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Mario Ricciardi

DIRITTO NATURALE E ONTOLOGIA SOCIALE:


ALLE ORIGINI DELLA TEORIA DEI FATTI ISTITUZIONALI

1. Orestano e l’anagrafe di un significato

Chi si avvicina alla crescente letteratura sull’ontologia sociale provenendo


da studi di filosofia del diritto ha spesso la sensazione di avere a che fare con
qualcosa di familiare. Ciò dipende in parte dal fatto che la riflessione sul diritto
ha da sempre una dimensione ontologica. Andando molto indietro nel tempo
si trovano diverse testimonianze della consapevolezza che postulare l’esistenza
di qualcosa non sia un’operazione intellettuale innocente. Tuttavia, le considera-
zioni dei giuristi romani sulla natura di oggetti come la dote o l’eredità giacente
sono per lo più incidentali. Non c’è un resoconto esplicito del modo di essere
specifico di queste cose o una spiegazione di come sia possibile che esse abbia-
no una realtà. Anche quando si ha l’impressione di udire in lontananza l’eco
del discorrere dei filosofi, in particolare stoici, si tratta di un brusio indistinto.
In primo piano c’è soprattutto la voce del giurista, che parla delle cose che lo
riguardano da vicino1.
Non è il fatto che il giurista sia naturalmente orientato a postulare oggetti a
spiegare l’impressione che il filosofo del diritto prova leggendo John Searle, Barry
Smith o Maurizio Ferraris. C’è qualcosa di più, che provoca l’impressione di avere
a che fare, piuttosto che con un nuovo paradigma di ricerca, con la formulazione
più sofisticata di idee, teorie, schemi di interpretazione, che erano in circolazione
molto prima che l’ontologia sociale prendesse corpo come una disciplina auto-
noma, dotata di un canone che la distingue da altre parti della filosofia.

1 Bretone 1998.
Rivista di estetica, n.s., 36 (3 / 2007), XLVII, pp. © Rosenberg & Sellier

1
Credo che la sensazione di cui sto parlando dipenda dal riconoscere, negli
scritti di questi autori, una somiglianza di fondo con alcuni aspetti di quelli di
Hobbes, Grozio, Pufendorf, Locke e degli altri giusnaturalisti moderni. Co-
struendo a partire dalla tradizione classica e da quella medievale, cui reagiscono
criticamente ma dalla quale attingono in modo creativo, questi autori si pongono
spesso le stesse domande dei loro epigoni contemporanei. Cosa sono le persone?
Che differenza c’è tra un essere umano e una corporazione? Come è possibile
che l’azione produca oggetti le cui proprietà non si lasciano ridurre facilmente
a quelle dei corpi? A ciascuno di questi interrogativi i giusnaturalisti hanno una
risposta. Non sempre convincente, ma comunque degna di essere presa in con-
siderazione. La rilevanza di questa tradizione sembra essere sfuggita a Searle2. Le
osservazioni che vorrei sottoporre all’attenzione del lettore in queste pagine sono
un tentativo di esplorare alcune delle somiglianze tra la sua ontologia sociale e
la teoria del diritto naturale.
Non è questa la sede per ricostruire, sia pure in modo sommario, l’emersione
e gli sviluppi di un movimento di pensiero complesso come il giusnaturalismo
moderno. Anche se avessi le competenze necessarie, abuserei della pazienza di chi
mi legge senza aggiungere nulla di valore a quel che è già stato scritto sul tema.
Preferisco quindi procedere attraverso l’esame di un campione che illustri la mia
tesi lasciando parlare, per quanto possibile, gli esempi. A tale scopo, credo sia
utile partire da quella che apparentemente è un’indagine storica.
La parola “istituzione” si usa per parlare di un atto e di ciò che l’atto in que-
stione produce. Questa peculiarità ha attirato l’attenzione di Riccardo Orestano,
uno storico del diritto dotato di grande sensibilità per la filosofia del linguaggio,
che ne ha fatto il punto di partenza di un breve lavoro sulle origini della nozione
di istituzione. Non è difficile immaginare quale fosse il motivo che ha spinto
Orestano a intraprendere quella che, a prima vista, appare un’indagine di esclusivo
interesse filologico. Nella cultura giuridica italiana la parola “istituzione” ha una
straordinaria diffusione dovuta in larga misura all’influenza di Santi Romano3.
La teoria del diritto come istituzione proposta da Romano era stata adottata da
Orestano in un lavoro sui fatti di normazione nell’esperienza romana arcaica
che, alla sua pubblicazione, venne considerato molto innovativo, e ancora oggi
è di grande interesse4. Non stupisce, dunque, che lo storico del diritto provasse
una certa curiosità per le origini di una nozione cruciale per il proprio percorso
di studioso.
Nel saggio sulla nozione di istituzione, Orestano osserva che, pur essendo la
parola di origine latina, i due modi di usarla probabilmente non sono molto
antichi. Nel periodo classico, infatti, il termine latino institutio, da cui la parola
italiana deriva, si trova normalmente impiegato nel senso di: “disposizione” o
“sistemazione” (ad es. di cose); “costumi” (ad es. di un popolo); “istruzione”
2 Searle 2007: 79-80.
3 Romano 1918.
4
Orestano 1967.

2
o “educazione” (ad es. di un fanciullo); “elementi” o “principi” (ad es. di una
dottrina o insegnamento). Per Orestano, l’origine della distinzione tra i due
sensi della parola andrebbe rintracciata nella traduzione francese del De iure
naturae et gentium di Samuel Pufendorf, opera di Jean Barbeyrac5. Il brano in
questione si trova all’inizio del § IV del primo capitolo del primo libro, intitolato
De origine et varietate entium moralium, tradotto in francese come De l’origine
des Êtres Moraux, et de leurs differentes sortes en général6. Si tratta di un passaggio
importante perché espone la teoria degli “enti morali” che sono, con gli “enti
naturali”, al centro della teoria del diritto naturale di Pufendorf.
A proposito dell’origine dei due tipi di enti, Pufendorf scrive:

Porro uti modus originarius producendi entia physica est creatio; ita modum, quo entia
moralia producuntur, vix melius possis exprimere, quam per vocabulum impositionis7.

Questo brano è tradotto da Barbeyrac con:

Comme les Êtres Physique, sont originairement produits par la Création; on ne


sauroit mieux exprimer la manière dont les Êtres Moraux se forment, que par le terme
d’Institution8.

Segue una nota in cui Barbeyrac spiega che gli è sembrato opportuno tradur-
re impositio con institution perché questa parola è più vicina al senso inteso da
Pufendorf di cosa prodotta ad opera di un essere intelligente (l’espressione latina
impiegata da Pufendorf in un altro passo della stessa opera è ex arbitrio entium
intelligentium)9. Orestano riconduceva a questa scelta terminologica del traduttore
francese di Pufendorf l’introduzione dell’uso di “istituzione” per designare l’atto
attraverso il quale si istituisce qualcosa. Fin qui Orestano (lettore di Barbeyrac
traduttore di Pufendorf ). La ricostruzione lascia aperta una questione di un certo
interesse: come mai Barbeyrac decise di tradurre impositio con institution? Anche
in questo caso, la domanda non è motivata solo da curiosità filologica. Rico-
struire le ragioni della scelta terminologica di Barbeyrac è utile non soltanto per
comprendere le premesse da cui muove la riflessione di Pufendorf, ma anche per
indagare le possibili connessioni tra la teoria dei fatti istituzionali che costituisce
la chiave di volta dell’ontologia sociale di Searle e la tradizionale riflessione sul
diritto naturale. A ben vedere, non si tratta di un’ipotesi sorprendente. Come
ha sottolineato Roberto Miraglia, gli sviluppi più recenti del pensiero di Searle
suggeriscono che le considerazioni svolte in sede di ontologia sociale siano rile-
vanti anche sul piano della valutazione delle istituzioni10.
5
Orestano 1989: 167-177.
6 Pufendorf 1734: 4.
7
Pufendorf 1688: 3.
8 Pufendorf 1734: 4.
9 Pufendorf 1688: 4.
10
Miraglia 2004: 121-125.

3
2. Pufendorf su impositio

Che significa impositio? Nel latino classico per impositio si intende semplice-
mente l’applicazione di un nome a una cosa. Questo modo di usare il termine ha
già qualche relazione con quello di Pufendorf. Per quest’ultimo, infatti, gli enti
morali non sono entità appartenenti a una realtà diversa da quella degli oggetti
materiali, ma sono il prodotto dell’attività di esseri intelligenti che impongono un
significato agli oggetti materiali. Per Pufendorf, ci sono tre specie di enti morali:
(i) gli attributi morali (come diritto e obbligo); (ii) le persone morali (che sono
le sostanze di cui si predicano tali attributi); (iii) gli stati (status) morali che sono
per tali sostanze ciò che lo spazio è per gli enti fisici (la possibilità di azione nel
mondo). Nel latino di Pufendorf gli enti morali:

non ex principiis intrinsecis substantiae rerum proveniunt, sed rebus jam existentibus,
et physice perfectis, eourumdemque effectibus naturalibus sunt superaddita ex arbitrio
entium intelligentium11.

Pufendorf distingue un’impositio divina, che sembra corrispondere alla pro-


duzione originaria delle varie specie di enti morali, da un’impositio umana che
sembra consistere nella produzione di particolari istanze di tali enti12. Si direbbe
che la struttura del diritto naturale consista negli enti morali di origine divina13.
Dio crea l’uomo dotato di libero arbitrio, cioè capace di scegliere quali compiere,
tra gli atti di cui è fisicamente capace, ma questa libertà non è assoluta. Gli atti
di impositio umana sono sottoposti a vincoli ulteriori derivanti dall’impositio
originaria da parte di Dio14. In effetti, quest’ultima affermazione non è presente
in modo esplicito nel testo. Pufendorf si limita a dire che l’impositio che pro-
duce persone morali in senso proprio (veras personas morales) non è libera, ma
presuppone qualità appropriate. L’idea viene illustrata ricorrendo a un esempio
tratto dalla storia romana: Caligola che nomina senatore il proprio cavallo. Per
Pufendorf, Caligola era libero di nominare senatore un uomo stupido ma non il
proprio cavallo. L’impositio da parte di un essere umano (quale è Caligola) della
funzione di senatore presuppone la presenza di caratteristiche (ad es. l’essere
capace di ragionare) nell’oggetto cui si attribuisce la funzione. La mancanza delle
caratteristiche rilevanti nell’oggetto è segno di follia da parte dell’autore (in latino
furor, et insipida petulantia)15. L’esempio non è chiaro, ma è ragionevole supporre
che esso vada inteso nel senso che gli atti di impositio umana sono sottoposti a
vincoli determinati dall’impositio divina (che pone quindi condizioni di possibilità

11 Pufendorf 1688: 4.
12
Pufendorf 1688: 2-3.
13 Schneewind 1998: 119-123.
14
Haakonssen 1996: 39.
15 Pufendorf 1688: 10.

4
non fisica degli atti di impositio umana). Che Caligola sia in grado di imporre la
propria volontà ricorrendo all’uso della forza non è una ragione sufficiente per
ritenere che il suo sia un potere illimitato. Tale interpretazione della capacità
spiega l’uso dell’espressione veras personas morales (che assume la possibilità di
persone morali “false”)16. L’esempio proposto da Pufendorf mostrerebbe che
neanche un sovrano può violare i limiti posti dall’impositio divina17.
L’oscurità dell’esempio dipende verosimilmente anche dall’ambiguità del
termine “sostanza”, che Pufendorf impiega quando introduce la nozione di
ente morale. Per chiarirlo ulteriormente, bisogna prenderne in considerazione i
presupposti. Per Pufendorf, gli enti morali non hanno un’esistenza autonoma,
ma sono modi attribuiti agli oggetti fisici dall’azione di esseri intelligenti. Nel
definire gli enti morali come modi di sostanze già esistenti, Pufendorf afferma
che le stesse sostanze hanno anche modi che derivano dalla loro stessa natura
(ex ipsa re naturaliter velut profluunt)18. L’esempio di Caligola sembra alludere
a una relazione di “appropriatezza” tra l’attribuzione di un modo (il titolo di
senatore) e le caratteristiche di una sostanza (un uomo come animale razionale).
Nello stesso contesto Pufendorf usa ancora l’espressione “sostanza”, ma parlando
stavolta delle persone che, pur essendo modi di sostanze nel senso di “oggetti
individuali concreti”, possono essere considerate a loro volta il sostrato cui si
attribuiscono ulteriori enti morali non autonomi (della persona si dice che ha
uno status come delle sostanze si dice che sono in un luogo nello spazio)19. Si
direbbe che Pufendorf abbia in mente la distinzione tra ciò che esiste in un sog-
getto (come la posizione esiste in, o meglio appartiene, a una persona) e ciò di cui
si può dire che esiste in modo autonomo. Una sostanza è appunto qualcosa che
esiste in modo autonomo, cioè una porzione di materia individuata attraverso
la sua forma. Una sostanza è, in altre parole, un individuo20.
Vale la pena di sottolineare che Pufendorf è consapevole delle difficoltà che
sorgono dall’analogia tra oggetti materiali ed enti morali. Come si è detto, questi
ultimi sono solo modi imposti dall’azione di esseri intelligenti a una sostanza
che già esiste. La ragione per cui Pufendorf ne parla come se fossero sostanze è
l’utilità di tale artificio espositivo21.
Gli enti morali devono all’impositio non solo l’esistenza, ma anche la continuità
o il cambiamento. Quando l’impositio cessa, essi scompaiono.
Nel latino di Pufendorf:

16
Per una discussione di questi profili della libertà, vedi Kenny 1975: 122-144.
17 Azzoni 2003: 45-54.
18 Pufendorf 1688: 3.
19 Pufendorf 1688: 4.
20 In letteratura si discute dell’influenza di Hobbes su Pufendorf. La tesi che questa influenza

ci sia è stata difesa, tra gli altri, da Fiammetta Palladini (cfr. Palladini 1990). Tuttavia, come ha
sostenuto Stephen Buckle (1991: 60), è indiscutibile che la metafisica di Pufendorf richiami per
molti aspetti la tradizione aristotelica.
21 Pufendorf 1688: 3-4.

5
[c]aeterum entia moralia uti impositioni suam debent originem; ita ab eadem stabilita-
tem quoque aut mutationes fortiuntur, et ubi ista velut cessaverit, ipsa simul evanescunt;
non secus atque extincto lumine umbra simul disparet22.

Come per la produzione, anche la distruzione degli enti morali dipende da


un agente (divino o umano). Non c’è dubbio che la teoria degli enti morali di
Pufendorf sia un contributo a quella che oggi chiamiamo ontologia sociale.

3. Rapporto tra impositio e institutio

Nel discutere le tesi di Pufendorf sugli enti morali abbiamo fatto ricorso al
lessico della scolastica medievale. Proprio al fondatore della scolastica si può
guardare per trovare usi di impositio che si avvicinano a quello di Pufendorf.
Tommaso d’Aquino usa il termine sia nell’espressione impositio nominis che,
come si è detto, si trova già nell’antichità classica, sia nel senso di “imporre un
peso o un dovere a qualcuno”, come nell’espressione impositio penitentiae23. Di
un certo interesse è l’uso legato alla pratica dei sacramenti. L’atto di impositio
delle mani è centrale nel battesimo, nelle benedizioni, nell’ordinazione dei sa-
cerdoti e nell’estrema unzione24. In questo caso, infatti, impositio è impiegato
in un contesto in cui Tommaso usa anche institutio sia nel senso di cosa istituita
(de institutione sacramentorum), sia di atto dell’istituire (quae Christus instituit)25.
L’atto di imporre le mani (impositio) ha quindi un ruolo centrale in un’istituzione
(institutio). Lo stesso Tommaso usa in altri contesti institutio per designare un
atto, come quando parla di precetti che hanno forza ex sola institutione (in virtù
dell’atto di istituzione)26.
Tuttavia, l’uso più interessante di institutio è quello che si ha quando il termine
ricorre nell’espressione institutio nominis nel senso di “significato di una parola”.
In un articolo dedicato alla discussione della nozione di “dote”, Tommaso scrive:
«[u]nde secundum primam institutione nominis dos ad carnale matrimonium
pertineat»27. Questo modo di usare institutio è molto vicino a quello che si ha in
italiano in espressioni come “l’istituzione della promessa”. C’è anche l’ambiguità
per cui “l’istituzione” può essere sia un certo tipo di oggetto, qualcosa che ha una
durata, sia una cosa che è stata istituita (mediante un atto di impositio).
Nella sua indagine sulle origini della nozione di istituzione Orestano non
prende in considerazione la possibilità che esse vadano rintracciate fuori da
quella che oggi classificheremmo come letteratura giuridica, o comunque come
riflessione sul diritto. In realtà, nel medio evo i confini disciplinari non sono

22 Pufendorf 1688: 14.


23
Thomae Aquinatis, Summa Theologiae, Partis Tertiae Supplementum, Quaestio 28, art. 3.
24 De Clerck 1998: 563-564.
25 Thomae Aquinatis, Summa Theologiae, Partis Tertiae Supplementum, Quaestio 29, art. 3.
26
Ivi: Prima Secundae, Quaestio 100, art. 11.
27 Ivi: Partis Tertiae Supplementum, Queastio 95, art. 1.

6
delineati in modo così chiaro. In particolare, per quanto riguarda la riflessione
sulle istituzioni, non è sorprendente che essa si trovi in primo luogo nell’eccle-
siologia piuttosto che nei testi giuridici. In fondo, per molti versi, la Chiesa è
l’istituzione giuridica paradigmatica dell’Occidente. Al suo interno vengono
elaborate molte delle nozioni che, in un diverso contesto, entreranno nel patri-
monio della tradizione giuridica occidentale.
La nozione di impositio, che appartiene alla riflessione sull’intenzionalità,
viene messa all’opera nella riflessione scolastica sulla natura dei sacramenti, e da
qui entra a far parte del lessico filosofico europeo. Nel medio evo impositio non
era solo un’espressione del linguaggio comune, ma anche un termine tecnico
della filosofia designante l’atto di associare consapevolmente un’espressione
con un oggetto o un contenuto di significato. Ci sono anche esempi, come nel
trattato De Obligationibus di William Burley, scritto intorno al 1302, dell’uso
di institutio proprio per riferirsi ad un atto di impositio28. Possibile che queste
siano le fonti che hanno ispirato la scelta terminologica di Barbeyrac nel tradurre
Pufendorf? Non si può dirlo con certezza, ma l’ipotesi è verosimile. Di sicuro
Barbeyrac doveva essere familiare con il lessico della scolastica (come del resto
lo era Pufendorf ) e non è improbabile che abbia scelto il francese institution
proprio per l’associazione che il latino institutio doveva evocare con il senso di
impositio in Pufendorf.
A conferma di questa ipotesi si può menzionare anche il fatto che Pierre Coste,
nella sua traduzione francese di Locke pubblicata nel 1700, renda imposition con
institution. L’atto di cui parla Locke ha le stesse caratteristiche dell’impositio di
Pufendorf. Anche perché, come è stato sottolineato da J.B. Schneewind, la teoria
dei “modi misti” è probabilmente un tentativo del filosofo inglese di sviluppare
le idee di Pufendorf sugli enti morali29.
Anche se gli sono sfuggiti i precedenti medievali, l’intuizione di Orestano di
guardare al giusnaturalismo moderno alla ricerca di un’elaborazione esplicita della
nozione di istituzione, e dunque di quella di fatto istituzionale, è corretta. Le pa-
role impositio e institutio, e le loro traduzioni in diverse lingue europee, ritornano
negli scritti di Hobbes, Locke, Leibniz e Hume. Tuttavia, è solo in Pufendorf che
troviamo un’articolazione completa di una vera e propria dimensione istituzionale
della realtà, cioè di quella che oggi chiameremmo ontologia sociale.

4. Gli entia moralia e la realtà

Per Pufendorf, la differenza tra un mondo composto solo di oggetti materiali


ed un mondo in cui ci sono anche enti morali non è quindi in rebus materialibus,
ma dipende dall’atteggiamento che esseri intelligenti hanno nei confronti di tale

28 Walter Burley, Tractatus de obligationibus, 0. 02 e 1. 01. Le obligationes sono un genere letterario

diffuso nel medioevo, ma il cui scopo non è ancora del tutto chiaro. L’ipotesi prevalente tra gli stu-
diosi è che esse fossero trattati di teoria dell’argomentazione razionale. Stump 1982: 314-334.
29 Schneewind 1998: 148.

7
mondo. Questa tesi, che Pufendorf mutuava dal suo maestro Erhard Weigel30,
evidenzia il carattere reale delle istituzioni. Per Hans Welzel, un acuto studioso
di Pufendorf, ciò significa che gli enti morali:

non sono irreali strutture di significato, ma sono reali allo stesso modo degli enti fisici
presso i quali si trovano. La realtà non coincide con la realtà psico-fisica, che è per lo più
una pura astrazione, ma è costituita da elementi fisici o psichici di significato indifferente,
e da elementi morali dotati di senso. Ci si deve solo ben guardare dal trasferire i tratti
essenziali della realtà psicofisica a quella propria degli enti morali. L’azione umana non
può produrre dal nulla gli enti fisici, ma certamente gli enti morali; tutta la vita culturale
consiste proprio nel conferire una forma significante all’esistenza naturale. Chi non fa
attenzione a queste differenze, giunge ad ipostatizzare gli enti morali in una sorta di oggetti
materiali, vaganti da qualche parte nel mondo, separati dai loro portatori fisici, ai quali
l’uomo darebbe spazio e concederebbe tregua unicamente presso gli oggetti fisici31.

La ricostruzione di Welzel è senza dubbio suggestiva, perché essa non solo


riconosce la dimensione ontologica della teoria del diritto di Pufendorf, ma ne
mette anche in luce la rilevanza generale per le scienze sociali. Si tratta di un
capitolo della storia del pensiero che è, in larga misura, ancora da scrivere. Per
quanto riguarda la teoria del diritto, è fuori dubbio l’importanza che Pufendorf
ha avuto nell’orientare le riflessioni di Santi Romano sulla natura istituzionale
del diritto32. Andrebbe investigata, invece, la possibilità di un’influenza, magari
mediata, sui padri della sociologia, in particolare di lingua francese. Da questo
punto di vista, una lettura attenta degli scritti di Émile Durkheim e di Marcel
Mauss potrebbe rivelare qualche indizio interessante33.

5. Digressione teologica

A differenza di Searle, che pone esplicitamente il proprio resoconto dell’onto-


logia sociale entro l’orizzonte del naturalismo, Pufendorf adotta una prospettiva
in cui la divinità ha un ruolo determinante nella creazione e nella sussistenza degli
enti, incluso di quelli che sono prodotti dall’azione degli esseri umani. Si tratta
di un modo di procedere che ovviamente non è destinato a riscuotere simpatie
presso coloro che credono nell’impossibilità di una teologia naturale. Tuttavia, a
prescindere da quali siano le opinioni che si hanno sul ruolo della ragione nelle
investigazioni teologiche, credo valga la pena di soffermarsi brevemente sulla
struttura di questa parte della teoria di Pufendorf. L’attività di Dio in quanto
creatore è infatti il paradigma a partire dal quale viene ricostruita l’attività degli
esseri umani come produttori, a loro volta, di oggetti sociali.

30 Röd 1969: 58-84. Tuttavia, come sottolinea Schneewind (1998: 120, nota 6), Weigel «is nearly

unreadable, and it was through Pufendorf that the idea attained European importance».
31
Welzel 1958 (tr. it. 53).
32 Romano 1918: 32
33 Si veda, ad esempio, Mauss 1968: 16-17.

8
Proviamo ad analizzare l’analogia tra “creazione” (modo di produzione degli
enti naturali) e “imposizione” (modo di produzione degli enti morali). Cosa
suggerisce questa analogia? La prima risposta che viene in mente è che il modo
in cui vengono a esistenza gli enti naturali deve avere qualcosa in comune con
quello degli enti morali.
Per capire cosa, bisogna ricordare alcune nozioni teologiche poco familiari per
un lettore moderno. Conviene cominciare, per così dire, dall’inizio, partendo
dal Dio della professione di fede, «creatore del cielo e della terra, di tutte le cose
visibili e invisibili». Dopo l’inizio, tra le cose create ce ne sono alcune che hanno
in se stesse la capacità di trasformarsi e di generare altre cose e alcune che sono
prive di questa capacità. Le cose generate, a differenza di quelle create, vengono
a esistenza attraverso la trasformazione di materia già esistente.
Per comprendere la distinzione si può ricorrere ad un esempio: Dio crea dal
nulla (cioè da nessuna cosa) la materia che compone il mondo e da essa plasma
la prima coppia di individui della stessa specie ma di sesso diverso. Dunque
anch’essi sono creati, sia pure da materia preesistente. Tra le caratteristiche di
questi due individui c’è quella di essere capaci di accoppiarsi e di generare altri
individui della stessa specie che non saranno quindi creati, ma generati. Tutti
gli individui prodotti per generazione vanno soggetti a “corruzione”, che vuol
dire che la loro materia è destinata a decadere trasformandosi ancora. L’esempio
classico di questa trasformazione è quello di un animale che dopo morto diventa
cenere. Le cose create ma prive di capacità di generazione (i teologi medievali
facevano l’esempio dei corpi celesti e delle anime) sfuggono a tale destino. Tali
cose sono esistenti ma non prodotte da materia preesistente, e possono cessare
di esistere (essere annichilite) per volontà di Dio, ma non essere corrotte. Le
cose in questione devono le loro caratteristiche al fatto di non avere in se stesse
il principio del cambiamento, sono cioè inalterabili. La differenza tra cose in-
corruttibili e cose corruttibili risiede quindi nel fatto che l’esistenza delle prime
dipende completamente dal loro autore, mentre quella delle seconde è iscritta
in qualche modo anche nella loro costituzione materiale (la materia ha infatti la
capacità di cambiare forma).
Dal punto di vista logico il rapporto che rispettivamente creazione e gene-
razione hanno con l’azione di chi le produce (intesa come causa) può essere
espresso in questo modo: per la creazione, “x ha prodotto p”; per la generazione,
“x è la causa per cui y è un A” (dove “x” e “y” sono individui, “A” un predicato
e “p” una proposizione)34. Se questo è il contesto in cui collocare l’analogia di
Pufendorf, essa mostra che la produzione (o distruzione) degli enti morali non
essendo generazione (o corruzione) non implica trasformazione di materia. Gli
enti morali sono cioè più simili alle cose incorruttibili che a quelle corruttibili.
Se questo è il significato dell’analogia, essa può essere utile per chiarire ulterior-
mente l’affermazione di Pufendorf sulla libertà non assoluta degli uomini nel

34 Geach 1969: 82-83.

9
produrre enti morali. Se gli enti morali sono simili a cose incorruttibili essi sono
necessari nel senso di “inalterabili dagli esseri umani”. Utilizzando un lessico a
noi familiare, si può dire che Caligola è libero di nominare o meno un uomo
senatore, ma può farlo solo se rispetta le regole che costituiscono quel tipo di
ente morale e, dato che queste dipendono da Dio, non è libero di cambiarle.
La necessità degli enti morali ne spiega la dimensione normativa.

6. Gli enti morali e la normatività

Per Pufendorf, la moralità di un’azione dipende

ex impositione, i.e. ex determinatione agentium liberorum qua talium, quae vel ex


mero arbitrio vel ex aliqua congruentia naturae rei cum imposita moralitate, inita quoque
mutua conventione, tacita vel expressa, rebus ac personis, moralitate imposuerunt, utque
ea[m] certi effectus sequerentur constituere35.

Nella prospettiva di Pufendorf l’essere autore di qualcosa comporta avere au-


torità sulla stessa. Se Dio è l’autore del mondo, è naturale che egli abbia autorità
su tutte le creature, incluso gli esseri umani. Ciò spiega perché l’autonomia, che
si esplica anche attraverso gli atti di imposizione, è sottoposta a limiti indipen-
denti dalla volontà umana.
Si tratta di un’idea che troviamo già in Tommaso d’Aquino, e di cui c’è trac-
cia anche in molti giusnaturalisti moderni. La presenza di limiti imposti dal
creatore non esclude la possibilità di estendere, attraverso l’esercizio della ragion
pratica, i confini del diritto naturale. L’esempio classico, da questo punto di
vista, è l’istituzione della proprietà. Nella tradizione c’è un disaccordo riguardo
alla presenza della proprietà nello stato di natura. Tuttavia, anche chi la ritiene
assente, ammette di solito la possibilità che essa possa emergere, attraverso
operazioni lecite degli esseri umani, che agiscono entro i limiti stabiliti dalla
divinità. In tal caso, una volta istituita, la proprietà diviene naturale, sia pure
in senso secondario, perché essa non è innaturale o arbitraria, ma al contrario
risponde a un’esigenza la cui soddisfazione è indispensabile per la sopravvivenza o
la fioritura di una società36. Non c’è contraddizione tra sostenere che la proprietà
non appartenga allo stato di natura e tuttavia sia necessaria, perché la necessità
di cui si parla è condizionale, non assoluta, e dipende dunque da come è fatto il
mondo, da come sono fatti gli esseri umani, e da cosa è indispensabile (sia pure
in modo contingente) perché una società sopravviva o fiorisca. La distinzione
tra i diversi sensi in cui un’istituzione può essere naturale apre possibilità che
sarebbero precluse se si considerasse il diritto naturale come se esso coincidesse
esclusivamente con le prescrizioni o le proibizioni divine. Per i giusnaturalisti il
decalogo non esaurisce affatto il contenuto del diritto naturale. Tuttavia, questa
35 Pufendorf 1672: 5.
36
Buckle 1991: 86-107.

10
apertura pone le premesse per un superamento della prospettiva teologica della
teoria del diritto naturale, o almeno per un suo radicale affievolimento, di cui c’è
traccia in diversi giusnaturalisti. La possibilità che la capacità della mente umana
di imporre nuovo significato ai corpi sia sufficiente a spiegare l’emersione degli
enti sociali è a portata di mano. Tale possibilità genera un problema nuovo, che
è quasi del tutto estraneo agli autori precedenti.
Se l’azione degli esseri umani è sufficiente a spiegare l’emersione degli enti
sociali, essi sono sottratti alla garanzia di un Dio onnipotente, che interviene
per rimettere le cose a posto quando qualcuno abusa della libertà che gli è stata
concessa37.
Per comprendere la portata di questo cambiamento può essere utile richiamare
la differenza che c’è tra il resoconto tradizionale dell’obbligatorietà delle promesse
e quello che si trova in un autore moderno come David Hume. Nella prospettiva
tradizionale, l’adempimento della promessa, che spesso è rafforzata da un giu-
ramento, è garantito da Dio, chiamato a testimone dell’assunzione dell’obbligo
e investito del compito di punire l’eventuale tradimento della fiducia38. Per
Hume, invece, la promessa è semplicemente una pratica, di cui possiamo dare
una spiegazione che ne mette in luce l’utilità per la società e, indirettamente, per
ciascun essere umano. L’adempimento non ha garanzia oltre la presenza di un
sentimento che dipende da disposizioni naturali che, adeguatamente coltivate,
favoriscono l’affermazione delle virtù necessarie a sostenere la fiducia. L’obbligo,
in altre parole, è artificiale, e quindi vulnerabile agli accidenti del mondo39.

7. Pufendorf e Searle

Ci sono buone ragioni per pensare che la teoria degli enti morali sia una
prefigurazione della distinzione tra fatti bruti e fatti istituzionali elaborata dalla
filosofia contemporanea. Per “fatti bruti” si intendono quei fatti che esistono in
modo indipendente da ogni istituzione umana; al contrario, i “fatti istituzio-
nali” possono esistere solo sullo sfondo di istituzioni. La distinzione può essere
illustrata richiamando la dipendenza che questi due tipi di fatti hanno rispetto
al linguaggio. Un fatto bruto, come l’esercizio della forza per controllare un
oggetto o una persona, esiste indipendentemente dal linguaggio. Possiamo
facilmente immaginare situazioni in cui animali privi di linguaggio esercitano
forme di controllo su oggetti o altri animali (incluso uomini) con il solo esercizio
della forza. Non potremmo parlare di questi fatti senza un linguaggio, ma essi
potrebbero esistere anche in una terra in cui nessuno parla. Diversamente, un
fatto istituzionale non potrebbe neanche esistere senza linguaggio40. Che un essere
umano eserciti controllo su un altro essere umano senza effettivo uso della forza,
37
Hochstrasser 2000: 4-6.
38
Su promessa e giuramento in Pufendorf, vedi Goyard-Fabre 1994: 102-123.
39 Baier 1988: 757-778.
40
Searle 1995: 27.

11
ma solo attraverso la minaccia dell’uso della forza, richiede già qualche forma
di comunicazione. Se poi questa minaccia è non semplicemente il prodotto di
una supremazia momentanea (egli è il più forte), ma l’esercizio di una forma di
autorità, essa non è nemmeno concepibile senza un vero e proprio linguaggio
con piena articolazione di possibilità rappresentative e performative41. La nozione
di “fatto istituzionale” presuppone quella di “istituzione” che viene a sua volta
esplicitata ricorrendo alla distinzione tra “regole regolative” e “regole costitutive”.
Le regole regolative sono quelle che regolano comportamenti ad esse preesistenti.
Un esempio molto chiaro è quello del comando “non uccidere” che proibisce
un comportamento che non dipende in alcun modo da altre regole. L’esempio
classico di regole costitutive sono le regole degli scacchi, che sono (ex ante) con-
dizione necessaria di pensabilità e di possibilità, ed (ex post) di percepibilità di ciò
di cui esse sono regola. Se non ci fossero le regole degli scacchi non si potrebbe
pensare il gioco degli scacchi, esso quindi non esisterebbe e non si potrebbe fare
su di esso alcuna affermazione.
La teoria di Pufendorf ha diversi elementi in comune con quella di Searle.
In particolare: (i) entrambe attribuiscono un ruolo essenziale alla capacità della
mente umana di “rivolgersi a” o “dirigersi verso” qualcosa, che nel linguaggio
ordinario ci fa dire che credenze, giudizi e rappresentazioni sono sempre “di
qualcosa”; (ii) entrambe fanno uso della nozione di “imposizione”; (iii) entrambe
attribuiscono un ruolo essenziale all’uso del linguaggio che è il mezzo attraverso
il quale si esercita l’attività di imposizione di nuovi significati ai “fatti bruti”.
Tuttavia, c’è una differenza tra Pufendorf e Searle che vale la pena di segnalare
perché essa potrebbe suggerire nuove direzioni di ricerca per l’ontologia socia-
le. Come si è detto, nella teoria del diritto naturale di Pufendorf il resoconto
dell’emersione degli enti morali si accompagna al tentativo di spiegare perché
tali strutture siano normative. In altre parole, Pufendorf non si limita a rilevare
il fatto della normatività, ma cerca di mostrare quali siano le ragioni che do-
vrebbero sorreggere un atteggiamento appropriato da parte degli esseri umani
nei confronti degli enti morali. Tali ragioni dipendono in parte dalla garanzia
divina e in parte dall’armonia che c’è tra il rispetto della volontà divina e il per-
seguimento dell’interesse di ciascuno42. Nella prospettiva di altri giusnaturalisti,
e in quella di Searle, la garanzia divina è assente. Si apre dunque il problema di
come giustificare la normatività degli enti morali. Apparentemente Searle rifiuta
la soluzione di Hume, che di fatto dissolve l’esigenza di giustificazione attraverso
una spiegazione evoluzionistica43.
Nei suoi scritti più recenti Searle sembra indicare come soluzione al problema
della normatività una ricostruzione della razionalità pratica, che mostri in che
modo le ragioni esercitino la loro presa sulla motivazione delle persone. Si tratta
di una soluzione attraente, che avvicina notevolmente la prospettiva dell’onto-
41
Searle 1995: 59-78.
42 Schneewind 1998: 123-138.
43
Searle 2001.

12
logia sociale a quella della tradizionale riflessione sul diritto naturale. Ancora
una volta l’esempio della promessa può essere utile per illustrare la direzione del
cambiamento. Gli scritti di Searle sulla promessa, dai lavori sugli atti linguistici
a quelli più recenti sull’ontologia sociale, si concentrano prevalentemente sulla
ricognizione delle forme e dei modi del promettere. La ricostruzione è essenzial-
mente strutturale: essa esplicita le condizioni di possibilità, l’essenza e i modi di
realizzazione o di fallimento dell’atto. Ciò che manca, anche se ci sono spunti
in tal senso, è un resoconto del ruolo che la promessa ha nella forma della vita
umana, una spiegazione del perché essa sia necessaria per la sopravvivenza o la
fioritura della società. Un resoconto del genere potrebbe far leva sulla funzione
che la promessa svolge nel metterci al riparo dall’incostanza e dalla fragilità degli
impegni. Nella stessa direzione si potrebbe procedere anche per quanto riguarda
altre istituzioni, lavorando a partire dall’ipotesi che in ciascun caso una giusti-
ficazione accettabile sarebbe in grado di mostrare il contributo che l’istituzione
apporta nel metterci al riparo dalla fragilità dei beni che è una caratteristica
distintiva e ineliminabile della vita degli esseri umani44.
Dal punto di vista dell’ontologia sociale, la conseguenza più immediata di que-
sto nuovo orientamento dovrebbe consistere nell’abbandono di una prospettiva
unicamente strutturale nello studio dei fatti istituzionali per fare spazio anche a
considerazioni relative alla funzione che ciascuna istituzione realizza nella forma
della vita umana45. L’idea è che oltre a spiegare come le istituzioni emergono, e
quali siano le caratteristiche formali e strutturali che esse manifestano, si cerchi
anche di esplicitare le ragioni che abbiamo per sostenerle o, eventualmente,
per cambiarle. Una strada già percorsa, e con profitto, da chi si è occupato del
diritto naturale.

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