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1 Sistema visivo

1.1 L’occhio
La trasduzione operata dall’occhio è quella da un’onda elettromagnetica (entro particolari intervalli di
lunghezza d’onda) a un segnale nervoso. A trasportare le informazioni in uscita dall’occhio è posto il
nervo ottico, formato dalle fibre dei neuroni gangliari della retina: è a questo livello che inizia ad essere
presente un segnale elettrico, in quanto l’elaborazione interna del segnale nella retina non sfrutta
questo tipo di segnalazione.
Le onde elettromagnetiche in generale variano molto in lunghezza d’onda, dalle onde lunghe a quelle
cortissime quali i raggi gamma. Le onde lunghe sono assorbite molto poco e sono trasmesse a lunga
distanza: si parla di lunghezze d’onda di 100 − 1000m. L’occhio lavora con onde non diverse da queste
dal punto di vista fisico, ed è egli stesso a fare la differenza: si tratta infatti di un recettore sintonizzato
su un particolare range di frequenze. L’evoluzione ha fatto in modo che l’occhio si selezionasse per
quelle lunghezze d’onda che permettono di vedere le cose, cioè quelle lunghezze d’onda che vengono
riflesse da quasi tutti gli oggetti.
L’attributo fondamentale per la visione distinta dei dettagli è detto acuità visiva, cioè la capacità
di discriminare due punti come distinti: questa dipende dalla lunghezza d’onda, infatti con l’uso della
microscopia non si migliora la qualità dell’immagine, ma solo l’acuità.
La retina ricopre la gran parte delle superfici posteriore e laterale dell’occhio: occorre un sistema
ottico che metta a fuoco le immagini su di essa, e questo si compone di cornea, camera anteriore e
cristallino. La dicitura di sistema ottico è dovuta al fatto che ci sono più lenti all’interno dell’organo.
La capacità dell’occhio di formare un’immagine a fuoco sulla retina dipende dalla rifrazione, cioè
dalla proprietà che presenta un’interfaccia tra due mezzi ottici con indice di rifrazione diverso.

Se i due mezzi hanno densità ottica diversa, allora l’unico raggio non deviato sarà quello perpendico-
lare alla superficie, mentre tutti gli altri subiranno una variazione. Nella seconda immagine si vede
qualcosa di analogo a quanto avviene con una finestra: si ha una prima deviazione aria-vetro, ma la
seconda deviazione vetro-aria sarà uguale e opposta alla precedente, riportando il raggio alla traiettoria
originaria.

Una lente è un mezzo formato da una sostanza con una densità superiore a quella dell’aria con
una superficie curva. Nell’esempio sopra della lente piana convessa si ha la situazione per cui tutti i
raggi che colpiscono la superficie con un angolo diverso da 90° vengono deviati per via della rifrazione.
In questo caso particolare si sta analizzando inoltre un fascio di raggi paralleli, cioè un fascio come lo
si immagina in arrivo da una distanza infinita (sole). Un raggio molto lontano dal centro della lente
subirà dunque la rifrazione maggiore perchè l’angolo di incidenza sarà molto più piccolo. In base a

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queste proprietà si può dire che se la curvatura della lente è costante tutti i raggi paralleli confluiranno
verso un unico punto, detto punto focale principale o fuoco principale. Questo punto sarebbe più
vicino alla lente se si trattasse di raggi convergenti, tuttavia questi in natura non vengono generati.

La rifrazione viene misurata dal punto di vista matematico grazie alla legge di Snell, la cui forma
più semplice è:

n1 · sin α1 = n2 · sin α2

Nel caso ad esempio del contatto aria-acqua, abbiamo un n maggiore per il liquido, quindi l’angolo sarà
minore.

Se la sorgente luminosa è molto vicina i raggi non saranno più paralleli ma divergenti, quindi la devi-
azione prodotta dall’interfaccia porterà il punto focale più posteriormente: si parla di fuoco coniugato
posteriore. Il fuoco si allontana dunque per sorgenti luminose vicine: se ne deduce che il fuoco
coniugato posteriore non potrà mai essere più vicino alla lente di quanto non lo sia il fuoco principale.
Per costruire un’immagine sulla retina è necessario immaginare che ogni punto dell’oggetto sia una
sorgente luminosa indipendente e applicare le regole già individuate. Un punto dell’oggetto colpirà la
lente in modo perpendicolare e quindi quel raggio non verrà rifratto, ma in realtà tutti i punti colpiranno
in qualche modo la lente perpendicolarmente anche se non nel centro: un oggetto è dunque formato
da infinite sorgenti luminose dalle quali nascono infiniti raggi.

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L’immagine costruita sulla retina risulta dunque capovolta sia in senso destra-sinistra che in senso
alto-basso: l’oggetto sarà invertito e capovolto. Gli oggetti più distanti si avvicineranno alla condizione
ideale di raggi paralleli, quindi a fuoco sul punto focale principale, mentre all’avvicinarsi alla lente le
immagini saranno sempre più difficilmente focalizzate.
Lo spostamento del punto focale è un dato fisico oggettivo, ma l’occhio è in grado di sopperire a
questo deficit attraverso fondamentalmente due possibilità:

• Variare la convessità della lente


• Variare il diametro anteroposteriore dell’occhio stesso (teorica, in pratica le dimensioni dell’occhio
sono fisse)
Se avessimo una lente molto curva il punto focale principale sarebbe molto vicino, se fosse quasi piatta
sarebbe molto lontano. La curvatura della lente viene fatta variare a seconda della distanza dell’oggetto
in modo da tenere costante la distanza tra la lente e il punto focale. La capacità rifrattiva dell’occhio
(o delle lenti in generale) viene misurata utilizzando la diottria, intesa come l’inverso della distanza
focale in metri. Una lente con un un potere diottrico 0.5 metterà a fuoco un fascio di raggi paralleli
ad una distanza di due metri. Il potere diottrico dell’occhio varia in quanto può variare il raggio di
curvatura della lente: si passa da 59 diottrie a riposo ad un accomodazione massima di 73 diottrie.
L’accomodazione è il meccanismo attraverso cui l’occhio mette a fuoco oggetti a varie distanze facendo
curvare il cristallino grazie ai muscoli ciliari. Allo stato di riposo, con le fibre muscolari rilassate,
il potere convergente è minimo e l’occhio mette a fuoco oggetti solo oltre i sei metri. Il cristallino
normalmente viene tenuto teso passivamente da briglie mantenute in tensione dal muscolo ciliare;
quando questo muscolo si contrae le briglie si detendono e il cristallino è libero di curvarsi secondo
la sua tendenza naturale. Il processo di accomodazione è determinato dal parasimpatico, mentre il
sistema simpatico determina l’accomodazione alla luce del diametro pupillare.
In condizione fisiologica di assenza di luce la pupilla è molto dilatata, in una condizione detta
midriasi. La midriasi viene mediata dalle fibre simpatiche che provengono dal midollo spinale dei livelli
C8-T2: da qui escono tramite le radici anteriori, attraversano il ganglio stellato e quello vertebrale fino
al ganglio cervicale superiore dove contraggono sinapsi. Il secondo neurone segue la carotide interna
ed entra nella cavità orbitaria, dove attraversa il ganglio ciliare senza sinapsi e raggiunge il muscolo
dilatatore della pupilla.
La situazione opposta alla midriasi è la miosi, in cui si realizza una risposta agli stimoli luminosi intensi
tramite un riflesso consensuale di riduzione del diametro pupillare. Questo riflesso si realizza per azione
nervosa parasimpatica mesencefalica sul muscolo costrittore della pupilla. Lo stimolo luminoso viene
registrato dalla retina e raggiunge la regione pretettale tramite il tratto ottico accessorio; da qui partono
fibre verso il nucleo di Edinger-Westphal (omo e controlaterale)che invia fibre pregangliari che seguono
il nervo oculomotore comune (CNIII) verso il ganglio ciliare dove si ha sinapsi. A partire dal ganglio si
hanno le fibre postgangliari che raggiungono, tramite i nervi ciliari brevi, il muscolo costrittore della
pupilla.

La pupilla ha necessità di variare il suo diametro perchè la quantità di luce in ingresso deve rimanere
abbastanza costante per proteggere la retina; esiste un secondo motivo: la visione è ottimale incon-
dizioni di buona illuminazione in quanto gli oggetti sono più nitidi e la profondità di campo migliore.

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In ambito fotografico si può ottenere un ugual esposizione alla luce regolando il tempo di esposizione o
regolando il diametro del diaframma: in ambito fisiologico per catturare scene in movimento l’unica via
è regolare il diaframma, cioè la pupilla.

Il requisito fondamentale per rendere funzionante tutto il sistema della visione è la presenza di
circuiti corticali in grado di regolare i vari elementi in modo simile all’autofocus delle fotocamere. La
corteccia è in grado di utilizzare informazioni sia di tipo ottico che di tipo cognitivo per poter mettere a
fuoco un oggetto. I processi con cui il cervello ottimizza la formazione delle immagini sulla retina sono
due:
• Accomodazione: sfrutta dunque le proprietà fisiche dell’occhio

• Vergenza: il meccanismo che fa sovrapporre il mondo visivo sui due occhi allo stesso modo, cioè
porta i due assi ottici a coincidere nello stesso punto
Le lenti perfette non esistono e per questo si hanno dei fenomeni detti aberrazioni: esistono in parti-
colare l’aberrazione sferica e l’aberrazione cromatica. L’aberrazione sferica è dovuta al fatto che la
curvatura della lente non può essere perfetta: la periferia è la porzione più sensibile perchè qui l’angolo
di incidenza è massimo. L’unico modo efficace per ridurre questo tipo di aberrazione è l’uso di un
diaframma che elimini i bordi in modo da lavorare solamente con il centro della lente. L’aberrazione
cromatica è dovuta invece al fatto che lunghezze d’onda diverse vengono rifratte in modo diverso (il
prisma amplifica questo fenomeno).

I difetti di vista sono anomalie comunissime, e le due più comuni sono:

• Un occhio che non riesce a mettere a fuoco oggetti lontani: miopia.


• Un occhio che non riesce a mettere a fuoco oggetti vicini: ipermetropia.
A cosa sono dovute queste condizioni? Nel caso della miopia l’occhio è troppo lungo, e l’immagine si
trova ad essere messa a fuoco davanti la retina. Il miope vede bene da vicino perchè un oggetto a
meno di sei metri genera un fuoco coniugato posteriore a quello principale, quindi progressivamente
più vicino alla retina. Nell’ipermetropia l’occhio è invece troppo corto e l’immagine di un oggetto vicino
si trova ad essere messa a fuoco dietro la retina. Altro difetto visivo molto comune è l’astigmatismo, in
cui la lente dell’occhio presenta delle irregolarità: il risultato è che l’immagine è a fuoco in certe regioni
e sfocata in altre.
La correzione dei difetti visivi sfrutta le proprietà delle lenti per bilanciare i problemi dell’occhio. L’iper-
metrope utilizza delle lenti convesse, mentre un miope usa delle lenti concave. La lente concava del
miope fa divergere i raggi luminosi, e in questo modo crea un fuoco virtuale anteriore all’occhio che fa
allontanare il fuoco coniugato:

La lente convessa dell’ipermetrope fa invece convergere i raggi luminosi, che passano dall’essere un
fascio parallelo a essere un fascio orientato verso il fuoco principale:

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Esiste una correlazione tra l’età del soggetto e la sua capacità di accomodazione: in particolare
all’aumentare della prima il punto prossimo, cioè il punto più vicino che è possibile mettere a fuoco,
si allontana sempre più. Questo dato indica come la capacità di adattare il cristallino sia destinata a
decadere con l’avanzare degli anni. Un punto di riferimento utile è la distanza del punto prossimo a
vent’anni di età, pari a circa dieci centimetri.

1.2 Trasduzione
1.2.1 Fotorecettori
L’immagine messa a fuoco sulla retina deve essere trasdotta in segnale nervoso: i trasduttori, o meglio
i fototrasduttori, sono i coni ed i bastoncelli. La struttura per entrambi è composta da vari segmenti:
• Segmento esterno: localizzato distalmente alla retina, è la porzione specializzata nella fototras-
duzione in quanto sede dei fotopigmenti.
• Segmento interno: è la regione in cui sono contenuti gli organuli ed il nucleo del recettore.

• Terminazione sinaptica: è la regione in cui avviene la comunicazione con gli altri elementi della
catena di trasmissione nella retina.
All’interno del doppio strato fosfolipidico di membrana dei coni è presente la iodopsina, mentre nei bas-
toncelli è presente una molecola simile, la rodopsina. Queste proteine sono colorate, ma la rodopsina
è sempre uguale mentre esistono tre famiglie di iodopsine con colori diversi e questo è alla base della
visione dei colori.
I coni ed i bastoncelli non sono distribuiti in modo uguale sulla retina, ma esiste una porzione
centrale detta fovea dove la densità recettoriale è massima e dove si ritrovano quasi esclusivamente
coni. I coni si ritrovano tutti entro i primi 10-15° di eccentricità mentre i bastoncelli sono sempre
parecchi ma sono completamente assenti nella foveola, una regione al centro della fovea. Esiste una
regione della retina completamente priva di recettori ed è quella del disco ottico, dove convergono gli
assoni delle cellule gangliari della retina: quest’area costituisce la macchia cieca, cioè l’area del campo
visivo dove non vediamo se impegnati in una visione monoculare.

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L’attività dei fotorecettori è misurabile studiando alcuni parametri, tra i più sondati:
• Soglia: condizione in cui, in presenza di uno stimolo, il soggetto è in grado di riferire di averlo
visto solo nel 50% dei casi.
• Acuità visiva: capacità di discriminare due punti come distinti, è funzione della densità recetto-
riale.
In particolare l’acuità visiva la si mette in relazione ad un grado di eccentricità dalla fovea: a circa
mezzo metro di distanza due punti distanti dieci centimetri corrispondono a 10° sulla fovea, ad un
metro a 5° e a due metri a 2,5°. Sperimentalmente si evidenzia come l’acuità visiva sia massima verso
il centro della fovea, ma anche come questo attributo diminuisca in condizioni di scarsa luminosità.
Un altro attributo molto studiato è la soglia assoluta, cioè il livello minimo di stimolo in grado di dare
una risposta. Per studiare la soglia assoluta si mette in relazione la soglia visiva con la lunghezza
d’onda in esame: si ottengono due curve, una al buio e una con illuminazione normale.

La ragione delle due curve è legata al diverso comportamento dei fotorecettori: al buio la massima
sensibilità è dovuta ai bastoncelli, molto più sensibili dei coni. I coni inoltre lavorano su lunghezze
d’onda diverse in quanto sono divisi in tre famiglie: i coni per il blu (445nm), i coni per il verde (535nm)
e i coni per il rosso (580nm). In media dunque i coni lavorano sulla lunghezza d’onda di 550nm, mentre
i bastoncelli (uniformi tra loro) si assestano intorno ai 520nm.
Un altro dato evidente dei diversi comportamenti dei fotorecettori è data dagli studi sull’adattamento
al buio.

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Un punto di partenza fondamentale è che il sistema si comporta in modo diverso se studiato con una
luce rossa o con una bianca. Usando una luce rossa la soglia rimane alta, mentre se viene usata
una luce bianca (che è in grado di coinvolgere i bastoncelli) c’è un miglior adattamento che raggiunge
il massimo dopo circa trenta minuti e che è tre o quattro volte superiore a quello ottenibile con i
soli coni. Dal grafico si nota come in circa cinque o dieci minuti il sistema sembra raggiungere un
primo adattamento dovuto ai coni, ma (usando luce bianca) si nota come ci sia un secondo livello di
adattamento, dovuto ai bastoncelli, che viene raggiunto appunto dopo circa trenta minuti.
I bastoncelli sono fotorecettori estremamente sensibili alla luce, ma non permettono la visione cro-
matica; hanno una grande sensibilità visiva e per questo sono in grado di rispondere a stimoli luminosi
anche molto brevi. In base alle loro caratteristiche dunque i bastoncelli danno informazioni soprattutto
in condizioni di scarsa illuminazione e soprattutto dalla periferia del campo visivo.

Andando a misurare il potenziale di riposo di un bastoncello troviamo un valore di circa -35/-40mV,


cioè il fotorecettore è già polarizzato in partenza: quando viene illuminato in situazione sperimentale
quello che si realizza è una iperpolarizzazione e questo fenomeno è proporzionale all’intensità lumi-
nosa. Un’iperpolarizzazione può significare due cose: un’uscita di cationi o un blocco del loro ingresso,
per capire le specie interessate si usa il voltage clamp. Impostando il blocco del voltaggio ai potenziali di
Nernst di sodio e potassio si vede comunque un movimento di cariche: l’unico valore per cui si annulla
è 0mV. In questo modo si dimostra come i canali che interessano questo fenomeno sono aspecifici per
i cationi.
Andando ad iniettare cGMP all’interno di un bastoncello si ottiene una risposta enorme a carico
di questi canali che si aprono: quindi questi canali rispondono al GMP ciclico. In condizioni di buio
si ha dunque una grande quantità di cGMP che mantiene aperti i canali aspecifici: quando arriva
luce questo cGMP si riduce grazie ad un meccanismo estremamente efficace. La rodopsina è una
proteina colorata caratterizzata da un gruppo prostetico, il retinale, che è derivato dalla vitamina
A. Il retinale normalmente si trova in configurazione 11cis ma se viene illuminato si stacca dalla
rodopsina perchè cambia forma diventando l’isomero 11trans; la rodopsina priva di retinale si porta
ad attivare una trasducina, cioè una proteina G che attiva una fosfodiesterasi che distrugge il cGMP.
L’iperpolarizzazione che segue a questo processo è proporzionale alla quantità di fotoni che colpisce il
recettore: i bastoncelli in particolare possono rispondere in modo significativo anche ad un solo fotone.

1.2.2 Cellule gangliari e bipolari


I fotorecettori si trovano appoggiati contro la parete posteriore dell’occhio dove esiste uno strato cellu-
lare ricco in melanina, quindi nero, che ha la funzione di assorbire i fotoni che non sono stati captati
evitando così ogni riflessione. La retina è formata da vari strati di cui tre sono cellulari e altri due no:

• Strato dei fotorecettori


• Strato delle cellule bipolari

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• Strato delle cellule gangliari
• Strato plessiforme interno
• Strato plessiforme esterno

Le cellule bipolari connettono i fotorecettori alle cellule gangliari, ma esistono anche altre due tipolo-
gie cellulari: si tratta di interneuroni inibitori detti cellule amacrine e cellule orizzontali. Il campo
recettivo del sistema visivo è quella regione di campo visivo che, se stimolata, genera una risposta
nel neurone sensitivo: per poterlo determinare direttamente sarebbe però necessario un fascio di luce
piccolissimo. A livello della retina le connessioni tra le varie cellule sono diverse per i coni o per i bas-
toncelli. Una cellula gangliare è collegata a 3/15 cellule bipolari, e ognuna di esse è collegata a 20/100
coni: il campo recettivo di una cellula gangliare per un cono quindi varia da 60 a 1500 fotorecettori.
Il sistema poi non è così semplice e diretto ma vanno considerate anche le cellule inibitorie che modu-
lano individualmente le varie sinapsi. Se si considerano i bastoncelli la situazione è ancora più ampia:
ogni cellula gangliare è collegata ad almeno 140 cellule bipolari, ognuna di esse a sua volta collegata
a 21000 bastoncelli. Una cellula gangliare per i bastoncelli riceve informazioni dunque da ∼ 3 · 106
fotorecettori: è impossibile che questo sistema abbia lo stesso grado di dettaglio di quello dei coni,
molto meno convergente. La ragione di questa differenza è molto semplice: se tutto l’occhio avesse lo
stesso dettaglio ci sarebbe la necessità di un nervo ottico enorme. Quando varia la luce in una regione
del campo visivo lontana dalla fovea, i bastoncelli percepiscono immediatamente la variazione e la testa
viene orientata per far ricadere sulla fovea la regione dove è avvenuto il cambiamento. Questo tipo
di comportamento prevede un collegamento automatico tra il sistema motorio e quello sensoriale, cioè
prevede la creazione di sistemi sensimotori.
La risposta dei fotorecettori è sempre una iperpolarizzazione, e queste cellule sono in comuni-
cazione con le cellule bipolari. Nelle cellule bipolari la risposta non è stereotipata ma esistono due
categorie. La prima categoria è quella delle cellule bipolari off, che rispondono allo stesso modo dei
fotorecettori, cioè si iperpolarizzano. La seconda categoria è quella delle cellule bipolari on, le cui
risposte sono opposte a quelle recettoriali, in quanto si depolarizzano. Si potrebbe pensare che queste
siano funzionalmente diverse oppure che il fotorecettore sia in grado di usare più neurotrasmettitori:
questa seconda ipotesi è però in contrasto con la legge di Dale che impone ad ogni cellula di usare un
solo neurotrasmettitore. I fotorecettori in generale liberano glutammato, i cui effetti sono però diversi
nelle due categorie di cellule bipolari, e questo si spiega poichè

• Nelle cellule off esiste una sinapsi inibitoria in corrispondenza della estroflessione della porzione
sinaptica del fotorecettore
• Nelle cellule on esiste una sinapsi eccitatoria in corrispondenza delle invaginazioni della porzione
sinaptica del fotorecettore

Grazie a questo accorgimento il neurotrasmettitore è lo stesso ma l’effetto è opposto. La cellula bipolare


contrae sinapsi con la cellula gangliare e in questo caso la sinapsi è sempre di tipo eccitatorio. Quando
la cellula bipolare off viene iperpolarizzata questa va a ridurre l’effetto eccitatorio sulla cellula gangliare;
queste cellule gangliari hanno un attività spontanea e diventano silenti quando interagiscono con una
cellula bipolare off. L’opposto accade con una cellula bipolare on: la cellula gangliare aumenterà la sua
frequenza spontanea di scarica.
Negli anni ’50 i tentativi di capire il funzionamento delle cellule gangliari portati avanti da Kupfer
evidenziarono due tipologie di risposta: cellule gangliari silenti all’illuminazione del campo recettivo e
cellule gangliari che invece aumentavano la loro risposta. L’evidenza sperimentale più interessante fu
però il fatto che se lo stimolo luminoso veniva reso più piccolo la risposta non cambiava, mentre se
veniva reso più grande la risposta tendeva a diminuire. Ad ogni cellula gangliare sono collegate cellule
bipolari tutte on o tutte off, senza mescolanza. I campi recettivi di queste cellule sono tutti circondati
da una zona inibitoria, esiste cioè un antagonismo centro-periferia, in pratica un alone inibitorio
intorno ad un centro eccitatorio. Questo antagonismo è alla base del fenomeno dell’inibizione laterale,
che migliora il contrasto spaziale al prezzo di una riduzione della sensibilità assoluta. Allargando
l’illuminazione si coinvolge sempre di più la periferia inibitoria: esiste dunque una dimensione ottimale
del campo recettivo. In base a queste considerazioni i campi recettivi delle cellule gangliari possono
essere pensati come ciambelle con un centro eccitatorio e un bordo inibitorio.

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1.2.3 Via ottica principale
A partire dalla retina gli assoni delle cellule gangliari escono tramite il disco ottico e vanno a formare
il nervo ottico, il quale esce dalla cavità orbitaria dall’omonimo forame. La struttura successiva è il
chiasma ottico, posto sull’osso sfenoide, in particolare a ridosso dei processi clinoidei.

A partire dal chiasma ottico si forma il tratto ottico che si porta al corpo genicolato laterale dove
si trova il secondo neurone della via visiva. A partire dal corpo genicolato laterale si ha la formazione

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della radiazione ottica che si dirige alla corteccia visiva. La corteccia visiva primaria è localizzata
in corrispondenza dell’area 17 di Brodmann ed è in parte rappresentata dalla scissura calcarina.
La rappresentazione del campo visivo all’interno della corteccia è retinotopica, cioè punti vicini del
campo visivo sono rappresentati in punti vicini della corteccia; la fovea è rappresentata a livello del
polo occipitale.
A livello del chiasma ottico si ha una redistribuzione delle informazioni provenienti dalle varie
emiretine: in particolare l’emiretina temporale destra vedrà la parte sinistra del campo visivo men-
tre l’emiretina temporale sinistra vedrà la parte di destra. Questo aspetto è dovuto alla lente dell’occhio
che inverte e ribalta le immagini. Nel chiasma le due emiretine di ciascun occhio seguono un percor-
so diverso, in particolare l’emiretina temporale rimane dal lato di partenza mentre l’emiretina nasale
decussa: il risultato è che nel tratto ottico di sinistra viene raccolto tutto il campo visivo di destra e
viceversa. In base ai movimenti delle fibre lungo la via ottica è possibile risalire alla sede del danno in
base ai deficit accusati dal soggetto:

Un aspetto interessante delle lesioni visive è che quasi sempre c’è differenza tra fovea e periferia:
questo è principalmente dovuto al fatto che le fibre che portano informazioni dalla fovea sono molte di
più ed è quindi più difficile danneggiarle tutte. Il fenomeno grazie al quale il campo visivo foveale viene
raramente compromesso è detto risparmio foveale.
Lungo la via ottica principale la prima sede particolare, e l’unica extracorticale, è il corpo genicolato
laterale. Dal punto di vista microscopico questa struttura appare suddivisa in lamine, e ogni lamina
ha proprietà particolari: in questa sede infatti avviene una prima suddivisione delle informazioni lun-
go la via parvicellulare e la via magnocellulare. Le due vie hanno funzioni e proprietà diverse, in
particolare la via parvicellulare ha un’ottima sensibilità alla frequenza spaziale rispetto alla magno-
cellulare. La frequenza temporale ha invece un comportamento opposto: è più sviluppata lungo la via
magnocellulare. Le differenze tra le due vie possono essere riassunte in:
Attributo Via magnocellulare Via parvicellulare
Contrasto cromatico - +
Contrasto luminoso + -
Frequenza spaziale - +
Frequenza temporale + -

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Nel corpo genicolato laterale sono presenti sei lamine, delle quali le prime due ricevono informazioni
dalle cellule M e le ultime quattro dalle cellule P (le cellule P sono infatti molte di più). Le informazioni
relative a ciascun occhio vengono tenute distinte:

Lamina Via Occhio


I M Contro
II M Ipsi
III P Ipsi
IV P Contro
V P Ipsi
VI P Contro
Nel corpo genicolato laterale sono dunque presenti la componente parvicellulare e quella magno-
cellulare, cui si aggiunge una terza componente detta coniocellulare o intracellulare. Le cellule co-
niocellulari sono molto piccole e poste tra le varie lamine: probabilmente hanno ruolo nella percezione
cromatica. A livello delle cellule del corpo genicolato laterale i campi recettivi sono gli stessi delle cellule
gangliari: strutture concentriche con opposizione centro-periferia.

1.2.4 Vie visive accessorie


Oltre alla via visiva principale esistono vie visive accessorie correlate a funzioni diverse.
La prima via accessoria controlla il diametro pupillare. Fibre in arrivo dalla retina si portano alla
regione del pretetto tramite il tratto ottico accessorio e raggiungono il nucleo di Edinger-Westphal.
A partire da questo nucleo nascono fibre di tipo parasimpatico che si portano alla pupilla e ne causano
la miosi, cioè la riduzione del diametro. L’effetto opposto alla miosi, la midriasi, è invece sotto controllo
del sistema simpatico lungo la via dei gangli cervicali. Questa via è importante per il riflesso pupillare
consensuale alla luce.
La seconda via accessoria è detta via retino-ipotalamica che giunge all’ipotalamo e in particolare
al nucleo sovrachiasmatico. Questa via è importante per dare un ritmo alle attività e per le risposte ai
cicli luce-buio. Questa regione dell’ipotalamo è la più influenzata dalla radiazione ambientale anche se
non è di per se un orologio interno: serve piuttosto da sincronizzatore. Il ritmo normale circadiano è di
circa 24 ore ma senza segnali esterni questo tende ad allungarsi: il nucleo sovrachiasmatico interrompe
questa tendenza facendo un reset del ritmo.
La terza via porta informazioni luminose all’epifisi, ghiandola responsabile della secrezione di
melatonina sulla base di influenze luce-buio.
La quarta via tramite il nervo ottico proietta al collicolo superiore, in particolare agli strati su-
perficiali. Il collicolo superiore appare diviso in uno strato profondo e uno superficiale. Il profondo
genera i movimenti oculari in quanto è connesso ai nuclei oculomotori. La parte superficiale proietta
verso il pulvinar del talamo e da qui, tramite le proiezioni talamocorticali, le informazioni retiniche
giungono alle porzioni parieto-occipitali e parieto-posteriori della corteccia: si tratta a tutti gli effetti di
una via alternativa per la visione. In pazienti con lesioni della corteccia V1, quindi ciechi, si manifesta
il fenomeno della visione cieca: sono ad esempio in grado di indicare un oggetto posto davanti a loro
pur non vedendolo coscientemente. Questo fenomeno è dovuto a questa via, il cui nome completo è via
retino-collicolo-pulvinar-corticale.

1.2.5 Corteccia visiva


La corteccia visiva è dotata di un quarto strato ipertrofico tanto da darle il nome di corteccia stri-
ata. Il quarto strato è così sviluppato da essere diviso in quattro sottostrati: 4A, 4B, 4Cα e 4Cβ. Le
componenti magnocellulare e parvocellulare si distribuiscono al quarto strato mantenendo la loro sep-
arazione: la componente magnocellulare riceve informazioni da grandi campi recettivi, non è sensibile
al colore ma lo è al movimento; la componente parvicellulare riceve informazioni soprattutto dai coni
foveali, ha informazioni molto più dettagliate e dunque ha a che fare con la percezione delle forme e dei
dettagli.

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Le tre componenti del corpo genicolato laterale si distribuiscono alla corteccia in questo modo:
• Intracellulare: strati 2 e 3
• Magnocellulare: 4Cα e da questo a 4Cβ
• Parvicellulare: 4Cβ
Dal punto di vista fisiologico dunque informazioni diverse vengono processate in parallelo e contempo-
raneamente.
I neuroni dell corteccia visiva primaria hanno un comportamento particolare, diverso da quelli re-
tinici e del corpo genicolato laterale. Se proietto lo stimolo adatto ai neuroni retinici a livello corticale
non ottengo nessuna risposta: gli stimoli concentrici con antagonismo centro-periferia non hanno ef-
fetto corticale. Grazie alle evidenze sperimentali si è capito che in corteccia visiva primaria i neuroni
rispondono a stimoli orientati, cioè a barrette luminose orientate ad un certo angolo. L’antagonismo
centro-periferia non è più legato ad una struttura a ciambella: si passa ad una barretta eccitatoria
fiancheggiata da regioni inibitorie.

A livello corticale troviamo due diverse tipologie di cellula: la cellula corticale semplice e la cellula
corticale complessa. La cellula corticale semplice riceve informazioni dirette dal corpo genicolato
laterale: queste cellule hanno un campo recettivo come quello appena descritto. La cellula corticale
complessa riceve invece informazioni fondamentalmente dalle cellule corticali semplici e il suo campo

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recettivo è legato ad un bordo e non più ad una barra: in pratica queste cellule rispondono ad un
contrasto tra una regione e l’altra, non ad una regione in contrasto con lo sfondo.
Le varie cellule corticali rispondono ad un determinato orientamento, ed è possibile mappare questo
aspetto. Nelle diverse regioni si registrano tutti i diversi orientamenti possibili; ognuna delle regioni che
risponde ad un singolo orientamento viene definita colonna corticale. L’insieme di colonne corticali
che rispondono a tutti i possibili orientamenti spaziali per una determinata regione del campo visivo
viene detta invece ipercolonna: normalmente un’ipercolonna è contenuta in una superficie di circa
1mm2 .

Esistono delle cellule di complessità ancor più grande, dette cellule ipercomplesse, che rispondono
ad angoli, cioè alla somma degli input di due cellule corticali complesse.
In condizioni normali la corteccia è costituita soprattutto da neuroni binoculari; esistono poi neu-
roni a dominanza oculare e infine i rarissimi neuroni monoculari. L’adattamento di questa con-
dizione è degno di nota: se un soggetto perde un’occhio, in particolare durante l’infanzia, la corteccia
verrà popolata di soli neuroni monoculari. Nello strabismo, a seguito del periodo critico (cioè il periodo
in cui il sistema visivo è plastico), si ritrovano solo neuroni monoculari per entrambi gli occhi: i neu-
roni non fondono più le immagini, quindi non esistono più neuroni binoculari. In aggiunta alle colonne
di orientamento e alle ipercolonne esistono le strisce di dominanza oculare, ottenibili iniettando un
tracciante in uno dei due occhi: la corteccia appare colorata con un pattern a strisce alternate e questo
dimostra come le informazioni dagli occhi, per quanto processate poi insieme, vengono mantenute
separate.
Avere due occhi sul piano frontale, tipico dei predatori, è fondamentale per due aspetti: cogliere la
distanza e la tridimensionalità di un oggetto. Quando entrambi gli occhi fissano un punto P posto
anteriormente e perpendicolarmente al volto si ha la stessa distanza; se si prende un punto posto lungo

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un asse diverso ecco che questo verrà proiettato sulla retina in punti non omologhi e questa disparità
viene sfruttata per cogliere la tridimensionalità dell’oggetto.
Nella corteccia visiva primaria viene dunque mantenuta la separazione parvi/magnocellulare, si
ritrovano le strutture dette blob, probabilmente legate alla percezione del colore e i campi recettivi
dei neuroni sono barrette luminose orientate. La via magnocellulare si dirige, oltre che a V1, anche
all’area MT del lobo temporale dove esistono neuroni sensibili alla direzione del movimento: tutti
gli aspetti dell’informazione visiva (colore, forma, movimento, luce, buio, etc) sono dunque analizzati
separatamente e in parallelo in modo non cosciente.
Come vengono elaborate e sfruttate le informazioni in arrivo dalla retina per capire cosa abbiamo di
fronte? Il sistema che è stato scoperto è detto meccanismo top-down. L’idea di fondo del meccanismo
è che non vengono elaborate tutte le informazioni in arrivo, ma la corteccia visiva primaria si limita a
fornire la quantità minima di informazioni utili a riconoscere un oggetto come appartenente ad un’unica
categoria. Questo scopo è ottenuto grazie a neuroni gerarchicamente sempre più complessi che sono
deputati al riconoscimento delle varie immagini cui possiamo trovarci davanti nell’arco della vita. Studi
approfonditi su questi argomenti portarono alla definizione, negli anni ’80, di due vie informative in
uscita dalla corteccia visiva: la via del cosa e la via del dove.

La via del cosa deriva dal sistema parvicellulare e porta alla porzione inferiore del lobo temporale mentre
la via del dove deriva dal sistema magnocellulare e si dirige al lobo parietale posteriore. Questo modello
è troppo semplicistico e in particolare contiene tre errori:

1. La via del dove è in realtà la via del come: è la via che informa come agire sugli oggetti
2. Il flusso di informazioni è bidirezionale
3. I due sistemi non sono assolutamente separati
Questi aspetti della fisiologia della visione furono studiati con vari esperimenti, tra i quali i più signi-
ficativi furono:
• Rimozione della porzione inferotemporale: viene persa la capacità di riconoscere gli oggetti ma
mantenuta la capacità di dar loro un senso spaziale.
• Rimozione della porzione parietale posteriore: viene persa la capacità di dare un senso spaziale
agli oggetti, che vengono però riconosciuti sulla base della forma.

Riassumendo le connessioni tra le varie aree corticali di interesse visivo sono:

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