
𝑦̂ = 𝑜𝑢𝑡𝑝𝑢𝑡 𝑑𝑒𝑙 𝑚𝑜𝑑𝑒𝑙𝑙𝑜
Per quanto riguarda il termine 𝑟𝑖𝑛𝑡 esso fa capire se ci sono dei termini cosiddetti
outliers. In particolare moltiplicando la prima e la seconda colonna della matrice 𝑟𝑖𝑛𝑡
si ottiene un vettore che contiene il prodotto di queste due colonne; nel caso in cui
un elemento di tale prodotto è positivo vuol dire che è stato individuato un outlier
ossia un punto che giace fuori dall’intervallo di confidenza (che rappresenta
l’affidabilità della stima). Tale outlier è in sostanza un punto anomalo perché non
finisce nell’intervallo di confidenza fissato. Ciò è evidente in quanto per avere un
389
intervallo centrato sulla stima la matrice 𝑟𝑖𝑛𝑡 deve avere una colonna formata da
termini negativi e una colonna formata da termini positivi (altrimenti non si avrebbe
un estremo superiore ed un estremo inferiore): nel momento in cui ciò non si verifica,
ed entrambe le colonne sono positive (o sono entrambe negative) si ottiene un outlier
(nel caso in cui le due colonne siano positive si ottiene in sostanza una sottostima
del valore sperimentale).
Gli intervalli di confidenza saranno dunque calcolati nella maniera seguente:
𝑐𝑜𝑛𝑓_𝑠𝑢𝑝 = 𝑡𝑜𝑟𝑞𝑢𝑒 − 𝑟𝑖𝑛𝑡 (: ,1)
𝑐𝑜𝑛𝑓_𝑖𝑛𝑓 = 𝑡𝑜𝑟𝑞𝑢𝑒 − 𝑟𝑖𝑛𝑡(: ,2)
In effetti il ragionamento è lo stesso di quello fatto nel caso di 𝑟 e cioè:
𝑦̂
𝑠𝑢𝑝 = 𝑦 − 𝑟𝑠𝑢𝑝

𝑦̂
𝑖𝑛𝑓 = 𝑦 − 𝑟𝑖𝑛𝑓

Dove:
𝑟𝑠𝑢𝑝 ⟹ 𝑠𝑒𝑚𝑝𝑟𝑒 𝑝𝑜𝑠𝑖𝑡𝑖𝑣𝑜

𝑟𝑖𝑛𝑓 ⟹ 𝑠𝑒𝑚𝑝𝑟𝑒 𝑛𝑒𝑔𝑎𝑡𝑖𝑣𝑜


In sostanza per l’estremo superiore ci si deve portare al di sopra del dato
sperimentale, mentre per l’estremo inferiore ci si deve portare al di sotto.

Figura 338

Quindi in pratica l’intervallo di confidenza fissa un range entro il quale con una certa
probabilità assegnata può ricadere un punto. Ovviamente richiedendo una
confidenza minore (per esempio al 50 %) l’intervallo si restringe poiché si richiede
che il punto ricada nell’intervallo stesso con una probabilità più bassa; ciò comporta
anche il fatto che, molto probabilmente, il numero di outliers aumenta e quindi ci
saranno più punti che cadranno al di fuori di questa zona. Si tenga presente peraltro

390
che è impossibile avere la certezza matematica (ossia probabilità pari al 100 %) in
situazioni di questo tipo.
È chiaro che anziché utilizzare la funzione regress è anche possibile utilizzare la
funzione polyfit trascurando però una dipendenza in quanto quest’ultima permette di
legare alla variabile dipendente una sola variabile indipendente. Confrontando i
risultati del modello con polyfit con quelli del modello con regress si perviene alla
conclusione ovvia che quest’ultimo è più preciso.
Per capire se un modello è contemporaneamente preciso e generalizzabile molto
spesso conviene eseguire un plot dove sulle ascisse si riportano i dati sperimentali e
sulle ordinate gli output del modello: nel caso ideale i punti si allineerebbero sulla
bisettrice del primo e del terzo quadrante (retta a 45°).
Per avere una valutazione più quantitativa nella comparazione di due modelli è
possibile utilizzare l’indice di incertezza 𝑅 2 ; in effetti l’indice di incertezza (legato al
coefficiente di correlazione) sintetizza l’informazione derivante da un grafico in un
coefficiente: il modello è tanto migliore quanto più l’indice 𝑅2 è vicino all’unità.
Si definisca il seguente vettore (di variabili indipendenti), fatto di 1000 elementi
equispaziati nell’intervallo [−10,10]:
𝑥 = 𝑙𝑖𝑛𝑠𝑝𝑎𝑐𝑒 (−10,10,1000)
Inoltre si definiscano le seguenti due variabili dipendenti:
𝑦1 = 3𝑥
𝑦2 = 𝑥^2
In particolare il coefficiente di correlazione applicato a 𝑥 rispetto a sé stessa, fornisce
una matrice quadrata 2𝑥2 di tutti uno:
1 1
𝑐𝑜𝑟𝑟𝑐𝑜𝑒𝑓 (𝑥, 𝑥) = ( )
1 1
È evidente di fatto che c’è una correlazione lineare tra una variabile e sé stessa.
Applicando lo stesso ragionamento sulle variabili 𝑥 e 𝑦1 si ottiene anche in tal caso
una matrice di tutti uno:
1 1
𝑐𝑜𝑟𝑟𝑐𝑜𝑒𝑓 (𝑥, 𝑦1) = ( )
1 1
Di fatto, anche se 𝑦1 non è perfettamente uguale ad 𝑥, il legame tra le due variabili
è puramente lineare.
Si tenga presente che sulla diagonale principale della matrice ci sono i valori del
coefficiente di correlazione della variabile rispetto a sé stessa, mentre sulla diagonale
secondaria ci sono i termini misti. Pertanto sulla diagonale principale della matrice
del coefficiente di correlazione vi saranno sempre valori unitari, mentre su quella

391
secondaria vi saranno valori diversi da uno solo nel caso in cui non c’è correlazione
lineare tra le due variabili date in input al corrcoef.
Infatti valutando il coefficiente di correlazione tra le variabili 𝑥 e 𝑦2, essendo il legame
tra le due puramente non lineare, si ottiene:
1 0
𝑐𝑜𝑟𝑟𝑐𝑜𝑒𝑓 (𝑥, 𝑦2) = ( )
0 1
Applicando tale ragionamento a due variabili, di cui una rappresenta il dato
sperimentale e l’altra un dato stimato migliore è il modello approssimante e più il
termine misto tenderà al valore unitario (buona approssimazione). In tal modo è
possibile effettuare un confronto quantitativo tra due modelli e capire quali di essi è
il più accurato.
Si tenga presente che in genere si va a valutare il quadrato del termine misto per
cercare di amplificare la differenza tra due modelli.
Quindi per valutare la generalizzabilità di un modello o ci si basa sulla statistica, ossia
si fa riferimento agli intervalli di confidenza, oppure se si hanno a disposizione molti
dati sperimentali, una parte di essi vengono utilizzati per l’identificazione e la restante
parte per la valutazione della generalizzabilità.
Se l’intervallo di confidenza è abbastanza stretto (con un livello di confidenza intorno
al 95 %) allora il modello può essere ritenuto affidabile.
In molti casi, sebbene l’intervallo di confidenza dei parametri contenga lo zero, è
anche possibile scegliere di non eliminare quella dipendenza (soprattutto quando
l’intervallo è molto decentrato rispetto al valore nullo): la scelta è frutto di un
compromesso tra parsimonia e precisione.
Le prevalenze reale ed Euleriana di una pompa possono essere espresse in funzione
della portata volumetrica 𝑄 e del regime di rotazione 𝑛 attraverso le seguenti
relazioni:
𝐻𝑟 = 𝑘1 𝑛2 + 2𝑘2 𝑛𝑄 − 𝑘3 𝑄2
𝐻𝑒𝑢𝑙 = 𝑘5 𝑛2 − 𝑘6 𝑄𝑛
Mentre la prevalenza esterna può essere espressa come:
𝐻𝑒𝑠𝑡 = 𝐻𝑢 + 𝑘4 𝑄2
A partire dai dati rilevati nelle quattro misure indicate, rappresentare graficamente gli
andamenti delle prevalenze Euleriana, reale ed esterna ed il rendimento al variare
della portata volumetrica per vari regimi di rotazione (es_curvecaratt). Si assuma:
𝑘4 = 𝑘6 = 1
𝑘5 = 14
𝐻𝑢 = 20 𝑚
392
 𝑄 = 1 𝑚3 /ℎ, 𝑛 = 1000 𝑟𝑝𝑚, 𝐻𝑟 = 11 𝑚
 𝑄 = 2 𝑚3 /ℎ, 𝑛 = 2000 𝑟𝑝𝑚, 𝐻𝑟 = 44 𝑚
 𝑄 = 4 𝑚3 /ℎ, 𝑛 = 3000 𝑟𝑝𝑚, 𝐻𝑟 = 98 𝑚
 𝑄 = 10 𝑚3 /ℎ, 𝑛 = 3500 𝑟𝑝𝑚, 𝐻𝑟 = 92.5 𝑚
In sostanza bisogna dunque individuare i parametri 𝑘1 , 𝑘2 , 𝑘3 giacché i restanti sono
già noti.
Se si vuole rendere visibile una variabile a più ambienti (più workspace) basta
utilizzare la funzione global seguita dal nome della variabile che si vuole trasferire
alle altre sotto-funzioni eventualmente utilizzate. Ovviamente nelle altre sotto-
funzioni in cui si vogliono far leggere tali variabili, bisogna creare un aggancio
seguendo sempre la stessa sintassi (ossia global seguita dal nome della variabile).
In tal caso le dipendenze sono già assegnate per cui è inutile utilizzare la funzione
regress, ma basta utilizzare il comando backslash.
Sebbene la portata sia una variabile indipendente, da un punto di vista fisico non è
possibile individuare un unico vettore di portata, giacché il valore massimo della
portata stessa dipende dal regime di giri e si ottiene proprio quando la prevalenza si
annulla.
In Matlab con il comando repmat (replicate matrix) è possibile replicare delle matrici
(o dei vettori). In particolare fornito un vettore del tipo:
𝑎 = [1000: 100: 2000]′
È possibile utilizzare il comando repmat nella maniera seguente:
𝑏 = 𝑟𝑒𝑝𝑚𝑎𝑡 (𝑎, 1,10)
In tal modo il vettore 𝑎 viene replicato una sola volta per quanto riguarda le righe (e
dunque rimangono le stesse) e dieci volte per quanto riguarda le colonne (in sostanza
viene affiancato per dieci volte lo stesso vettore).
È possibile effettuare dei grafici tridimensionali con i comandi plot3, mesh, surf.
Inoltre è possibile creare delle curve di livello col comando contourf.
Si tenga presente che quando si ha il funzionamento tra due pompe uguali in
parallelo non è necessario intervenire sul modello modificandolo, giacché ad un certo
valore della portata si assocerà la stessa prevalenza già calcolata nel caso di pompa
singola. In particolare il dato valore di prevalenza non corrisponderà più al vettore
della portata volumetrica precedentemente individuato bensì al doppio (a parità di
prevalenza è possibile elaborare una portata doppia). Per quanto riguarda il
funzionamento di due pompe in serie è invece necessario intervenire sul modello in
quanto i coefficienti non sono più gli stessi, ma sono pari al doppio di quelli calcolati
precedentemente (a parità di portata raddoppia la prevalenza).
393
Lezione 29 (Pianese) 3/05/2017
Motori alternativi a combustione interna: sistemi di sovralimentazione
Per poter aumentare il coefficiente di riempimento è necessario aumentare la densità
dell’aria aspirata utilizzando un compressore; il compressore può essere azionato
dal motore attraverso un collegamento meccanico o anche attraverso una turbina
mossa dai gas di scarico (l’energia termica dei gas di scarico viene utilizzata per
azionare la turbina che genera lavoro meccanico); il lavoro meccanico può quindi
essere preso anche dall’asse del motore. L’azionamento del compressore mediante
gas di scarico è certamente più vantaggioso dal punto di vista energetico. Ci possono
essere delle condizioni in cui, nel turbo-compound, ci sia anche un motore elettrico
collegato coassialmente alla turbina e al compressore.
Si tenga presente che per aumentare l’entalpia dei gas di scarico del motore è
possibile ritardare l’iniezione e quindi far avvenire una combustione molto graduale;
l’obiettivo è far in modo da bilanciare l’aumento di pressione durante la fase di salita
del pistone (la fase di compressione senza combustione assorbe meno lavoro):

Figura 339

È evidente che il lavoro di compressione deve essere molto minore rispetto al lavoro
positivo di espansione. Il bilanciamento del punto di iniezione nel motore Diesel viene
fatto proprio in modo da trovare la condizione di massima coppia; per un motore ad
accensione comandata invece si gioca sull’angolo di anticipo in modo da avere la
coppia ottimale:

Figura 340

394
Si fa partire dunque la combustione in un certo punto, in modo da avere la massima
coppia e cioè la massima resa e dunque il minimo consumo.
Volendo aumentare l’entalpia dei gas di scarico è possibile realizzare una
combustione posticipata; ritardando l’accensione ovviamente la combustione
avviene nella fase di discesa del pistone peggiorando la conversione energetica
(scarso rendimento): tale operazione tuttavia incrementa l’entalpia dei gas di scarico.
È evidente che ciò è una follia in quanto il combustibile bruciato in parte viene
convertito in lavoro, mentre la restante parte (che non viene persa per scambio
termico) viene inviata ai gas di scarico per effettuare l’espansione in turbina: in
sostanza è come se si realizzasse una sorta di turbina a gas in cui invece di esserci
la camera di combustione c’è un motore e ciò è chiaramente inefficiente. Tuttavia
tale tecnica oggi viene utilizzata nei motori Diesel per effettuare la rigenerazione del
filtro anti-particolato: in sostanza si effettua una post-combustione in modo che tale
filtro, che si trova nella linea di scarico del motore, e che intercetta le particelle di soot
(particolato carbonioso) che si genera a seguito della combustione della nafta, venga
rigenerato; per evitare dunque di smontare il filtro e pulirlo meccanicamente il
carbonio accumulatosi viene ossidato attraverso un innalzamento di temperatura (ciò
avviene proprio grazie alla post-combustione e cioè ritardando l’iniezione). Ciò
comporta evidentemente un consumo perché l’energia chimica del combustibile
bruciato non viene convertita in lavoro, ma viene utilizzata per scopi differenti.
Di seguito si riporta lo schema di una turbina a gas:

Figura 341

In sostanza al posto della camera di combustione, per quanto detto, c’è il motore
alternativo a combustione interna; ovviamente in questo modo vengono accoppiate
due macchine dinamiche con una macchina volumetrica (ossia il motore); in questo
modo si potrebbe bruciare il combustibile nel motore a combustione interna e
convertire poi l’energia termica in lavoro nella turbina (e non nel motore). Pertanto è
possibile dire sostanzialmente che i due impianti sono simili:

395
Figura 342

Nella sovralimentazione ad impulsi di pressione la pressione stessa non viene


smorzata all’interno di un grande volume, ma si cerca di fare in modo che vi sia un
impulso di pressione e che l’energia cinetica venga sfruttata allo scarico; dato che lo
scarico è discontinuo ogni cilindro contribuirà alla turbina con una massa di aria e
combustibile che arriverà ogni 720°; se poi i cilindri sono opportunamente sfalsati tra
di loro l’impulso di pressione magari si avrà ogni mezzo giro (ogni 240°: sfasamento
tra i tre picchi di pressione nel motore a tre cilindri).
Nel caso ideale per la sovralimentazione ad impulsi si ha:
 Si immagina di avere la turbina immediatamente a valle della valvola di scarico.
 Si recupera tutta l’energia di scarico spontanea (Area 2 − 3 − 4 − 5: ∫ 𝑣𝑑𝑝).
 Il fluido dal punto 2 espande in turbina fino alla pressione ambiente 𝑝𝑎 .
 Non vi è contropressione allo scarico del cilindro ed il pistone non deve
compiere lavoro per l’espulsione dei gas (l’espansione coincide con la fase di
scarico spontaneo fino alla pressione ambiente).

Figura 343

Il punto 2 rappresenta il punto di fine espansione: nel caso ideale il fluido espande
all’interno del cilindro fino al punto morto inferiore, dove si apre la valvola di scarico.
Un osservatore all’interno del cilindro vede che questo si sta svuotando e la sua
396
pressione scende; un osservatore che invece si trova a cavallo di una particella di
fluido vede le pareti muoversi ed una riduzione di pressione secondo un’altra
trasformazione che continua lungo l’adiabatica isoentropica di espansione; se non ci
fosse sovralimentazione il fluido espanderebbe fino alla pressione ambiente; in tal
caso il lavoro che è possibile potenzialmente recuperare è dato dall’area 2 − 4 − 5
(è lo stesso che si poteva recuperare nella sovralimentazione a pressione costante);
in effetti questo caso tale lavoro è proprio quello disponibile ed è quello che in un
caso ideale effettivamente si riuscirebbe ad ottenere; nel caso di sovralimentazione
a pressione costante invece in un caso ideale l’area 2 − 5 − 3 veniva comunque
persa perché il fluido veniva rallentato all’interno di un grande volume fino a
raggiungere la pressione di sovralimentazione ed in parte l’energia veniva recuperata
(ma non tutta) nell’area 3 − 3′ − 4 − 4′ (le irreversibilità comportano un aumento di
volume specifico del fluido e della sua temperatura). Con la sovralimentazione ad
impulsi nel caso ideale invece si riesce a sfruttare tutta l’area 2 − 4 − 5.
Si immagini di avere sostanzialmente una turbina collegata direttamente al cilindro:

Figura 344

Il fluido che esce dal cilindro a partire da una pressione compresa tra 𝑝2 e 𝑝5 espande
fino ad una pressione 𝑝𝑎 . La turbina nel caso ideale viene vista come un qualcosa
attraverso la quale il fluido espande recuperando una certa quantità di lavoro (nella
realtà essa viene vista come una perdita di carico.
Nel caso di sovralimentazione a pressione costante l’area 7 − 8 − 5 − 6
rappresentava il lavoro che il motore doveva compiere per espellere i gas di scarico
e contemporaneamente veniva trasferito sulla turbina. In tal caso invece non si ha
questo effetto e ciò è più vantaggioso (è più vantaggioso utilizzare una turbina ad
impulsi di pressione).
Nel caso reale invece si ha:
 Volume del collettore piccolo.
 Ampie oscillazioni di pressione all’interno del cilindro con ridotto periodo di
espansione: quando la valvola di scarico si apre c’è uno sbuffo di pressione
nel condotto che collega il cilindro con la turbina; l’onda di pressione viaggia
all’interno del condotto che è molto breve (in un motore senza turbina gli
scarichi sono in genere hanno lunghezze dell’ordine del metro); la turbina
dunque altera i fenomeni dei moti non stazionari nei condotti; in un motore

397
aspirato tali moti vanno sfruttati al meglio per massimizzare il riempimento, in
tal caso invece si sfrutta l’energia dei gas di scarico per azionare la turbina e
dunque effettuare la sovralimentazione (quindi non è necessario avere una
lunghezza appropriata dei condotti): in tal caso il coefficiente di riempimento
viene aumentato parecchio proprio grazie al compressore e non sfruttando i
moti non stazionari.
 Buona efficienza nella trasmissione degli impulsi di energia.
 Contrariamente al caso ideale si ha una contropressione (𝑝𝑐𝑜𝑙 ) che determina
un aumento del lavoro di espulsione da parte del pistone: non è possibile
immaginare che il pistone risalendo trova un fluido a pressione ambiente, ma
esso ritroverà una pressione nel collettore che sarà più elevata e variabile.
 Nella prima fase di scarico spontaneo il flusso è sonico (i livelli di pressione
sono molto elevati e si è al di sopra del rapporto di pressione critico), con
piccole portate (sezione di passaggio ridotta: la valvola di scarico non si è
ancora aperta completamente); la differenza 𝑝𝑐𝑖𝑙 − 𝑝𝑐𝑜𝑙 si riduce fino al
raggiungimento delle condizioni subsoniche: in questa fase si verifica un
processo di dissipazione meno accentuato rispetto al caso a pressione
costante (di fatto nel caso a pressione costante si ha un intervallo angolare
maggiore durante il quale si ha un salto di pressione superiore a quello critico
e dunque è un processo certamente più dissipativo).
 Si raggiungono livelli di efficienza dell’85 %.
In questo caso nel collettore di scarico il volume a disposizione è molto piccolo quindi
la pressione all’interno del collettore si adegua rapidamente (basta una piccola
quantità di massa che fa aumentare la pressione). Con l’apertura dello scarico il fluido
viene trasferito al collettore di scarico che vede aumentare il proprio livello di
pressione fino a che non raggiunge un livello di pressione leggermente inferiore a
quella del cilindro.
Nel grafico seguente viene riportato l’andamento delle pressioni in funzione
dell’angolo di manovella 𝜗 nel cilindro 𝑝𝑐𝑙 e nel condotto di scarico 𝑝𝑠 durante il
processo di sostituzione della carica. Nel caso in cui il condotto abbia un volume
piccolo, rispetto a quello del cilindro, si forma un impulso di pressione che può
influenzare:
 Il processo di sostituzione della carica nel cilindro.
 L’energia trasmessa ad un eventuale turbocompressore.
 Il rumore irradiato verso l’ambiente.

398
Figura 345

Le onde di pressione hanno un periodo di oscillazione relativamente piccolo


(essendo i condotti corti). Nel collettore la pressione oscilla e ciò è evidenziato nel
grafico riportato precedentemente. Il battente di pressione che sente la turbina è dato
dalla differenza tra la pressione nel collettore (𝑝𝑐𝑜𝑙 ) e la pressione ambiente (𝑝𝑎 ): essa
avrà dunque un battente di pressione variabile (ma certamente maggiore del battente
che si ha nel caso a pressione costante).
Di seguito viene riportata una rappresentazione sul piano ℎ − 𝑠 del processo di
espansione dei gas combusti, nel caso di scarico in un condotto di piccolo volume.
Man mano che la differenza di pressione tra il cilindro (𝑝01 ) ed il condotto (𝑝𝑠 ) si
riduce, l’energia viene trasferita alla turbina (come lavoro ideale isoentropico: (𝐿𝑖𝑠 )𝑡 )
con sempre minori dissipazioni (nel caso 𝑎 si ha flusso sonico, mentre nel caso 𝑏 si
ha flusso subsonico):

Figura 346

399
In sostanza sul piano 𝑇 − 𝑠 si ha la seguente situazione:

Figura 347

Dove:

𝑝𝑐𝑖𝑙 = 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑛𝑒𝑙 𝑐𝑖𝑙𝑖𝑛𝑑𝑟𝑜


𝑝𝑐𝑟 = 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑐𝑟𝑖𝑡𝑖𝑐𝑎
𝑝𝑐𝑜𝑙 = 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑛𝑒𝑙 𝑐𝑜𝑙𝑙𝑒𝑡𝑡𝑜𝑟𝑒
𝑝𝑎 = 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑎𝑚𝑏𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒
𝐿𝑖𝑠,𝑇 = 𝑙𝑎𝑣𝑜𝑟𝑜 𝑖𝑠𝑜𝑒𝑛𝑡𝑟𝑜𝑝𝑖𝑐𝑜 𝑑𝑖 𝑡𝑢𝑟𝑏𝑖𝑛𝑎
𝐿𝑖𝑠,𝐶 = 𝑙𝑎𝑣𝑜𝑟𝑜 𝑖𝑠𝑜𝑒𝑛𝑡𝑟𝑜𝑝𝑖𝑐𝑜 𝑑𝑒𝑙 𝑐𝑖𝑙𝑖𝑛𝑑𝑟𝑜
𝐿𝑟,𝑇 = 𝑙𝑎𝑣𝑜𝑟𝑜 𝑟𝑒𝑎𝑙𝑒 𝑑𝑖 𝑡𝑢𝑟𝑏𝑖𝑛𝑎
Il lavoro isoentropico del cilindro è quello che potenzialmente potrebbe essere
sfruttato per effettuare l’espansione in turbina.
La trasformazione di espansione 01 − 1 è una trasformazione adiabatica
isoentropica (l’espansione porta alle condizioni di moto sonico con pressione pari alla
pressione critica). Raggiunte le condizioni soniche si ha un’ulteriore espansione non
isoentropica, ma con dissipazione fino a raggiungere il livello di pressione 𝑝𝑐𝑜𝑙
(l’espansione non avviene in un condotto convergente-divergente, ma in un ambiente
con un volume maggiore di quello di partenza):

400
Figura 348

In ogni caso nel passaggio dal cilindro al collettore il fluido passa per la condizione
di pressione critica. Infine il salto di pressione tra il collettore e la pressione ambiente
nel caso ideale è adiabatico isoentropico (espansione in turbina), mentre nel caso di
espansione reale in una turbina appunto reale la trasformazione avviene ad entropia
crescente. In definitiva il lavoro di turbina reale è molto più piccolo rispetto a quello
potenziale. Per tale motivo i collettori devono essere quanto più corti possibili e di
sezione più piccola possibile in modo da evitare che il fluido espanda al suo interno
e che l’impulso di pressione arrivi direttamente sulla turbina (la turbina deve essere
quanto più vicina possibile al cilindro).
In sintesi i vantaggi di un sistema di sovralimentazione ad impulsi sono:
 Elevata quantità di energia disponibile per la turbina.
 Adattamento in un ampio campo di funzionamento del motore: in tutte le
condizioni operative c’è sempre una condizione favorevole (nel caso a
pressione costante c’è invece un punto di funzionamento ben preciso).
 Miglioramento delle condizioni di transitorio.
 Curva caratteristica favorevole alla trazione.
Gli svantaggi invece sono i seguenti:
 Le forme dei condotti devono essere particolari: il condotto deve essere quanto
più breve possibile e la turbina deve essere quanto più vicina possibile al
motore. Ovviamente i collettori vengono accoppiati anche a due e a tre per
volta; evidentemente comunque ci sono fenomeni non stazionari in questi
condotti per cui le lunghezze devono essere tali da far sì che tali onde non
favoriscano un cilindro e ne sfavoriscano un altro.
 Funzionamento non stazionario con perdite fluidodinamiche recuperate con
l’incremento di energia trasferibile.
 Due o più ingressi alla turbina con costi di realizzazione elevati (lavorazioni più
critiche).
 Interferenza tra gli scarichi.
In sostanza non è esiste una soluzione migliore dell’altra, ma il tutto dipende
dall’applicazione: in genere per la trazione stradale si utilizza una sovralimentazione
ad impulsi di pressione, mentre per i motori navale si preferisce avere una

401
sovralimentazione a pressione costante (il motore lavora in condizioni stazionarie per
molto tempo).
Volendo dunque operare un rapido confronto tra le due soluzioni, nel caso a
pressione costante si ha:
 Si può usare una turbina unica, anche nel caso di molti cilindri (il collettore fa
da effetto condensatore).
 La turbina può lavorare in condizioni stazionarie.
 Assenza di interferenze dinamiche tra i diversi cilindri.
 L’elevato volume del collettore comporta tempi di risposta maggiori nei
transitori (c’è un volume ampio nel quale il fluido deve adeguarsi).
Nel caso ad impulsi invece si ha:
 Maggiore quantità di energia disponibile per la turbina, che lavora però in
condizioni instazionarie (il salto di pressione varia durante tutto l’angolo di
manovella, ma è comunque più elevato rispetto al caso a pressione costante).
 Migliore risposta nei transitori.
 Complessità costruttiva (due o più ingressi per la turbina), o necessità di
adottare più turbine.
 Possibili fenomeni di interferenza dinamica tra i cilindri.
Di seguito viene riportato l’andamento, in funzione dell’angolo di manovella, della
pressione nel cilindro 𝐶1 (linea a tratti) e nel collettore di scarico (linea continua) di
un motore a sei cilindri turbosovralimentato con un sistema ad impulsi di pressione.:

Figura 349

Lo sfasamento di 240° tra i cilindri (1 − 3 − 2) che scaricano nello stesso collettore,


permette di evitare le interferenze tra di essi e di realizzare un lavaggio completo
dello spazio morto, durante l’incrocio.
Com’è possibile notare dalla figura gli scarichi sono raggruppati a tre a tre. È evidente
che nel caso reale, come evidenziato dalla figura, c’è una fase di incrocio tra le
402
valvole (nel caso ideale questo non è stato considerato): ciò può comportare una
contropressione allo scarico che si oppone, nelle prime fasi dell’aspirazione, al flusso
di aria che arriva dal collettore di aspirazione. Durante la fase di incrocio bisogna
dunque sperare che vi sia sempre un gradiente di pressione che favorisce
l’espulsione verso l’esterno (pressione maggiore nel cilindro e minore nel collettore
di scarico: in tal modo è possibile avere un flusso dal cilindro verso il collettore di
scarico favorendo la pulizia). Quando si chiude la valvola di scarico invece deve
esserci un’inversione nel gradiente di pressione.
Il motore a tre cilindri sovralimentato in termini di accoppiamento tra i cilindri stessi e
la turbina ha il vantaggio maggiore (in termini di ottimizzazione, evitando le
interferenze tra i diversi cilindri). Bisogna fare in modo che quando si chiude un
cilindro collegato allo stesso scarico, l’altro cilindro non deve aprirsi (un impulso di
pressione dovuto all’apertura di un cilindro può infatti portare ad un’onda di pressione
che può opporsi alla chiusura dell’altro: la fase iniziale dello scarico di un cilindro può
essere negativa per la fase finale di chiusura della valvola di scarico dell’altro cilindro,
il che peggiora la pulizia).
Come già più volte anticipato, la turbina in prima approssimazione può essere ista
come una strozzatura (perdita di carico):

Figura 350

La presenza della strozzatura determina una contropressione allo scarico del


cilindro; la strozzatura varia ovviamente in funzione della geometria della turbina (se
la sezione di passaggio è ampia, la strozzatura è la minima possibile: se nella turbina
non c’è la girante si ha la minore perdita di carico possibile). Ovviamente il tutto
dipende anche dal carico sulla turbina: se essa è libera e non ha un carico meccanico
la perdita di carico sarà differente rispetto al caso in cui vi sia un carico; se la turbina
viene bloccata (mantenuta ferma) la perdita di carico è quella più alta possibile;
quando invece la turbina gira la perdita di carico si riduce. Quindi da un punto di vista
fluidodinamico la turbina può essere vista come una strozzatura, ma a questa
rappresentazione va aggiunto l’effetto della dimensione della sezione di passaggio e
l’effetto del carico strettamente legato al regime di giri. Ovviamente anche in tal caso
va applicata l’equazione della dinamica:
𝑑𝜔
𝐼∙ = 𝑀𝑚 − 𝑀𝑟
𝑑𝑡
Il momento motore è ovviamente legato alla turbina, mentre il momento resistente è
legato al compressore (l’inerzia è legata alla massa degli elementi rotanti). È evidente
403
che anche sulla linea di aspirazione ci sono delle perdite di carico. Quindi in definitiva
la perdita di carico non è legata solo alla sezione di passaggio, ma anche alla
presenza di un carico motore (che è individuabile proprio nella turbina).
Di seguito viene rappresentata l’influenza della riduzione dell’area della sezione di
ingresso in turbina, sulle prestazioni di un motore sovralimentato. La curva di
pressione media effettiva 𝑝𝑚𝑒 (e quindi della coppia) ai bassi giri diventa più elevata,
ma diminuisce la potenza massima del motore 𝑃𝑒 ed aumentano i consumi specifici
di combustibile 𝐶𝑠𝑐 :

Figura 351

Le curve sono rappresentate in relazione a diversi valori dell’area di ingresso in


turbina. In particolare la curva di potenza più alta si ottiene proprio quando l’area di
ingresso è più ampia: la pressione media effettiva di fatta è la più elevata possibile e
ciò determina anche una riduzione del consumo specifico (la contropressione allo
scarico è minore ed il motore è più libero di lavorare soprattutto alle elevate portate);
man mano che la sezione di passaggio si riduce, fissato il regime di rotazione (e
dunque la portata), si avranno delle perdite maggiori, il motore sentirà una
contropressione allo scarico e dunque per pompare una certa quantità di aria fuori
deve spendere più lavoro meccanico avendo un consumo specifico più elevato (di
conseguenza una potenza più bassa). Ciò fa capire che dietro la sovralimentazione
ci sono degli effetti indotti che possono portare a delle perdite e dunque non è
scontato che adottando strategie del genere si abbia un vantaggio. In ogni caso, se
404
la sezione di passaggio si riduce, si va ad ampliare, per quanto in parte in una zona
di non stabilità, il regime di funzionamento del motore in termini di coppia (già a bassi
giri si ha una buona coppia ossia una buona pressione media effettiva). In effetti con
sezioni minori aumenta la contropressione allo scarico, ma aumenta anche la
pressione a monte della turbina e dunque si ha la garanzia di pompare più aria anche
a carichi più bassi; per cui volendo una turbina che funziona bene ai bassi carichi la
sezione di passaggio deve essere ridotta sebbene questo comporti un consumo
maggiore; viceversa se si vogliono ottenere delle prestazioni elevate, per regimi di
giri elevati, si ricorre ad una sezione di passaggio maggiore.
Di seguito viene riportato un esempio tipico di compressore di sovralimentazione con
turbina a geometria variabile:

Figura 352

 𝑎) Dispositivo di comando delle palette orientabile del distributore.


 𝑏) Distributore della turbina con palette orientabili.
Le palette rappresentano la palettatura statorica della turbina; l’azionamento avviene
attraverso una valvola pneumatica. In tale sistema oltre ad avere una sezione
variabile si ha anche una inclinazione variabile delle palette: si fa in modo che la
velocità 𝑐1 abbia un angolo adatto a seconda del regime di rotazione della turbina
stessa (la turbina gira con velocità 𝜔 e dunque ci sarà una velocità di trascinamento
𝑢1 (nella sezione di ingresso) che combinata con la velocità 𝑐1 darà una velocità
relativa 𝑤1 : quest’ultima deve essere quanto più tangente possibile alla palettatura).
Al variare della velocità 𝜔 e dunque della velocità 𝑢1 si deve fare in modo da far
variare l’apertura della palettatura statorica per avere il migliore angolo per la velocità
relativa in ingresso (in modo da massimizzare il recupero dell’energia cinetica
disponibile nei gas di scarico); la chiusura della palettatura comporta una riduzione
della sezione di passaggio e quindi un aumento del carico ai bassi giri; agli elevati
carichi la sezione di passaggio aumenta e ciò migliora le prestazioni. La turbina a
geometria variabile nasce dunque come esigenza della macchina stessa (turbina) di
lavorare sempre nelle condizioni ottimali o pseudo tali: il controllo è fatto in maniera
rozza e non esiste un sensore di velocità della turbina, ma c’è una taratura che viene
405
fatta al banco con l’utilizzo di modelli (modelli ai valori medi che non sono molto
sofisticati). Quindi c’è un effetto diretto sulla turbina e indirettamente un effetto di
perdita di carico sul motore.
Si ricordi che nel caso del compressore la curva caratteristica interna della macchina
nel piano portata-rapporto di compressione è la seguente:

Figura 353

In effetti per una macchina dinamica si parte di una curva caratteristica orizzontale,
mentre per una macchina volumetrica si parte da una curva verticale (nel piano
portata-prevalenza):

Figura 354

Ovviamente le curve vengono poi corrette per effetto delle perdite.


Quindi per ciascun compressore e per ciascuna turbina è necessario costruire le
curve caratteristiche, che possono essere realizzate al calcolo con modelli che
partono in maniera semplificata dalle equazioni di Eulero inserendo poi le perdite di
carico. Nel compressore, rispetto alla pompa, il fluido è soggetto a delle
trasformazioni termodinamiche e dunque è un po’ più complesso da trattare.
Le curve caratteristiche delle macchine sono chiaramente rese disponibili dal
costruttore (il compressore e la turbina sono oggetti molto complessi da realizzare
quindi esistono poche aziende che le producono, mentre il motore sebbene possa
sembrare molto complesso è sostanzialmente una macchina abbastanza semplice).

406
Giacché il fluido che evolve nella turbina e nel compressore subisce trasformazioni
termodinamiche si preferisce trattare i diversi dati andando a normalizzarli.
Normalizzando le diverse grandezze si evita di portarsi dietro l’incertezza (o l’errore
di generalizzabilità dell’informazione a disposizione). È possibile dunque individuare
ad esempio nel caso del compressore delle grandezze normalizzate per la portata e
per il regime di giri.
In particolare la portata viene normalizzata rispetto ad una portata di riferimento che
è quella che si avrebbe a massima velocità dell’aria:
𝑚̇∗ = 𝜌𝑎𝐴𝑐
Dove:
𝜌 = 𝑑𝑒𝑛𝑠𝑖𝑡à
𝑎 = 𝑣𝑒𝑙𝑜𝑐𝑖𝑡à 𝑑𝑒𝑙 𝑓𝑙𝑢𝑠𝑠𝑜 𝑖𝑛 𝑐𝑜𝑛𝑑𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑠𝑜𝑛𝑖𝑐ℎ𝑒
𝐴𝑐 = 𝑠𝑒𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝑝𝑎𝑠𝑠𝑎𝑔𝑔𝑖𝑜
Quindi si avrà:

𝑝𝐴𝑐 √𝑘𝑅𝑇 𝑝𝐴𝑐 √𝑘


𝑚̇∗ = 𝜌𝑎𝐴𝑐 = =
𝑅𝑇 √𝑅𝑇
Per cui la portata adimensionale sarà data dal rapporto tra la portata effettiva e quella
di riferimento:

𝑚̇ 𝑚̇√𝑅𝑇 𝑚̇√𝑇𝑎 √𝑅
= = ∙
𝑚̇∗ 𝑝𝐴𝑐 √𝑘 𝑝𝑎 𝐴𝑐 √𝑘
Dove:

𝑚̇√𝑇𝑎
= 𝑟𝑒𝑙𝑎𝑡𝑖𝑣𝑜 𝑎𝑙𝑙𝑒 𝑔𝑟𝑎𝑛𝑑𝑒𝑧𝑧𝑒 𝑣𝑎𝑟𝑖𝑎𝑏𝑖𝑙𝑖 (𝑡𝑒𝑚𝑝𝑒𝑟𝑎𝑡𝑢𝑟𝑎 𝑒 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙′ 𝑎𝑟𝑖𝑎)
𝑝𝑎

√𝑅
= 𝑟𝑒𝑙𝑎𝑡𝑖𝑣𝑜 𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑔𝑒𝑜𝑚𝑒𝑡𝑟𝑖𝑎 𝑒 𝑎𝑙𝑙𝑒 𝑐𝑎𝑟𝑎𝑡𝑡𝑒𝑟𝑖𝑠𝑡𝑖𝑐ℎ𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑓𝑙𝑢𝑖𝑑𝑜
𝐴𝑐 √𝑘
In particolare il primo rapporto è variabile, mentre il secondo fissata la macchina ed
il fluido è un termine costante (entrambi i termini sono dimensionali se considerati
singolarmente, ma assieme danno vita ad un gruppo adimensionale).
Lo stesso ragionamento può essere fatto per la velocità in cui si va a relazionare la
velocità effettiva (velocità periferica della macchina) con quella critica (velocità
massima del fluido di riferimento, ossia velocità del suono):
𝑢̅ 𝑛𝑑 𝑛 𝑑
= = ∙
𝑎 √𝑘𝑅𝑇𝑎 √𝑇𝑎 √𝑘𝑅

407
In particolare:
𝑛
= 𝑡𝑒𝑟𝑚𝑖𝑛𝑒 𝑣𝑎𝑟𝑖𝑎𝑏𝑖𝑙𝑒
√𝑇𝑎
𝑑
= 𝑡𝑒𝑟𝑚𝑖𝑛𝑒 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑓𝑖𝑠𝑠𝑎𝑡𝑜 𝑖𝑙 𝑓𝑙𝑢𝑖𝑑𝑜 𝑒 𝑙𝑎 𝑚𝑎𝑐𝑐ℎ𝑖𝑛𝑎
√𝑘𝑅
Pertanto fissando la macchina e il tipo di fluido la portata adimensionale può essere
rappresentata attraverso il seguente rapporto:

𝑚̇ 𝑚̇√𝑇𝑎
=
𝑚̇∗ 𝑝𝑎
Mentre la velocità adimensionale può essere espressa dal seguente rapporto:
𝑢̅ 𝑛
=
𝑎 √𝑇𝑎

In tal modo è possibile rappresentare delle curve caratteristiche del compressore e


della turbina nella maniera seguente:

Figura 355

Sulle ordinate potrebbe esserci anche il carico.


Dove:
𝑇𝑎 = 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑒𝑟𝑎𝑡𝑢𝑟𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙′ 𝑎𝑟𝑖𝑎 𝑖𝑛 𝑖𝑛𝑔𝑟𝑒𝑠𝑠𝑜
𝑝𝑎 = 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙′ 𝑎𝑟𝑖𝑎 𝑖𝑛 𝑖𝑛𝑔𝑟𝑒𝑠𝑠𝑜
Le misure possono essere di fatto effettuate a temperatura e a pressione dell’aria
variabile (a seconda della giornata, della stagione, dell’ora, del luogo, …). Tuttavia
attraverso questo sistema è possibile rappresentare le curve rispetto a condizioni
ambiente di riferimento (in genere 𝑇𝑎 = 25°𝐶 e 𝑝𝑎 = 1 𝑏𝑎𝑟: condizioni standard). Per
408
cui nel momento in cui la misura viene effettuata ad una temperatura differente i dati
acquisiti possono essere riportati sullo stesso piano se rapportati alla grandezza di
riferimento (questo è il vantaggio dei parametri ridotti).
Di seguito vengono rappresentate delle curve caratteristiche di una turbina; in
particolare il rapporto manometrico è rappresentato in funzione della portata massica
ridotta:

Figura 356

Si assume di fatto una situazione di questo tipo:

Figura 357

La valvola disegnata a monte del compressore rappresenta la valvola a farfalla. Le


condizioni nel punto 0 sono ovviamente le condizioni ambiente.

409
In particolare nel riquadro giallo sono riportate delle curve caratteristiche sul piano
rapporto di compressione-portata ridotta (𝑝03 /𝑝4 è proprio il rapporto di espansione);
le curve sono parametrate rispetto al regime di giri ridotto (𝑛/√𝑇03 ). Per una turbina
assiale, come in questo caso, le curve sono molto strette, di fatto una delle difficoltà
di rappresentazione di tali curve sta proprio nel fatto che esse sono addossate l’una
all’altra. Nel riquadro in rosso invece viene riportato il campo di funzionamento di una
turbina radiale nello stesso piano (con riferimento anche alle curve di isolivello che
rappresentano i rendimenti adiabatici). Le turbine assiali si utilizzano in genere per
motori lenti di grandi dimensioni (esse hanno una resa maggiore). Il lavoro adiabatico
isoentropico, moltiplicato per il rendimento dà proprio il lavoro che è possibile
ottenere con un’assegnata portata e un dato rapporto di espansione.
Le curve caratteristiche del compressore vengono invece riportate di seguito:

Figura 358

Anche qui le curve vengono riportate nel piano rapporto di compressione-portata al


variare del regime di giri (sempre con riferimento ai parametri ridotti). In tal caso le
curve sono più semplici da gestire da un punto di vista grafico (sono più distaccate).
Inoltre vengono anche riportate le curve isolivello che rappresentano il rendimento
della macchina. Pertanto nel bilancio si ha:
𝑚̇𝐶 𝐿𝑖𝑠,𝐶
𝑚̇ 𝑇 ∙ 𝐿𝑖𝑠,𝑇 ∙ 𝜂𝑡 =
𝜂𝐶
Dove:
𝑚̇ 𝑇 = 𝑝𝑜𝑟𝑡𝑎𝑡𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑡𝑢𝑟𝑏𝑖𝑛𝑎

410
𝐿𝑖𝑠,𝑇 = 𝑙𝑎𝑣𝑜𝑟𝑜 𝑖𝑠𝑜𝑒𝑛𝑡𝑟𝑜𝑝𝑖𝑐𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑡𝑢𝑟𝑏𝑖𝑛𝑎 (𝑓𝑢𝑛𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑟𝑎𝑝𝑝𝑜𝑟𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑒𝑠𝑝𝑎𝑛𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒)

𝜂𝑡 = 𝑟𝑒𝑛𝑑𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑎𝑑𝑖𝑎𝑏𝑎𝑡𝑖𝑐𝑜 𝑑𝑖 𝑡𝑢𝑟𝑏𝑖𝑛𝑎


𝑚̇𝐶 = 𝑝𝑜𝑟𝑡𝑎𝑡𝑎 𝑑𝑒𝑙 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑜𝑟𝑒
𝐿𝑖𝑠,𝐶 = 𝑙𝑎𝑣𝑜𝑟𝑜 𝑖𝑠𝑜𝑒𝑛𝑡𝑟𝑜𝑝𝑖𝑐𝑜 𝑑𝑒𝑙 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑜𝑟𝑒 (𝑓𝑢𝑛𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑟𝑎𝑝𝑝𝑜𝑟𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒)

𝜂𝐶 = 𝑟𝑒𝑛𝑑𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑎𝑑𝑖𝑎𝑏𝑎𝑡𝑖𝑐𝑜 𝑑𝑒𝑙 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑜𝑟𝑒

Dalla relazione precedente è possibile ricavare 𝐿𝑖𝑠,𝐶 noti gli altri parametri. Si tenga
presente che:
𝜂 𝑇 ∙ 𝜂𝑐 ≤ 0.7 ∙ 0.7 = 0.49
Le portate 𝑚̇ 𝑇 e 𝑚̇𝐶 possono essere ritenute uguali; in realtà nella portata che evolve
in turbina c’è anche combustibile oltre che aria (gas combusti), mentre nel
compressore evolve solo aria: la portata che evolve in turbina è dunque maggiore di
quella che evolve nel compressore.
Quindi avendo a disposizione pressione a monte e pressione a valle è possibile
entrare nella mappa per ricavare la portata nonché il regime di rotazione attraverso
dei passaggi iterativi; successivamente può essere calcolato il lavoro (una volta che
è nota la portata e il salto di pressione); il regime di giri fisico della turbina è
ovviamente pari al regime di giri fisico del compressore; pertanto entrando con la
portata sulla mappa del compressore e conoscendo il regime di giri è possibile
ricavare il rapporto di compressione.
Un altro problema è legato all’accoppiamento tra il compressore e il motore (oltre che
all’accoppiamento tra turbina e compressore). Nel diagramma seguente vengono
rappresentate in nero le curve relative al compressore dinamica, in azzurro le curve
di coppia (a carico costante del motore) e in verde le curve del regime di giri (a
velocità di rotazione costante del motore).

Figura 359

411
Le curve di portata in funzione di 𝑝𝑚 /𝑝𝑎 sono leggermente crescenti in quanto 𝜆𝑣 𝜌𝑚
cresce con il grado di sovralimentazione. Ad 𝑛4 > 𝑛1 la curva è più inclinata perché
si migliora il lavaggio ai carichi più elevati (è possibile inserire più aria). A carico
costante, al crescere di 𝑛 la 𝑝𝑚 aumenta perché aumenta la portata di aria (𝑚̇),
aumenta la pressione 𝑝𝑠 di sovralimentazione, il turbocompressore accelera
determinando una 𝑝𝑚 maggiore.
In sostanza bisogna sovrapporre alle curve del compressore (nel piano riportato in
figura), le curve caratteristiche del motore che sono determinate facilmente nota la
portata e il rapporto di miscela. Il motore deve trovarsi all’interno delle curve
caratteristiche del compressore (questo deve avere pertanto un dominio di
funzionamento più ampio rispetto alle curve caratteristiche del motore coppia-giri).
Quindi nel dominio pressione-portata del compressore si vanno a traslare le curve
caratteristiche di funzionamento del motore coppia-regime di rotazione (questo è
molto complesso da realizzare al calcolo con modelli precisi).
La portata massica del motore è data dalla seguente relazione:
𝑉∙𝑛
𝑚̇ = 𝜆𝑣 ∙ 𝜌𝑚 ∙
𝜀
Dove:
𝑝𝑚
= 𝑔𝑟𝑎𝑑𝑜 𝑑𝑖 𝑠𝑜𝑣𝑟𝑎𝑙𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒
𝑝𝑎
𝑛𝑖 = 𝑟𝑒𝑔𝑖𝑚𝑒 𝑑𝑖 𝑔𝑖𝑟𝑖 𝑑𝑒𝑙 𝑚𝑜𝑡𝑜𝑟𝑒 (𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑠), 𝑖 = 1,2,3, …
𝐶𝑖 = 𝑐𝑎𝑟𝑖𝑐𝑜, 𝑖 = 1,2,3, …
𝑛𝑐 = 𝑣𝑒𝑙𝑜𝑐𝑖𝑡à 𝑠𝑜𝑣𝑟𝑎𝑙𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑎𝑡𝑜𝑟𝑒
Il coefficiente di riempimento volumetrico è legato alla densità dell’aria. Il grado di
sovralimentazione influenza il coefficiente di riempimento. In sostanza si accoppia
una macchina dinamica ad una macchina volumetrica la cui caratteristica di portata
è legata all’equazione su scritta.

412
Lezione 30 (Sorrentino) 5/05/2017
Note introduttive a Matlab
Regressione (es_cons_spe)
Un motore a combustione interna è caratterizzato dai seguenti valori di consumo
specifico (𝑔/𝑘𝑊ℎ), in funzione del numero di giri e della coppia (es_cons_spe):

Figura 360

Stimare il consumo specifico nelle condizioni indicate con il punto interrogativo;


determinare inoltre il punto di minimo consumo specifico, nel campo 1000 < 𝑛 <
6000, 10 < 𝐶 < 100 (utilizzare i grafici 3D).
Per individuare il punto di minimo consumo specifico è anche possibile utilizzare delle
curve di livello.
Si tenga presente che in generale per i motori Diesel si ha un valore più basso del
consumo specifico.
Per risolvere il problema si devono sostanzialmente creare due vettori che esprimono
le variabili dipendenti (regime di giri e coppia) e un terzo vettore (di output) che
esprime la variabile indipendente (consumo specifico).
A partire dai dati forniti è possibile sviluppare un modello black-box alle regressioni
lineari multiple (ci sono due variabili indipendenti).
Oltre alla regressione lineare multipla è anche possibile utilizzare un’interpolazione
ma questa non è possibile in tutti i punti (nei punti ai confini del dominio non è
possibile interpolare); per questo motivo il modello più adatto in questo caso è quello
alle regressioni.
Col comando meshgrid è possibile trasformare due vettori 𝑥 e 𝑦, in due matrici 𝑋 e 𝑌
tra di esse coerenti:
413
[𝑌, 𝑋 ] = 𝑚𝑒𝑠ℎ𝑔𝑟𝑖𝑑 (𝑦, 𝑥)
Nel momento in cui non c’è incertezza nella stima dei parametri (𝑏𝑖𝑛𝑡 presenta valori
identici, ossia l’intervallo di confidenza praticamente non esiste) vuol dire che i dati
di riferimento non sono realmente sperimentali, ma sono stati generati attraverso un
modello: se l’incertezza è nulla vuol dire che si sono identificati proprio i parametri
relativi al modello che ha generato i dati.
Alla funzione fminsearch bisogna fornire sia il nome della funzione obiettivo, sia le
condizioni iniziali da cui partire; gli algoritmi per la ricerca del minimo di fatto utilizzano
metodi di Gauss-Newton o di Levenberg-Marquardt che si basano sul calcolo del
gradiente dell’errore; man mano che si avanza nelle iterazioni esso va a modificare i
parametri: tali parametri vengono modificati nella direzione dell’errore decrescente
(si sfrutta la derivata dell’errore per aggiornare i parametri al passo successivo).
Questo metodo è puramente deterministico: c’è il rischio di trovare dei minimi (o
massimi) locali piuttosto che minimi (o massimi) assoluti; questo è il motivo per cui
con funzioni obiettivo particolarmente complesse spesso è necessario utilizzare
algoritmi più complessi, come gli algoritmi genetici; in questo caso non c’è un criterio
deterministico, ma un criterio di bontà andando a vedere se c’è stato un
miglioramento, in termini di bontà, della soluzione; in tal caso le modifiche ai
parametri vengono fatte con metodi ispirati al paradigma evolutivo delle specie
viventi: a ciascuna variabile è associato un codice genetico (anche in linguaggio
binario) e il numero di cifre dipende dalla precisione che si vuole ottenere. Tali
algoritmi procedono con la ricerca del minimo (o del massimo) fintanto che non si
fissa un criterio di terminazione (l’evoluzione teoricamente non finisce mai): pertanto
intrinsecamente tale algoritmo non è ottimale (quello deterministico invece lo è, ma
potrebbe bloccarsi in un minimo locale). Nei metodi genetici, i bit, che rappresentano
il patrimonio genetico di ogni parametri, vengono modificati attraverso procedure
aleatorie: questo è quello che accade alle specie viventi man mano che esse
evolvono. Uno svantaggio degli algoritmi genetici è l’elevato tempo di calcolo (non
possono funzionare online, ma sono da destinarsi a procedure offline).
La funzione fmincon invece è più generale della fminsearch e serve per problemi di
ottimizzazione vincolata; la fmincon funziona come la fminsearch qualora l’intervallo
di ricerca si estende da meno infinito a più infinito.
In realtà i vincoli possono essere introdotti anche attraverso la funzione obiettivo
stessa utilizzando la penalty function. Tuttavia in questo caso bisogna stare attenti
perché ciò ha un impatto sulla derivata della funzione obiettivo che di fatto viene
modificata.
Cicli ideali (Mci_1_ottoid, Mci_1_Dieselid)
La funzione kinemat serve per creare un legame tra il volume, lasciato libero dal
pistone all’interno del cilindro, e l’angolo di manovella corrispondente ad una
determinata condizione del pistone stesso.

414
Il ciclo Otto e il ciclo Diesel possono essere rappresentati sul piano pressione-volume
con l’ausilio di Matlab (Mci_1_ottoid, Mci_1_Dieselid). Il ciclo Otto e il ciclo Diesel
sono due casi particolari del ciclo Sabathé. Si ricordi che nel caso di ciclo Otto il
rapporto di compressione difficilmente supera valori di 12 per problemi di
detonazione.
Nel ciclo Otto la combustione è istantanea a volume costante e dunque il pistone non
si sposta (l’angolo di manovella è fissato) per cui il volume rimane fissato. In questa
ipotesi il bilancio sulla camera di combustione è simile a quello di un impianto a gas
e da esso è possibile ricavare la temperatura 𝑇3 :
𝐻𝑖
𝑇3 = 𝑇2 +
(𝛼 + 1) ∙ 𝑐𝑣
Nel caso di motore Diesel invece il bilancio è proprio identico in quanto c’è il calore
specifico a pressione costante:
𝐻𝑖
𝑇3 = 𝑇2 +
(𝛼 + 1) ∙ 𝑐𝑝

Nel ciclo Diesel si riescono a raggiungere rendimenti più elevati grazie a rapporti di
compressione maggiori. Con l’avvento del common-rail è stato possibile ridurre il
rapporto di miscela nei motori Diesel e dunque incrementare la potenza a parità di
cilindrata (senza common-rail non lo si poteva fare perché il combustibile era troppo
liquido e non sufficientemente vaporizzato). Questo però comporta il raggiungimento
di temperature più elevate e si ha una maggiore criticità per quanto riguarda le
emissioni di ossidi di azoto.
Integrazione numerica (ODE: Ordinary Differential Equation)
La risoluzione delle equazioni differenziali ordinarie in Matlab viene eseguita con due
metodi (funzioni built-in):
 Ode23: usa il metodo di Runge-Kutta del secondo-terzo ordine (a seconda dei
casi).
 Ode45: usa il metodo di Runge-Kutta del quarto-quinto ordine (a seconda dei
casi).
La sintassi è identica per le due funzioni e richiede che l’equazione da integrare sia
espressa come sistema di equazioni ordinarie del primo ordine:
𝑑𝑥
= 𝑓 (𝑥, 𝑡 )
𝑑𝑡
In Matlab va implementata la funzione integranda e si utilizza una sintassi del tipo:
[𝑡, 𝑥] = 𝑜𝑑𝑒23(′𝑥𝑝𝑢𝑛𝑡𝑜 ′ , 𝑡0, 𝑡𝑓, 𝑥0)
𝑡0 = 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑜 𝑖𝑛𝑖𝑧𝑖𝑎𝑙𝑒

415
𝑡𝑓 = 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑜 𝑓𝑖𝑛𝑎𝑙𝑒
𝑥0 = 𝑐𝑜𝑛𝑑𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑖𝑛𝑖𝑧𝑖𝑎𝑙𝑒
L’evoluzione viene studiata in un intervallo che va da 𝑡0 a 𝑡𝑓.
Le soluzioni trovate non sono di tipo analitico, ma numeriche; in alcune applicazioni
può tornare utile anche l’applicazione del metodo di Eulero.
Si noti che non necessariamente ciò significa che è possibile risolvere equazioni
differenziali per sistemi ad un solo stato, ma anche per sistemi a più stati, l’importante
è che poi non ci siano equazioni alle derivate parziali (è possibile dunque anche
risolvere un sistema di equazioni come già anticipato nonché equazioni di grado
superiore al primo purché il problema venga ricondotto ad un sistema di equazioni
differenziali del primo ordine).
Le equazioni di Volterra-Lokta descrivono un modello semplificato dell’evoluzione di
due specie in competizione tra loro (noto come modello preda-predatore); tale
modello è molto utilizzato in diversi ambiti e serve a studiare un sistema in cui sono
presenti almeno due competitors: una preda e un predatore.
In particolare la presenza di una preda evolve secondo la seguente equazione:
𝑑𝑥
= (𝑎 − 𝑏𝑦)𝑥
𝑑𝑡
Dove:
𝐴 = 𝑎 − 𝑏𝑦 = 𝑡𝑎𝑠𝑠𝑜 𝑑𝑖 𝑐𝑟𝑒𝑠𝑐𝑖𝑡𝑎
𝑎 = 𝑐𝑎𝑝𝑎𝑐𝑖𝑡à 𝑑𝑖 𝑟𝑖𝑝𝑟𝑜𝑑𝑢𝑟𝑠𝑖 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑝𝑒𝑐𝑖𝑒 𝑣𝑖𝑣𝑒𝑛𝑡𝑒
𝑏𝑦 = 𝑑𝑒𝑐𝑟𝑒𝑠𝑐𝑖𝑡𝑎 𝑑𝑜𝑣𝑢𝑡𝑎 𝑎𝑙 𝑝𝑟𝑒𝑑𝑎𝑡𝑜𝑟𝑒
L’incontro col predatore influirà negativamente sul tasso di crescita: quando la preda
incontra il predatore essa tende a scomparire.
Per il predatore vale invece la seguente relazione:
𝑑𝑦
= (𝑐𝑥 − 𝑑 )𝑦
𝑑𝑡
Dove:
𝐵 = 𝑐𝑥 − 𝑑 = 𝑡𝑎𝑠𝑠𝑜 𝑑𝑖 𝑐𝑟𝑒𝑠𝑐𝑖𝑡𝑎
𝑐 = 𝑐𝑎𝑝𝑎𝑐𝑖𝑡à 𝑑𝑖 𝑟𝑖𝑝𝑟𝑜𝑑𝑢𝑟𝑠𝑖
𝑑 = 𝑚𝑜𝑟𝑡𝑎𝑙𝑖𝑡à
La capacità di riprodursi è funzione del numero di prede: maggiore è il numero di
prede più il predatore tende a crescere. In sostanza 𝑥 rappresenta la preda e 𝑦 è il
predatore.
416
Si studi la soluzione di queste equazioni a partire dai parametri nominali
(es_loktavolterra):
𝑎 = 2.7
𝑏 = 0.7
𝑐=1
𝑑=3
Svolgendo tale calcolo si ottiene l’evoluzione delle due specie (preda-predatore).
Inizialmente ambo le specie crescono, ma quando i predatori aumentano molto, le
prede iniziano a diminuire; i predatori raggiungono un massimo dopo il quale iniziano
a decrescere perché le prede sono diminuite troppo. Se i predatori si riducono molto
le prede iniziano nuovamente a crescere. Questo andamento si ripete nel tempo (in
maniera indefinita).

417
Lezione 31 (Sorrentino) 9/05/2017
Note introduttive a Matlab
Esercitazione compressore centrifugo
Si immagini di dover costruire sperimentalmente una curva caratteristica di un
compressore centrifugo volendo prevedere quale sarà il rapporto di compressione in
condizioni di portata e regime di giri per i quali non è stato rilevato alcun dato. Cercare
di risolvere il problema sia con Excel che con Matlab. Inoltre provare a trovare il punto
di massimo rendimento (che ovviamente non è tra quelli riportati in tabella).
I dati sperimentali sono di seguito riportati:

Figura 361

Figura 362

Bisogna utilizzare in questo caso un modello alle regressioni lineari multiple, scelto
che sia il legame funzionale.
Si tenga presente che sebbene l’intervallo di confidenza contenga lo zero non è detto
che i coefficienti della regressione debbano essere scartati. In effetti conviene
scartare un coefficiente solo quando esso presenta una media molto prossima a zero
(ossia ha un intervallo di confidenza centrato sullo zero). Di fatto molto spesso
potrebbe capitare che quasi tutti i coefficienti, seguendo questa regola, vengono
scartati e il modello non dà buoni risultati. È evidente che è possibile conservare
anche tutti i coefficienti a prescindere dall’intervallo di confidenza; di fatto l’intervallo
di confidenza è solo un indicatore che definisce l’importanza del coefficiente a cui
esso è associato. In questo caso specifico ad esempio il regime di giri ha meno peso
della portata volumetrica nella stima del rapporto di compressione.

418
Molto spesso trascurando i termini non lineari misti il modello potrebbe perdere di
rappresentatività: conviene dunque sempre capire se il termine misto ha un peso
oppure no. Talvolta conviene dunque procedere per tentativi.
Grosso modo il punto di massimo rendimento sta a circa 17000 𝑔𝑖𝑟𝑖/𝑚𝑖𝑛;
probabilmente i dati a disposizione non sono in grado di coprire tutto l’andamento
per cui il valore massimo del rendimento che viene fuori può non essere esatto. Si
tenga presente che tracciare le curve di isorendimento su un piano dove il rendimento
non c’è su nessun asse, comporta una procedura non banale (in Matlab ci sono delle
routine apposite).

419
Lezione 32 (Rizzo) 10/05/2017
Elementi di flusso 2D nelle turbomacchine
Nel corso dell’analisi condotta le turbomacchine sono state studiate facendo l’ipotesi
di flusso monodimensionale, evidenziando i limiti di tale modello anche da un punto
di vista concettuale (infatti in mancanza di un gradiente di proprietà da un lato all’altro
di una palettatura in un rotore di una turbomacchina non si può giustificare lo scambio
di energia) sebbene la teoria sia stata portata avanti sotto questa ipotesi; è bene
precisare che i risultati sperimentali danno più o meno ragione a questa
formulazione, nel senso che con l’ipotesi di flusso monodimensionale si riesce a
vedere abbastanza bene cosa succede. Ciò però si limita ad alcune geometrie di
macchine che sono quelle che poi si sono sviluppate storicamente per prime, perché
si riuscivano a studiare con questa teoria più semplice (sono soprattutto turbine ad
alta pressione e turbine a media pressione). In quelle macchine invece in cui l’altezza
della palettatura è maggiore, come per esempio accade per la palettatura delle
turbine di bassa pressione, diventa più arduo rappresentare ciò che succede
all’interno della palettatura stessa; non è possibile cioè studiare cosa succede in
termini di raggio medio, dato che c’è una grossa differenza tra il raggio minimo e il
raggio massimo, quindi tra le velocità che si hanno alla base e all’apice della paletta.

Figura 363

Pertanto assumere un andamento uniforme del flusso all’interno della palettatura


diventa fortemente inesatto. Altro caso è quello del compressore assiale
rappresentato in figura successiva: in tal caso il flusso è meno guidato giacché le
palettature sono meno curve (sono simili alle pale di un aereo, mentre le palette di
una turbina riescono a guidare meglio il flusso) e ciò comporta il fatto che l’ipotesi
monodimensionale funziona meno bene in questo caso (infatti si sono sviluppati
storicamente diversi decenni dopo le turbine). In effetti in un impianto a gas, la
compressione è molto più frazionata dell’espansione. Le palette del compressore
sono più distanziate (hanno una minore solidità) rispetto alle palette della turbina, e
consentono minori deflessioni del flusso, con scambi energetici meno intensi (le
ipotesi di flusso monodimensionale applicabili con buona approssimazione al flusso
in turbina, non permettono una descrizione sufficientemente accurata del flusso nel

420
compressore, che richiede una analisi almeno bidimensionale). Macchine di questo
tipo di fatto, pur essendo state teorizzate nel ′700 si sono sviluppate negli anni ′40,
perché prima il comportamento del compressore era così scadente che assorbiva
praticamente tutto il lavoro della turbina.

Figura 364

Pertanto l’ipotesi di flusso monodimensionale può condurre a risultati accettabili nelle


macchine dove il flusso è ben guidato dalla palettatura (come nel caso delle turbine
assiali di alta e media pressione, dove la distanza tra le palette è relativamente
piccola, per poter ottenere deviazioni elevate a cui corrisponde un maggior lavoro
trasmesso, e con limitate variazioni della geometria con il raggio). La riduzione del
passo della palettatura comporta però un aumento delle perdite per attrito.
Nel caso delle turbine a vapore di bassa pressione, il forte aumento di volume
specifico comporta un rilevante incremento della sezione di passaggio tra gli stadi
successivi. La velocità periferica risulta quindi molto diversa tra la base e l’apice della
palettatura. È necessario inoltre tener conto delle relazioni tra forze centrifughe e
gradienti di pressione radiale, al fine di ottenere un flusso prevalentemente assiale.
Il flusso assume quindi caratteristiche tridimensionali.
Un altro in cui non è possibile sfruttare l’ipotesi di flusso monodimensionale sono le
turbine Kaplan dove c’è una grande distanza tra le pale (il numero di pale è molto
limitato con canali palari ampi) e c’è una grande differenza tra il diametro alla base e
il diametro all’apice della pala stessa, per cui rappresentare ciò che accade lì dentro
con una condizione caratteristica del raggio medio è un qualcosa di inaccettabile (il
flusso non è assimilabile a quello di una ipotetica linea media: ci sono notevoli
differenze di raggio tra mozzo e apice della pala, con visibili effetti di svergolamento).
In figura viene rappresentato il rotore di una turbina idraulica Kaplan:

Figura 365

421
Si tenga presente che è possibile studiare modelli a diversi gradi di complessità per
la descrizione di un fenomeno. I modelli white-box sono modelli che al loro interno
contengono una descrizione completa del fenomeno fisico nei limiti della conoscenza
teorica che si possiede sul quel dato fenomeno. Nel caso della fluidodinamica per
esempio volendo studiare l’evoluzione di un fluido all’interno di un canale è
necessario ricorrere alle equazioni di Navier-Stokes che prendono in considerazioni
anche situazioni complesse di moto turbolento, instazionario, …. È chiaro che anche
nel caso dei modelli white-box non è possibile studiare il problema al massimo livello
di dettaglio anche perché si è limitati dalla potenza dei sistemi computazionali: a
griglia computazionale si deve fermare ad una certa dimensione e non è in grado di
cogliere i vortici più piccoli (tuttavia ciò è il massimo che si riesce a fare). Rimanendo
nell’ambito della fluidodinamica è possibile anche ricorrere a modelli più approssimati
come le equazioni di Eulero, che ha tempi di calcolo di alcuni ordini di grandezza
inferiori rispetto al modello di Navier-Stokes, sebbene sia più impreciso. Le figure
seguenti mostrano i risultati della simulazione del flusso in una pompa-turbina
assiale, nel funzionamento da pompa:

Figura 366

Nel punto di progetto, sia il metodo di Eulero (non viscoso) che di Navier-Stokes
(viscoso) forniscono risultati simili ed in buon accordo con le misure sperimentali.
Discostandosi dalle condizioni di progetto, il solo metodo di Navier-Stokes fornisce
risultati in accordo con la sperimentazione (a prezzo di maggiore complessità
matematica ed oneri computazionali più gravosi). Per cui nelle condizioni di progetto
sembrerebbe che non conviene utilizzare un modello complicato per descrivere il
fenomeno, tuttavia in punti di funzionamento fuori progetto le equazioni di Eulero non
sono in grado di cogliere i cambiamenti fornendo risultati simili a quello che si hanno
nel funzionamento di progetto (il modello di Eulero non si accorge del cambiamento).
Da ciò si comprende che in alcune condizioni i modelli più semplici sono comparabili
con i modelli più complessi, ma ciò potrebbe non essere sempre vero; i modelli più
complessi hanno sicuramente maggiori capacità predittive e si comportano meglio al
di fuori di condizioni di progetto.

422
Di seguito si fa riferimento allo schema di un rotore di una turbina a vapore
(multistadio) di una macchina radiale; si riporta la rappresentazione geometrica che
si utilizza quando si studia il comportamento delle turbomacchine; in particolare il
fluido passa tra le due superfici delle palettature (blade). Si definiscono inoltre delle
superfici virtuali, che sono le superfici di flusso (stream surface); si considera il luogo
dei punti che si trovano all’ingresso della palettatura che hanno stesso raggio e si va
a seguire la traiettoria di questi punti che avevano stesso raggio all’ingresso (Stream
surface S1). Analogamente si considerano i punti che si trovano sullo stesso raggio,
non alla stessa distanza dal centro, e si ottiene un’altra superficie di flusso (Stream
surface S2). Queste due superfici vanno a definire il flusso nelle due direzioni.

Figura 367

Il piano meridiano è il piano che passa per l’asse della turbomacchina che va a
definire una linea di corrente meridiana (il piano meridiano è in sostanza il piano
contenente l’asse della macchina). La linea di corrente è la ipotetica traiettoria
seguita da una particella che entra nella macchina attraversando statori e rotori (è
definita dalla direzione della tangente al vettore velocità). La superficie di corrente è
una superficie assialsimmetrica ottenuta per rotazione attorno all’asse delle linee di
corrente.

Figura 368

423
A questo punto si vuole studiare il fenomeno dello stato limite; in questa analisi ci si
limita a delle considerazioni di carattere fenomenologico che danno una spiegazione
intuitiva di ciò che accade in un condotto accelerante-decelerante (condotto
convergente-divergente) in cui il condotto convergente può anche avere un angolo
piuttosto acuto, mentre la parte divergente deve molto graduale (la successiva
espansione deve avvenire in maniera molto graduale per evitare instabilità del
flusso). Si vuole provare a dare una spiegazione fenomenologica a questa cosa con
considerazioni che si rifanno al concetto di strato limite. Il campo di flusso di un fluido
viscoso attorno ad un solido (nell’esempio seguente un corpo affusolato) può essere
diviso in varie zone, in funzione del ruolo delle forze viscose:

Figura 369

Si immagini che ci sia un flusso che arriva su una lamina sottile; quando il flusso,
supposto uniforme, va ad interagire con il corpo solido (interazione significa che il
corpo è fermo e il fluido è in movimento o viceversa; in generale c’è un moto relativo),
si formerà un gradiente dove la velocità sulla superficie del corpo è pari a zero, e
tende al valore indisturbato ad una certa distanza, per cui ci sarà una gradualità
nell’andare da zero al valore indisturbato. Questa zona in cui questi gradienti sono
più elevati (gradienti trasversali di velocità) si chiama strato limite e questo fa sì che
si instauri una zona vicino alla parete dove gli effetti della viscosità si fanno sentire;
la viscosità esplica i suoi effetti grazie ad un gradiente di velocità (attrito): tale effetto
risulta trascurabile al di fuori dello strato limite (nella zona esterna, lontana dalla
parete, i gradienti trasversali di velocità sono limitati e dunque la viscosità può essere
trascurata). Questo è il motivo per cui spesso si può studiare un fenomeno
trascurando la velocità, ovvero si studia ciò che avviene al di fuori dello strato limite
e questo è accettabile se lo strato limite è piuttosto piccolo rispetto al resto del campo
di moto (questo è uno dei motivi per cui l’ipotesi monodimensionale funziona
abbastanza bene in alcuni casi, perché in una macchina ben progettata e che
funzioni vicino alla condizione di progetto lo strato limite è piuttosto limitato per cui si
può considerare ciò che accade al di fuori di esso).
Nello strato limite si distingue una zona laminare (strato limite laminare) dove la
velocità ha fluttuazioni limitate e le linee di flusso sono parallele alla superficie, in tal
caso si ha una forte regolarità (in tale zona gli scambi energetici tra lo strato limite e
la zona esterna sono trascurabili). Dopo la zona laminare, il flusso inizia a diventare
instabile e ciò è legato a parametri adimensionali, quali il numero di Reynolds e si
raggiunge una zona di transizione dove si riscontra la presenza di vortici (le
fluttuazioni di velocità tendono ad amplificarsi a spese di energia sottratta al flusso
424
esterno e lo strato limite diventa instabile); tali vortici poi si sviluppano in maniera più
decisa e si arriva in una zona caratterizzata dal moto turbolento (strato limite
turbolento) in cui si ha una distribuzione random del vettore velocità (forti oscillazioni
del modulo e della direzione della velocità) per cui esso può essere definito in termini
statistici ma non c’è una funzione che consente di valutarne il valore puntuale (in
questa zona gli scambi energetici tra strato limite e zona esterna sono apprezzabili).
Ciò porta anche ad un allargamento della zona di strato limite. La zona di strato limite
viene poi definita quantitativamente come quella zona in cui la velocità è pari
tipicamente al 99 % della velocità indisturbata.

Figura 370

Si vuole capire cosa succede quando una lamina, considerata infinitesima, va ad


interagire con un flusso che arriva ad una data velocità. In questo caso vicino alla
parete la velocità è nulla e ci sarà un andamento che raccorda questa velocità con
quella indisturbata ad una certa distanza e si svilupperanno delle forze viscose (forze
di attrito) che si opporranno al moto; l’effetto di queste forze è quello di rallentare il
flusso quindi il diagramma di velocità si schiaccia verso velocità più basse (significa
che la velocità vicino la parete si riduce via via), e per l’equazione della continuità la
quantità che passava in una certa zona più avanti avrà bisogno di uno spazio
maggiore perché la velocità si è ridotta, per cui aumenta l’altezza della zona in cui si
ha questa variazione, ovvero aumenta l’altezza dello strato limite. Questo fenomeno
si ripete finché la successiva riduzione di velocità, legata alle forze viscose e che
allarga lo strato limite, porta ad azzerare i valori di velocità e per una serie di effetti
si arriva a fenomeni di inversione del diagramma di velocità. Quindi il successivo
rallentamento porta ad innalzare la zona e arriva ad azzerare la velocità e ad invertire
il gradiente di velocità all’attacco. La derivata parte positiva poi diventa nulla e in
seguito negativa, quando è negativa significa che si innescano delle vorticità, ciò
spiega come si passa dal moto laminare alla zona di transizione e poi al moto
turbolento. Quindi sintetizzando il profilo di velocità nello strato limite è inizialmente
di tipo parabolico, con un gradiente alla parete positivo; Per effetto dell’attrito la
velocità nello strato limite tende a ridursi e lo spessore 𝛿 tende ad aumentare;
successivamente il gradiente di velocità si annulla e quindi diventa negativo, con la
comparsa di vortici.

425
Figura 371

Si vuole capire ora qual è l’effetto se la velocità a monte non è costante ma va a


ridursi o ad aumentare: questo è ciò che accade nei condotti convergenti o divergenti.
Quando la velocità aumenta (figura sottostante sinistra) si contrasta l’effetto di
schiacciamento del diagramma di velocità, perché la parte inferiore tende a ridursi
mentre la parte superiore tende ad allargarsi, per cui l’effetto dell’incremento di
velocità va a contrastare l’effetto di insorgenza di instabilità perché si porta il
diagramma a crescere e si ritarda l’inversione del diagramma (quando si ha
un’espansione la pressione si riduce e la velocità aumenta: condotto accelerante). Il
contrario avviene quando la velocità si riduce (figura sottostante destra): in un
condotto divergente dove l’obiettivo è quello di aumentare la pressione riducendo la
velocità, la riduzione di velocità si somma all’effetto dello schiacciamento del
diagramma nella parte inferiore per cui ciò rende questo effetto più probabile e si
accelera il fenomeno di instabilità. Quindi si ha un rallentamento legato alle forze
viscose e un rallentamento che si ha nella parte superiore legato all’andamento della
velocità. Pertanto nei condotti in cui si ha rallentamento di velocità (diffusori) è più
facile che vi sia insorgenza di instabilità fluidodinamica, mentre nei condotti in cui si
ha accelerazione del fluido tale effetto contrasta l’insorgenza di instabilità. Questa è
una spiegazione qualitativa del fatto che il funzionamento di una turbina dal punto di
vista fluidodinamico sia più semplice del funzionamento di un compressore, perché
in una turbina si ha un’espansione del fluido nello statore e in parte nel rotore stesso
(dipende dal grado di reazione); nel compressore invece si ha prima
un’accelerazione del fluido nel rotore, mentre nello statore si ha un rallentamento per
trasformare la sua energia cinetica in energia di pressione, quindi lo statore ha una
parte che funge da diffusore (nel compressore centrifugo questo diffusore è la volta),
che è la parte statorica dei vari stadi di compressione, dove si possono facilmente
presentare situazioni di distacco dello strato limite; pertanto la conversione
energetica deve essere più graduale rispetto a quella che possiamo avere in una
turbina. Questo è il motivo per cui nella a parità di salto di pressione la turbina ha 3
o 4 stadi mentre il compressore ne ha 20 perché deve essere molto più graduato lo
scambio energetico per evitare le instabilità fluidodinamiche.
Quindi sintetizzando in presenza di un gradiente di pressione negativo (in un
condotto accelerante, per esempio), la velocità tende ad aumentare nel verso del

426
moto, con un incremento dei vettori velocità in tutto lo strato limite, contrastando il
fenomeno del distacco. In presenza di un gradiente di pressione positivo (in un
condotto decelerante, per esempio), la velocità tende invece a ridursi nel verso del
moto, con un decremento dei vettori velocità in tutto lo strato limite, accentuando
quindi il fenomeno del distacco.

Figura 372

Il lavoro del vettore velocità 𝑐 lungo una linea 𝑖 è dato dall’ integrale del prodotto
scalare del vettore velocità per il versore della linea:

∫ 𝑐 ∙ 𝑑𝑠 = ∫ 𝑐 cos(𝜗) 𝑑𝑠

Figura 373

Il lavoro lungo una linea chiusa si definisce invece circuitazione del vettore 𝑐 (il campo
di velocità è una zona dello spazio in cui ogni punto è definito un vettore).

𝛤 = ∮ 𝑐 cos(𝜗) 𝑑𝑠

Essendo l’integrale una somma questa somma può essere anche partizionata in più
parti, quindi l’integrale chiuso può essere calcolato come l’integrale da un generico
punto 𝐴 ad un generico punto 𝐵 e l’integrale da 𝐵 ad 𝐴, quindi la circuitazione può
essere calcolata come somma delle 𝑛 parti che compongono il circuito (per esempio
due):
𝐵 𝐴
∮ 𝑐 cos(𝜗) 𝑑𝑠 = ∮ 𝑐 cos(𝜗) 𝑑𝑠 + ∮ 𝑐 cos(𝜗) 𝑑𝑠
𝐴(𝐼) 𝐵(𝐼𝐼)

427
Figura 374

Se la circuitazione è nulla, l’integrale da 𝐴 a 𝐵 deve essere pari a meno l’integrale da


𝐵 ad 𝐴, quindi l’integrale da 𝐴 a 𝐵 è pari all’integrale da 𝐴 a 𝐵 secondo l’altro percorso;
se la circuitazione è nulla il lavoro che il vettore velocità compie nell’andare da un
punto 𝐴 ad un punto 𝐵, è indipendente dal percorso seguito, e dipende solo dai limiti
di integrazione.

Se il lavoro dipende solo dal punto 𝐴 e dal punto 𝐵 e non dal percorso seguito, ciò
significa che è una funzione del punto 𝐴 e del punto 𝐵 e questa si chiama funzione
potenziale del campo di velocità, che esprime il valore dell’integrale per ogni punto 𝑃
a partire da un punto arbitrario 𝑂:
𝑃
𝜑 = ∫ 𝑐 cos(𝜗) 𝑑𝑠 = 𝜑(𝑃)
𝑂

Tutti i punti in cui questa funzione potenziale ha lo stesso valore sono punti di una
superficie equipotenziale, quindi la superficie equipotenziale è il luogo dei punti in cui
la funzione potenziale assume lo stesso valore (nel moto piano si parla di linea
equipotenziale o di linea di flusso). Quindi la funzione potenziale è la funzione che
esprime il lavoro a partire da un punto arbitrario fino ad uno dei punti della linea,
ovvero data un’origine quel dato integrale ha lo stesso valore per raggiungere
qualsiasi punto di quella linea; la variazione della funzione potenziale tra due punti
𝑃′ e 𝑃′′ della superficie (o della linea) equipotenziale deve essere nulla, perché
appunto la funzione potenziale è uguale sui punti della stessa linea. Essendo 𝑐 un
generale diverso da zero, si deduce che il vettore velocità deve essere normale alla
superficie (o alla linea) equipotenziale. In un moto piano le linee di flusso sono quindi
ortogonali alle linee di corrente, definite in ogni punto dalla direzione della tangente
al vettore velocità.
𝑃′′
𝛥𝜑 = ∫ 𝑐 cos(𝜗) 𝑑𝑠 = 0 ⟹ 𝜗 = 90°
𝑃′

428
Figura 375

In dati due punti dove la funzione potenziale ha lo stesso valore, quindi due punti
della linea equipotenziale, se la variazione della funzione potenziale deve essere
nulla, significa che il lavoro, ovvero ∫ 𝑐 cos(𝜃)𝑑𝑠 (quindi nell’andare da 𝑃 a 𝑃′: due
punti generici) deve essere nullo per qualsiasi valore della velocità, significa che
cos(𝜗) è nullo per cui l’angolo 𝜗 è pari a 90°; ciò dimostra che la linea di flusso è il
luogo dei punti ortogonali al campo di velocità, perché solo in questo caso per andare
da un punto ad un altro il lavoro sarà nullo. Il luogo dei punti composto dalle tangenti
al vettore velocità si chiama linea di corrente (in rosso) quindi le linee di corrente
sono ortogonali alle linee di flusso. Le linee di flusso quindi sono le linee dove la
funzione potenziale è uguale e sono ortogonali al vettore velocità, le linee di corrente
invece hanno la direzione della tangente al vettore velocità e quindi sono
mutuamente ortogonali. Così come si definisce una funzione di flusso, che è il valore
del lavoro in un generico punto ed è costante lungo una linea di flusso, analogamente
si può definire una funzione di corrente su cui si definisce quella funzione che ha la
proprietà di essere costante lungo una linea di corrente. Quindi la funzione di flusso
è pari al lavoro da un determinato punto nel caso in cui la circuitazione sia nulla nel
campo di moto, invece la funzione di corrente è quella funzione che rimane costante
sulle linee di corrente che sono composte dalle tangenti al vettore velocità.
La funzione potenziale è un differenziale esatto e si esprime matematicamente come:

In termini differenziali invece si ha:

In sostanza in questo modo sono state proiettate le componendi di 𝑑𝑠 lungo i tre assi
e compaiono le componenti del vettore velocità. Confrontando le due espressioni,
ossia quella sul differenziale esatto con quella che definisce il potenziale si nota che
le componenti del vettore velocità coincidono con le derivate parziali della funzione
potenziale rispetto a 𝑥,𝑦 e 𝑧 per cui il gradiente di questa funzione potenziale è pari
al vettore velocità (il vettore velocità è il gradiente della funzione potenziale=:

429
In termini vettoriali invece si ha:
𝑐 = 𝑔𝑟𝑎𝑑 (𝜑)

Si consideri un cubetto elementare dove si ha il passaggio di un fluido lungo 𝑥 con


velocità 𝑐𝑥 ; all’uscita del cubetto la velocità sarà diversa perché in generale si ha un
certo gradiente.

Figura 376

Il flusso uscente dal cubetto elementare in direzione 𝑥 si può esprimere moltiplicando


la differenza tra le velocità normali in ingresso ed in uscita per l’area elementare 𝑑𝐴 =
𝑑𝑦𝑑𝑧:

Dove:
𝑑𝑉 = 𝑣𝑜𝑙𝑢𝑚𝑒 𝑒𝑙𝑒𝑚𝑒𝑛𝑡𝑎𝑟𝑒
La relazione su scritta esprime la variazione di volume nella direzione 𝑥.
Analogamente si può fare lo stesso lungo 𝑦 e lungo 𝑧 e si ottiene la relazione che
esprime il volume in uscita dal cubetto in funzione delle derivate del vettore velocità
nella direzioni 𝑥, 𝑦, 𝑧. Si ottiene così la divergenza del vettore velocità che
rappresenta il flusso uscente per unità di volume (si sommano i contributi relativi ai
tre assi ottenendo il flusso netto in uscita dal cubetto):

Il termine scalare tra parentesi si definisce divergenza del vettore velocità 𝑐 (flusso
uscente per unità di volume):

Volendo considerare un flusso di massa basta moltiplicare quanto scritto per una
densità, per cui con analoghe considerazioni si ha:

Esistono molti casi applicativi in cui il flusso di massa netto è pari a zero, e ciò
succede se all’interno di questo sistema non si ha una generazione di massa o una
distruzione di massa e se non c’è un accumulo. In sostanza nel caso di flusso
stazionario (proprietà costanti nel tempo), in assenza di pozzi o di sorgenti, la massa

430
si mantiene costante; in tal caso la divergenza del termine 𝜌𝑐 (flusso di massa) è
nulla:

Nel caso di flusso stazionario incomprimibile (densità costante, come nel caso di
acqua), anche la portata volumetrica si conserva; in questa ipotesi la divergenza del
vettore velocità 𝑐 è nulla:

Un campo vettoriale nel quale la divergenza sia nulla si definisce solenoidale.


Nel caso di flusso stazionario incomprimibile vale la relazione seguente:

Nell’ipotesi di flusso a potenziale invece si ha:

Combinando le relazioni vengono fuori le derivate seconde:

La relazione su scritta può essere espressa sinteticamente con l’operatore di Laplace


e vale nel campo di flusso stazionario incomprimibile dove ci sia un flusso a
potenziale, ovvero non ci sono dissipazioni (non c’è l’effetto della viscosità):

Se il moto si svolge in un piano (moto piano) scompare la dipendenza da 𝑧 e le


relazioni su scritte si semplificano nella maniera seguente:

È interessante notare che per la funzione di flusso e per la funzione di corrente


valgono certe relazioni di simmetria per le derivate (date due rette ortogonali sul
piano cartesiano vale la relazione tra i coefficienti angolari che sono antireciproci e
431
in questo caso ciò si traduce con una relazione sulle derivate). In particolare la
condizione di ortogonalità tra le linee di flusso e le linee di corrente implica:

Per cui vale anche:

Le equazioni di Navier-Stokes sono valide nelle ipotesi di:


 Forze di attrito di tipo Newtoniano.
 Campo di moto deterministico (assenza di turbolenza).

Figura 377

Figura 378

Di seguito viene riportato uno schema che definisce la geometrica di un profilo alare:

432
Figura 379

In particolare la forma del profilo è caratterizzata dall’andamento della linea media e


dalla distribuzione degli spessori. Il profilo sopra riportato può essere visto come
un’ala di un aereo o una palettatura di una turbomacchina o di una turbina eolica,
dove c’è un bordo di attacco e un bordo di uscita, generalmente il primo è smussato
e il secondo è aguzzo (nel caso di moto subsonico). Si definisce la corda ovvero la
lunghezza del profilo, la linea media, l’estradosso e l’intradosso; generalmente
l’estradosso è la parte di sopra e l’intradosso è la parte di sotto, perché se si pensa
al funzionamento normale di un aereo è quello che porta allo sviluppo di una forza
che lo porti verso l’alto, e un profilo che incontra un fluido fa sì che sopra si abbia un
incremento di velocità e sotto una riduzione di velocità, per le pressioni succede il
contrario per cui si genera una forza che ha una componente verso l’alto (portanza).
Se si pensa ad una turbomacchina non ha molto senso dire sopra e sotto, però si
continua a ragionare così per semplicità.
I parametri caratteristici (espressi in termini percentuali rispetto alla corda) sono:
 Freccia massima della linea media: distanza tra la corda e la linea media.
 Posizione della freccia massima.
 Massimo spessore.
Sono state definite diverse tipologie di profili. Dai laboratori aerodinamici, prima
attraverso metodi semi-empirici, poi con metodologie più sistematiche, allo scopo di
creare profili con determinate caratteristiche (elevata portanza, regolarità delle
pressioni sull’estradosso (l’irregolarità può indurre instabilità), ampio campo di
funzionamento regolare). Tra le principali si citano i profili Gottingen, Clark Y e le
diverse serie di profili NACA (four digits, five digts, serie 6). la serie di profili NACA
five digits definisce i profili con elevata portanza. Le cinque cifre caratterizzando il
profilo, seconda la convenzione seguente:

433
Figura 380

La prima cifra è legata al coefficiente di portanza, le due cifre successive sono invece
legate alla posizione della freccia massima; infine le ultime due cifre sono legate allo
spessore massimo.
Il profilo della linea media viene definito con delle relazioni parametriche che sono
relazioni di terzo grado, a partire dai parametri 𝑚 e 𝑘: e al variare di essi si hanno
diversi profili della linea media.
I profili possono essere caratterizzati in funzione della curvatura dell’estradosso e
dell’intradosso rispetto alla linea media, che può essere concava, piana o convessa.
Esistono anche profili piano convessi e profili biconvessi, dove la convessità può
essere diversa o uguale e si hanno biconvessi simmetrici. Un esempio di questi ultimi
si trovano nelle turbine con lo scopo di generare portanza indipendentemente dalla
direzione del flusso.

Figura 381

Quando il profilo interagisce col flusso si genera una forza che ha due componenti:
una ha la stessa direzione del vettore velocità ed è la resistenza l’altra è ortogonale
al vettore velocità e si chiama portanza, in molti casi l’obiettivo è quello di ottenere
una portanza elevata, mentre in altri casi si vuole ottenere una portanza negativa
(deportanza), ed è ciò che si ha in Formula 1 con gli alettoni o con l’intero corpo della
vettura, dove si vuole generare una forza che schiacci a terra il veicolo per aumentare
l’adesione dello pneumatico con la strada. L’angolo formato tra la direzione della
velocità e la corda è detto angolo di incidenza. La resistenza, che in genere è un
434
effetto negativo ma in alcuni casi può essere un effetto voluto per frenare il mezzo, è
legata all’attrito che si forma lungo le pareti a causa dello strato limite e alla
formazione di una scia vorticosa a valle del profilo.

Figura 382

435
Lezione 33 (Pianese) 11/05/2017
Motori alternativi a combustione interna: sistemi di sovralimentazione
Il motore che è una macchina volumetrica deve dunque essere accoppiato con una
macchina dinamica che è il compressore; tra le curve dei due sistemi vi deve essere
una condizione di matching ossia di accoppiamento tra le due macchine. Di seguito
vengono riportate le curve di accoppiamento tra motore a combustione interna e
compressore:

Figura 383

Le curve a carico costante (𝐶𝑖 ) crescono in funzione della portata di aria e del
rapporto di sovralimentazione (aumenta l’energia che è possibile inserire nel
sistema); contemporaneamente spostandosi verso destra tali curve devono essere
congruenti con la quantità di aria elaborata dalla macchina volumetrica: questo è il
motivo per cui il regime di giri (𝑛𝑖 ) cresce con la portata. Le curve tendono ad avere
un’inclinazione crescente dovuta ad effetti indotti indirettamente dalla
sovralimentazione come ad esempio un miglioramento del lavaggio (quindi è
possibile inserire ancora più aria ai carichi più elevati); per cui l’effetto di
sovralimentazione porta dietro con sé anche degli effetti secondari. Quando la
pressione di sovralimentazione aumenta, aumenta l’energia in gioco e dunque
l’entalpia dei gas di scarico: la turbina produce un lavoro maggiore il che si ripercuote
sul compressore. Bisogna fare quindi in modo che le curve di funzionamento del
motore rientrino nel campo di funzionamento della turbina: se non ci fosse
intersezione ci sarebbero delle condizioni operative richieste dal motore che non
possono essere soddisfatte dal sistema di turbosovralimentazione. Pertanto i punti
di funzionamento del motore devono essere all’interno della zona di funzionamento
della turbina e del compressore in modo da riuscire a soddisfare tutte le necessità.
È possibile calcolare le condizioni di equilibrio turbina-compressore (condizioni
stazionarie con un punto di funzionamento). Per costruire un modello del motore
sovralimentato è necessario seguire diversi passaggi; in particolare si fa riferimento
436
al caso di motore sovralimentato a gas di scarico con turbina e compressore
macchine dinamiche. L’ipotesi che si fa è quella di considerare il sistema in regime
stazionario; c’è un accoppiamento termofluidodinamico tra turbina motore e
compressore; la turbina inoltre elabora una portata di aria che è quella scaricata dal
motore: tale portata deve essere congruente con la quantità di aria elaborata dal
compressore. a partire da queste ipotesi si cerca la soluzione iterativamente grazie
a due loop interni che si basano sull’equilibrio meccanico del compressore e sulla
pressione di esercizio a monte del compressore.

Figura 384

In particolare si suppone che il numero di giri fisico del compressore sia pari al
numero di giri fisico della turbina. Inoltre si suppone che il lavoro reale di
compressione e il lavoro reale di turbina siano uguali nonché che le portate a regime
siano uguali (la portata elaborata dal compressore è pari alla portata elaborata da
motore e turbina); l’ipotesi sulla portata è semplificativa rispetto alla realtà perché la
massa della turbina dovrebbe essere pari a quella del compressore sommata a
quella del combustibile (la massa elaborata dal motore è pari alla massa che entra
in turbina); è chiaro che il combustibile potrebbe essere iniettato in qualsiasi punto a
monte del motore, ma a valle del compressore; diverso è il caso in cui vi sia un
carburatore che viene messo a monte del compressore (nello schema la valvola di
laminazione a monte del compressore potrebbe rappresentare la perdita di carico
attraverso il filtro di aspirazione); nel caso di motori Diesel o di GDI invece il
combustibile viene iniettato direttamente in camera.

437
Il lavoro reale del compressore si ottiene dividendo il lavoro ideale dello stesso per il
rendimento adiabatico (disponibile sulle mappe). In effetti si parte proprio dalle
mappe per ricavare il rendimento (curve isorendimento):

Figura 385

Lo stesso ragionamento vale per le mappe della turbina:

Figura 386

Nel caso della turbina il regime di giri aumenta da destra verso sinistra.
Alla fine bisogna fare in modo che la portata nel compressore e nella turbina siano
le stesse e che i giri fisici siano gli stessi; i due parametri indipendenti per certi versi,
ma che comunque sono legati attraverso il lavoro, sono i rapporti di compressione e
di espansione. Avendo dei parametri ridotti ci sono comunque degli effetti secondari
che andrebbero considerati: essendo la temperatura allo scarico molto più elevata di
quella all’aspirazione a parità di regime di giri il rapporto 𝑁𝑡 /√𝑇𝑠 risulta essere minore
rispetto al rapporto 𝑁𝑐 /√𝑇0 . Inoltre si tenga presente che:

438
𝑘−1
𝜆=
𝑘
All’interno di un modello di calcolo semplificato il motore viene simulato al fine di
calcolare la 𝑝𝑠 e la 𝑇𝑠 (pressione e temperatura di scarico) che dipendono dalle
condizioni nel punto 1 (𝑝1 e 𝑇1 ); di fatto se la pressione in ingresso è elevata sarà
maggiore la quantità di aria che entra nel cilindro e dunque maggiore sarà anche la
quantità di combustibile, per cui si avranno allo scarico temperatura e pressione più
alta. Compressore e turbina che sono tra loro vincolati meccanicamente sono in
sostanza anche vincolati termofluidodinamicamente al motore a combustione
interna. Pertanto le grandezze 𝑝𝑠 e 𝑇𝑠 sono funzioni della portata d’aria elaborata dal
motore. In particolare tra le condizioni del punto 4 e le condizioni all’ingresso della
turbina (𝑠) ci potrebbe essere una perdita di carico, come accade nel caso in cui si
ha un plenum in cui viene dissipata una parte dell’energia. Nel caso ad impulsi invece
bisogna immaginare che:
𝑝𝑠 = 𝑝4
𝑇𝑠 = 𝑇4
In quest’ultimo caso di fatto non si ha perdita di energia cinetica.
Le mappe della turbina e del compressore esprimono il rapporto di espansione e di
compressione in funzione delle grandezze riportate sul grafico.
Un possibile schema di soluzione del problema è quello riportato nella figura
precedente. In sostanza si assegna una massa 𝑚𝑚 (massa elaborata dal motore)
una pressione 𝑝𝑎 (all’aspirazione) e una temperatura 𝑇0 = 𝑇𝑎 (temperatura
ambiente): tali parametri sono noti. Si va dunque a fissare una pressione 𝑝0 di
tentativo. Nota che sia la 𝑝0 è possibile calcolare la portata ridotta per il compressore
fissata che sia la portata 𝑚̇ 𝑐 che è l’obiettivo per quella condizione di esercizio. Fatto
ciò si assegna un valore di tentativo a 𝑁𝑐 ; per cui entrando nelle mappe del
compressore avendo fissato sostanzialmente la portata (ci si muove lungo una linea
verticale) nonché il regime di giri (e dunque la curva di competenza) è possibile
calcolare il rapporto di compressione 𝛽𝑐 nonché il rendimento 𝜂𝑐 . Dopodiché è banale
calcolare la pressione e la temperatura in ingresso al motore (noto 𝛽𝑐 è nota la
pressione di ingresso al motore e la temperatura di ingresso si calcola assumendo
una trasformazione di compressione adiabatica o anche reale conoscendo il
rendimento adiabatico). È possibile dunque entrare nel ciclo per calcolare pressione
e temperatura in uscita dal motore. Entrando nella fase di scarico è possibile
calcolare la temperatura e la pressione a monte della turbina (𝑝𝑠 e 𝑇𝑠 si ricavano
proprio a partire da 𝑝4 e 𝑇4 in base alle ipotesi fatte). Quindi è possibile calcolare (per
congruenza) quanto vale la portata ridotta della turbina nonché il rapporto di
espansione. A questo punto dalle mappe è possibile calcolare la velocità di rotazione
della turbina: di fatto conoscendo la portata, la temperatura e la pressione ci si
muoverà su una linea verticale, ma essendo noto anche il rapporto di espansione è

439
possibile intercettare la curva della mappa ad un dato regime di giri. È evidente che
il regime di giri della turbina deve essere uguale a quello del compressore per cui si
effettua un confronto: nel caso in cui essi siano diversi si ritorna ad assegnare un
valore di tentativo alla 𝑁𝑐 che questa volta non sarà più un vero e proprio valore di
tentativo, ma sarà proprio il valore di 𝑁𝑡 appena calcolato (ricavato dalla mappa della
turbina); questa procedura va ripetuta finché non si arriva a convergenza; quando le
velocità di rotazione di turbina e compressore sono uguali si va a calcolare il
rendimento e il lavoro della turbina; infine si va a confrontare il lavoro di turbina con
il lavoro del compressore: nel caso in cui essi siano uguali allora si esce
dall’iterazione, se invece sono differenti si ritorna al punto di partenza assegnando
una nuova 𝑝0 : ovviamente la 𝑝0 non sarà più un valore di tentativo, ma viene calcolata
attraverso l’equilibrio del compressore e della turbina: bisogna fare in modo che la
potenza del compressore sia uguale alla potenza erogata dalla turbina; le portate di
fatto sono tutte note così come anche le temperature; tuttavia la 𝑝𝑚 non è nota
giacché era stata ipotizzata per cui l’equazione seguente viene risolta in funzione di
𝛽𝑐 :

Figura 387

In questo modo è possibile calcolare la 𝑝0 per reiterare. Ovviamente il rapporto di


compressione 𝑝𝑚 /𝑝𝑎 è funzione del rapporto tra la portata della turbina e quella del
compressore (nonché di altre grandezze). Si tenga presente che:
𝑐𝑝′ = 𝑐𝑎𝑙𝑜𝑟𝑒 𝑠𝑝𝑒𝑐𝑖𝑓𝑖𝑐𝑜 𝑎 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑓𝑙𝑢𝑖𝑑𝑜 𝑒𝑙𝑎𝑏𝑜𝑟𝑎𝑡𝑜 𝑑𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑡𝑢𝑟𝑏𝑖𝑛𝑎

𝑐𝑝 = 𝑐𝑎𝑙𝑜𝑟𝑒 𝑠𝑝𝑒𝑐𝑖𝑓𝑖𝑐𝑜 𝑎 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑓𝑙𝑢𝑖𝑑𝑜 𝑒𝑙𝑎𝑏𝑜𝑟𝑎𝑡𝑜 𝑑𝑎𝑙 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑜𝑟𝑒


440
𝛼 = 15 (𝑝𝑒𝑟 𝑢𝑛 𝑚𝑜𝑡𝑜𝑟𝑒 𝑎𝑑 𝑎𝑐𝑐𝑒𝑛𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑐𝑜𝑚𝑎𝑛𝑑𝑎𝑡𝑎: 𝑚𝑖𝑠𝑐𝑒𝑙𝑎 𝑠𝑡𝑒𝑐ℎ𝑖𝑜𝑚𝑒𝑡𝑟𝑖𝑐𝑎)
𝑇𝑠
𝜉= 𝜂 𝜂
𝑇𝑎 𝑐𝑝 𝑡
Nel caso dei motori Diesel il rapporto di miscela è più elevato e dunque l’impatto è
minore (ossia 𝑚̇𝑡 /𝑚𝑐𝑝 si riduce).
Ovviamente quella rappresentata è semplicemente un’ipotesi di soluzione che è
semplificata nelle condizioni di equilibrio avendo fissato la massa elaborata dal
motore. In realtà il problema è più complesso soprattutto perché le mappe devono
essere riscritte ed uno dei problemi più seri è legato alla turbina in cui le mappe sono
molto strette (è complesso costruire modelli di calcolo); tipicamente si utilizzano dei
modelli black-box che funzionano abbastanza bene a patto che i dati siano stati ben
acquisiti. Tuttavia spesso i dati forniti dai produttori del compressore e della turbina
non coprono tutto il campo di funzionamento del motore per cui bisogna fare delle
estrapolazioni sul regime di giri ad esempio: molto spesso si utilizzano dei modelli
grey-box nella zona di estrapolazione (quando si estrapolano i modelli black-box si
perde la fisica del problema, per cui è buona norma applicarli in un dominio delle
variabili indipendenti interno al dominio del set di dati sperimentali utilizzato per
costruire il modello stesso). Sostanzialmente quando si vogliono effettuare delle
estrapolazioni con modelli di tipo black-box se si ha un andamento lineare si riesce
anche a farlo in maniera adeguata, ma se l’andamento è fortemente non lineare
(curvature, flessi, …) non ci si riesce:

Figura 388

Per riuscire a riprendere l’andamento dopo la linea in rosso si dovrebbe allargare il


dominio dei dati sperimentali e non è detto che essi siano noti in quella zona. Per cui
l’unica soluzione è riprendere la restante parte dell’andamento con un modello più
fisico (di tipo grey-box magari).

441
Dal punto di vista fisico del funzionamento motoristico anche la sovralimentazione a
comando meccanico ha un problema di accoppiamento in quanto sebbene le due
macchine accoppiate siano della stessa natura (stesso principio fisico di
funzionamento: due macchine volumetriche accoppiate) comunque il motore non può
elaborare una portata volumetrica maggiore di quella che elabora il compressore; nel
caso in cui il compressore elabora una portata volumetrica maggiore di quella del
motore la pressione tra compressore e sistema di aspirazione che è una condizione
indesiderata se non per la quantità di sovrappressione necessaria a vincere le perdite
di carico. Di seguito viene riportato uno spaccato di un motore con sovralimentazione
volumetrica con un compressore a due lobi (compressore roots):

Figura 389

Nel motore in esame l’aria viene aspirata attraverso un filtro, passa in un collettore
ed entra in due carburatori a doppio corpo (riescono a modulare la quantità di
combustibile trasferita al motore); il compressore volumetrico elabora in sostanza
aria e benzina. La portata è evidentemente pulsata perché per ogni giro del
compressore si hanno quattro pulsazioni (due portate sopra e due sotto); c’è
evidentemente un legame tra la velocità di rotazione dell’albero motore e la velocità
di rotazione del compressore. Si tenga presente che allungando i lobi è possibile
aumentare la portata. Per garantire un buon accoppiamento tra motore e
compressore è possibile regolare la velocità di rotazione di quest’ultimo.
Altri tipi di compressori volumetrici sono di seguito riportati:

442
Figura 390

Tipicamente i compressori a palette si utilizzano per applicazioni lente (motori navali);


il compressore radiale rappresentato in figura è in realtà un compressore a tre lobi
con una generatrice non parallela all’asse dalla macchina che dovrebbe garantire
una maggiore continuità nel flusso rispetto al compressore analizzato
precedentemente (la frequenza delle pulsazioni è più elevata: invece di averne
quattro ce ne sono sei). Nel caso del compressore Lysholm i rotori non hanno la
stessa sezione: una parte è trilobata e un’altra parte no (è come se si avesse una
vite ed una madre vite che si impegnano l’una sull’altra); lungo l’asse ovviamente si
ha un avanzamento ed una rotazione (la sezione ruota diminuendo il volume):
discorso simile vale per il compressore a vite (anche qui c’è una vite e una madre
vite). In questi ultimi due casi (compressore a vite e compressore Lysholm) si ha una
portata più continua rispetto al compressore a palette o al compressore a lobi. Tali
soluzioni vengono scelte dal costruttore soprattutto in funzione delle opportunità di
installazione nonché di progettazione.
Di seguito viene riportata un’applicazione di un compressore volumetrico (Mercedes
Benz 2.0 16v Kompressor) di tipo roots a tre lobi:

Figura 391
443
In questo caso c’è un sistema con un giunto elettromagnetico che inserisce e
disinserisce il compressore; ciò ha senso perché ad elevati regimi di giri si effettua
un by-pass in modo da evitare che la portata elaborata dal compressore sia inferiore
a quella che può aspirare normalmente il motore. Si tenga presente che un
compressore piccolo funziona bene ai bassi giri, mentre un compressore grande
funziona bene agli elevati regimi di giri.
Il vantaggio di tali compressori è che ai bassi regimi consentono di avere una coppia
molto elevata. In alcune applicazioni c’è un accoppiamento tra compressore
volumetrico e compressore dinamico in modo da avere attivo il compressore
dinamico ad elevati regimi di giri e il compressore volumetrico ai bassi regimi di giri
(attraverso dei by-pass).
Nel caso dei compressori dinamici le curve caratteristiche hanno un andamento più
o meno di questo tipo:

Figura 392

In sostanza la prevalenza è più o meno costante al variare della portata.


Nel caso della macchina volumetrica invece le curve caratteristiche hanno un
comportamento opposto:

Figura 393

444
Per cui quando si ha bisogno di una macchina con una prevalenza più o meno
costante si utilizza un compressore dinamico radiale, mentre nel caso in cui si vuole
una portata più o meno costante si utilizzano i compressori volumetrici.
Ovviamente nel caso reale si ha una situazione di questo tipo:

Figura 394

Le curve sono inclinate verso sinistra (inclinazione negativa) perché all’aumentare


della prevalenza, le tenute del sistema reale tendono a ridursi e quindi si perde un
po’ di portata. Per cui la curva dei compressori volumetrici (in particolare quelli
alternativi) è leggermente inclinata verso sinistra (all’aumentare della prevalenza una
certa quantità di portata non viene elaborata).
Esistono anche dei compressori detti ad onde di pressione (comprex), che hanno un
diverso principio di funzionamento. Un esempio è riportato di seguito:

Figura 395

445
Si immagini di avere un condotto molto lungo, in cui il rapporto tra il diametro e la
lunghezza è molto piccolo:

Figura 396

Si immagini di far entrare all’interno di questo condotto dell’aria fresca; se da qualche


parte del condotto c’è del gas caldo c’è una separazione (in un ambiente aperto i due
gas per ovvi motivi di diffusione e di turbolenza tenderebbero a mescolarsi). È
possibile immaginare che il fluido si sposti da sinistra a destra con una certa velocità
𝑣𝑔 e che il fronte di separazione si sposti con la stessa velocità. Se in un certo istante
𝑡0 si determina un impulso di pressione (𝛥𝑃), tale perturbazione sarà caratterizzata
da un’onda che può essere per esempio di compressione; l’onda avanzerà
ovviamente con una velocità 𝑎:

𝑎 = √𝑘𝑅𝑇
Dove:
𝑘, 𝑅 = 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑖 𝑐𝑎𝑟𝑎𝑡𝑡𝑒𝑟𝑖𝑠𝑡𝑖𝑐ℎ𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑚𝑒𝑧𝑧𝑜 (𝑔𝑎𝑠)
𝑇 = 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑒𝑟𝑎𝑡𝑢𝑟𝑎 𝑑𝑒𝑙 𝑔𝑎𝑠
Dopo un certo intervallo di tempo 𝛥𝑡 l’onda avrà percorso uno spazio 𝛥𝑠𝑜𝑛𝑑𝑎 pari a:
𝛥𝑠𝑜𝑛𝑑𝑎 = 𝑎 ∙ 𝛥𝑡
Invece lo spazio percorso dal gas 𝛥𝑠𝑔 sarà pari a:

𝛥𝑠𝑔 = 𝑣𝑔 ∙ 𝛥𝑡
Quindi in sostanza sia l’onda che il fronte si spostano con una certa velocità.
Nell’ipotesi in cui 𝑎 ≫ 𝑣𝑔 l’onda di perturbazione si troverà più avanti rispetto al fronte
(come messo in evidenza nello schema). Nel frattempo ovviamente anche il fronte si
è spostato per cui il gas caldo (in rosso) sarà entrato sempre più all’interno e il gas
fresco (in blu) si sarà spostato sempre più in avanti. È evidente che se 𝑎 = 𝑣𝑔 il gas
(dunque il fronte) e l’onda avanzano con la stessa velocità. Nel caso in cui invece
𝑎 < 𝑣𝑔 (fluido supersonico) l’onda rimane indietro rispetto al gas che avanza a
446
velocità supersonica. Chiaramente in un condotto a sezione costante, come quello
rappresentato, sarà sempre 𝑎 ≥ 𝑣𝑔 . Si immagini dunque che dall’altro lato del
condotto vi sia un volume pronto a raccogliere il fluido:

Figura 397

Dopo un certo intervallo di tempo l’onda di perturbazione arriva all’interno del volume
e dunque il gas da un livello di pressione 𝑝0 di partenza arriverà a un livello di
pressione 𝑝0 + 𝛥𝑝; ovviamente il gas interessato da questo processo di innalzamento
della pressione è proprio quello fresco; se la perturbazione viene generata da un
fenomeno legato al gas caldo, è possibile sfruttare l’energia di pressione del gas
caldo per comprimere il gas freddo e bisogna essere in grado di sincronizzare questo
processo in modo da evitare che il gas caldo (gas di scarico) arrivi dov’è il gas fresco.
Si tenga presente che quando si apre la valvola di scarico c’è un picco di pressione
generato dai gas di scarico (si è anche al di sopra anche dei rapporti di pressione
critica):

Figura 398

È possibile immaginare che vi sia un’onda di pressione che avanza all’interno di un


condotto preventivamente riempito di gas fresco: se si è in grado di far aspirare al
motore quel gas a pressione maggiore grazie all’effetto dell’onda di perturbazione
l’obiettivo è stato raggiunto. La compressione del gas attraverso le onde di pressione
è ovviamente un processo fortemente irreversibile (si perde molta energia); inoltre la
lunghezza del condotto tra scarico e aspirazione è fondamentale, così come anche
la sezione che deve essere piccola: il condotto deve essere stretto e lungo (una sorta
447
di cannuccia); se il condotto è largo si corre il rischio di non avere più separazione
tra i due fluidi che tendono a mescolarsi. Si realizza sostanzialmente una sorta di
tamburo (quello delle pistole) con dei canali piccoli: da un lato esso è esposto ai gas
caldi e dall’altra parte è riempito da gas freschi; il principio dunque è quello di sfruttare
la perturbazione di pressione che viene dall’apertura della valvola di scarico per
comprimere il gas fresco all’interno del condotto e fare in modo che esso aumenti la
proprio pressione e dunque la propria densità (e pertanto aumenta la massa di aria
aspirata dal motore a parità di portata volumetrica).
Quindi sintetizzando in un gas le onde di pressione si propagano ad una velocità
maggiore di quella di miscelamento. Si può aumentare la pressione di un gas
portandolo, attraverso canali lunghi e stretti, in contatto con un gas a pressione più
elevata, evitando il mescolamento. Nei motori, si utilizza la pressione dei gas
combusti per comprimere l’aria fresca. Il rotore, composto di canali lunghi e stretti, è
mosso meccanicamente dal motore, che gli fornisce l’energia necessaria a vincere
gli attriti.
Tale sistema non ha l’inconveniente del ritardo del sovralimentatore giacché il
tamburo (azionato dai gas di scarico) è azionato dall’albero motore, ha il vantaggio
di non dover spendere altra energia e di non avere una contropressione allo scarico.
La densità dell’aria fresca aspirata dal motore viene aumentata grazie all’onda di
compressione generata dal motore.
I vantaggi rispetto alla turbo-sovralimentazione tradizionale sono i seguenti:
 Fornisce rapporti di sovralimentazione maggiori ai bassi ed ai medi carichi,
essendo trascinato dal motore: l’incremento di pressione è proporzionale al
carico ed è già sensibile ai bassi regimi di rotazione (c’è un problema di
sincronismo tra la rotazione del tamburo e quella dell’albero motore); nella fase
di scarico (che dà la pulsazione) l’onda di pressione è in fase con l’aspirazione:
dopo l’apertura della valvola di scarico si apre quella di aspirazione (la fasatura
è rispettata).
 Migliore comportamento nei transitori, poiché segue immediatamente il regime
del motore (nella turbo-sovralimentazione il motore che vuole accelerare non
ha l’aria a disposizione per farlo (c’è un ritardo) perché ci sono delle
dinamiche): la risposta è legata alla velocità di rotazione del motore e non c’è
inerzia meccanica della turbina che deve accelerare.
 Le palette del rotore sono alternativamente riscaldate e raffreddate, e non
risultano eccessivamente sollecitate.
La velocità della perturbazione è ovviamente sempre la stessa a prescindere dal
regime di giri per cui bisogna stare ben attenti alla lunghezza del condotto.
Gli svantaggi invece sono i seguenti:

448
 Il fenomeno di compressione è fortemente irreversibile, e comporta maggiori
aumenti di temperatura della carica fresca (tende a far diminuire il vantaggio
dell’incremento di pressione).
 Ingombri e costi maggiori.
 Difficoltà per la messa a punto, molto legata alla fluidodinamica del particolare
motore (fasatura, anticipi, ritardi, sovrapposizioni, … sono complessi da
realizzare); si tenga presente che con un anticipo di 10° − 15° e un ritardo di
20° − 30° si è già ad un quarto di giro in termini di angolo di manovella (un
quarto di corsa).
 Vincoli di posizionamento legati al trascinamento meccanico.

Figura 399

𝐺 = 𝑔𝑎𝑠 𝑐𝑎𝑙𝑑𝑜
𝐴 = 𝑔𝑎𝑠 𝑓𝑟𝑒𝑠𝑐𝑜
𝐻𝑃 = 𝑎𝑙𝑡𝑎 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 (𝐻𝑖𝑔ℎ 𝑃𝑟𝑒𝑠𝑠𝑢𝑟𝑒)
𝐿𝑃 = 𝑏𝑎𝑠𝑠𝑎 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 (𝐿𝑜𝑤 𝑃𝑟𝑒𝑠𝑠𝑢𝑟𝑒)
Quando il gas caldo è avanzato bisogna fare in modo che a un certo punto la
cannuccia si sposti per evitare che il gas caldo venga risucchiato anch’esso
all’aspirazione. Tale sistema è comunque particolarmente complesso e di fatto è
stato abbandonato. Dalla cinghia di trasmissione è possibile notare la notevole
differenza di velocità di rotazione tra il sistema di sovralimentazione ed il motore (il
primo ha una velocità certamente maggiore).

449
Lezione 34 (Sorrentino) 12/05/2017
Esercitazione sulla termochimica (esercizi tratti da Heywood)
Esempio 3.4
Traccia
Una miscela stechiometrica di 𝐶𝑂 e 𝑂2 in un recipiente chiuso posto inizialmente ad
una condizione di 1 𝑎𝑡𝑚 e 300 𝐾 viene sottoposta ad un processo di combustione.
Calcolare la composizione dei prodotti di combustione a 2500 𝐾 e la pressione della
miscela di gas a valle della combustione stessa.
Svolgimento
Giacché si è in un recipiente chiuso il volume è costante:

Figura 400

Per affrontare questo tipo di problema si presuppone che il processo di combustione


sia all’equilibrio, ossia considerando la seguente reazione di combustione:
1
𝐶𝑂 + 𝑂2 ⇄ 𝐶𝑂2
2
Se la reazione è all’equilibrio il tasso di trasformazione dei reagenti in prodotti
equivale al tasso di trasformazione inversa dei prodotti in reagenti:
1
𝐶𝑂 + 𝑂2 = 𝐶𝑂2
2
È possibile sfruttare il coefficiente di equilibrio 𝐾𝑝 per risolvere il problema; tale
coefficiente si ricava dalle tabelle JANAF. In particolare vale la seguente relazione:

log10 𝐾𝑝 = ∑ log10 𝐾𝑝𝑖


𝑖

Dove:
𝐾𝑝 = 𝑐𝑜𝑒𝑓𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑟𝑒𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑎𝑙𝑙′ 𝑒𝑞𝑢𝑖𝑙𝑖𝑏𝑟𝑖𝑜 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑙𝑒𝑠𝑠𝑖𝑣𝑜

𝐾𝑝𝑖 = 𝑐𝑜𝑒𝑓𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑝𝑒𝑟 𝑜𝑔𝑛𝑖 𝑠𝑖𝑛𝑔𝑜𝑙𝑜 𝑒𝑙𝑒𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜


I valori di 𝐾𝑝𝑖 sono positivi in relazione ai prodotti e negativi in relazione ai reagenti.

450
Sulle tabelle è riportato il valore del logaritmo in base dieci del coefficiente della
reazione all’equilibrio della reazione di formazione di ogni singolo componente dai
suoi composti base, ad una determinata temperatura:
log10 𝐾𝑝,𝐶𝑂 = 6.84
log10 𝐾𝑝,𝑂2 = 0

log10 𝐾𝑝,𝐶𝑂2 = 8.28

I valori sono tabellati proprio alla temperatura di 2500 𝐾.


Pertanto si avrà:

log10 𝐾𝑝 = ∑ log10 𝐾𝑝𝑖 = 8.28 − 6.84 − 0 = 1.44 ⟹ 𝐾𝑝 = 27.5


𝑖

Per temperature elevate, ossia per 2500 𝐾 può esserci una dissociazione (al di sotto
dei 2200 𝐾 tali processo possono essere trascurati); in sostanza a valle del processo
completo di reazione parte dei prodotti possono dissociarsi nuovamente nei reagenti,
ossia può avvenire una reazione inversa in cui parte delle moli di 𝐶𝑂2 si ri-dissociano
in moli di 𝐶𝑂 e 𝑂2 . Si assume sostanzialmente che una certa frazione 𝛼 (grado di
)+αdissociazione) dei prodotti si ri-dissocia; in sostanza al termine del processo di
reazione completa più dissociazione si avrà che i prodotti complessi in uscita
saranno:
𝛼
𝐶𝑂2 (1 − 𝛼) + 𝐶𝑂𝛼 + 𝑂2
2
In effetti il processo di dissociazione dà vita alla seguente reazione:
1
𝐶𝑂2 → 𝐶𝑂 + 𝑂2
2
Assumendo che una certa quantità 𝛼 si dissoci si avrà:
𝛼
𝛼𝐶𝑂2 → 𝛼𝐶𝑂 + 𝑂
2 2
Per cui semplicemente si ottiene infine che:
1 𝛼
𝐶𝑂 + 𝑂2 = (1 − 𝛼)𝐶𝑂2 + 𝛼𝐶𝑂 + 𝑂2
2 2
Ciò che non si conosce è evidentemente proprio il valore di 𝛼; tuttavia esso può
essere desunto dal fatto che la reazione precedente sia all’equilibrio. La 𝐾𝑝 governa
quindi anche la reazione inversa proprio perché essa è stata assunta all’equilibrio.
Anzitutto con riferimento alla reazione completa (intero processo di reazione) è
possibile fare riferimento all’equazione di stato dei gas perfetti:
𝑝𝑃 𝑉 = 𝑛𝑃 𝑅̅𝑇𝑃

451
𝑝𝑅 𝑉 = 𝑛𝑅 𝑅̅𝑇𝑅
Dove:
𝑃 = 𝑃𝑟𝑜𝑑𝑜𝑡𝑡𝑖
𝑅 = 𝑅𝑒𝑎𝑔𝑒𝑛𝑡𝑖
Rapportando membro a membro si ha:
𝑝𝑃 𝑛𝑃 𝑇𝑃 𝑝𝑃 𝑛𝑃 2500 𝐾
= ∙ ⟹ = ∙
𝑝𝑅 𝑛𝑅 𝑇𝑅 1 𝑎𝑡𝑚 𝑛𝑅 300 𝐾
Il volume di fatto come già anticipato rimane costante. È possibile evidentemente
ricavare il numero di moli dei reagenti e dei prodotti:
1
𝑛𝑅 = 1 + = 1.5 𝑚𝑜𝑙
2
𝛼 𝛼
𝑛𝑃 = 1 − 𝛼 + 𝛼 + = (1 + ) 𝑚𝑜𝑙
2 2
Se non ci fosse dissociazione 𝛼 = 0 per cui si avrebbe:
𝑛𝑃 = 1 𝑚𝑜𝑙
Siccome la dissociazione c’è dalla relazione precedente si avrà:
𝑝𝑃 1 𝑎𝑡𝑚 2500 𝐾
= ∙ = 5.55 𝑎𝑡𝑚/𝑚𝑜𝑙
𝑛𝑃 1.5 𝑚𝑜𝑙 300 𝐾
A questo punto si applica nuovamente il concetto di costante di equilibrio, la cui
formulazione è la seguente:
𝑝𝑖 𝜐𝑖
𝐾𝑃 = ∏ ( )
𝑖 𝑝0

Dove:
𝑝𝑖 = 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑝𝑎𝑟𝑧𝑖𝑎𝑙𝑒 𝑑𝑖 𝑜𝑔𝑛𝑖 𝑠𝑖𝑛𝑔𝑜𝑙𝑜 𝑒𝑙𝑒𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑝𝑎𝑟𝑡𝑒𝑐𝑖𝑝𝑎 𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑟𝑒𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 (𝑝𝑟𝑜𝑑𝑜𝑡𝑡𝑖 𝑒 𝑟𝑒𝑎𝑔𝑒𝑛𝑡𝑖)

𝑝0 = 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝑟𝑖𝑓𝑒𝑟𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 (𝑔𝑒𝑛𝑒𝑟𝑎𝑙𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 1 𝑎𝑡𝑚)

𝜐𝑖 = 𝑐𝑜𝑒𝑓𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑠𝑡𝑒𝑐ℎ𝑖𝑜𝑚𝑒𝑡𝑟𝑖𝑐𝑖 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑟𝑒𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒

Per cui si avrà:


1
𝑝𝐶𝑂 1 𝑝𝑐𝑜 −1 𝑝𝑂 −2 𝑝𝐶𝑂2
𝐾𝑃 = ( 2 ) ( ) ( 2 ) = 1/2
𝑝0 𝑝0 𝑝0 𝑝𝐶𝑂 ∙ 𝑝𝑂2

Avendo assunto 𝑝0 = 1 𝑎𝑡𝑚.


Le pressioni parziali possono essere ricondotte alle informazioni riguardanti il numero
di moli (o alle frazioni molari). Le pressioni parziali da considerare sono quelle legate

452
alla miscela di prodotti in uscita in funzione del numero di moli dei singoli elementi
che sono nella miscela dei prodotti stessi. Per cui:
𝑛𝑖
𝑝𝑖 = 𝑥𝑖 ∙ 𝑝 = ∙𝑝
𝑛
Dove:
𝑝 = 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑔𝑙𝑜𝑏𝑎𝑙𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑚𝑖𝑠𝑐𝑒𝑙𝑎
𝑝𝑖 = 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑝𝑎𝑟𝑧𝑖𝑎𝑙𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑠𝑖𝑛𝑔𝑜𝑙𝑜 𝑒𝑙𝑒𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜
𝑥𝑖 = 𝑓𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑚𝑜𝑙𝑎𝑟𝑒
𝑛𝑖 = 𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜 𝑑𝑖 𝑚𝑜𝑙𝑖 𝑑𝑒𝑙 𝑠𝑖𝑛𝑔𝑜𝑙𝑜 𝑒𝑙𝑒𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜
𝑛 = 𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜 𝑑𝑖 𝑚𝑜𝑙𝑖 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑚𝑖𝑠𝑐𝑒𝑙𝑎
Per cui si avrà:
𝑛𝐶𝑂2 1 1
𝑝𝐶𝑂2 𝑝𝑃 ∙ 𝑝𝑃 1−1−2 𝑛𝐶𝑂2 𝑛𝑃 2 1−𝛼
𝑛𝑃
𝐾𝑃 = 1/2
= 1/2
=( ) ∙ 1 =( ) ∙
𝑝𝐶𝑂 ∙ 𝑝𝑂2 𝑛 𝑛 𝑛𝑃 𝑝𝑃 𝛼 1/2
𝑝𝑃 ∙ 𝐶𝑂 ∙ (𝑝𝑃 ∙ 𝐶𝑂 ) 2
𝑛𝐶𝑂 ∙ 𝑛𝑂2 𝛼 ∙ ( )
𝑛𝑃 𝑛𝑃 2
In effetti la costante 𝐾𝑃 poteva essere scritta anche direttamente nella maniera
seguente:
𝑝 ∑𝑖 𝜐𝑖 𝜐
𝐾𝑃 = ( ) ∙ ∏ 𝑥𝑖 𝑖
𝑝0 𝑖

A questo punto unendo la relazione sul 𝐾𝑃 a quella espressa in termini del rapporto
𝑝𝑃 /𝑛𝑃 è possibile ricavare l’incognita 𝛼:
1
1 2 1−𝛼
𝐾𝑃 = ( ) ∙ = 27.5 ⟹ 𝛼 = 0.074
5.55 𝛼 1/2
𝛼∙( )
2
Da questa informazione è possibile ricavare quanto richiesto dal problema. Le
frazioni molari dei componenti saranno pari a:
1−𝛼
𝑥𝐶𝑂2 = 𝛼 = 0.893
1+
2
𝛼
𝑥𝑂2 = 2 𝛼 = 0.037
1+
2
𝛼
𝑥𝐶𝑂 = 𝛼 = 0.071
1+
2

453
In sostanza il 7.4 % di 𝐶𝑂2 si è dissociato e quindi la composizione della miscela dei
prodotti in uscita è composta dall’89.3 % di 𝐶𝑂2 dal 3.7 % di 𝑂2 e dal 7.1 % di 𝐶𝑂.
Inoltre la pressione dei prodotti in uscita globale sarà pari a:
𝛼
𝑝𝑃 = 5.55 ∙ 𝑛𝑃 = 5.55 ∙ (1 + ) = 5.76 𝑎𝑡𝑚
2
Esempio 3.5
Traccia
In una combustione ricca la miscela di prodotti, considerata all’equilibrio tra le specie
𝐶𝑂2 , 𝐻2 𝑂, 𝐶𝑂 e 𝐻2 è generalmente assunta per determinare la composizione dei gas
in uscita. Assumendo quindi che il rapporto combustibile/aria pari a 𝛷 = 1.2 per il
processo di combustione di un idrocarburo 𝐶8 𝐻18 con aria, determinare le frazioni
molari dei prodotti, a una temperatura di 1700 𝐾.
Svolgimento
La reazione globale sarà (senza bilanciare):
𝐶8 𝐻18 + (𝑂2 + 3.773𝑁2 ) → 𝐶𝑂2 + 𝐻2 𝑂 + 𝐶𝑂 + 𝐻2 + 𝑁2
Bilanciando si ha:
12.5
1𝐶8 𝐻18 + (𝑂 + 3.773𝑁2 ) → 𝑎𝐶𝑂2 + 𝑏𝐻2 𝑂 + 𝑐𝐶𝑂 + 𝑑𝐻2 + 39.3𝑁2
1.2 2
Dove:
𝑎, 𝑏, 𝑐, 𝑑 = 𝑐𝑜𝑒𝑓𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑠𝑡𝑒𝑐ℎ𝑖𝑜𝑚𝑒𝑡𝑟𝑖𝑐𝑖 𝑛𝑜𝑛 𝑛𝑜𝑡𝑖
Se la reazione fosse stechiometrica si avrebbero 12.5 moli di aria a partire da 1 mole
di combustibile. Tuttavia siccome 𝛷 = 1.2 si ha un eccesso di combustibile rispetto
all’aria stechiometrica per cui 12.5 va diviso proprio per il valore 1.2 (si ha meno aria
rispetto al caso stechiometrico: miscela ricca).
I vari prodotti chiaramente possono dissociarsi (a parte l’azoto che viene assunto non
reagente per le temperature in gioco, quindi la sua quantità rimane invariata), per cui
le loro vere quantità non sono note (coefficienti stechiometrici incogniti). Le reazioni
che possono avvenire tra i prodotti possono determinare di fatto un cambiamento
delle quantità in funzione del processo che essi subiscono. Ovviamente si assume
che i quattro prodotti (anidride carbonica, acqua, monossido di carbonio e idrogeno)
siano in equilibrio tra loro: globalmente le reazioni che coinvolgono tali prodotti sono
assunte all’equilibrio.
È evidente che la combustione stechiometrica di un idrocarburo senza dissociazione
dei prodotti dà vita alla seguente reazione:
𝐶8 𝐻18 + 𝑂2 → 𝐶𝑂2 + 𝐻2 𝑂

454
Bilanciando:
1𝐶8 𝐻18 + 12.5𝑂2 → 8𝐶𝑂2 + 9𝐻2 𝑂
Ecco perché davanti all’ossigeno c’è il coefficiente 12.5 (che viene diviso per 1.2 in
quanto in tal caso la reazione non è stechiometrica).
Assumendo però che vi sia dissociazione in uscita possono formarsi prodotti
aggiuntivi quali 𝐶𝑂 ed 𝐻2 . Ovviamente le reazioni che avvengono tra di loro si
assumono all’equilibrio:
𝐶𝑂2 + 𝐻2 → 𝐶𝑂 + 𝐻2 𝑂 (𝑟𝑒𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝑤𝑎𝑡𝑒𝑟 − 𝑔𝑎𝑠 𝑠ℎ𝑖𝑓𝑡 )
𝐶𝑂2 + 𝐻2 = 𝐶𝑂 + 𝐻2 𝑂 (𝑎𝑙𝑙′ 𝑒𝑞𝑢𝑖𝑙𝑖𝑏𝑟𝑖𝑜 )
Lo stesso vale per le altre reazioni eventualmente presenti. In particolare si assume
proprio che la reazione che coinvolge i prodotti è quella su scritta (essa è di fatto una
delle reazioni che può avvenire: si assume in questo caso come reazione di
riferimento); si tenga presente che nella realtà possono avvenire anche altre reazioni
che in questo caso non vengono considerate.
Dalle tabelle di JANAF è possibile ricavare le costanti 𝐾𝑃 :
log10 𝐾𝑃,𝐶𝑂2 = 12.18

log10 𝐾𝑃,𝐶𝑂 = 8.011


log10 𝐾𝑃,𝐻2 = 0

log10 𝐾𝑃,𝐻2 𝑂 = 4.699 (è 𝑎𝑠𝑠𝑢𝑛𝑡𝑎 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑔𝑎𝑠)

log10 𝐾𝑃 = 8.011 + 4.699 − 12.18 − 0 = 0.53 ⟹ 𝐾𝑃 = 3.388


Si consideri a questo punto nuovamente la reazione completa di combustione:
12.5
1𝐶8 𝐻18 + (𝑂 + 3.773𝑁2 ) → 𝑎𝐶𝑂2 + 𝑏𝐻2 𝑂 + 𝑐𝐶𝑂 + 𝑑𝐻2 + 39.3𝑁2
1.2 2
Non si conoscono dunque le moli in uscita dei prodotti 𝐶𝑂2 , 𝐻2 𝑂, 𝐶𝑂, 𝐻2 . Il numero di
moli tra reagenti e prodotti non si conserva, ma certamente si conserverà la massa
nonché gli atomi degli elementi presenti all’interno (il numero di atomi di carbonio tra
i reagenti deve essere pari al numero di atomi di carbonio nei prodotti), per cui si
avrà:
𝑎 + 𝑐 = 8 (𝑏𝑖𝑙𝑎𝑛𝑐𝑖𝑜 𝑠𝑢𝑔𝑙𝑖 𝑎𝑡𝑜𝑚𝑖 𝑑𝑖 𝑐𝑎𝑟𝑏𝑜𝑛𝑖𝑜)
2𝑏 + 2𝑑 = 18 (𝑏𝑖𝑙𝑎𝑛𝑐𝑖𝑜 𝑠𝑢𝑔𝑙𝑖 𝑎𝑡𝑜𝑚𝑖 𝑑𝑖 𝑖𝑑𝑟𝑜𝑔𝑒𝑛𝑜)
{
12.5
2𝑎 + 𝑏 + 𝑐 = ∙ 2 = 20.83 (𝑏𝑖𝑙𝑎𝑛𝑐𝑖𝑜 𝑠𝑢𝑔𝑙𝑖 𝑎𝑡𝑜𝑚𝑖 𝑑𝑖 𝑜𝑠𝑠𝑖𝑔𝑒𝑛𝑜)
1.2
Nel sistema su scritto compaiono quattro incognite in tre equazioni: manca dunque
un’ultima relazione da sfruttare per poter risolvere il problema; tale relazione può

455
essere ricavata proprio a partire dalla costante di equilibrio 𝐾𝑃 . In particolare sapendo
che:
𝑝𝑖 = 𝑐𝑖 𝑅̅𝑇
Dove:
𝑐𝑖 = 𝑐𝑜𝑛𝑐𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝑢𝑛 𝑐𝑒𝑟𝑡𝑜 𝑒𝑙𝑒𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜
Si avrà:

𝜐 𝑛1𝐶𝑂 ∙ 𝑛1𝐻2𝑂 𝑏 ∙ 𝑐
𝐾𝑃 = ∏ 𝑛𝑖 𝑖 = = = 3.388
𝑖 𝑛1𝐶𝑂2 ∙ 𝑛1𝐻2 𝑎 ∙ 𝑑

Per cui aggiungendo questa relazione a quelle precedentemente scritte è possibile


ricavare le incognite 𝑎, 𝑏, 𝑐, 𝑑. Quindi si avrà:
𝑎
𝑥𝐶𝑂2 = = 0.0908 = 9.08 %
𝑛𝑃
𝑐
𝑥𝐶𝑂 = = 0.023 = 2.3 %
𝑛𝑃
𝑏
𝑥𝐻2𝑂 = = 0.137 = 13.7 %
𝑛𝑃
𝑑
𝑥𝐻2 = = 0.051 = 5.1 %
𝑛𝑃
Ovviamente il numero di moli totali dei prodotti 𝑛𝑃 è pari a:
𝑛𝑃 = 𝑎 + 𝑏 + 𝑐 + 𝑑 + 37.3
La restante parte in frazione molare è data dall’azoto:
𝑥𝑁 2 = 100 % − 9.08 % − 2.3 % − 13.7 % − 5.1 % = 69.8 %

In tal modo è stata caratterizzata la composizione della miscela dei prodotti in uscita.

456
Lezione 35 (Sorrentino) 16/05/2017
Note introduttive a Matlab
Integrazione numerica (ODE: Ordinary Differential Equation)
Il modello preda-predatore rappresentato dalle eqazioni di Lokta-volterra può essere
simulato aggiungendo anche un ulteriore effetto noto come “effetto pesca”. Supposto
che 𝑥 siano le prede e che 𝑦 siano i predatori si ha:
𝑑𝑥
= (𝑎 − 𝑏𝑦)𝑥 − ℎ𝑥 (𝑝𝑟𝑒𝑑𝑎)
𝑑𝑡
𝑑𝑦
= (𝑐𝑥 − 𝑑 )𝑦 − ℎ𝑦 (𝑝𝑟𝑒𝑑𝑎𝑡𝑜𝑟𝑒)
𝑑𝑡
Dove:
ℎ = 𝑡𝑎𝑠𝑠𝑜 𝑑𝑖 𝑝𝑒𝑠𝑐𝑎
Quando i pesci vengono appunto pescati si va ad influenzare l’equilibrio preda-
predatore: si va ad impattare negativamente sulla crescita di quella specie. È
evidente che il tasso di pesca è proporzionale alla presenza della specie: se si va a
pescare in un luogo dove ci sono minori prede e/o minori predatori si ha
evidentemente una probabilità minore di pesca.
Si studi la soluzione di queste equazioni a partire dai parametri nominali
(es_loktavolterra2):
𝑎 = 2.7
𝑏 = 0.7
𝑐=1
𝑑=3
ℎ = 0.5
Nell’intervallo:
𝑡 = [0: 0.1: 10]
Si identifichi inoltre il valore ottimale del parametro ℎ che consenta di riprodurre
attraverso il sistema di equazioni l’andamento preda/tempo riportato nel file
loktavolterra.mat, lasciando invariati i valori degli altri parametri
(es_loktavolterra2min). Si suppone quindi di conoscere l’evoluzione nel tempo del
numero di prede e del numero di predatori che sono influenzate dall’effetto pesca e
sulla base di queste informazioni si vuole conoscere il valore ottimale di ℎ che
riproduca fedelmente tale andamento (si deve calcolare un coefficiente ℎ che
minimizza la differenza tra i valori simulati dal modello attraverso le equazioni di
Lokta-Volterra e i valori sperimentali: analisi di ottimizzazione).
457
Si tenga presente che quando si fa un’analisi di ottimizzazione è utile avere un
modello che risponde in maniera molto veloce; ovviamente deve esserci un
compromesso tra la precisione e la velocità del modello stesso.
In effetti le restrizioni imposte sulla pesca vengono proprio fuori dal fatto che ci si
rende conto che non c’è più un equilibrio accettabile tra le attività umane e lo sviluppo
delle specie, nonché dalla necessità di preservare l’esistenza di alcune specie
viventi.
Se le equazioni differenziali ordinarie sono di ordine superiore al primo è possibile
ricondurle a un sistema di equazioni del primo ordine (con delle opportune posizioni).
Per Matlab la soluzione di un sistema di equazioni del primo ordine a più stati è
analoga alla soluzione di una sola equazioni differenziale di ordine superiore (con un
sistema di due equazioni del secondo ordine si otterrà un sistema di quattro
equazioni del primo ordine).
Prima di metter su l’algoritmo di ottimizzazione è opportuno fare una simulazione per
capire se è stato ben costruito il legame tra il main e la sotto-funzione che va
nell’analisi di ottimizzazione.
Con l’aggiunta dell’effetto pesca il valore massimo delle prede e dei predatori si
riduce.
Per risolvere l’analisi di ottimizzazione si utilizza in questo caso la funzione fminbnd
(fminbound) che opera nel caso di problemi ad una singola variabile (in tal caso
l’unica variabile da ottimizzare è ℎ); tale funzione permette anche di limitare la ricerca
in un dato dominio fissando un limite inferiore ed un limite superiore:
ℎ0 = 0.5
ℎ = 𝑓𝑚𝑖𝑛𝑏𝑛𝑑 (′𝑙𝑜𝑘𝑡𝑎𝑣𝑜𝑙𝑡𝑒𝑟𝑟𝑎2𝑚𝑖𝑛′ , ℎ0 − 0.2, ℎ0 + 0.2)
In tal caso si limita la ricerca al dominio [0.3, 0.7].
Nel caso in cui si devono minimizzare più variabili è necessario utilizzare la funzione
fmincon (fminconstrained): ottimizzazione vincolata in più variabili.
Partendo dalla legge rappresentativa di una trasformazione adiabatica:
𝑝𝑣 𝑘 = 𝑐𝑜𝑠𝑡. ⟹ 𝑝 = 𝑐𝑜𝑠𝑡 ∙ 𝑣 −𝑘
Riprodurre la fase di compressione ideale per un motore ad accensione comandata
(es_compr_id). In sostanza si vuole studiare l’evoluzione della pressione rispetto
all’angolo di manovella 𝜗 (il tempo ha poco senso in tal caso) a cui corrisponderanno
certe posizioni del pistone. La politropica consente di simulare abbastanza
fedelmente ciò che accade nella fase di compressione. Volendo studiare l’evoluzione
della pressione in funzione dell’angolo di manovella si ha:
𝑑𝑝 𝑑 (𝑐𝑜𝑠𝑡 ∙ 𝑣 −𝑘 ) 𝑑 (𝑣 −𝑘 ) 𝑑𝑣 𝑑𝑣
= = 𝑐𝑜𝑠𝑡 ∙ ∙ = 𝑐𝑜𝑠𝑡 ∙ (−𝑘 ) ∙ 𝑣 −𝑘−1 ∙
𝑑𝜗 𝑑𝜗 𝑑𝑣 𝑑𝜗 𝑑𝜗
458
In particolare la derivata 𝑑𝑣/𝑑𝜗 viene fornita dalla funzione kynemat in cui si tiene
conto della geometria del sistema (essa fornisce proprio il volume in funzione
dell’angolo di manovella).
Sapendo che la costante è proprio pari a 𝑝𝑣 𝑘 si avrà:
𝑑𝑝 𝑘 ∙ 𝑝 ∙ 𝑣 𝑘 ∙ 𝑣 −𝑘 𝑑𝑣 𝑘 ∙ 𝑝 𝑑𝑣
=− ∙ =− ∙
𝑑𝜗 𝑣 𝑑𝜗 𝑣 𝑑𝜗
Questa è proprio l’equazione che bisogna scrivere per risolvere il problema.
La funzione kynemat fornisce in uscita il volume (𝑣), la sua derivata rispetto all’angolo
di manovella (𝑑𝑣), la frazione combusta (𝑥) e la sua derivata rispetto all’angolo di
manovella (𝑑𝑥).
Un impianto di pompaggio è costituito da una pompa che preleva acqua da un bacino
per alimentare un serbatoio in pressione situato ad una quota di 20 𝑚 rispetto al
bacino. Simulare l’andamento della pressione nel serbatoio nelle seguenti condizioni
(es_serbatoio):
 Volume serbatoio: 10 𝑚3
 Pressione iniziale serbatoio: 1 𝑏𝑎𝑟
 Temperatura aria (costante): 300 𝐾
 Regime di rotazione pompa: 2000 𝑟𝑝𝑚
𝑛 2 𝑛
 Prevalenza interna: 𝐻𝑟 = 10 ∙ ( ) +2∙( ) ∙ 𝑄 − 𝑄2
1000 1000
 Prevalenza esterna: 𝐻𝑒𝑠𝑡 = 𝐻𝑢 + 𝑘4 ∙ 𝑄2 (𝑘4 = 1)
 Prevalenza utile: 𝐻𝑢 = 𝛥𝑧 + 𝛥𝑝/𝛾 (la differenza di quota è costante, ma la
differenza di pressione no: inizialmente 𝛥𝑝 = 𝑝2 − 𝑝1 = 0).
A parità di temperatura, se il volume si riduce (l’acqua ne serbatoio aumenta) la
pressione aumenta (a meno di non avere perdite di massa).
Lo schema di impianto è il seguente:

Figura 401

459
Man mano che l’acqua viene portata dal bacino al serbatoio il livello in quest’ultimo
aumenta. Essendo il serbatoio chiuso, la pressione man mano aumenta, per cui ci
saranno diversi punti di funzionamento (man mano che il serbatoio si riempie la
prevalenza utile aumenterà):

Figura 402

Man mano che la pressione aumenta la portata elaborata dalla pompa si riduce
(processo dinamico): istante per istante si vuole simulare quanto vale la prevalenza,
la portata e la pressione (𝑑𝑝/𝑑𝑡: la pressione evolve nel tempo).
Inizialmente nel serbatoio ci sono solo 10 𝑚3 di aria e man mano essi vengono
riempiti da acqua.
Bisogna dunque individuare proprio l’equazione 𝑑𝑝/𝑑𝑡 da riportare nella function. Per
poter ricavare la relazione, conviene partire dall’equazione di stato dei gas perfetti:
𝑚𝑅𝑇
𝑝𝑉 = 𝑚𝑅𝑇 ⟹ 𝑝 =
𝑉
Dove:
𝑚 = 𝑚𝑎𝑠𝑠𝑎 𝑑𝑖 𝑎𝑟𝑖𝑎 𝑛𝑒𝑙 𝑠𝑒𝑟𝑏𝑎𝑡𝑜𝑖𝑜 (𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒)
𝑇 = 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑒𝑟𝑎𝑡𝑢𝑟𝑎 (𝑐𝑜𝑠𝑎𝑛𝑡𝑒)
𝑚𝑅𝑇 = 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒
La massa di aria può essere calcolata fin dall’inizio in quanto essa si mantiene
costante. Derivando rispetto al tempo l’equazione di stato si ha:
𝑑𝑝 𝑑 𝑚𝑅𝑇
= ( )
𝑑𝑡 𝑑𝑡 𝑉
L’unica cosa che cambia è il volume 𝑉 per cui conviene applicare la derivata
composta:
𝑑𝑝 𝑑 𝑚𝑅𝑇 𝑑𝑉
= ( )∙
𝑑𝑡 𝑑𝑉 𝑉 𝑑𝑡
460
In particolare:
𝑑𝑉
= −𝑄(𝑡 ) (𝑝𝑜𝑟𝑡𝑎𝑡𝑎 )
𝑑𝑡
Per cui si avrà:
𝑑𝑝
= 𝑚𝑅𝑇 ∙ (−1) ∙ 𝑉 (𝑡 )−2 ∙ (−𝑄(𝑡 ))
𝑑𝑡
Quindi manipolando l’equazione si avrà (lasciando tutto in funzione di 𝑝 anziché di
𝑉):
𝑑𝑝 𝑚𝑅𝑇 𝑚𝑅𝑇 𝑝2
= 2 ∙𝑄 = 2 2 2 ∙𝑄 = ∙𝑄
𝑑𝑡 𝑉 𝑚 𝑅 𝑇 𝑚𝑅𝑇
𝑝2
Dall’eguaglianza 𝐻𝑟 = 𝐻𝑒𝑠𝑡 è possibile ricavare la portata che poi serve per risolvere
l’equazione differenziale su scritta.
È interessante rappresentare sul piano 𝐻 − 𝑄 come si sposta il punto di
funzionamento.
Cicli ideali con ricambio della carica
Di seguito vengono rappresentati degli esempi di cicli ideali con ricambio della carica:

Figura 403

461
Quando c’è sovralimentazione la pressione più elevata è proprio quella di
aspirazione (e non quella di scarico): ciò ha un impatto sul lavoro in quanto il ciclo di
bassa pressione viene completato in senso orario (ed è dunque positivo).
Ovviamente dalla conservazione dell’energia si giunge all’equazione valida a valvole
chiuse:
𝑑𝑝 𝑘 − 1 𝑑𝑄 𝑝 𝑑𝑉
= ∙ −𝑘∙ ∙
𝑑𝜗 𝑉 𝑑𝜗 𝑉 𝑑𝜗
Nella zona di rilascio del calore si aggiunge alla compressione, la parte che modella
proprio la legge di rilascio ossia:
𝑘 − 1 𝑑𝑄

𝑉 𝑑𝜗
Dove:
𝑑𝑄 𝑑𝑥
= 𝑚𝑐 𝐻𝑖 ∙
𝑑𝜗 𝑑𝜗
Dove:
𝑥 = 𝑓𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑐𝑜𝑚𝑏𝑢𝑠𝑡𝑎
Ovviamente la derivata 𝑑𝑥/𝑑𝜗 viene fornita da kynemat.
Nel caso di ciclo limite (e non ciclo ideale con ricambio della carica) è necessario
utilizzare due altre funzioni (farg ed ecp) perché in quel caso è necessario monitorare
la modifica delle proprietà della miscela (in fase di compressione si utilizza la farg,
mentre in fase di espansione si utilizza la ecp).

Figura 404

Nel momento in cui ci si ritrova nel punto 6 (dopo che è avvenuto lo scarico naturale
e si ha quello forzato), ci sarà una parte di carica che rimane intrappolata nel cilindro
(massa residua):
𝑚𝑟𝑒𝑠 = 𝑚6
La massa totale di carica fresca in ingresso al cilindro invece vale:
462
𝑚𝑡𝑜𝑡 = 𝑚1 = 𝑚4 = 𝑚𝑎𝑖𝑟 + 𝑚𝑓𝑢𝑒𝑙 + 𝑚𝑟𝑒𝑠
Per cui la frazione residua sarà pari a:
𝑚𝑟𝑒𝑠
𝑓=
𝑚𝑡𝑜𝑡
La massa totale dipende dal ciclo stesso. In particolare facendo l’ipotesi di
espansione adiabatica nel cilindro ed espulsione adiabatica reversibile si ha:
1 𝑇4 𝑝𝑒
𝑓= ∙ ∙
𝜌𝑣 𝑇6 𝑝4
Inoltre la massa di combustibile vale:
1−𝑓
𝑚𝑐 = ∙ 𝑚𝑡𝑜𝑡
𝛼+1
Ovviamente a monte non si conoscono né la frazione residua né la massa totale
stessa.
Con riferimento alla fase di aspirazione si ha un sistema aperto:

Figura 405

Vale dunque il seguente equilibrio (bilancio sui sistemi aperti):


𝑚6 ℎ6 + 𝑚𝑖 ℎ𝑖 + 𝑄61 = 𝑚1 ℎ1 + 𝐿61 + 𝑚𝑜𝑢𝑡 ℎ𝑜𝑢𝑡
Supponendo la trasformazione adiabatica e trascurando la fase di incrocio (valvola
di scarico chiusa) si ha:
𝑚6 ℎ6 + 𝑚𝑖 ℎ𝑖 = 𝑚1 ℎ1 + 𝐿61
Per cui:
𝑚1 ℎ1 − 𝑚6 ℎ6 = 𝑚𝑖 ℎ𝑖 − 𝐿61
Alla fine:
𝐿61 = −𝑉6 (𝑝𝑖 − 𝑝𝑒 )
𝑚𝑖 = 𝑚1 − 𝑚6
Mettendo assieme tutte le informazioni si ottiene una relazione che lega la
temperatura nel punto 1 alla temperatura nel punto 6, alla frazione residua, alla
temperatura della carica fresca, al rapporto fra pressione di aspirazione e pressione
di scarico e al rapporto tra i calori specifici del fluido; per cui nel caso di ciclo ideale
si ha (𝑘 = 1.4: aria):
463
𝑝𝑖 𝑘−1
𝑇1 = 𝑓𝑇6 + (1 − 𝑓)𝑇𝑖 + ( − 1) 𝑓 𝑇6
𝑝𝑒 𝑘
Ovviamente la massa totale è funzione delle condizioni di temperatura nel punto 1:
𝑚𝑡𝑜𝑡 = 𝑚1 = 𝜌1 𝑉1
L’unico modo per poter costruire il ciclo è quello di procedere iterativamente, facendo
delle ipotesi iniziale per alcune grandezze ed in particolare per 𝑇6 ed 𝑓; fissando
queste due grandezze è possibile partire con il calcolo del ciclo giacché è possibile
ricavare 𝑇1 . Pertanto il tutto può essere ricondotto ad un problema di ottimizzazione:
trovare i valori di 𝑓 e 𝑇6 che portano a convergenza; fin quando c’è una discrepanza
l’iterazione continua (ciclo_ricambio).
Ovviamente la massa residua dipende dal ciclo; conoscendo 𝑇1 è possibile ricavare
la massa totale, dalla quale dipende la temperatura raggiunta alla fine della fase di
compressione; quest’ultima poi influenza la temperatura raggiunta a seguito della
combustione e dunque anche 𝑇4 (e così via).
Passando dal ciclo ideale al ciclo limite c’è bisogno di rivedere alcuni passaggi. In
particolare conviene fermarsi al calcolo di ℎ1 piuttosto che di 𝑇1 ; di fatto si può
passare dall’entalpia alla temperatura banalmente sapendo che ℎ = 𝑐𝑝 𝑇; tuttavia nel
caso di ciclo limite il fluido è reale e dunque i calori specifici non sono costanti (al
punto 1 c’è una miscela formata da gas residui e gas freschi, mentre al punto 6 sono
tutti gas combusti; inoltre la temperatura è fortemente variabile per cui non è lecito
assumere i calori specifici costanti). Pertanto ci si dovrà fermare al bilancio entalpico
piuttosto che a quello che coinvolge le temperature:
𝑚1 ℎ1 − 𝑚6 ℎ6 = (𝑚1 − 𝑚6 )ℎ𝑖 + (𝑝𝑖 − 𝑝𝑒 )𝑉6
Nel caso del motore benzina al variare dell’apertura della valvola a farfalla, a parità
delle altre condizioni, varia il coefficiente di riempimento volumetrico (minori è
l’apertura della valvola a farfalla, maggiori saranno le perdite di carico e minore sarà
il coefficiente di riempimento). Pertanto al ridursi del coefficiente volumetrico si
abbassa la pressione massima del ciclo come conseguenza del fatto che si abbassa
la pressione all’aspirazione; ciò comporta un aumento dell’area del ciclo di bassa
pressione, la qual cosa ha un impatto negativo sul rendimento.
Nel caso del motore Diesel non c’è una valvola a farfalla, ma per la regolazione della
potenza si agisce sul rapporto di miscela: aumentando il rapporto di miscela l’area
del ciclo si riduce (si inietta minore combustibile) e dunque la potenza stessa risulta
ridotta. Tuttavia giacché non ci sono strozzature (non c’è la valvola a farfalla) la
variazione di rendimento è pressoché trascurabile (nel caso ideale il rendimento
potrebbe addirittura aumentare).
N.B. L’output della funzione kynemat in termini di volume è in 𝑚3 .

464
Lezione 38 (Sorrentino) 19/05/2017
Metodi iterativi per il calcolo dei cicli dei motori a combustione interna
Si mostrerà la procedura da seguire nel caso in cui si vogliono effettuare dei calcoli
sui cicli (ideale, limite e reale) dei motori alternativi a combustione interna.
Si fissano i dati di progetto e le condizioni operative per un motore a ciclo Otto:
 Alimentazione: benzina (𝐻𝑖 = 44 𝑀𝐽/𝑘𝑔)
 Rapporto di compressione: 8
 Corsa: 63 𝑚𝑚
 Alesaggio: 90 𝑚𝑚
 Temperatura di aspirazione: 310 𝐾
 Pressione di aspirazione: 𝑝𝑖 = 0.7 𝑏𝑎𝑟
 Pressione di scarico: 𝑝𝑒 = 1.05 𝑏𝑎𝑟
 Rapporto di miscela stechiometrico: 15
 Velocità media del pistone: 17 𝑚/𝑠
 Pressione in ingresso in turbina (sovralimentazione a pressione costante):
1.4 𝑏𝑎𝑟.
Nel caso di ciclo ideale con ricambio della carica si ha la seguente situazione:

Figura 406

La procedura da seguire è la seguente:


 Valori di tentativo: 𝑇6 , 𝑓
 Ciclo iterativo: 𝑤ℎ𝑖𝑙𝑒 𝑎𝑏𝑠 (𝑓 − 𝑓𝑛𝑒𝑤 ) > 𝜀
 𝑇1 = 𝑔(𝑓, 𝑇𝑖 , 𝑇6 , 𝑝𝑖 , 𝑝𝑒 )
 Calcolo del ciclo ideale e di 𝑚𝑐 = 𝑔(𝑓)
 Scarico naturale: 𝑇5 = 𝑔(𝑇4 )
 Scarico forzato isotermo: 𝑇6,𝑛𝑒𝑤 = 𝑇5 ⟹ 𝑚𝑟𝑒𝑠
 𝑓𝑛𝑒𝑤 = 𝑚𝑟𝑒𝑠 /𝑚𝑡𝑜𝑡
465
L’iterazione avviene solo sulla frazione residua 𝑓: se c’è una variazione si procede
con un’altra iterazione altrimenti il ciclo si stoppa. Esaurito il ciclo iterativo, i risultati
possono essere salvati; in particolare, con riferimento al caso ideale, si riportano i
risultati nella tabella seguente:

Figura 407

Nel caso di ciclo limite invece la situazione è la seguente:

Figura 408

In tal caso gli step da seguire sono di seguito riportati (bisogna utilizzare le routine
farg ed ecp):
 Valori di tentativo 𝑇6 (ℎ6 ), 𝑓
 Ciclo iterativo: 𝑤ℎ𝑖𝑙𝑒 𝑎𝑏𝑠(ℎ1 − ℎ1,𝑛𝑒𝑤 ) > 𝜀
 ℎ1 = 𝑔(𝑓, ℎ𝑖 , ℎ6 , 𝑝𝑖 , 𝑝𝑒 ) (dal bilancio di energia)
 𝑇1 = 𝑔(ℎ1 ) (calcolo iterativo)
 Calcolo fase 1 − 2
 Calcolo 𝑇3 , 𝑢2 = 𝑢3 (temperatura adiabatica di fiamma)
 Calcolo fase 3 − 4
 Scarico naturale
 𝑇6,𝑛𝑒𝑤 = 𝑇5 ⟹ 𝑚𝑟𝑒𝑠 ⟹ 𝑓𝑛𝑒𝑤
 ℎ1,𝑛𝑒𝑤 = 𝑔(𝑓, ℎ𝑖 , ℎ6,𝑛𝑒𝑤 , 𝑝𝑖 , 𝑝𝑒 )
La temperatura 𝑇6 serve per calcolare ℎ6 perché nel momento in cui si passa da ciclo
ideale con ricambio della carica a ciclo limite il fluido non è più ideale; pertanto non
è più possibile ricavare 𝑇1 in funzione di 𝑇6 , ma bisogna far riferimento al bilancio di
466
energia sui termini entalpici. (𝛥ℎ = 𝑐𝑝 𝛥𝑇 non vale più perché 𝑐𝑝 cambia in quanto il
fluido si modifica e cambia la sua temperatura nonché la sua pressione: le proprietà
non rimangono costanti). In questo caso l’obiettivo non è convergere sulla frazione
residua 𝑓, ma sull’entalpia ℎ1 . Per calcolare la 𝑇1 ci sarà un ciclo iterativo all’interno
del ciclo iterativo: una volta calcolata ℎ1 non si conosce 𝑇1 per cui bisogna convergere
al valore di 𝑇1 che porta a quel valore di ℎ1 ; in questo caso anziché utilizzare un ciclo
while è più opportuno fare un calcolo iterativo utilizzando una funzione di
ottimizzazione. La combustione nel caso di ciclo limite è sempre istantanea, ma
siccome il fluido è reale non vale il bilancio semplificato sulla camera di combustione
(𝛥ℎ = 𝑐𝑝 𝛥𝑇 non vale); tuttavia se si utilizza una macchina ideale la 𝑇3 è di fatto una
temperatura adiabatica di fiamma (processo di combustione a volume costante: 𝛥𝑢 =
0 ⟹ 𝑢2 = 𝑢3 ); anche in tal caso ci sarà un calcolo iterativo e la 𝑇3 sarà quella che
soddisfa la condizione 𝑢2 = 𝑢3 (anche in tal caso si può utilizzare una funzione di
ottimizzazione). Poi si va avanti senza problemi ripetendo quello che era stato già
fatto per il ciclo ideale con il ricambio della carica: rimane però il fatto che il fluido
essendo reale bisogna modificare la funzione integranda (𝑑𝑝/𝑑𝜗: in tal caso i calori
specifici si modificano e dunque 𝑘 non è sempre costante).
Di seguito vengono riportati i valori che vengono fuori dal calcolo nel caso di ciclo
limite confrontandoli con il caso in cui il ciclo sia ideale:

Figura 409

È possibile notare come nel passaggio da ciclo ideale a ciclo limite, il rendimento si
abbassi notevolmente; anche la pressione massima si riduce molto, così come la
temperatura, la quale inizia ad avere valori più accettabili; la frazione residua invece
rimane più o meno la stessa.
Nel momento in cui si passa al ciclo reale non si ha più una combustione istantanea,
ma che ha una certa durata; inizia in questo caso a comparire un ciclo che ricorda
quelli che si acquisiscono sul banco prova motore:

467
Figura 410

In tal caso vanno integrate tra di loro la kynemat e la ode45 (o la ode23): il processo
di combustione non è più istantaneo e dunque si deve considerare 𝑑𝑝/𝑑𝜗 nella sua
formulazione completa.
Di seguito vengono riportati i valori che vengono fuori per un ciclo reale,
confrontandoli con quelli che vengono fuori per un ciclo limite e per un ciclo ideale:

Figura 411

La pressione massima cala ancora di più così come la temperatura massima; anche
il rendimento cala molto avvicinandosi proprio al valore del rendimento che si ha
effettivamente; quindi considerando una combustione con una durata finita ci si porta
quasi verso il funzionamento reale. La frazione residua invece rimane pressoché
invariata.
Con la sovralimentazione la situazione cambia:

468
Figura 412

In tal caso il ciclo si sposta verso l’alto (pressione più elevata all’inizio della fase di
compressione) ed inoltre il ciclo di bassa pressione sarà positivo.
Di seguito vengono riportati i valori che si ottengono nel caso di un ciclo reale
sovralimentato:

Figura 413

Com’è possibile notare il rendimento aumenta così come la pressione massima e la


temperatura massima. È chiaro che l’incremento di temperatura può comportare
delle problematiche in termini di emissioni.
Di seguito invece viene riportato il confronto tra due cicli sovralimentati con uno reale:

Figura 414

469
Lezione 39 (Sorrentino) 23/05/2017
Note introduttive a Matlab
In Matlab un’analisi di ottimizzazione viene ricondotta sempre ad un problema di
ricerca dei minimi di una funzione, o dei punti in cui la funzione si annulla. Nel caso
in cui si vogliano cercare i punti in cui la funzione sia nulla si utilizza il tool fzero che
permette appunto di risolvere anche sistemi di equazioni non lineari (tale algoritmo è
basato su un metodo che calcola il gradiente dell’errore, ossia la variazione
dell’errore rispetto alla variazione dei parametri). Esistono invece una serie di altri
tool che servono per ricercare il minimo di una certa funzione.
Anzitutto, per ricercare il minimo di una funzione esiste la routine fminbnd
(fminbound: minimizzazione bounded); tale funzione permette di ricercare il minimo
di una funzione assegnando (di una sola variabile) un certo range di ricerca (il
dominio può essere quindi limitato ad una certa zona). È evidente che volendo
ricercare il massimo di una funzione, basta ridefinire opportunamente la funzione
obiettivo, utilizzando la sua inversa (o magari si antepone un segno meno davanti se
la funzione è definita positiva); volendo per esempio massimizzare il rendimento,
come funzione obiettivo si utilizza la funzione di rendimento stessa anteponendo un
segno meno. La sintassi è la seguente:
𝑎 = 𝑓𝑚𝑖𝑛𝑏𝑛𝑑(′𝑛𝑜𝑚𝑒_𝑓𝑢𝑛𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒′, lim _inf, lim _sup)
Con la funzione fzero invece si ricerca lo zero di una funzione (nel caso di dipendenza
non lineare da una singola variabile); nei casi semplici Matlab tende a privilegiare
l’utilizzo del metodo della bisezione. Nelle funzioni built-in in effetti ci sono diversi
metodi implementati che sono intercambiabili e vengono utilizzati a seconda delle
specificità della funzione obiettivo (esistono degli automatismi che permettono al
codice di switchare da un metodo di ricerca più veloce a un metodo più fine; il metodo
Levenberg-Marquardt permette di avere questa versatilità di utilizzo): in effetti è
possibile che inizialmente si parta con un metodo di ricerca e poi man mano che ci
si avvicina alla soluzione, per raffinarla, si passa a metodi più precisi. La sintassi è la
seguente:
𝑎 = 𝑓𝑧𝑒𝑟𝑜(′𝑛𝑜𝑚𝑒_𝑓𝑢𝑛𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒′, 𝑣𝑎𝑙𝑜𝑟𝑒_𝑑𝑖_𝑡𝑒𝑛𝑡𝑎𝑡𝑖𝑣𝑜)
Se si vogliono risolvere sistemi di equazioni non lineari bisogna utilizzare fsolve.
Esiste poi la funzione fminsearch che permette di ricercare il minimo di una funzione
anche di più variabili. In tal caso si possono risolvere problemi in cui non ci sono
vincoli. La sintassi è la seguente:
𝑎 = 𝑓𝑚𝑖𝑛𝑠𝑒𝑎𝑟𝑐ℎ(′𝑛𝑜𝑚𝑒_𝑓𝑢𝑛𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒′, 𝑣𝑎𝑙𝑜𝑟𝑖_𝑑𝑖_𝑡𝑒𝑛𝑡𝑎𝑡𝑖𝑡𝑣𝑜)
La funzione più avanzata in assoluto, nell’analisi di ottimizzazione, è la fmincon
(fminconstrained) la quale è in generale la più flessibile. Tale funzione permette di
impostare un problema di ottimizzazione vincolata; ovviamente in questo caso, se i

470
vincoli non sono definiti o sono definiti in un range che va da meno infinito a più
infinito il problema si trasforma in uno di ottimizzazione senza vincoli, per cui sarebbe
possibile utilizzare anche fminsearch. È evidente che più il metodo è generale e più
al suo interno saranno presenti sistemi di controllo (if-than-else) più sofisticati, per
cui è sempre buona norma cercare di utilizzare lo strumento più adatto alla specifica
applicazione. Tale funzione permette di inserire una grande varietà di vincoli: lineari,
non lineari, di uguaglianza, di disuguaglianza, …. (è in sostanza la più generale
possibile). Inoltre essa permette anche di capire come sta andando la ricerca del
minimo (parametro di controllo: exitflag) e dunque agevolmente di cambiare alcuni
parametri, quali la tolleranza, il numero massimo di iterazioni, ….
In tutti i metodi elencati viene effettuato il calcolo della derivata dell’errore: nel
costruire la funzione obiettivo bisogna evitare di fare degli errori, anche minimali, in
quanto essi possono diventare dei grandi errori quando si applica un metodo di
questo tipo. Inoltre tutti i metodi vanno a ricerca il minimo locale e mai il minimo
assoluto, per cui non vi è garanzia sul fatto che il minimo trovato sia quello assoluto
della funzione stessa; se i parametri di ricerca non sono assegnati in maniera efficace
c’è dunque il rischio di bloccarsi in un minimo locale. In genere tali problemi possono
essere risolti passando da metodi deterministici a metodi statistici (algoritmi genetici).
Si vuole trovare il minimo e lo zero della seguente funzione (es_minimo – esempio
1):
𝑏 = (𝑣 + 1) ∙ exp(−𝑣 2 )
Nel caso dell’utilizzo di fminbnd non si fissa un punto iniziale (di partenza), ma solo
il dominio di ricerca (sarà Matlab a selezionare in maniera random un punto iniziale
all’interno di questo intervallo). Per ricercare il minimo basta scrivere nella command
window il seguente comando:
𝑎 = 𝑓𝑚𝑖𝑛𝑏𝑛𝑑 (′𝑒𝑠_𝑚𝑖𝑛𝑖𝑚𝑜′, −2,2) ⟹ 𝑎 = −1.366
Volendo trovare lo zero invece nella command window basta scrivere:
𝑎 = 𝑓𝑧𝑒𝑟𝑜(′𝑒𝑠_𝑚𝑖𝑛𝑖𝑚𝑜′, −2) ⟹ 𝑎 = −1
È possibile anche richiedere ulteriori output alla funzione (sia fminbnd sia fzero),
come per esempio fval che dà il valore della funzione nel punto calcolato (da fminbnd
o fzero); l’altro output exitflag restituisce un vettore di informazioni che descrive quali
sono le condizioni di uscita (ad ogni valore corrisponde una certa informazione: se è
1 ad esempio, l’algoritmo è andato a convergenza).
È possibile effettuare un plot della funzione utilizzando il comando feval (evaluate
function) per valutare una certa funzione:
𝑝𝑙𝑜𝑡([−2: 0.1: 2], 𝑓𝑒𝑣𝑎𝑙(′𝑒𝑠_𝑚𝑖𝑛𝑖𝑚𝑜′, [−2: 0.1: 2]))
Si vuole trovare il minimo della seguente funzione di più variabili (es_minimo –
esempio 2):
471
𝑏 = 𝑥 2 + 2.5 sin(𝑦) − 𝑧 2 ∙ 𝑥 2 ∙ 𝑦 2
La variabile da ottimizzare (ossia il parametro da trovare) è sempre uno, ma la
funzione questa volta è di più variabili (in tal caso tre variabili). All’interno della
funzione obiettivo è necessario inserire delle assegnazioni per far capire che si tratta
di una funzione di più variabili, ed in particolare prima di scrivere la funzione obiettivo
bisogna dare il seguente comando:
𝑥 = 𝑣 ( 1) ; 𝑦 = 𝑣 ( 2) ; 𝑧 = 𝑣 ( 3)
Quindi in sostanza 𝑣 è un vettore. Per risolvere il problema basta inserire nella
command window il seguente comando:
𝑎 = 𝑓𝑚𝑖𝑛𝑠𝑒𝑎𝑟𝑐ℎ(′𝑒𝑠_𝑚𝑖𝑛𝑖𝑚𝑜′, [−0.6, −1.2, 0.135]) ⟹ 𝑎 = [0.0000, −1.5708, 0.1803]
Bisogna dunque assegnare il valore iniziale a tutte le variabili (in questo caso tre).
È anche possibile conoscere il valore della funzione nel punto di minimo trovato
aggiungendo un ulteriore output (fval):
[𝑎, 𝑓𝑣𝑎𝑙] = 𝑓𝑚𝑖𝑛𝑠𝑒𝑎𝑟𝑐ℎ(′𝑒𝑠_𝑚𝑖𝑛𝑖𝑚𝑜′, [−0.6, −1.2, 0.135]) ⟹ 𝑎 = [0.0000, −1.5708, 0.1803], 𝑓𝑣𝑎𝑙 = −2.5

Si vogliono calcolare le radici della seguente equazione (es_minimo – esempio 3):


𝑏 = 𝑣 2 − 3 sin(𝑣 ) + 0.1
𝑎 = 𝑓𝑧𝑒𝑟𝑜(′𝑒𝑠_𝑚𝑖𝑛𝑖𝑚𝑜′, −1) ⟹ 𝑎 = 0.0337
Cambiando le condizioni iniziali la funzione potrebbe trovare un altro zero (un’altra
radice):
𝑎 = 𝑓𝑧𝑒𝑟𝑜(′𝑒𝑠_𝑚𝑖𝑛𝑖𝑚𝑜′, 5) ⟹ 𝑎 = 1.6960
Anche in questo caso è possibile effettuare una verifica grafica di quanto calcolato:
𝑝𝑙𝑜𝑡([−10: 0.01: 10], 𝑓𝑒𝑣𝑎𝑙(′𝑒𝑠_𝑚𝑖𝑛𝑖𝑚𝑜′, [−10: 0.01: 10]))
Si vuole calcolare il minimo della seguente funzione (es_minimo – esempio 4):
𝑓 (𝑥, 𝑦) = 𝑒 𝑥−𝑦 + 𝑥 2 + 𝑦 2
Anzitutto bisogna anteporre alla scrittura della funzione il seguente comando, per
l’assegnazione dei parametri:
𝑥 = 𝑣 ( 1) ; 𝑦 = 𝑣 ( 2)
Dopodiché nella command window si fornisce il seguente comando:
𝑎 = 𝑓𝑚𝑖𝑛𝑠𝑒𝑎𝑟𝑐ℎ(′𝑒𝑠_𝑚𝑖𝑛𝑖𝑚𝑜′, [−0.3, 0.3]) ⟹ 𝑎 = [−0.2836, 0.2836]
Aggiungendo un ulteriore output è possibile calcolare quanto vale la funzione nel
punto di minimo:
[𝑎, 𝑓𝑣𝑎𝑙] = 𝑓𝑚𝑖𝑛𝑠𝑒𝑎𝑟𝑐ℎ(′𝑒𝑠_𝑚𝑖𝑛𝑖𝑚𝑜′, [−0.3, 0.3]) ⟹ 𝑎 = [−0.2836, 0.2836], 𝑓𝑣𝑎𝑙 = 0.7280

472
La funzione fzero usa il metodo della bisezione per arrivare al risultato; anziché
fissare una condizione iniziale di partenza è possibile fissare un intervallo, ossia un
estremo superiore e un estremo inferiore (es_minimo – esempio 3):
𝑎 = 𝑓𝑧𝑒𝑟𝑜 (′𝑒𝑠_𝑚𝑖𝑛𝑖𝑚𝑜′, [−1,0.5]) ⟹ 𝑎 = 0.0337
Utilizzando un intervallo differente, si riesce a trovare l’altro zero:
𝑎 = 𝑓𝑧𝑒𝑟𝑜 (′𝑒𝑠_𝑚𝑖𝑛𝑖𝑚𝑜′, [1,2]) ⟹ 𝑎 = 1.6960
Tuttavia se si sbaglia la scelta dell’intervallo selezionando quello seguente:
𝑎 = 𝑓𝑧𝑒𝑟𝑜 (′𝑒𝑠_𝑚𝑖𝑛𝑖𝑚𝑜′, [−1,2]) ⟹ 𝑎 = []
L’algoritmo va in errore; ciò è dovuto al fatto che nell’intervallo [−1,0.5] nonché
nell’intervallo [1,2] i segni sono discordi e dunque il metodo della bisezione funziona,
mentre nell’intervallo [−1,2] la funzione assume valore positivo in entrambi gli estremi
e dunque il metodo della bisezione non può essere inizializzato (quando ci sono due
valori con lo stesso segno l’algoritmo non può proprio partire).
Assegnato il set di dati illustrato nella seguente figura e riportato nel file
es_minimo2_dati.mat, individuare i valori ottimali dei parametri lambda che ne
consentano di riprodurre l’andamento attraverso la struttura funzionale seguente
(es_minimo2 – es_minimo2_fun):
𝑦 = 𝑙𝑎𝑚𝑏𝑑𝑎(1) ∗ exp[−𝑙𝑎𝑚𝑏𝑑𝑎(2) ∗ 𝑡 ]

Figura 415

Quindi si devono andare ad identificare i parametri 𝑙𝑎𝑚𝑏𝑑𝑎 (1) e 𝑙𝑎𝑚𝑏𝑑𝑎(2). È


evidente che in questo caso non può essere applicato polyfit giacché si hanno due
variabili e non è possibile nemmeno applicare regress giacché non si riesce a
ricondurre il problema a un sistema di equazioni lineari (c’è un esponenziale con un
parametro al suo interno). Pertanto l’unico modo è utilizzare un metodo per la ricerca
del minimo: la funzione obiettivo sarà proprio quella di errore tra l’output del modello
e i punti sperimentali.
473
Man mano che l’algoritmo procede con l’ottimizzazione la curva del modello tende
ad avvicinarsi sempre di più i dati sperimentali. Tuttavia in questo caso alla fine
comunque non si riesce ad avere un elevato livello di accuratezza. Volendo rendere
più potente l’analisi di ottimizzazione, ossia aumentare la possibilità di avere
successo, è possibile aumentare i gradi di libertà aggiungendo altri parametri. In
effetti il numero dei parametri di un modello non è definibile a priori in quanto si tratta
di un modello black-box: siccome l’errore non si riduce tantissimo, si cerca di
aumentare i gradi di libertà per migliorare il modello. La struttura funzionale utilizzata
sarà dunque la seguente (es_minimo2 – es_minimo2_fun – es_minimo2_fun_new):
𝑦 = 𝑐 (1) ∗ exp(−𝑙𝑎𝑚𝑏𝑑𝑎(1) ∗ 𝑡 ) + 𝑐 (2) ∗ exp(−𝑙𝑎𝑚𝑏𝑑𝑎 (2) ∗ 𝑡 )
In tal caso piuttosto che lavorare su due gradi di libertà si lavora su quattro gradi di
libertà. Pur avendo aumentato il numero di gradi di libertà non si vuole rendere più
complessa la funzione obiettivo, per cui è possibile combinare l’analisi di
ottimizzazione con la funzione regress (nel caso in esame si utilizza il comando
backslash). In effetti all’interno della funzione che fa il calcolo di 𝑦 ad ogni iterazione,
due parametri saranno incogniti (ossia 𝑐 (1) e 𝑐 (2)), mentre i restanti due (𝑙𝑎𝑚𝑏𝑑𝑎(1)
e 𝑙𝑎𝑚𝑏𝑑𝑎 (2)) ad ogni iterazione sono noti, perché è la procedura di ottimizzazione
che li fornisce (alla prima iterazione essi sono pari alle condizioni iniziali): ovviamente
essi non saranno quelli finali perché vengono modificati ad ogni iterazione fintanto
che l’errore non raggiunge il minimo. In questo modo il problema può essere
impostato come regressione lineare multipla giacché all’interno della sotto-funzione
si avrà una struttura del tipo:
𝑦 = 𝑝𝑎𝑟𝑎𝑚𝑒𝑡𝑟𝑜 (1) ∗ 𝑐𝑜𝑒𝑓𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒(1) + 𝑝𝑎𝑟𝑎𝑚𝑒𝑡𝑟𝑜 (2) ∗ 𝑐𝑜𝑒𝑓𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒 (2)
Dove:
𝑐𝑜𝑒𝑓𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒 (1) = exp(−𝑙𝑎𝑚𝑏𝑑𝑎 (1) ∗ 𝑡 ) (𝑛𝑜𝑡𝑜)
𝑐𝑜𝑒𝑓𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒 (1) = exp(−𝑙𝑎𝑚𝑏𝑑𝑎 (2) ∗ 𝑡 ) (𝑛𝑜𝑡𝑜)
𝑝𝑎𝑟𝑎𝑚𝑒𝑡𝑟𝑜 (1) = 𝑐 (1) (𝑛𝑜𝑛 𝑛𝑜𝑡𝑜)
𝑝𝑎𝑟𝑎𝑚𝑒𝑡𝑟𝑜 (2) = 𝑐 (2) (𝑛𝑜𝑛 𝑛𝑜𝑡𝑜)
Quindi c’è una sola equazione con due incognite (l’obiettivo è approssimare e non
passare per tutti i punti sperimentali).
Per cui può essere un fatto positivo combinare la funzione regress con la funzione
fminsearch: due parametri vengono trattati con la fminsearch e due parametri
vengono trattati con la regress. Con tale accorgimento la ricerca è un po’ più veloce
e si riesce ad approssimare meglio tutti i punti sperimentali (proprio in virtù del fatto
che si aumentano i gradi di libertà). Certamente la combinazione di queste due
funzioni (regress e fminsearch) ha un effetto benefico che porta a ridurre molto
l’errore (da circa 1.5 a circa 0.38).

474
Nel modello economico semplificato di mercato perfettamente concorrenziale,
grande rilievo assumo le curve di domanda ed offerta, che in ascissa hanno la
quantità di bene prodotto o richiesto in un prefissato periodo di tempo ed in ordinata
il prezzo unitario del bene. L’intersezione delle curve determina il prezzo di equilibrio
della merce. Assumendo i seguenti dati per la produzione e richiesta del grano in un
ipotetico mercato si calcoli il prezzo di equilibrio (tra domanda e offerta) e si traccino
le curve di domanda ed offerta utilizzando almeno 30 punti (es_minimo_4):

Figura 416

In sostanza avendo a disposizione i dati sperimentali (dove si vede come varia il


prezzo sia in funzione delle quantità domandate che delle quantità offerte);
aumentando il prezzo la quantità offerta aumenta, mentre quella domandata si
riduce. È possibile dunque costruire due modelli polinomiali con polyfit e trovare il
punto di equilibrio (che può essere visto anche come lo zero di una funzione); se i
modelli sono polinomiali chiaramente anziché utilizzare fzero basta calcolare le radici
utilizzando la funzione roots.
Si calcoli il minimo della funzione:
𝑥 4 + 6𝑥𝑦 + 𝑥𝑦 3 − 6𝑥𝑧 3 − 𝑦𝑧 + 4𝑧 3
In tal caso addirittura non è necessario implementare niente al calcolatore, in quanto
il minimo della funzione è un punto in cui la derivata prima è nulla; in tal caso la
derivata prima è semplicissima da calcolare per cui il problema si risolve facilmente.
Una fabbrica decide di iniziare la produzione di un nuovo tipo di caramelle dietetiche.
Il costo di produzione è di 𝐿. 1000 per confezione e l’ufficio di marketing prevede una
richiesta settimanale di 100000/𝑝2 confezioni dove 𝑝 è il prezzo complessivo al quale
ogni confezione è venduta. Si calcoli il prezzo al quale sarà messa in vendita una
confezione di caramelle per massimizzare il profitto (es_max_prof). Anche in questo
caso il problema si potrebbe risolvere carta e penna.
Si supponga di voler minimizzare la somma quadrati di alcuni parametri da
ottimizzare (Rosenbrock function). In tal caso se per esempio 𝑥 = 3 allora si
avrà(es_fmincon):
𝑦 = 𝑥12 + 𝑥22 + 𝑥32
475
La fmincon dà la possibilità all’utente di modificare dei settaggi. In particolare con il
comando seguente:
𝑜𝑙𝑑_𝑜𝑝𝑡𝑠 = 𝑜𝑝𝑡𝑖𝑚𝑠𝑒𝑡(′𝑓𝑚𝑖𝑛𝑐𝑜𝑛′ )
Si crea un vettore di informazioni che contiene tutti i settaggi di default di fmincon.
Con il seguente comando invece:
𝑛𝑒𝑤_𝑜𝑝𝑡𝑠 = 𝑜𝑝𝑡𝑖𝑚𝑠𝑒𝑡 (′𝑑𝑖𝑠𝑝𝑙𝑎𝑦 ′ ,′ 𝑖𝑡𝑒𝑟 ′ )
È possibile modificare alcune impostazioni. In particolare in tal caso si è deciso di
modificare il display richiedendo che a video venga descritto cosa sta accadendo
iterazione dopo iterazione (monitoraggio di come sta funzionando l’algoritmo di
ricerca del minimo). Quindi è possibile sovrapporre a old_opts i valori modificati di
new_opts nella maniera seguente:
𝑜𝑝𝑡𝑠 = 𝑜𝑝𝑡𝑖𝑚𝑠𝑒𝑡(𝑜𝑙𝑑_𝑜𝑝𝑡𝑠, 𝑛𝑒𝑤_𝑜𝑝𝑡𝑠)
In sostanza in questo modo Matlab effettua un confronto tra il vecchio vettore di
opzioni e il nuovo vettore di opzioni sostituendo alle vecchie opzioni quelle nuove
(quelle che non vengono definite nel new_opts non vengono toccate). Si ottiene
dunque un nuovo vettore di informazioni opts che in tal caso rispetto alle informazioni
di default avrà semplicemente la richiesta di rappresentare a video cosa sta
accadendo iterazione dopo iterazione. La fmincon viene utilizzata con la seguente
sintassi:
[𝑥, 𝑣𝑎𝑙_𝑓, 𝑒𝑥𝑖𝑡𝑓𝑙𝑎𝑔, 𝑜𝑢𝑡𝑝𝑢𝑡] = 𝑓𝑚𝑖𝑛𝑐𝑜𝑛(′𝑓𝑢𝑛1′ , 𝑋0, 𝐴, 𝐵, 𝐴𝑒𝑞, 𝐵𝑒𝑞, 𝐿𝐵, 𝑈𝐵,′ 𝑣𝑖𝑛𝑐𝑜𝑙𝑖 ′ , 𝑜𝑝𝑡𝑠)
In sostanza in output si richiedono i valori ottimali (𝑥), quanto vale la funzione in
corrispondenza di tali valori (𝑣𝑎𝑙_𝑓), se c’è stata o meno convergenza (𝑒𝑥𝑖𝑡𝑓𝑙𝑎𝑔) e
un vettore di output (𝑜𝑢𝑡𝑝𝑢𝑡) che contiene ulteriori dettagli. Nel caso in cui 𝑒𝑥𝑖𝑡𝑓𝑙𝑎𝑔 =
1 significa che c’è stata convergenza. È chiaro che se la funzione è data come
somma dei quadrati e non ci sono vincoli le variabili indipendenti devono essere tutte
nulle.
Inoltre:
𝑋0 = 𝑣𝑎𝑙𝑜𝑟𝑖 𝑖𝑛𝑖𝑧𝑖𝑎𝑙𝑖
𝐴, 𝐵 = 𝑣𝑖𝑛𝑐𝑜𝑙𝑖 𝑑𝑖 𝑑𝑖𝑠𝑒𝑔𝑢𝑎𝑔𝑙𝑖𝑎𝑛𝑧𝑎 𝑙𝑖𝑛𝑒𝑎𝑟𝑖
𝐴𝑒𝑞, 𝐵𝑒𝑞 = 𝑣𝑖𝑛𝑜𝑙𝑖 𝑑𝑖 𝑢𝑔𝑢𝑎𝑔𝑙𝑖𝑎𝑛𝑧𝑎 𝑙𝑖𝑛𝑒𝑎𝑟𝑖
𝐿𝐵 = 𝐿𝑜𝑤𝑒𝑟 𝐵𝑜𝑢𝑛𝑑
𝑈𝐵 = 𝑈𝑝𝑝𝑒𝑟 𝐵𝑜𝑢𝑛𝑑
𝑣𝑖𝑛𝑐𝑜𝑙𝑖 = 𝑝𝑒𝑟 𝑖 𝑣𝑖𝑛𝑐𝑜𝑙𝑖 𝑛𝑜𝑛 𝑙𝑖𝑛𝑒𝑎𝑟𝑖
𝑜𝑝𝑡𝑠 = 𝑠𝑒𝑡𝑡𝑎𝑔𝑔𝑖𝑜 𝑜𝑝𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖

476
Per poter inserire il vettore di opzioni (opts) quando non ci sono vincoli non lineari è
necessario adottare la seguente sintassi:
[𝑥, 𝑣𝑎𝑙_𝑓, 𝑒𝑥𝑖𝑡𝑓𝑙𝑎𝑔, 𝑜𝑢𝑡𝑝𝑢𝑡] = 𝑓𝑚𝑖𝑛𝑐𝑜𝑛(′𝑓𝑢𝑛1′ , 𝑋0, 𝐴, 𝐵, 𝐴𝑒𝑞, 𝐵𝑒𝑞, 𝐿𝐵, 𝑈𝐵, [], 𝑜𝑝𝑡𝑠)
Dove:
[] = 𝑣𝑒𝑡𝑡𝑜𝑟𝑒 𝑣𝑢𝑜𝑡𝑜
Nei vincoli non lineari è possibile dare opportunamente anche dei vincoli lineari
(magari nei lower bound ad esempio) giacché lo strumento è del tutto generale.
Tuttavia il vincolo non lineare è un qualcosa che è funzione di un qualcosa che si sta
ottimizzando, per cui è opportuno utilizzare laddove sia strettamente necessario
(laddove si tratti realmente di un vincolo non lineare).
Le prevalenze reale ed Euleriana di una pompa possono essere espresse in funzione
della portata volumetrica 𝑄 e del regime di rotazione 𝑛 attraverso le seguenti
relazioni:
𝑛 2 𝑛
𝐻3 = 𝑘1 ( ) + 2𝑘2 ( ) 𝑄 − 𝑘3 𝑄 2
1000 1000
𝑛 𝑛
𝐻𝐸 = 𝑘5 ( ) − 𝑘6 𝑄 ( )
1000 1000
Mentre la prevalenza esterna può essere espressa come:
𝐻𝑒𝑠𝑡 = 𝐻𝑢 + 𝑘4 𝑄2
Si assuma:
𝑘1 = 10
𝑘2 = 𝑘3 = 𝑘4 = 𝑘6 = 1
𝑘5 = 14
𝐻𝑢 = 20
Calcolare il punto ottimale di funzionamento corrispondente al massimo rendimento
con il vincolo di uguaglianza tra caratteristica interna ed esterna. Eseguire
l’ottimizzazione sia con un metodo di minimizzazione non vincolata impiegando una
penalty function, sia con un metodo di minimizzazione vincolata (es_curvecaratt):
 1) max [𝜂 − 𝑘 (𝐻𝑟 − 𝐻𝑒𝑠𝑡 )2 ]
 2) max [𝜂], con 𝐻𝑟 = 𝐻𝑒𝑠𝑡 e 𝑑𝐻𝑟 /𝑑𝑄 < 0
Si immagina dunque di avere un modello che esprime la caratteristica interna in
funzione della portata (nonché al variare del regime di giri):
𝐻𝑖𝑛𝑡 = 𝑓 (𝑄, 𝑛)
Nonché di avere la curva caratteristica esterna 𝐻𝑒𝑠𝑡 .

477
Figura 417

Si vuole in sostanza trovare il punto di funzionamento per il quale:


𝜂 = 𝜂𝑚𝑎𝑥
Bisogna inoltre garantire il funzionamento stabile in tali condizioni. Pertanto si vuole
conoscere la coppia di valori (𝑛, 𝑄) che massimizza il rendimento, ma con il vincolo
che il funzionamento sia stabile (intersezione della caratteristica esterna con il tratto
discendente delle curve di caratteristica interna). È evidente che il rendimento 𝜂 è
anch’esso funzione di 𝑛 e 𝑄, così come anche la condizione da imporre. Di fatto non
è da escludere che il rendimento più elevato in assoluto si abbia quando la
caratteristica esterna si interseca con il tratto instabile della curva di caratteristica
interna:

Figura 418

È possibile quindi che il rendimento massimo si abbia nell’intersezione della


caratteristica esterna con la curva di caratteristica interna 1; tuttavia in quella zona la
curva di caratteristica interna è discendente per cui si ha una regione di instabilità.
Pertanto dovendo soddisfare questo vincolo, magari il rendimento massimo,
compatibilmente con il vincolo imposto, sia ottenibile in corrispondenza
478
dell’intersezione della curva di caratteristica esterna con la curva di caratteristica
interna 2: ci si deve accontentare magari di un rendimento inferiore garantendo però
il soddisfacimento della stabilità (in tal caso non si raggiunge l’ottimo assoluto, ma
l’ottimo vincolato).
Per trattare un problema di questo tipo si hanno due possibilità:
 Si va a sommare alla funzione obiettivo un termine definito positivo che deve
essere in qualche modo abbattuto (penalty function). Con questo metodo
bisogna lavorare opportunamente sulla funzione obiettivo. In tal caso è
possibile utilizzare fminsearch al posto di fmincon.
 Si esprime un vincolo di diseguaglianza non lineare: 𝑑𝐻/𝑑𝑄 < 0. In tal caso
alla funzione obiettivo trattata da fmincon si affianca una funzione vincoli (non
lineare) che calcola proprio 𝑑𝐻/𝑑𝑄.
In realtà l’obiettivo principale che si vuole realizzare è massimizzare il rendimento,
ma con il vincolo che vi sia accoppiamento tra la curva di prevalenza esterna e la
curva di prevalenza interna e cioè che si verifichi:
𝐻𝑒𝑠𝑡 = 𝐻𝑖𝑛𝑡
Il vincolo sulla stabilità invece è un qualcosa che può essere aggiunto a posteriori,
ma solo quando si utilizza il secondo approccio che prevede l’impiego della fmincon.
In sostanza vanno variate le variabili 𝑄 ed 𝑛 in modo tale da raggiungere il rendimento
massimo, ma in maniera da avere un funzionamento: di fatto il punto di massimo
rendimento potrebbe cadere anche in una zona dove non c’è accoppiamento (ossia
non c’è intersezione) tra le curve di prevalenza (in questa zona ovviamente non si ha
un funzionamento). Pertanto sul soddisfacimento di tale vincolo si vanno a
confrontare i due metodi sopra esposti. Successivamente si capirà che la versatilità
della funzione fmincon permette con semplicità di introdurre anche un ulteriore
vincolo non lineare che è quello sulla stabilità di cui si è discusso precedentemente.
Nel caso della penalty function la funzione obiettivo è proprio 1/𝜂 (perché volendo
massimizzare il rendimento si deve minimizzare il suo inverso) a cui però deve
essere aggiunto un termine di penalizzazione; in tal caso si vuole penalizzare la
differenza tra la prevalenza reale e la prevalenza esterna. La ricerca dunque deve
andare nella direzione di minimizzare complessivamente la somma dei due termini:
bisognerà massimizzare il rendimento (e dunque minimizzare il suo inverso) e ridurre
al minimo la differenza tra la prevalenza reale e la prevalenza esterna. Tuttavia
complicare la funzione obiettivo potrebbe essere fonte di errore e/o comunque di
complicazioni eccessive. Con l’utilizzo di questa tecnica e dunque della fminsearch
è necessario un numero di iterazioni molto elevato (ben 220) e un numero notevole
di valutazioni della funzione, per ottenere in realtà un risultato non ottimo: infatti non
c’è una vera e propria convergenza, ma l’algoritmo si stoppa perché viene superato
il massimo numero di valutazioni della funzione. In particolare la portata e il regime
di giri che vengono fuori sono pari a:
479
𝑄 = 2.2 𝑚3 /ℎ
𝑛 = 1518 𝑟𝑝𝑚
Il rendimento che viene fuori invece vale:
𝜂 = 86 %
La prevalenza reale vale:
𝐻𝑟 = 𝐻𝑖𝑛𝑡 = 24.8642 𝑚
La prevalenza esterna vale:
𝐻𝑒𝑠𝑡 = 24.8639 𝑚
C’è in sostanza una piccola discrepanza tra il valore di 𝐻𝑖𝑛𝑡 e il valore di 𝐻𝑒𝑠𝑡 (sulla
terza cifra decimale). La soluzione proposta è dunque accettabile, ma non precissima
(infatti l’algoritmo si è stoppato avendo raggiunto il numero massimo di valutazione
della funzione).
Per questo motivo si passa all’utilizzo di fmincon (secondo modo di risolvere il
problema). In tal caso si limita il range di funzionamento della pompa imponendo un
lower bound ed un upper bound sia per la portata che per il regime di giri. Non si
impongono vincoli di uguaglianza e di disuguaglianza lineare, ma si impone un
vincolo non lineare. In tal caso non è necessario lavorare sulla funzione obiettivo in
quanto essa diventa semplicemente la seguente:
𝑓𝑜𝑏𝑏 = −𝜂
Dovendo massimizzare il rendimento si dovrà minimizzare la funzione obiettivo
costruita come sopra specificato.
In questo caso inoltre è possibile definire agevolmente due vincoli non lineari: uno di
eguaglianza per garantire l’accoppiamento tra le caratteristiche e uno di
diseguaglianza per garantire la stabilità.
In tal caso il valore dell’errore si riduce notevolmente rispetto al caso precedente ed
inoltre risulta:
𝑄 = 2.2 𝑚3 /ℎ
𝑛 = 1510 𝑟𝑝𝑚
𝜂 = 86 %
𝐻𝑟 = 𝐻𝑖𝑛𝑡 = 24.6650 𝑚
𝐻𝑒𝑠𝑡 = 24.6650 𝑚
I risultati sono simili al caso precedente, ma il vincolo sull’accoppiamento è rispettato
in maniera ottimale (di fatto le prevalenze interna ed esterna di fatto coincidono). Al
di là dell’errore è cambiato proprio il punto: in effetti tutti i risultati hanno subito una
480
modifica più o meno apprezzabile (anche il rendimento e il punto di funzionamento
in termini di portata e regime di giri). Oltre a ciò è proprio il processo di convergenza
che è stato differente in quanto sono bastate minori iterazioni con minori valutazioni
della funzione.
È evidente che laddove la penalty function funzioni bene può essere anche
giustificato il suo utilizzo, ma visto che in tal caso non funziona bene bisogna ricorrere
ad un altro metodo che prevede l’utilizzo della fmincon. I due metodi sono in effetti
più o meno equivalenti, ma hanno potenzialità differenti. Con fmincon il ragionamento
è più lineare e non bisogna complicare la funzione obiettivo, oltre al fatto che si ha
una maggiore precisione. Con la penalty function invece nella funzione obiettivo si
devono inserire più obiettivi e dunque anche da un punto di vista matematico si
creano delle complicazioni: questo causa dei problemi alla convergenza con un
numero di calcoli maggiore e un risultato meno preciso. Inoltre con l’utilizzo della
fmincon si è potuto inserire anche il vincolo sulla stabilità in maniera semplice: è un
metodo più robusto.

481
Lezione 40 (Sorrentino) 26/05/2017
Note introduttive a Matlab
Mettendosi nella cartella delle funzioni farg ed ecp e digitando il comando edit farg
e/o edit ecp è possibile aprire gli editor di queste due funzioni. La funzione ecp a
livello di calcolo ha delle difficoltà maggiori rispetto alla funzione farg. Nel caso di
ciclo limite non è possibile passare direttamente dalle condizioni al punto 1 (inizio
fase di compressione) alle condizioni del punto 2 attraverso l’utilizzo della politropica
con esponente costante: in tal caso di fatto l’esponente non è costante e la politropica
non può essere più utilizzata (è necessario far riferimento all’equazione differenziale
𝑑𝑝/𝑑𝜗 tenendo conto che 𝑘 non è costante, ma va calcolato ad ogni passo).
L’equazione 𝑑𝑝/𝑑𝜗 va integrata proprio con l’utilizzo delle funzioni farg ed ecp.
In particolare la funzione farg riceve in input la pressione espressa in bar, la
temperatura espressa in Kelvin, il rapporto di equivalenza combustibile/aria (nel ciclo
limite tale rapporto è costante (𝛷 = 1 supponendo 𝛼 = 𝛼𝑠𝑡 ; volendo testare valori del
rapporto di miscela differenti, all’interno del codice bisogna inserire il calcolo della
variabile 𝛷, che è l’inverso del rapporto di miscela 𝛼) e la frazione in massa di gas
residui; di fatto la funzione farg lavora nella fase di compressione (Fuel Air Residual
Gas), o quando si deve ricavare l’entalpia della carica fresca (nel qual caso 𝑓 = 0):
durante la compressione invece la frazione residua è non nulla perché c’è stata una
miscelazione tra la carica fresca e quella nel cilindro; per cui la routine farg viene
utilizzata a partire dalla fase di aspirazione e fino alla fase di compressione (durante
la quale la frazione residua è costante). A seguito della fase di compressione c’è la
fase di combustione e poi si passa alla fase di espansione: in questa fase la frazione
𝑓 diventa pari ad uno e si utilizza la ecp (invece della farg); la combustione essendo
a volume costante non c’è una transizione graduale, ma c’è un passaggio brusco
(discontinuità) che determina un salto (verso l’alto) della temperatura. Si tenga
presente che la routine farg vale tra 300 𝐾 e 1500 𝐾, per cui nel momento in cui la
temperatura è maggiore (combustione) si passa alla routine ecp. In sostanza basta
monitorare l’angolo di manovella: se esso è compreso nell’intervallo [−180°, 0°] si
utilizza la farg, se invece è compreso nell’intervallo [1°, +180°] (utilizzando il grado
come passo di integrazione) si utilizza ecp (questo è ciò che vale nel caso di
combustione istantanea: ciclo limite). Nel caso in cui invece la combustione non è
istantanea ci sarà una transizione graduale nel passare dalla farg alla ecp: in tal caso
nell’espressione di 𝑑𝑝/𝑑𝜗 si terrà conto anche del termine relativo alla combustione
e dunque anche l’utilizzo della kynemat va rivisto (serve conoscere la frazione
combusta, grazie alla quale è possibile aggiornare 𝑓: essa aumenta gradualmente a
partire da un certo valore, durante l’intera fase di combustione fino a raggiungere il
valore unitario; in tal modo si elimina la discontinuità).
Sebbene la combustione istantanea sia un qualcosa di ideale, essa fa capire il
problema della detonazione in un motore a benzina: di fatto se c’è detonazione si va
nella direzione di una combustione improvvisa, istantanea e quasi a volume costante
482
(l’effetto è quello di far aumentare notevolmente la temperatura: situazione poco
gestibile).
La funzione farg si utilizza con una sintassi del tipo:
ℎ = 𝑓𝑎𝑟𝑔 (1,1500,1,1)
Dove:
ℎ = 𝑒𝑛𝑡𝑎𝑙𝑝𝑖𝑎
𝑝𝑟𝑖𝑚𝑜 𝑣𝑎𝑙𝑜𝑟𝑒 = 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 (𝑝)
𝑠𝑒𝑐𝑜𝑛𝑑𝑜 𝑣𝑎𝑙𝑜𝑟𝑒 = 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑒𝑟𝑎𝑡𝑢𝑟𝑎 (𝑇)
𝑡𝑒𝑟𝑧𝑜 𝑣𝑎𝑙𝑜𝑟𝑒 = 𝑟𝑎𝑝𝑝𝑜𝑟𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑒𝑞𝑢𝑖𝑣𝑎𝑙𝑒𝑛𝑧𝑎 (𝛷)
𝑞𝑢𝑎𝑟𝑡𝑜 𝑣𝑎𝑙𝑜𝑟𝑒 = 𝑓𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑖𝑛 𝑚𝑎𝑠𝑠𝑎 𝑑𝑒𝑖 𝑟𝑒𝑠𝑖𝑑𝑢𝑖 (𝑓)
Nel caso di ecp non ha senso indicare la frazione in massa residua (è chiaramente
sempre unitaria); la sintassi è la seguente:
ℎ = 𝑒𝑐𝑝(1,1500,1)
Dove:
ℎ = 𝑒𝑛𝑡𝑎𝑙𝑝𝑖𝑎
𝑝𝑟𝑖𝑚𝑜 𝑣𝑎𝑙𝑜𝑟𝑒 = 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 (𝑝)
𝑠𝑒𝑐𝑜𝑛𝑑𝑜 𝑣𝑎𝑙𝑜𝑟𝑒 = 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑒𝑟𝑎𝑡𝑢𝑟𝑎 (𝑇)
𝑡𝑒𝑟𝑧𝑜 𝑣𝑎𝑙𝑜𝑟𝑒 = 𝑟𝑎𝑝𝑝𝑜𝑟𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑒𝑞𝑢𝑖𝑣𝑎𝑙𝑒𝑛𝑧𝑎 (𝛷)
In particolare nel caso riportato a titolo di esempio sia la farg che la ecp devono
restituire lo stesso valore in quanto si è in condizioni di temperatura pari a 1500 𝐾 e
frazione residua paria ad 1 (pressione pari a 1 𝑏𝑎𝑟 e rapporto di equivalenza pari ad
1). Al contrario con temperature ad esempio maggiori di 1500 𝐾 i risultati della farg e
della ecp non sono identici: in tali condizioni vale ovviamente il risultato della ecp (di
fatto in questo caso le specie considerate sono dieci, a fronte delle sei considerate
nella farg; nella combustione reale ovviamente le specie sono almeno dieci ed è per
questo motivo che viene utilizzata la ecp).
Se il fuletype (tipo di combustibile) non viene indicato, in automatico (di default) il
calcolo sarà effettuato per la benzina.
Ovviamente la farg e la ecp in output oltre all’entalpia forniscono anche altre
grandezze tra le quali: energia interna, volume specifico, entropia, calore specifico a
pressione costante, ….
Si fa riferimento dunque in questa analisi al ciclo limite, per risolvere lo stesso
problema già analizzato nel caso di ciclo ideale con ricambio della carica (dal quale
si può partire per risolvere il problema: in tal caso però il fluido è reale).
483
Fissando la temperatura 𝑇6 come valore di tentativo (oltre che 𝑓) risulta fissata la
temperatura allo scarico (nonché la pressione allo scarico che viene fissata ed è pari
a quella ambiente); in questo modo è possibile utilizzare la funzione ecp nel punto 6
che permette di calcolare ℎ6 (nel punto 6 è tutto combusto dunque si applica la ecp).
La ℎ𝑖 all’interno del collettore di aspirazione invece si può calcolare (bisogna
considerare la temperatura nel collettore di aspirazione (310 𝐾) la pressione di
aspirazione (0.7 𝑏𝑎𝑟), il rapporto di equivalenza (1) e la frazione residua (0: carica
fresca). A questo punto è possibile ricavare ℎ1 utilizzando l’equazione che descrive
il processo di miscelamento tra la carica fresca e i gas residui (è in sostanza il bilancio
di energia in termini di entalpia). Ricavata la ℎ1 bisogna calcolare 𝑇1 utilizzando la
farg: essa fornirà una ℎ1 , ma bisognerà eseguire un calcolo iterativo giacché non si
conosce né la temperatura né la frazione residua (per la frazione residua si utilizza
quella di tentativo, la pressione è nota così come il rapporto di equivalenza, mentre
la temperatura è il parametro da ottimizzare all’interno del ciclo iterativo). In
particolare dalla definizione di entalpia e dagli output della farg è possibile ricavare
la costante del gas non nota (𝑅) e quindi di conseguenza 𝑐𝑣 (avendo 𝑐𝑝 dall’output
della farg o magari della ecp a seconda dei casi):
ℎ = 𝑢 + 𝑝𝑣 (𝑑𝑒𝑓𝑖𝑛𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝑒𝑛𝑡𝑎𝑙𝑝𝑖𝑎 )
ℎ−𝑢
ℎ = 𝑢 + 𝑝𝑣 = 𝑢 + 𝑅𝑇 ⟹ 𝑅 =
𝑇
𝑅 = 𝑐𝑝 − 𝑐𝑣 (𝑟𝑒𝑙𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝑀𝑎𝑦𝑒𝑟) ⟹ 𝑐𝑣 = 𝑐𝑝 − 𝑅

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