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Avola,Aprile 2014
il Presidente della Pro loco
Peppino Corsico
Prefazione
Agosto 1883.
I
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o Quando Domineddio pensò di crear l'uomo,, mi
a
d
o
s
nota D.
Nella parlata di Chiaramonte il dir toppa invece di femmina è cosa co-
munissima, anche nei discorsi più selli.
La femmina, (ovvero la mamma) è saccu. Proverbio di tutta Sicilia. Li
fimmini d'avannu
Su' comu li mulina;
Cu"rriva cci macina,
Li pajia e si nni va. (Arietta popolare).
Vippiru tutti ni la to funtana,
Li stissi puorci 'un ni vuòsiru cciui ecc. (Canto inedito di sdegno).
Lagnusa com'a ttia nun ci nn'ha statu,
Si ssuoru ri la stissa tinturia ecc. (Canto inedito di sdegno). Si'
comu 'na canazza quann'è gnesta,
Spinci la cuda, e ccu'cci arriva tasta ecc. (Canto inedito di sdegno). "
La novella di Belfegor, sotto altro titolo e con altre circostanze è comune
in Sicilia. Vedi la raccolta del Pitrè, Cunti Siciliani.
Majara, ca ppi ttia cacu luppini,
Cacu li pipi ardienti e li zammàri ecc. (Canto inedito di sdegno). La
testa ri la donna è petra viva,
Mancu cci po"na mazza ri firraru ecc. (Canto inedito di sdegno).
Molti raccontini della plebe versano sull'argomento dell'infedeltà della
donna effettuata col pretesto della divozione.
La fimmina si cuntenta figgiari, e no fari 'na 'mpastata di pani. Il qual pro-
verbio trovo nel Napolitano:
E disse non me stare rognolosa (pei dolori del parto).
Ca cchiù fatica è fare 'na colata.
La Vaiasseida di Giulio Cesare Cortese, Canto II, Stanza IX.
una delle più comuni in Sicilia, ingegnandomi di fare
come si fa nel ballo dell'ova, cioè di muovere il piede
in modo di non ischiacciarne qualcuno.
San Silvestro aveva una sorella: un vero cancro,
una vera fogna di vizii; una di quelle donnacce che
volgono in beffa i sette Sacramenti, e accarezzano i
sette peccati mortali. Nè eran valse ammonizioni e
minacce, nè valso il timor dell'inferno, nè le sante
prediche del pontefice.
San Silvestro, che per ostinazione non la cedeva
a uno svizzero, volendo finirla una volta per
sempre, un giorno senza molti preamboli le avvince le
ginocchia con una pastoia di ferro, e le dice: Vediamo,
se ancora avrai grilli pel capo! Ma i grilli non li
dimise, nè la pastoia fu rimedio. Il papa si incaponì
maggiormente: e un bel giorno la chiuse in una
stanzina, e le murò porta e finestra, tranne un
angusto foro, donde le veniva sporto il cibo della
giornata: eppure per quel foro l'incontinenza
entrava ed usciva come una gattina di casa. Il
povero papa si morse un dito, e sciamò: Ah, se non
fossi papa!... Come vorrei strozzarla di cuore!... Ma
non perciò volle dargliela vinta, e, dopo avere
escogitato un mezzo migliaio di rimedi si attenne a
quello eroico di caricarsela su le spalle giorno per
giorno,
e aggirarsi per le campagne deserte, dove non
comparisse vestigio di uomo. E nondimeno una volta...
e su le stesse spalle del Santo...
e senza ch'egli se ne accorgesse!...'
Eppure è una crudele ingiustizia lo svillaneggiare
in tal modo la donna del contadino. È lei la vera
martire della famiglia; è lei che va al mulino col
sacco su le spalle; è lei che porta l'acqua dalla
fontana con la brocca sul capo; è lei, che in su la
notte, munita di un lanternino, va a lavare i poveri
cenci: e vi si reca di notte, perchè le lavandaie di
mestiere, durante il giorno, non le cederebbero il
posto; è lei che dall'alba a sera tarda, o inferma, o
incinta,
o affamata, si sciupa gli occhi a rattoppare gli
stracci, che le si sfilacciano fra le mani; a
riammagliare le calze sparse di buche; a rassettare i
bambini; a mangiarsi il cervello per trovar modo di
comprare il sapone per la mutanda2 del marito, o di
rifornire con una nuova la pentola che non trattiene
un gocciol di acqua, o di rac-
I Ho soppresse tutte le peculiarità sozzissime della leggenda. Vedi in
fine la nota E.
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III
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corre incontro al marito. E lo vede venire curvo sull'asino,
avvoltolato entro la giucca,' in compagnia
l II trapasso è un digiuno, che dura dal mezzogiorno del Giovedì santo al mezzogiorno del
Sabato santo. Ora è usato da pochissimi.
ne osserva le orine, e torce il muso in aria significativa. Poscia
domanda:
— Che cosa gli ha ordinato il dottore?
— Bicchieri, risponde mestamente la gna Cuncè, facendo uso
di quella figura comune del contenente pel contenuto. Eccolo
qui: lo speziale me l'ha fatto pagare ventidue soldi.
— Via, massa Bla', state allegro, gli dice la zia Sara, nè v'in-
ghiottite tutte le fandonie dei medici. La vostra malattia l'ebbi anch'io,
mentre ero zitella; e se obbediva al medico, burr!... i vermi mi
avrebbero fatta la festa. Figuratevi, massar Biagio mio: la fame
mi mangiava viva, e il medico non sapeva e non voleva
somministrarmi che acqua di altea, o acqua di gramigna a mia
scelta, e andava ripetendo a mia madre: Dieta! dieta! o la figlia vi
muore. La dieta è forse buona pei ricchi, ma venircela a predicare
a noi, che litighiamo sempre con la fame!... Basta: dopo nove
giorni mi sentivo sfinita; avrei dato un occhio del capo per un
morso di pane, ma il medico sempre duro: Dieta e bicchieri! Or,
non potendone più, dissi a mia sorella: Senti, Vicè, se mi dai
qualche cosa da mettermi in bocca, ti do l'anello che ho in dito.
E Vincenza, colta l'occasione che mia madre era a sentir la
messa di mezzogiorno, mi diede un bel piattello di fave coi cavoli e
le cipolle. Le divorai, e volli anche due dita di vino. Massar Biagio
mio, ve lo giuro sull'ostia consacrata, sentii ristorarmi tutta, tanto
che sarei potuta alzarmi da letto. La sera al solito venne il
medico, e, tastandomi il polso, mi disse: Sta allegra, Saridda, che
la febbre è scemata. Non potrei dargliela una briciola di
berlingozzo? gli chiese mia madre. Se la volete al camposanto,
dategliela pure, rispose il medico, agro come un limone. Mia
madre, che aveva di già saputo il contrabbando delle fave, la
sera tirò il collo a un galletto, e vi so dir io che sentivo ritornar la
salute a misura che me lo spolpava. Me ne mangiai il petto ed il
collo; e il resto la dimane prima della visita del dottore, e ci bevvi
di sopra, e ci dormii un paio di ore. Quando venne il medico trovò
che la febbre se ne era andata: e allora, rivolgendosi a mia madre,
le disse in aria di trionfo: Gna Venturina, se avessi ceduto alle
vostre stolide preghiere di darle il
i Narrazione di Emanuela Santaèra, contadina di Modica. Vedi in fine la nota F.
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briciolo del biscotto, il frammento del berlingozzo, la fettina
della mela, a quest'ora non sareste vestita di nero?... Mia madre,
che non era dolce di groppa, ad udir questo sproposito rinnegò la
pazienza.
— Sì, sì, gli rispose, rallegratevene pure con la vostra dieta!
Senza le fave e il galletto a quest'ora Saridda sarebbe in mano
ai becchini.
Il medico, rosso come una cresta di gallo, ci svillaneggiò in
modo feroce, e l'indomani istesso citò mia madre a pagargli le visite.
— Dunque, za Sara, che cosa prescrivete per l'ammalato?
— Scannate un galletto o un piccione, e dopo il primo bollore
pestatelo in un mortaio; poi riponetelo nella pentola con un po'
di cannella, e uno spizzico di noce moscata; e dopo che l'avrete
mangiato, mi saprete dire, massar Biagio, se starete meglio di noi.
— Za Sara, sclamò l'infermo con impeto di tenerezza, acco -
state la faccia, che voglio baciarvi di cuore.
— Però il cibo solo non basta. La febbre dovrà uscire dal corpo
a via di fregagioni. Pestate un po' di lumache e di nipitella,
aspergetele di olio e di pepe, e fregatene tutte le giunture... E
domani me ne darete poi la risposta.
E la gnora Concetta che ha una fede vivissima nella scienza
della zia Sara, dà il galletto all'infermo, e gli strofina le
articolazioni; ma per iscrupolo di coscienza gli fa ingoiare anche
i bicchieri del medico, dicendo:
— Chi sa!... alle volte!... anche il medico dovrebbe saperne!
Non pertanto passa l'indomani, passa l'altro giorno, ne passano
altri tre, e la febbre non vuol andar via nè con le fregagioni, nè
coi galletti. La zia Provvidenza, che è una cugina dell'ammalato,
scuote la testa, e borbotta fra i denti: La zia Sara fa la pariglia col
medico! Facciano come vogliono : me ne lavo le mani... Muoia o
campi, me ne lavo le mani!...
— Ma chè cosa vorresti dargli?... prorompe la gnora Concetta...
Borbottate fra i denti, scotete la testa, e poi non volete dare il
vostro parere. Via, sentiamo; non state sui puntigli; ché colpa ci
ho io, se la zia Sara fu chiamata prima di voi?
— La malattia del cugino è febre biliosa, risponde la zia Prov-
videnza. Guardategli il bianco degli occhi, e le pinne delle
narici. Lo vedrebbero anche i ciechi... Perchè non gli avete
recitata l'orazione del Re Costantino?...E voi la sapete? - Se la so!
Ne ho guariti centinaia con quell'orazione! ma non basta:
bisogna ad ogni due ore che prenda un cucchiaio di decotto:
nipitella e foglie di nespolo, dolcificati col mosto cotto.
i Favola significa presso il volgo, è locuzione che sta da sè, senza bisogno che si
esplichi.
2 Narrazione di Serafina Distefano, villica di Chiaramonte. Vedi in fine la nota G.
3 Codesta orazione, tenuta dalle donnicciuole in gran conto per la guarigione delle
febbri biliose, è la seguente:
Frevi, friuzza, parti di stu luocu
Ppi l'aria, l'acqua, la terra e lu fuocu;
Frevi, friuzza, lassa sta pirsuna
Ppi li praneti, lu suli, e la luna;
Frevi, friuzza, parti di sta 'gnuni
Ppi li setti virtù ri Salamuni;
Frevi, friuzza, parti sta matina
Ppi la priera di Re Custantina.
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medichesse, le quali videro in quella credenza l'anc ciavano a
torcere ora di salvezza della loro riputazione. Ma in questo caso,
si sa, ci vuole una specialista: e come specialista, chi potrebbe
lottare con la Stefanù, la quale, com'è vero che dobbiamo morire,
non ha l'eguale in Sicilia nello scoprire e nel distruggere i
sortilegi?
La Stefanù, che vien chiamata in fretta ed in furia, guarda
un momento l'infermo, lo fissa nelle pupille come se volesse
magnetizzarlo, poi dice: È fattura: non ci è da ribattere; è
chiara come questo raggio di sole; e mi meraviglio che voi, za
Sara, e voi za Pruviriè, che in fatto di medicina non avete le pari,
non ve ne siate accorte al primo momento. Gna Cuncè mia, non
gridate, chè ora ho bisogno di calma; ma, santa morte! non
gridate, che non potrei far nulla. Za Sara, porgetemi l'arcolaio.
La Stefanù congegna una crocina di canna in uno dei co rni
dell'arcolaio; prende due foglioline di valeriana e le mette sul
capezzale; immerge un pugno di sale entro una brocca di
acqua, e ne sparge le pareti ed il pavimento.
— Voi dite che è una fattura davvero? grida la gnora
Concetta. E perchè sopra mio marito? E perchè Dio permette che
le streghe maledette abbiano un siff atto potere?
— Gna Pruviriè, datemi 1' agoraio. Perchè Dio lo
permette? In questo potrò appagarvi, specie che potrò parlare e
operare contemporaneamente. Or dovete dunque sapere che
un giorno Lucifero (sia maledetto in eterno!) trovandosi nelle
campagne di Spaccaforno afferrò una capra — Datemi un
momento le forbici — afferrò una capra e la rese pregna. Venuto
il tempo del parto, la capra, invece di partorire uno o due
caprettini, diede alla luce una bambina siffattamente
mostruosa, che si cadea tramortiti al vederla. Fi guratevi: ogni
capello era un serpente... Gna Cuncè, mettete un altro guanciale
sotto il capo dell'ammalato... Come dunque dicevo, ogni capello
era un serpente che si rizzava e fischiava; e gli occhi pareano due
candele accese, e accecavano al solo fissarle. La portorì sotto un
albero di noce, e Lucifero le legò l'ombelico con refe rosso... A
proposito di refe rosso, datemene un'agugliata... le legò l'ombelico
ben io la fattura.
E qui si dà a scopare con cura miticolosa; non lascia
inosservato un granello di polvere, guarda sotto la cassa, sotto il
letto, dietro le immagini dei Santi incollate con pane, e ritrova
finalmente tra la
1.
quella soverchia libertà di modi e di linguaggio adoperato
nei campi. Ride e gioca, egli è vero: ma sono scherzi un
po' freddi, sono sudicerie semivelate, son punture che non
passano la prima pelle, come dice egli stesso. Il riso si mangia col
grasso, è una delle sue favorite sentenze; e intende significare
che il vero condimento dell'allegria sono l'allusione oscena, la
frase scollacciata, e lo scherzo, che prende a calci il pudore.
Ecco qui: c'è uno zitaggio. Una cinquantina di persone tra pa-
renti ed amici: gli adulti nell'unica e ampia stanza, i fanciulli
sui gradini dell'uscio, perchè nella casetta non ci è posto per
tutti. La stanzona per quell'occasione è stata spazzata dai
ragnateli, è stata scopata con diligenza, ed è adorna di tre fila di
sedie, tutte dispaiate, perchè si è dato il ripulisti a quelle delle
vicine e delle parenti. Il letto degli sposi occupa un angolo della
casa: un bel letto di parata, non c'è da sofisticare; coi guanciali
adorni di rannag larga tre dita;
a
r
r
La madre della sposa, rossa, affacendata, sudata, corre qua
e là; provvede a tutto; non ha riposo un momento: ed ecco che il
poeta (si chiamava compar Mariano ed era innanzi con gli anni)
le grida: Za Catarì, riposate un momento. Che diavolo! Siete in una
saponata;
sedetevi quì sulla mia sedia.
La zia Caterina, che non ne può più, si china per riposarsi un
momento; ma in quel punto istesso le vien tolta la sedia; ed
essa stramazza. E tuttora ho negli orecchi il riso largo e sfacciato
di tutti quei contadini; e quel baccano di frizzi e di allusioni
sozzissime, perchè la povera vecchia era caduta con le gonnelle
scomposte.
Passa un po' di tempo. Un altro villano grida a una
giovinetta: Tufa', chè diavolo ci hai su quel braccio?
— Dove? risponde Teofania.
— Quì, proprio quì. E il villano le dà un sì furioso
pizzicotto che la costringe ad urlare. Fra le convitate ci era
un'ortolana: nè brutta, nè bella, ma con un paio di poppe da
scambiarle per mappamondi. Le si accosta il poeta, e le dice in tuono
serio:
— C'è delle lattughe' nell'orto vostro?
— Diamine! vorreste lattughe in Agosto?...
— Voi mentite come un notaro. Eccone quì due
bellissime. E ridendo le caccia la mano fra i mappamondi.
E uomini e donne a ridere tutte quante.
E le donne, oggetto di sì sguaiati scherzi, mi duole il dirlo,
fingono di adirarsi, ma in cuor loro ne ridono, e ne fan tema di
chiacchiere compiacenti.
Il gran fatto dei matrimoni contadineschi è il banchetto; ma
il banchetto non offre che tre sole specialità: una sfuriata di
brindisi, ricambiati dall'uno all'altro, i doni alla sposa, e un
imbriacamento, che suol esser di rito.
2 Era un tipo che val la pena di una pennellata. Buon uomo in fondo, e
anzi di delicata coscienza, predicava come forse non fu mai predicato, mesco -
lando alle verità evangeliche buffonerie stravaganti, risa sguaiate, satire perso-
nali, feroci pugni sul tavolo, contorsioni ridicole, e contraffazioni di voci fem -
minili e maschili. Ricordo che con altri scolaretti un, giorno entrai in chiesa,
mentre ei predicando profferiva le seguenti parole: Vu' àutri fimmineddi pirchì cci vinìti a
la prèdica? Cci viniti ppi la palora ri Diu? No, no, no, no, no, no, no, no! (e alzava
e abbassava rapidamente la testa) Cci viniti... Nun lu vuòggiù diri pirchì cci viniti.
E chissu in primi luocu; e in secunnu luocu cci viniti... nun riditi... talìatimi ni la
facci!.. cci viniti ppi criticar a lu pridicaturi (quì modulava la voce in falsetto). Sa cu'
prèdica sta jiurnata? Cu' prèdica? Prèdica lu patri Climenti... Bih! bih! bih! bih!
bih!... Chissu nun sa nenti. Prèdica lu patri Luiggi!... Bih ! bili! bih! Chissu va
cirniennu i curtìggi. Prèdica lu patri Arcàncilu... Bih! bih! bih! Sappici i numiri e
ciàncilu! (era ritenuto cabalista di lotto). Prèdica lu patri Giammaria!... Bih! bih!
bih! Chissu si vota e si giria. (quì ripigliava la sua voce) Mi votu e girìu eh? Ma la
palora di Diu nun mi la tegnu ni li cannarozza... pirchì aiu liggiutu libra comu gardùna.
E chista è cosa certissima... sicurissima... infallibilissima!... Pirchì mi taliati ccu tantu
d'uocci?. Chisti si ciàmanu superlativi. Vu' àutri fimmineddi nun ni sapìti nenti; ma c'è
ccà cu' mi senti (e additava noi scolaretti).
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Passarono alquante settimane. Il bambino le era morto
avvizzito, ed essa si era trasfigurata in tal modo che parca la morte
dipinta. Il marito vedendola a quegli estremi, le disse in tuono
affettuoso:
— Grazia, tu sai che sempre ti ho voluto un gran bene, a mal-
grado che tuo padre mi promise mari e monti, e poi mi diede...
il vento dell'Africa; e Dio sa come mi duole il cuore a vederti in
sì misero stato; ma ad occultare la verità, chè cosa ci si
guadagna? Sta-mane sono andato dal medico, e mi disse che tutto
al più potrai campare un'altra settimana. M'intesi una stretta al
cuore; ma con chi pigliarcela? Or, Grazia mia, mettiti nei miei
panni: vedovo non ci posso restare, chè ho bisogno di chi mi
serva; e poi... c'è la bambina, nè posso mettermela in tasca.
Potresti dirmi: Ma il padrone non siete voi? Sì, Io so che il padrone
son io, ma ti ho voluto e ti voglio bene, e mi piacerebbe far le
cose di amore e di accordo. Fra le vicine di casa c'è la Giorgia,
c'è la Preziosa, c'è la Maria Stella, tutte e tre da marito. Quale
preferiresti per me?
—E perchè chiedete il mio parere? rispose singhiozzando la
moglie... Sia chi si voglia... purchè... purchè... non mi maltratti
la figlia. E diede in uno scoppio di pianto.
— Via, racquètati, te ne prego. Sceglierò la Preziosa, che vorrà
bene a la bimba.
Grazia pianse segretamente ed a lungo, e tutto quel giorno
volle la bimba ai suoi fianchi; e le carezzava i capelli, e la guatava,
senza staccarle gli occhi dagli occhi.
L'indomani era domenica, e Grazia disse al marito:
— Fatemi un piacere, l'ultimo che vi domando. Dite alla Pre -
ziosa, che venga a vedermi.
E Preziosa venne sollecita. Baciò l'inferma, e carezzò la
bimba, cui diede una bella chicca; ma l'inferma, sollevatasi a
mezzo letto, le disse:
— Senti, Preziosa: Siamo state amiche come sorelle. Ora io sto
per morire, e tu per pigliare il mio luogo. Nè te ne serbo
rancore: meglio tu che un'estranea. Or se vuoi che io mora in pace
dovrai giurarmi su questo Crocifisso, che fu benedetto dal papa,
dovrai giurarmi che a questa orfanella le vorrai sempre bene, nè
farai differenza tra questa, e i figli che vorrà darti il Signore.
Dovrai giurarmi che le conserverai questi pendenti; e in ogni
primo lunedì reciterai una posta del santo rosario in suffragio
dell'anima mia.
Preziosa piangendo si punse il dito con uno spillo, e poi lo punse
all'inferma; e, raccogliendo in un fiocco di cotone le due stille di
sangue, lo pose fra i piedi del Crocifisso. Terribile giuramento che
i villani non rompono impunemente.1
Grazia brillò in volto di una gioia quasi celeste, e,
volgendosi a la figliola:
— Senti, Teresella. È questa ora la tua mamma, e tu le
obbedirai sempre, e sempre le vorrai bene...
Ed ora Preziosa recita ogni primo lunedì il rosario per la
povera morta.'
iNon ho trovata una parità, che si riferisca a codesto costume, or quasi dei tutto
ch
andato in disuso.
2 Non ho inventato la menoma peculiarità. Soltanto non ricordando più il nome della
nc
nuova moglie le ho dato quello di Preziosa.
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V
i I nostri villani chiamano coi nomi dei Santi quasi tutti gli animali domestici, e
qualcuno che non è domestico. Il porco è Antonio, la gatta è Marcùccia, il bove è
Luca, il cavallo è Giorgio, il mulo è Aloi, il montone è Martino, il cane è Vito, la
volpe è comar Giovanna, o comar Giovannuzza, il lupo è Silvestro, e via dicendo.
datemi almeno l'astuzia, che se non mi farà viver da papa,
non mi farà crepare di fame. Favola significa: Voi cappelli avete
acchiappato la forza e la sfacciataggine, e a noi berretti è
rimasta l'astuzia per tirare innanzi la vita.
Lo zio Rocco mentre parlava col giovinastro avea sbirciato
con la coda dell'occhio un certo prete, biondo e rotondo come
una frittella di riso, con un faccione di uomo dabbene in cui gli
occhi cerulei, stupidi anzicchè no, e velati da occhiali verdi,
facean contrapposto a un becco di pappagallo, che gli serviva da
naso. Del resto chi voglia rappresentarselo intero gli metta in
mano una forcella, sul capo un cappellaccio di paglia, lo insacchi
tutto quanto entro un soprabito lungo, largo, intabaccato e pieno
di enormi tasche, gli tagli i calzoni al ginocchio, gli adorni le
scarpe con fibbioni di argento, e lo avrà netto e sputato.
Dimenticavo dirvi che era seduto sopra uno sporto de la via, e
chiacchierava con un villanzone, che tenea per la briglia un
bellissimo ciuco, vispo e gagliardo.
-Ecco qui il fatto mio, disse Rocco tra sè: Codesto prete dee
aver tanto cervello, da beccarselo un pulcino in un morso.
Gli si accosta adunque in aria graziosa, e, cavandosi il
berretto, gli dice a bruciapelo:
-Le bacio le mani. Vostra Riverenza vuol forse vendere
l'asino?
-No; vorrei soltanto cambiarlo con un'asina mansueta, o con
una cavalla non troppo giovine, perchè con gli anni che ho e con
le abitudini sedentarie quest'asino è troppo vivace per me.
-Voglio servirla io. Vostra Riverenza si fidi di Rocco, chè le
darò una giumenta, mansueta come l'agnello pasquale; una giu -
menta, privo di Dio!, che a scrutarla col lanternino non le
troverebbe il menomo vizio: bella di vista, sincera come l'oro, e
tale che in tutta quanta la fiera non potrà trovarne una simile. Ma
non devo occultarle che è pregna, la qual cosa non farà forse al fatto
di Vostra Riverenza.
-Oh quanto a questo ci ho più piacere che dispiacere. M'im-
pedirebbe per qualche mese di cavalcarla, e non ci sarebbe
altro danno. Ma dov'è codesta vostra giumenta?
-Eccola qui, dice trionfalmente il villano. Chè ne dice, eh?
Non sembra dipinta? La guardi un po' con l'occhio del cuore.
i Nei nostri Comuni è difficile che i varii casati non abbiano un nomignolo,
tratto per lo più da difetti fisici o morali. I nomignoli che ho trascritti nel testo
appartengono realmente a casati contadineschi di Chiaramonte, Modica, Vittoria,
i Il pasticcio alla miniola, cioè secondo l'uso di Mineo (patria del Capuana) è, o era
manipolato con moltissimi ingredienti; e molti anzi erano in aperta opposizione tra loro,
come p. es. lo zucchero e il lardo. È rimasto come paragone proverbiale per esprimere fatti
e parole che si cozzan fra loro.
— Cominciate con le sofisticherie?
— Neanco per sogno. Parlando di Fra Illuminato, è lo stesso
che parlar del Vangelo. Or dunque Fra Illuminato era un monaco
di tal santità, che nel mondo non ci era il simile: il suo non era suo,
e per soccorrere il prossimo si sarebbe fatto sparare. Come
dico, era così santo che gli animali, anche i più selvatici, gli leccavano
i sandali quando lo vedean passare; ed egli ne comprendeva il
linguaggio, e, dove potea, li salvava dalla fame e dai cacciatori. Or
dovete sapere che il convento era in campagna, anzi in mezzo ad
un bosco; ed egli ogni giorno con le bisaccette su le spalle andava in
città per la cerca.
Un giorno di quelli, mentre andava camminando bel bello,
intese voci aspre di alterco, poi un colpo di fucile, poi un grido
acutissimo, poi un furioso galoppo, poi vide fuggire a cavallo un
giovane prepotente della città, e il compagno ucciso convellersi
negli ultimi squassi dell'agonia. Si accostò al morto, gli chiuse gli
occhi, pregò a lungo per lui; ma dopo aver pregato un bel pez zo
decise di denunziar l'assassino. Avea appena fatto un centinaio di
passi, quando vide un coniglio, che un giorno avea posto in salvo
dai lacciuoli, e il coniglio saltanto di gioia al vederlo, gli chiese
soavemente:
— Dove vai, Fra Illuminato?
Santo Antonino, posto fra l'uscio e il muro, non potea più trarsi
indietro, sicchè prese il bastone, i sandali nuovi, una gerletta col
pane, e via lentamente. Fatti appena tre o quattro miglia, e
sentendosi stanco, s'inginocchiò, baciò il Crocifisso del suo
rosario, e lo pregò con molte lagrime agli occhi:
8 E credenza generale nel volgo nostro che S. Antonino sia rinato da un pomo,
mangiato da una vergine. Si vedano su ciò varii articoli nell'Arc hivio di tradizioni
siciliane.
— Uomo di poca fede, replicò il Crocifisso, vòlgiti indietro.
Non vedi che ti ho preparato e arnesato il più bel cavallo del mondo?
Cavalca presto, e va via.
Santo Antonino, preso tra le proprie reti, chinò la testa, e
salì sopra un muro per inforcare il cavallo. Camminò altri tre o
quattro miglia, ma sentendosi tutto pesto, e tenendosi
aggrappato alla criniera pel maledetto timore di un capitombolo,
s'inginocchiò altra volta, e, traendo il Crocifisso, proruppe fra i
singhiozzi:
—O Gesù Crocifisso, pei dolori della vostra santissima Madre,
ascoltate la mia preghiera: Chè cosa andrò a fare in Turchia, se
non conosco una sola parola di quella lingua, e se i maledetti turchi
non capiscono una parola di quella che parlo io? Chè cosa fa a
Voi, o Signore benignissimo, che converta i turchi, o converta questi
nostri cristiani, che son peggiori dei turchi?
E Gesù Cristo, che è sempre padre di misericordia, rispose:
— Fa a modo tuo: converti gli eretici, e i cattivi cristiani di
questa città.
E Santo Antonino, ballando per l'allegrezza, predicò nel suo
stesso convento, e sfuggì all'obbligo di mantener la promessa.
— Or dunque, gnor Massaro, se potevo pagare avrei pagato.
Tutta Malta non potè far bevere un asino, che non avea sete. Non
pertanto, col suo consenso, vengo a proporle un negozio. Laceri il
brevetto, mi restituisca l'asino, ed io invece di pagarla col danaro,
la pagherò col lavoro. Vossignoria in quest'anno ha venticinque o
trenta salme di seminato; ed io le prometto che lavorerò gratis
durante la messe. Col pane e col vino, s'intende,' e col dritto della
spigolatrice, s'intende benissimo; e vedrà se questa volta Matteo
mancherà alla promessa.
Il massaro se ne contentò, e lo zio Matteo questa volta non
ismentì la parola.
XI
105
nulla, costretto dall'amara necessità, risolvete di pignorare il
terreno. Chi lo prenda a pegno è presto trovato: sicchè, senza
perder tempo, si va dal notaro, e questi, se non è ladro del tutto,
se ne acciuffa la metà; se è ladro dalle cime dei capelli all'unghie
dei piedi, se ne avvinghia due terzi. Ed ecco che un bel mattino,
dopo che avrete racimolato a soldo a soldo il danaro che vi si
sborsò per il pegno, andate dal notaro per riscattare il camperello:
ma, senza sapere il come e il perchè, trovate che il camperello
non era stato pignorato, ma venduto a dirittura. E dicono che c'è
la libertà? C'è la libertà di assassinare il povero. Dicono che son
cessati gli abusi? Gli abusi son cresciuti cento volte di più. E ora,
per coronamento dell'opera, si pretenderebbe che il poeta non
potesse parlare?... Mi manderanno in galera, ma, come è vero
Dio!... parlerò quanto San Paolo. Il poeta è sacro: lo ha detto Gesù
Cristo medesimo.
-Chè diavolo dici? Gesù Cristo ci entra qui come Pilato nel credo.
-Ci entra come il sale nei cibi. Quando Gesù andava pel mondo,
una sera seguito dai dodici apostoli, magri come lanterne, vide
una casuccia in campagna, e innanzi l'uscio di quella casuccia un
villano occupato a cuòcere la minestra, Gesù Cristo gli si accostò,
lo benedisse, e poi:
-Potresti darci ricovero per questa notte?
-Padronissimi, rispose il villano. Qui ci è paglia; starete è vero,
un po' stretti, ma meglio stretti che esposti all'umidità della
notte. Il guaio è pel mangiare, perchè non ho che un solo pane,
e questo po' di minestra.
Gesù Cristo rispose:
-Non dubitare, figliuol mio, che ce ne sarà di avanzo.
E fece la benedizione sopra il pane, sopra la pentola, e sopra il
bariletto del vino. E difatti il cibo non solo bastò, ma soverchiò,
come avea predetto il Signore. Il villano, vedendo quel gran
miracolo, sciamò maravigliato:
-Sareste voi il Figliuolo di Dio, di cui si fa un gran narrare? Ah, se
la è così, benedetta sia la vostra venuta, o Signore! Gesù Cristo
gli rispose soavemente:
-Nàrrami i tuoi guai, che provvederò pel tuo meglio. E il
villano, che non avea pelo alla lingua, gli palesò tutto di un fiato
i cancri, che gli rodevano il cuore.
-Vedete, Maestro: ora son solo come un romito. A spazzare la casa, a
impastare il pane, a lavare i quattro cenci, a governar le galline
devo pensarci io, perchè avevo la moglie, ed ora è andata ad
amoreggiare con altri. Ho questa casetta, questi quattro filari di vigna,
quest'orticello che circonda la casa; ho la salute, ho la gioventù,
ho la voglia di lavorare, eppure non son padrone di nulla. Lì in
quel castello abita un cavaliere creato da Satanasso per flagello dei
poveri, e principalmente per la mia dannazione. Ora il maledetto
da Dio si era intestato a volere questo poderetto, o con le buone
o con le cattive; e vedendo che ero più incaponito di lui a non
volerglielo vendere, ricorse alle vessazioni, e alle angherie di
ogni guisa. Io seminava; e quei che mietevano erano i suoi polli,
i suoi porci, gli asini e i bovi suoi. Io zappava la vigna; ed erano i
cani suoi, e i servi suoi che la vendemmiavano. Io ponevo ogni
cura negli alberi, e quei che ne mangiavano i frutti erano i suoi
campieri. E guai a lamentarmene, perchè prima mi prendeva a
calci, e poi mi ripeteva: Vèndimi il campo. Un giorno racchiusi nella
mia stalluccia uno dei suoi bovi, il quale mi avea ridotto l'orticello
liscio come un ginocchio; e, lo crede? fui accusato di furto, e mi
convenne pagare il ranno e il sapone. Un'altra volta cacciai a sassate
un suo mulo, che pascolava n e l l a m i a v i g n a ; e f u i a c c o n c i a t o
i n g u i s a c h e d i v e n n i u n E c c e h o m o . E sempre il suo
ritornello era questo: Vèndimi il campo. Finalmente, volendo
ridurmi alla disperazione, comincia a far le moine a mia moglie, a
farle dei regaletti, a prometterle mari e monti. La donna è canna, lo
dice il proverbio, e i proverbi non fallano. E io son rimas t o s o l o e
col veleno nel cuore. Nè valse il querelarmene coi
m a g i strati, perchè l'unzione,' piace anche al papa. Ecco, o
Maestro, la storia : cornuto e bastonato, come diciamo alla rozza.
Ed ora, o Maestro, vorrei una sola grazia da voi, e ve la domando dal
profondo del cuore, ed è di poter proclamare senza pericolo mio ai
quattro angoli della terra le infamità di quel tristo, e renderlo
vituperato innanzi le genti.
— Se vuoi far questo, rispose nostro Signore, ei conviene che tu
divenga poeta, dacchè al solo poeta sia lecito dir la verità a tutti
ed in tutto. Inginòcchiati, chè ti darò il dono della poesia.
E Gesù Cristo gli pose le mani sul capo, gl'impartì la bene -
dizione divina, lo baciò sulle labbra e gli disse:
, Or che sei divenuto poeta va, tuona, grida contro la prepotenza,
e ti sarà resa giustizia.
i Il danaro.
Il villano da quel giorno in poi compose così terribili satire contro
quel sozzo ribaldo, che lo costrinse a tapparsi in casa per la rabbia e
per la vergogna. E quando andò dai magistrati per richiamarsene,i
magistrati si strinsero nelle spalle, dicendo: È un poeta, e dice
il vero; non abbiamo da farci. E quando ordinò ai suoi manigoldi
che bastonassero a morte il villano, i manigoldi risposero a coro: È
impossibile: il poeta è sacro, e non possiamo torcergli un pelo. E
allora,per non morir di rabbia, gli restituì la moglie, e gli lasciò godere
in pace quel poderetto.
Fari l'arti di Santu Còcciu vale far l'accattone. In Catania dicono esser divoto della Madonna del
Còccio.
rirebbe di farne. Cammina, cammina. Incontra un eremita,
che tira l'asino per la cavezza, e l'asino nelle bisacce porta ogni
ben di Dio. Siete voi Santo Còccio? Sì, figliuol mio, son io per
l'appunto. Dice il villano: Il santissimo Crocifisso dei Cappuccini mi
manda
da voi, perchè mi ammaestriate nell'arte di viver senza lavoro.
Risponde l'eremita: Prendi una bisaccia, e va nei trappeti, nei
palmenti,
nelle aie, nelle mandre, nei maceratoi di canape; chiedi la
carità per le anime sante del purgatorio, e pochi, ma pochi
davvero ti daranno un rifiuto. Ciascuno dei benefattori ti darà,
a dir vero, pochino; ma pensa che le tante grana forman le onze.1
Il povero lettighiero, che ha capito l'antifona, cangia a via
di sforzi il bel timbro della sua voce in un altro orribilmente
nasale; solfeggia le note più stridule, più monotone, più stizzose,
che possano uscire da trachea di uomo; atteggia la faccia a un
misto di compunzione sfacciata, e d'ipocrisia collerica, e
appoggiato alla porta di una chiesa, di un caffè, di una bettola, di
una rivendita di tabacchi, da mane a sera, al vento, al sole, alla
nebbia, alla pioggia, con la mano perpetuamente distesa, non cessa
dal declamare con orribile cantilena:
— Questa è la vera carità! Questa è la vera limosina! O
buoni cristiani, date aiuto a un poverello che da tre giorni non
apre la bocca! Fatelo pei vostri morti! Fatelo per le anime
sante! Oggi è primo Lunedì, oggi è Venerdì, oggi è Sabato di
Maria! Il Signore saprà ricompensarvelo e nel corpo e nell'anima.
Fatelo per le cinque piaghe di Gesù Cristo! Fatelo per le sette
spade di Maria Addolorata! Questa è la vera carità! Questa è la vera
limosina!
Nei primi giorni la faccenda va un po' zoppa, perchè il
mestiere è tuttora grezzo, e ci è un residuo di vergogna, e gli altri
poveri gli fanno guerra ostinata; ma a poco a poco lo zio Clemente
raffina un po' meglio la voce, gli atti, la cantilena, le formu le: e ci
è da contentarsene... parola di onore!
La figlia, che se ne accorge, comincia a fargli carezze, gli
prepara il pan bollito, e glielo condisce con la maggiorana; gli
lava la camicia, gli dà il miglior posto innanzi il braciere;
stende un lenzuolo sulla paglia infradiciata sulla quale ci si
corea, e vi stende anche una frazzata di cenci.' I nipotini non lo
chiaman più nonno lan-
116
per me; padre mio, intrecciatemi una scopa; padre mio,
raccontate qualche fiaba a Grazietto che è ammalato; padre mio,
portate attorno la bimba, che vorrebbe star sempre al capezzolo;
padre mio, suocero mio, nonno mio, fate questo, fate quell'altro.
E lo zio Clemente, che vorrebbe e non può riposare un momento,
per disperazione esce da casa; e al sollione e alla neve, quando
nelle vie non ci è anima viva, si rannicchia come i cani sotto un
arco di porta, o sotto l'olmo dei Cappuccini.
Un giorno — cosa insolita in lui — si sveglia senza appetito, e
rifiuta, chi avrebbe potuto crederlo? un piattello di quelle lumache
condite con pomidoro e cipolla, di quelle lumachette sì belle, sì
appetitose, ch'erano state la sua passione. Il tempio sta per
crollare, dice fra se l'accattone. Bisogna mettermi in pace con Dio.
E quella mattina invece di stender la mano va difilato alla chiesa
dei Cappuccini in cerca del padre Giambattista.
— Ho la morte sul collo, Padre Giammattì, e son venuto a sal-
dare il mio conto.
Il padre Giambattista lo confessa, l'assolve, e poi gli dice:
— E per l'anima non ci pensate? Voi dovreste avere un bel
gruzzolo...
— Io, padre Giammattì? Io sono spolpato come un osso in
bocca dei cani. Io l'olio, io il sapone, io le scarpe, io le gonnelle, io
le tasse, io persino le fasce del neonato. Lasciatemi stare, Padre
Giammattì. Vi dico che ho desiderato la morte cento volte il
momento. Non mi restano che ventisette tarì, e ve li lascio per
messe; ma vorrei ben anco che mi si sonasse l'agonia.
— Non datevene briga, che ve la farò sonare al Convento.
L'indomani lo zio Clemente restò a letto, travagliato da un'asma,
che gli facea sobbalzare il petto come mantice di fucina. La
figlia vedendolo infocato e affannato gli disse:
— Chè cosa avete? La febre?... Via, fate uno sforzo, pensate
che oggi è primo venerdì... e la limosina corre larga.
— Non posso, figliola mia, non posso. Forse non vedrò il sole
di domattina.
— Non v'impaurite. Chiameremo la zia Margherita, che ne sa
più dei dottori... Datemi però i quattrini per le medicine e pel brodo.
— I quattrini, figliuola mia? Gli ultimi che mi restavano li ho
dati jeri al Padre Giammattì per dirmene messe.
117
— Dite da senno?... Ah, vecchio stolito!... E chi comprerà
le medicine? Chi la carne pel brodo? Avean ragion gli antichi: Chi
toccava i cinquant'anni gli si tagliava la testa. Per me me ne
lavo le mani.
— E volevi dunque che all'anima non ci avessi pensato?...
Volevi che fossi morto come un cane?
— Per l'anima vostra ci avrei pensato io, io che vi avrei
ogni sera recitato il rosario, io che vi avrei raccomandato nella santa
messa. Ma ora me ne lavo le mani: carne non ne posso comprare,
medicine non ne posso comprare...
— Non importa, figliuola mia: morrò come vorrà il Signore.
— Ah, non importa? E le vicine chè cosa direbber di me?
Chè direbbe di me quella svergognata di vostra nuora? Direbbero
che vi ho fatto morir di fame; direbbero che non vi ho dati i
rimedii per togliervi dagli occhi miei. E poi... e poi... se la
malattia si aggrava, se ci sarà bisogno del santo viatico,
dovrebber forse portarvelo nella stalla fra la troia, le galline ed i
sorci?
— non potresti per quell'occasione mettermi nel letto tuo?
— Mio marito mi ammazzerebbe. Se aveste i quattrini, via,
gli si potrebbe tappar la bocca; ma giacchè deste i soldi al padre
118
Giammattì,
piangetene le conseguenze. Andrete allo spedale.
È credenza che San Giacomo Maggiore prenda l'anima del morto, e prima la
trasporti in Galizia, poscia la conduca per la via lattea. Se al morto però si allaccino i piedi,
o i ginocchi, l'anima non potrà fare il viaggio, e re sterà vagante per l'aria.
— Io sono in una saponata, risponde l'altro... e ne berrei
volentieri uno o due litri.
— Anch'io lo berrei. Vogliamo giocare al tocco lo zio Clemente?
— Chè diavolo dici?
— Intendo dire, di giocare quei pochi che ci dà la
Congregazione pel trasporto del morto. Volete esser della partita
anche voi, compar Diomede?
— No: mi piacerebbe meglio di giocarcelo a briscola.
— E il quarto?
— Puh! il quarto! C'è il custode del camposanto, che si
giocherebbe il battesimo. Le carte le ho in tasca. Ci state?
— Bestia chi se ne pente!... Puh! come pute!... Avete
tabacco, compar Diomede? Parmi di essere nella tana di una volpe
figliata.
— Se S. Pietro non è raffreddato, lo caccia a calci dalla
porta del paradiso.
Intanto l'un passo dopo l'altro son giunti al cimitero. Il
becchino fruga il morto per vedere se ci sia da rubacchiargli o
la camicia, o i calzoni, ma non trovando che cenci ed insetti,
sclama indispettito: Maledetti taccagni! l'han mandato via come
Giobbe. Non c'è da spigolare un centesimo.
E lo butta con istizza entro una delle fosse pei poveri.
Da lì a poco i manovali, il becchino e il custode sbevazzono, e
giocano a briscola il morto.
Fine
NOTE
A. Rici c' 'a ttiemp' antichi cc'era na pirsicuzioni ranniusa
contra i cristiani; e a cu"mpinnièunu a cu' squartariàunu. I
spiuna, e i sbirrazzi, ca ssa rrazza 'nfami ci ha statu sempri n' 6
munnu, passiàunu notti e ggiuornu pp' aggranfari 'e' (ai) cristiani:
ma c' 'u purtàunu scrittu n' 'a frunti ch'èrunu cristiani? Ora 'na
vota un capu sbirru ri chissi s' apprisenta 'o Re di Roma, e cci rici:
Sària Curuna, 'i voli canùssciri 'e' cristiani? I cristiani su' chiddi ca
pòrtanu 'a varva cussì e accussì. E dduocu ci vuòmmica comu
l'avianu 'a varva. Lu Re subbitu: Bannu e cumannamientu!... Tutti
chiddi c'hannu 'a varva cussì e accussì fùssiru purtati priciùni, e
ppui marturiati e ddecapitati ri vita! Ora dduocu echi bulìstivu
vìdiri? Tàggia ch'è rrussu!... e 'u sangu scurrìa comu l'acqua. Ni
ssu gran parapiggia rici ca ru' cristiani, c' àvana statu assicutati, si
nni jieru n' 'a casa ri Sam Paulu, e tutti scantati cci rìssiru: Viri ca
a Roma cc' è chissu e chissu. Piggiati 'u rrasolu e rrarìtini 'a varva;
ca vui, ppi donu ri Diu, 'un cc' è cosa ca 'un zapìti fari. Sam Paulu
pìggia 'u rrasolu, fa 'a sapunata, e ppui si minti ravant"o spècciu
ppi ffàrisi a varva iddu stissu. I ru' povri cristiani ficiru 'a morti c'
àppiru a ffari: Comu! ci rìssiru, e bbui siti Santu?... E si i sbirri ni
tròvanu c' 'a (con la) varvazza, echi è ca ni fannu ri nui? E si
tròvanu a mmia? cci rissi Sam Paulu. Pri bbui prìculu 'unn aviti.
'Ui siti amicu r' ò Re. É bberu ca sugnu amicu r' 6 Re, cci
arrispunni Sam Paulu, ma, 'e' vòti, cu' sa?... I Re su' comu i
piruòcci, ca 'un canùsscinu a nuddu. Quannu mi finìssciu ri
fàrimi a varva mia, tannu, si arrèsta tiempu, fazzu chiddu ri vu'
àutri... E di dduocu nassciu 'u muttu anticu ca Sam Paulu si fici
prima 'a varva so, e ppui fici chidda ri l'autri.
Narrato da Salvatore Gatto, villico da Chiaramonte.
B. Rìcinu ca quannu Dòmmini Ddiu fici 'u munnu, ava fattu ru'
formi, e 'un zapìa ri chissi mi 'u sciatu a cu' cci 1' av' a ddari. Una
ri ssi formi era ri crita finissima, di chidda ca fannu i cicri
(chicchere), e l'autra forma ri crita r' ó Còmmisu, ri chidda ca
fannu i pignati; ma n' 'a (nella) forma ri crita bbona 'u Signuri,
scànciu r' 'a mirudda cci ava misu un ddiamanti, e scànciu r' 'o
cori un piezzu ri cacazza ri fierru; e n' 'a forma ri crita pignatara
scànciu ri mirudda cc' era sùvru, e scànciu ri cori 'na badda r' oru
zicchina. Pui 'u Signuri cci pinzau mièggiu, e potti riri -ntra r'
iddu: te' echi cazzata ca stava fannu! e detti l'arma 'a' forma brutta,
e all' àutra 'a lassau n' 6 parariso tirrestri.riti ca 'na vota 'u Cifru
'nfirnali si trovau a pass ri ddi talài, e ppi ffari 'na nichèa a
Dommini Ddiu, echi è ca fa? Si cala e cci runa 'u sciàtu a ddu
pupu ri crita bbona. Ora rìcinu l'antichi ca n' àtri burritti
siemu i figgi r' 'o pupu 'i Ddiu, e bb' àtri (voi altri) cappedda siti
i figgi r' o' riàulu: e ppi cchissu siti dotti, ma 'unn (non) aviti nè
càrità, nè ttimuri ri Ddiu.
'Unn aiu cchi pinzari, rispusi 'u viddanu, ca 'u sangu cci friia
comu l'uòggiu. Si bossìa m'h"a vo' ffari ssa 'ràzzia, e bossìa m' a'
fa; s' 'un m'h"a vo ffari, àutra 'n cci nni dumannu. 'A Fata,
viriennu eh' er' attistàtu, nessci un ritrattieddu, e cci 'u
'mmùsscia, riciènnuci: Chista chi ti piacissi? 'U viddanu cumu
vitti dda facci rara, ca, luvànnici i piccati, paria 'na Maronna
'Mmaculata, si 'etta facci ppi tterra, vaca li pieri a la Fata, e cci
rici: Si mmi rati a chissa, mi sientu cciu rriccu r' 'o papa. 'A Fata
nèssci 'n àutru ritrattieddu, e cci rici: E cchista ccà ti piacissi? A
cu'? a chissa? Puh! a cchissa manc"a tuccassi c' 'a scupa. Babbu!
cci rissi 'a Fata Muriana, sti ru' ritratti su' ttutti rui ri 'na sula
pirsuna. 'A picciotta ca 'urrìssitu, ora ha sìrici anni, e ppari 'na
rraia ri suli; ma lassa passari n' àutri vinticincu, trent'anni, e addi-
venta, nè llivàti nè mintìti, com' a cchista ca nu 'mmuoi (non vuoi)
tuccari c' 'a scupa. Pènzici bbeni, figgiu miu, picchì 'na sula ràzzia
ti puozzu cuncèriri. 'A rrobba arresta e 'a bbiddizza è ssciùsscia ca
vola. 'U viddanu cci fici suppa, e ffci comu cci rissi 'a Fata Muriana.
G. 'Ntisi riri ca 'na 'ota tutti l' ervi e i pianti (le piante) ca
cci sunu n' 'o munnu ficiru 'na supprica a Gesù Cristu, e cci
rissiru: O Signuri, vui a nu' àutri macci er irviceddi 'n' àta ratu 'na
virtù ranniusa ri sanari tutt"i I malatii, e mmacari i cciù priculusi.
Ora, o patri amuruso, vi pari cosa ggiusta ch"e cristiani muòrinu
com' i muschi ppi 'mmancanza r' aiutu? Cchi gran cchì forra, si cci
'nzignàssuu i virtù ca n' àta ratu? Chissu 'm po' ssiri, macciteddi e
irvicieddi miei, cci rissi Gesù Cristu, picchì 'un murìssi ciù nuddu,
e i cristiani s' avissur' a mancciari I' unu ccu 11' autru. Parò ammiru
'u vuòssciu bon ccori, e ppi ffàrivi cuntienti vi rugnu palora ca ri
tantu 'ntantu cocchi fimminedda arriva a scròpiri coccheruna ri ss
'iuòssci virtù; ma scàncciu r' avìrinni làusu (lode) 'n zarà critta
mancu r' 'e sdessi so figgi.
128
H Cuntava 'a sant' arma r' 'o ma (mio) pa', ca 'na 'ota 'u
Capu Cifru n' òn fil' 'i nona 'i chissi (criu ca era nell'ura r' 'a
bbistialità) curriennu ni ssi campagni 'i Scappafurnu afferra 'na
crapa sravàggia, e a v' 'a 'mprena (la impregna). 'E' novi misi sta
crapa figgiàu sutta 'na màccia ri nuci; e, scanciu 'i fari 'na
ciauredda (capretta) fici 'na picciridda, ma accussì arrìbili, accussì
sbavintusa, ca' cu' 'a viria assintumava. Basta: 'u capu Cifru cci
attaccau 'u 'uddichieddu (ombellico) iddu stissu, e n' 'o piezzu
taggiatu cci 'nfilau spìgnuli (spilli), aùggi, e ffilu russu. Pu' s' 'a
vasau tutta, e cci rissi: tu si' 'a vera figgia mia, e dd' ora 'urlanti ti
rugnu i ma setti virtù. 'A picciridda, c' accuminzau a parrari ni ddu
stissu mumientu, cci spiau: E cchi sunu sti setti virtù? Vo' sapìri
cchi sunu? Sièntili bbonu:
Lu suli ccu la luna po' aggrissari, Iri ppi
lI'aria comu va lu vientu, 'Mmienzu li porti
ciùsi trapassari, L'uomu cciù fforti
addivintari lientu. Amici stritti falli
cutiddiari,
Mariti e moggi sciarri ogni mumientu;
Uomini e ddonni po' fari ciuncàri, Rulùra
fuorti, e nunn' aviri abbientu.
E ora ricìtimi 'na cosa, cci rissi 'a picciridda, duoppu ca muoru
iu, sta virtù mia a cu' è c' 'a puozzu lassari? 'U sai a cu' 1' h' a
llassàri? A cchiddi c' hannu 'u curaggiu ri fari 'a quatraggèsima 'n
anuri e gloria mia: e sta quatraggesima cunzisti n' 'o fari un piccatu
murtali ppi quaranta jiorna cunzicutivi. E sta virtù ti rugnu palora
che i fimmini 'i Scappafurnu 'n z' 'a fannu scappari.
M. 'Na 'ota rici ca 'a Matri Sant' Anna ava statu malata, e avìa 'a
peddi e 1' ossa, picchì avìa piersu 'u pitittu, e ssi cci ràunu puma ri
pararìsu si 'otava ri dda bbanna. A bòggia c' 'a bbedda Matri ci
facìa i pitittietti (manicaretti) ch"i (con le) so stissi manu: si pp"i
tanti 'nguliùna ni tastava 'u mmuccuni, all' àutru si scrignava
tutta e cci viva 'u sputarizzu. U gnornu parsi eh 'era miggiulìdda, e
cciamau 'o Patriarca San Cisippuzzu, riciènnuci c' avia pitittu ri
ficu. E unn'è ca vi l'hé piggiari? cci rissi 'u Patriarca. Un cci
pinzati cciù ca siemu n' 'eurtimi ri jinnaru? Viri, ca cci nn' è 'na
màccia nell'uortu r'o Tali e Tali cci rissi Sant' Anna: ficu natalìni ca 'o
sulu vidilli 'na prena addisirtassi. E cchista ccu 11' àutri! rissi u
pòuru Patriarca; 'Nca' un lu sapiti ca 'u patruni 'i ssi ficu ppi
sanàri (monetuola di due centesimi) si facissi tòrciri com' i vuoi
(bovi)? E iu, si mi sbutàssuru com' 'i sacchetti, un baioccu un mi
casca? Sienti c' h' a (che hai a) ffari, cci rici Sant'Anna, ti puorti
'o Bamminieddu Gesù: cù sa c' 'a vista r' 'o Bamminieddu 'un cci
arrimuddassi 'u cori! 'U Patriarca si pìggia pp"a manu 'u
Bammìnu, e si nni vannu 'ncampagna. Camìna, camìna, arrìvanu
all' uortu, e bbìrinu dda màccia ri ficu, ca 'unu s' 'i manciàva ccu
Il' uocci. 'U Patriarca si leva 'u taschettu, e cci rici a ddu boia: 'A
Matri Sant'Anna è mmalata, e avissi risìu i •i ru' ficu di chisti. Nu'
Litri siemu puvirieddi, e un bbi putièmu pajiari: ma vui 1' Lit' a fari
ppi stu Bamminieddu, e ppi 1' amuri ri Ddiu! 'A risposta ca cci resi
dd' arma ddannata fu ri fàricci signali ri scilarasilia (sfilarsela),
sannò cci rumpia 'a facci c' 'ufurcidduni. C' av' a ffari ù pòuru
Patriarca? Si nni va ccu anchi stuccati, sì pìggia 'u Bamminieddu
pp"a manu, e s' ammùccia rarrieri r' on muru. Potti stari ddà,
'urrìssimu riri, 'na minzuràta; er eccu ca u Patruni r' 'e ficu filìa
prima a tutti bbanni, e ppu' si nni va vuiazzu vuiazzu (a guisa di
bue stanco). 'U Patriarca a ccom"u vitti cuddàri sàuta 'u muru, s'
appìccica nall' àrvulu e ddà, putenza ri Ddiu! mància ca ti manciu:
primu si fa 'a panza com' un tammurinu, e ppu' si nni ìnci
(riempie) a pittirina e i sacchetti. Ddu scialaratu parò ca era misu a
tracchettu, torna 'm punta 'i peri, afferra 'o Patriarca ca stava
scinniennu, e dduocu 'unni viegnu, viegnu r' 'o mulinu, ca 'u fici
stari unni muoddu e unni ruru. 'U Bamminieddu ca si vitti 'a vista
spincìu 'a crucidda c' ava 'm manu, e dissi ccu 'vuci r' ira:
Vastuniatu in aternu, tu ca vastuniàsti un pòviru vicciarieddu!
Affamatu 'n aternu, tu ca nun 'ulisti aiutari 'na pòvira malata!... R'
ora nnànti sin 'o jiornu r' 'o ggiurìzziu h' a rrucculiari pp"a ffami com'
'e' lupi r' 'e vosca. E ddiciennu ri ssa manèraàrvulu r' 'e ficu siccau.
Narrato da Concetta Corbino, contadina di Vittoria.
N. Rìcinu ca n' 'a Calavria a ttemp' antichi cc' era un
rrimìtu, c' abbitava ni 'na 'rutta sbavintusa, e si ciamàva
Sant'Ermu; e stu sant'Ermu jìa jìennu ccu"a vièrtula nquoddu
ni ddi muntagni muntagni; e nnuddu cci arrifutava 'a
cucciaràta r' 'a minèsscia, o 'u mmuorsu r' 'o pani, o quattru
tistuzzi 'i pissci. Ora jiamu ca a stu Sant'Ermu cci morsi un
frati, c' avia setti figgi fimmini comu 'i jìta r' 'a manu; e stu
p6vru frati era nuru e ccruru e ccaliàtu (affamato) cà 1' àppiru
a burricari c' 'a sula cammisa. Sant'Ermu 'un appi cchi ffari.
S'app' a ppiggiàri, comu vasi Ddiu, i setti picciriddi r' 'o muortu.
Ma jiamu ca i ggenti limuòsina 'un cci nni' uòsiru (vollero) fari
cciù, mancu ppi ddiàulu! e cci ricièunu n' 'a facci ca 'un 'ulìanu
mantèniri 'na sciuccata r' urfanieddi; ca i figgi su r' 'e mammi; a
cu' 'i caca s' 'i nata. Mischinu! cci mancava 'u tirrìnu sutt"e'
pieri, e 'n zapìa cciù unni 'utàrisi e ggiriàrisi. Ni 'na notti ri
chissi, mentr' i niputieddi cci lamiàvunu pp"a fami, si misi a
priari 'o Signuri ppi mannàricci 'a pruviriènzia; er eccu ca senti
'na vintuliaca, e bbiri ca 'a rutta paria jiornu ciàru. Si 'ota
sbavintatu, e s' adduna ca n' 'a rutta cc' era un ggiaianti ca
tinìa 'na lantern' addumata. 'Un ti scantari, cci rissi 'u ggiaianti,
ca sugnu Cristofulu santu; e mmi cci manna 'u Signuri ppi
ddàriti aiutu. E echi è ss' aiutu ca mi purtati? L' aiutu è sta
lanterna ca ti lassu.
Sant'Ermu faci 'a morti c' appi ri fari, 'n miriennu echi
razza r' aiuti cci ava mannatu 'u Signuri. Comu! cci rissi, e
chista m' 'a ciamati pruvirienzia? E echi è ca nn' hé, ffari?
Quannu 'uòggiù pani m' 'u runa 'a lanterna? Quannu 'uòggiu
'na tuònica m' 'a runa 'a lanterna? E quannu hé a bbèstri (ho a
vestire) i niputieddi miei; quandu cci hé a gràpiri 'a 'ucca, echi aiutu
mi runa 'a lanterna?
San Cristoflu, eh' era càuru 'i testa cci accuminzava a
ffumari 'a ciminìa; ma si 'ntrattinni, e cci rissi: Sté (sto)
viriennu ca parri c' 'a sola r' 'e pieri. 'U sai o 'un lu sai eh' 'e
cuntrabbannieri vannu tissiennu stu mari? Ora sienti c' h' a
ffari. Quannu 'a nuttata pari 'na 'ucca i lupu, e i venti s'
arrimàzzanu supra mari, adduma 'a lanterna, appiccica supr'
'unu scuòggiu ri chisti, e fa llustru 'e' pòvri cuntrabbannieri, ca
su capaci di rÌmpri i varcuzzi ni sta sorti ri scuoggi.
Sant'Ermu ri dda nuttata 'm puoi fici comu cci ava rittu
San Cristoflu, e bbota ppi bbota s' arricuggìa eh' 'i vièrtuli ca
ssi cci putìa passari 'a rrasa: maritau i niputieddi, e iddu campau
letu e ccuntenti, e mmorsi ri veru Santu.
Narrato da Salvatore Sallemi, contadino di Vittoria.
P. 'Na 'ota 'u Signuri ciamau a ttutti l'armali ppi ddìricci
quali virtù vulìssiru aviri, ca iddu ci 'a rava. 'A 'urpi c' ha statu
sempri maligna, a bbìa ri muzzicuna e ammuttùna (urti), e a bbìa ri
'nfilàrìsi sutta anchi ri 1' àutri, ava fattu 'i viersu e mmanera ri
piggiàrisi 'u primi puostu. 'U Signuri, c' 'a vitti misa r' avanti, cci
rissi: Cummà Givannedda, accuminzàmu ri 'ui. Qual' è 'a virtù ca
'ulìssuu (vorreste)? Iu urrìa 'a forza, Signuri. Dduocu (In quel
punto) 'u liuni cc' un quorpu 'i cura sbalanza 'a 'urpi 'na ricina 'i
canni luntanu, e ddissi 'o Signuri: 'A forza tocc' a mmia, ca sugnu
'u liuni. E 'u Signuri cci cuncirìu 'a forza. Ni stu frattiempu 'a 'urpi
a bbìa ri strinccìrisi e aggiummariàrisi (raggomitolarsi) com' un
scursuni s' ava misu arrieri (novamente) 'n capufila. A ccomu 'a vitt'
arrièri 'u Signuri cci spiau: E bbu', cummà Givannedda, qual' è 'a
virtù ca 'ulìssuu? 'Nca Signuri, mentre ca macàri 'ui facìti facci farìi,
e 'un pott' aviri 'a forza, ràtim' armenu 'a sfacciatàggini, picchì hè
vistu ca ni stu munnu si curca 'o scuru (muor di fame), cu' nun
scippa facci ri priricaturi (chi non è sfacciato ed insistente). Ni ddu
mumientu 'a musca vola supr"a testa r' 'a 'urpi, e cci rici 'o
Signuri. A' sfacciatàggini tocc' a mmia, ca sugnu 'a musca. E 'u
Signuri cci 1' accurdau. 'A póvra 'urpi si facìa i 'uredda fràrici, ma
cchi è cca cci av' a ffari? Cummà Givannedda, cci rissi 'u Signuri,
È (alle) tri botti canta u jiaddu; dumannàtimi 'nzoccu ùliti, ca ppi sta
'ota vi fazzu stari cuntenti. Signuri, cci rissi 'a urpi, 'n pott' aviri 'a
forza, 'n, pot' aviri 'a sfacciataggini; ràtim' armènu 'a malignitati
(furberia) ppi quantu putissi stimpuniari sti quattro jiòrna 'i vita. E
'u Signuri cci l'accurdau.
Narrato da Giuseppe Terranova, inteso Furticciùni, villico di
Chiaramonte.
V. 'Na 'ota 'u Parrari e 'u Manciari àppiru quistioni 'ntra r'
iddi, e 'un putiènnusi accurdari, si nni jieru n' 'o Rre Salamuni ppi
rùmpicci 'a liti (derimere la questione). 'U Rre cci rissi: Ora
sintièmu echi è sta sciarra ca aviti. Maistà, sta sciarra è cà mentri
'a Vista, 'a 'Ntisa e 'a Fatta (l'olfatto) hannu ru' casuzzi l'unu, iu ca
sugnu 'u Manciari e stu cumpagnu miu, ca è 'u Parrari siemu
cunnannati a stari comu i latri, 'ncatinati pp"i manu e pp"i pieri,
tutti rui ni na casa. Cci nn' è giustìzzia? Ora chiddu ca vulièmu nu'
àtri è ca fussimu spartuti, e ni ràssiru 'na casuzza l'unu; ma 'a
'Ucca tocc' a mmia, picchì iu sugnu 'u Manciari, e s' 'un cci forra iu
ni stu munnu, tutt' i cristiani e tutti 1' armali putissuru cantari 'u
requamaterna. E tu echi ddici? cci spiau Salamuni 'o Parrarí? lu
ricu ca 'a 'Ucca tocc' a mmia, picchì sugnu cciù nnòbbili, e senza 'i
mia 'un cci forra differenza tra l'uomu e u pruòcciu (pidocchio).
Pricciò, Maistà,
s' àmm' a stari tutti rui ni na stessa casuzza 'u Patruni hé ssiri
iu, e iddu ha' ssiri 'u criatu. Sintiti ecà, ca v'aggiustu iu, cci rici 'u
Rre Salamuni. Tu ca si' 'u Parrari puoi papariari n' 'a 'ucca r' 'e
ricchi, picchi chiddi hannu 'u Man-ciari sarvatu, e s' un parràssuru,
'un n' avissiru propria cchi ffari; e tu, o Manciari, po' sguazzariari a
ppiaciri to n' 'a 'Ucca r' 'e pòvri, picchi i puvrieddi cciù picca
pàrranu, mieggiu è. Spartitivi i 'ucchi r' 'e ggenti, e 'n pinzati a sciar-
riàrivi.
Narrato da Vincenzo Gulino, detto Sirenu, massaro di
Chiaramonte.
X. Quannu San Paulu era n' 'a ventri r' 'a so matri, u capu
Cifru, sapiennu ca San Paulu àv' a ssiri 'u cciù forti campiuni ri Gesu
Cristu, echi bba spiècula? Cci 'ntroruci rintra 'u quorpu 'i San
Paulu cientu vipri 'nfirnali, e ppu' cci fa 'u 'ncantìsimu, ca ddi vipri
tannu avan' a mòrriri, quannu 'u Santu ammazzava a ccientu
cristiani. E accussì ar ogni cristianu c' ammazzava, 'na vipra ri
chiddi murìa. San Paulu ri ssa manera ava ddivintatu 'u tirruri r'
'e cristiani, e sguazzava notti e ggiornu n' 'o sagnu, come i
papareddi 'mmienzu 1' acqua, e mmancu àvana passatu quattru
cinc' anni, ca tutti i vipri ènmu muorti. Dduoppu ca s' ava
sbarazzatu r' è vipri, parsi ca tanticedda s' accuminzau a ssirinari;
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ma ccu ttuttu chissu ogni tantazzu ci sfirrava 'a catarina, e bbulia
sicutar' a ffari com' ava fattu. Na 'ota fra 1' àtri, si ssciarrìa c' un
cumpagnu, nessci 'a spatazza, e cci vò' spurtusari i 'urredda,
riciennu: Cientu e cientu er unu! Ma prima ri 'nfilàricci 'a spata,
senti 'na 'uci r' 'o cielu: O Paulu, e ffin a quannu h'a ddurari sta
storia? Nun t' abbasta ca n' ha"mmazzatu cientu? ma ora ti ricu, e
scrivatilla n' 'a menti, ca si bulìssitu scannari 'na musca, ti mannu un
truonu, ca ti 'ntrona 'na 'ota ppi ssempri.
Z 'A matri ri Sant' Antuninu riti ca era 'na Virgini 'n capilli, e
nisscìu ràvita picchì si manciau un pumu 'i pararisu. Mancu avia
ancora cincu se' anni, ca 'u Santuzzu si 'osi véstri munachieddu, e
cc' 'u tiempu arrinessciu 'u mièggiu priricaturi ca cci ha statu n' 'o
munnu. 'Na 'ota cascau malatu, e 'a malatìa era priculusa. Ora iddu
echi ffa? Si 'ota 'o Crucifissieddu, ca tinia appisu 'o capizzu, e si
mett' a priallu, riciennuci ca ssi cci facìa 'a ràzzia, iddu facia 'u
'utu ri jiri 'n Turchia ppi cummèrtiri i Turchi. Si 'ota 'u
Crucifissieddu, e cci riti: Vièstiti, bbattinni 'n Turchia, ca 'a ràzzia ti
l'hé fattu. Sant' Antunínu si piggia 'a tuònica nova, i sànnuli nuovi,
'a furcidduzza e 'a truscitedda cc' u pani, e ttira pp"a Turchia.
Duoppu cincu se' miggia, viriennu ca 'u sururi cci canaliava, e i
pieri 1' avia vussìchi vussìchi, s' addinoccia, vasa 'u Crucifissu r' 'a
china e cci rici: 'Ui, ca siti Patri 'i misiricordia, àt' a pinzari ca 'u
viaggiu è Iluognu, e i forzi 'un m' abbastanu. Cchi è ca vi 'mporta,
si cci vaiu a pperi o a cavaddu? Vacci a cavaddu, cci rici 'u
Crucifissùlu, ca 'u 'utu ri jirici a pperi ti 1' assurvu. E com' è ca
cci hé ggiri, o Signuri, s' 'un àggiù nè ccavaddu, nè sedda? Vòtiti
rarrieri, arrispunni 'u Crucifissulu, ca t' hé fattu truvari un cavaddu
'nziddatu. Sant' Antuninu accravacca, ma dduoppu 'n' urata 'i
caminu, si senti tuttu rruttu e ammaccatu, vasa 'u Crucifissu, e cci
rici: E cchi è cc' hé ggir' a ffari 'n Turchia, s' un sacciu 'na palora ri
dda ligna, e si i Turchi 'un zannu 'na palora r' 'a ligna mia? 'Ui, ca
siti Signuri bbinignu, cchi è ca vi 'porta si cummiertu i turchi,e puru
cummiertu 1' ariètici ri sta cità? Fa comu vuoi, cci rispunni 'u
Crucifissulu: prièrica n' 'o tuu cummientu, e cummierti 1' arietici ri
sti paisi. E accussì Sant' Antuninu si scapulau ri fari 'u 'utu.
Narrato da Grazia Cicero, villana di Modica.
AA. 'Na 'ota Gesu Cristu ccu' i rùrici Apuòstuli, siennu 'n
campagna,e ccurtu 'i scurari, vittiru 'na casuzza, e 'u mmiddanieddu,
ca stava cuciènnu 'a minèsscia. 'Nncùgnanu a bbotta 'i ddà, e Gesu
Cristu cci rici: Ni putissutu arrizzittari ppi sta nuttata? 'Nca, picchì
no? cci rispunni 'u viddanu. Paggia cci n' è, e bbi cci putiti stirari;
ma 'u busilli è pp"a manciòbbia, pirchì 'unn aiu àutru ca sti quattru
favi n' 'a tacinedda (pentolino), stu mienzu pani, e sta menza
quartucciata 'i vinu. Nun dubbitari, cci rici Gesù Cristu, ca ssu
manciari nun zulu n' abbasta, ma n' assuruvèccia. E ccu 'u fattu
cci fa 'a bbinirizzioni, e 'u manciarizzu s' 'u putìanu jittari facci facci.
'U viddanieddu viriennu ssu rran mràculu dissi a Gesu Cristu: Cchi
siti fuorsi 'u figgiu ri Ddiu, di cui pàrranu tutti a bucca cina ppi li
rran mràculi ca va faciennu? E quann' è cchissu sia bbiniritta la
vostra vinuta ni la me' casa, ca 'ui sulu, Signuri, putit' addrizzari ssa
varca. Iu aiu sta casuzza, sti quattru filara ri vigna, st'urticieddu ca
stati viriennu,ddu' tumminiedda ri terra; e ccu ttuttu chissu 'n
zugnu patruni ri nenti. Ni ddu castieddu 'nfaccifrunti cci sta un
Cavaleri, ca mi porta 'e' strapunti: iu simìnu, e 'u siminatu s' 'u
mancia 'a so puddami e i so vacchi; iu zappu 'a vigna,'a ràcina s' 'a
manciunu i so jiarzuna; iu travaggiu nell'uortu, e i so vardii ri muli
m' 'u fannu stari comu 'na cianta ri manu. E tuttu cchistu pp"u
'mpegnu ca 'ulissi vinnutu stu luchicieddu. Viriennu ca 'n cci puta
vèniri vincituri, arm' addannata si fici 'a passulìna ccu 'a me'
muggèri... 'A fimmina è ccanna! si sa; si lassau livari r' 'e so palori,
er eccu ca u gnuornu mi lassa, e si nni va a stari cur iddu. Cchi è c'
aiu a ffari? Si ricurru, i jùrici m' 'a rùninu persa; si mmi lamientu,
i so campieri mi fannu stari comu n' Eccehomu. Curnutu e bbastu-
niatu, comu rici 'u muttu anticu. Or iu, Maistru, 'urna, ca senza
prìculu miu, 'u putissi sbriugnari 'n facci a tutti, e cuntari a tutti li
'nfamitati ca va faciennu.
Ppi ffari chissu, cci rici 'u Signuri, avìssut' a ssiri pueta;
picchì ni stu munnu 'u pueta sulu pò ddiri 'a virtati, e 'unn avìri
scantu ri nuddu. Veni ccà, figgiu miu, addinòcciti, cu ti 'uòggiu rari 'u
donu r' 'a puisia.
Gesu Cristu 'u fa addinucciari, 'u vasa n' 'a 'ucca e cci rici:
Va, ora si' ppueta, e ppo' tiri 'a virità avant' a tutti, macàri avant' i
stissi Rignanti. D' allura 'nnanti 'u vìddanu accuminzau a (fari puisii
tirribbulì contra 'u Cavaleri; e 'u Cavaleri si muzzicava tuttu, ma
'un n' avia echi cci fari; picchi 'u pueta, quannu riti 'a virità, 'un si
scanta ri nuddu; e cci appi a rristituiri 'a muggeri, e adumannàricci
pirdunu.
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Narrato da Mariano Marletta, villico di Chiaramonte.