Sunteți pe pagina 1din 209

SERAFINO AMABILE GUASTELLA

LE PARITA’ E LE STORIE MORALI


DEI NOSTRI VILLANI

EDIZIONE DIGITALE PRO LOCO-AVOLA


e-book realizzato da ANGELO PALMERI
La Pro Loco di Avola pubblica in edizione digitale
alcune significative opere della cultura regionale
e locale con lo scopo di agevolarne la diffusione
soprattutto fra i giovani sempre più fruitori delle
nuove tecnologie .La speranza è che le nuove
pubblicazioni contribuiscano alla definizione
dell’identità dei giovani avolesi che nella
conoscenza del passato troveranno la
spiegazione di tanti problemi attuali.
Gli e-book sono stati realizzati, in spirito di puro
volontariato ,dall’Insegnante in pensione Palmeri
Angelo.

Avola,Aprile 2014
il Presidente della Pro loco
Peppino Corsico
Prefazione

Ho tentato desumere gli affetti, le credenze, il senso morale dei


villani nostri dai loro apologhi, che intitolano parità, e dalle loro leg-
gende morali, alle quali dànno nome di storie. Lavoro arduo per
molte ragioni, e principalmente per la ritrosia dei villani a narrarle:
sicchè bisogna coglierle a volo, quando, a documento di qualche azione
di morale un po' dubbia, si servono di esse, come gli avvocati si
servono dei cavilli.
Il lavoro, com'era da aspettarsi, è riuscito monco e malamente
distribuito, perchè nè potei raccogliere quegli apologhi, e quelle leg -
gende che mi sarebbero state necessarie, e perchè delle raccolte molte si
riferiscono a un dato sentimento morale, e poche o forse nessuna ad
un altro.
Comunque si voglia, offro il mio lavoro come scarso materiale a
quei valentuomini, che in Italia e fuori Italia si dedicano con forti studi
alla psicologia popolare.

Agosto 1883.
I

Non so del resto della Sicilia; ma a lamentarci del villano della


nostra antica Contea è proprio un lamentarci della buona misura,
come si dice in dialetto. Certo non è più il tipo antico, ma, scaduto
com'è, è sempre un bel tipo: laborioso, allegro, motteg gevole, rasse-
gnato alla volontà di Dio, dal linguaggio sentenzioso, dalla testa dura
e dai garretti di acciaio. Egli è vero che in lui c'è molto dello sbra -
cato, e che, simile al cane del Casti, è
Un po' falso, un po' mordace, Un po' avido, un po' vendicativo,
ma, diamine, chi è senza difetti nel mondo? Una sola cosa per
altro è difficile che gli si perdoni, ed è il duro egoismo in chè
s'inguscia dal primo all'ultimo giorno dell'anno: egoismo tenace da
cui, come il riccio, solleva il capo nelle occasioni solenni più per
l'occhio del mondo che per risveglio di affetto.
Una volta chiesi a un villano: Dimmi un po'; perchè sei così
duro di cuore? E il villano, guardandomi con un mezzo sorriso can -
zonatorio, mi rispose con una storia:
— Dicono gli antichi' che una volta in Roma ardea una fieris-
sima persecuzione contro i cristiani; nè sapean più cosa inventare
per istraziarli: li squartavano, gli arrostivano, li bollivano nelle cal -
daie. Le spie e gli sbirri passeggiavano per conoscere chi fosse e chi
non fosse cristiano. Certo non lo portavano scritto nella fronte: Af -
ferràteci, chè siam cristiani. Ma le cattive genti non mancano: ed
ecco che si presenta il capo sbirro al Re di Roma, e gli disse: Sacra

1 Il volgo dà il nome di antichi o di grandi ai vecchi tuttora viventi.


21
Corona, volete conoscere í seguaci di Gesù Cristo? Fate
agguantare tutti quelli che hanno la barba così e così. Allora il Re
ordinò che fossero scannati tutti coloro che avean la barba così e
così: e ci fu uno scanna scanna, tanto che in un fiat il sangue correa
per le vie come un fiume. San Paolo Apostolo si trovava in Roma,
ma non sapeva ancora di quell'ordine; nè d'altronde temea per sè
stesso, perchè, essendo l'uomo più dotto di tutto il mondo, era
amico del Re e di tutta la corte reale. Or dunque essendo intento a
leggere e a scrivere vede presentarsegli innanzi due poveri cristiani,
tremanti come foglia, i quali gli dissero: Tu solo puoi salvarci. I
birri uccidono tutti quelli che hanno la barba come l'abbiam noi. Tu
che sai far di tutto, tu che hai letto ogni libro, è facile che sappi
anche radere. Ràdìci dunque per l'amore di Gesù Cristo.
San Paolo trasse il rasoio e l'arrotò; poi fece la saponata; poi si
sedè innanzi allo specchio, e cominciò a menar colpi sulla sua
barba. I due poveri cristiani, atterriti e con la morte nell'anima, gli
dissero:
— Potenza dí Dio! Ti radi tu? Ma non sai che siamo inseguiti? Non
sai che forse ci han veduto entrare in tua casa? Tu, sei amico del Re,
nè potresti avere timore; ma noi saremo squartati. Non hai dunque
carità?
— La vera carità comincia da noi, rispose l'Apostolo. Egli è vero
che sono amico del Re, ma alle volte... Chi sa!

— E’ meglio che mi metta in sicuro. Se poi resterà tempo, e non


sarete scannati, raderò anche voi.
Fortuna volle che San Paolo avesse il tempo di radere anche gli
altri due, perchè da lì a poco vennero gli sbirri, e, vedendoli senza
barba se ne tornarono col pugno pieno di mosche. E da quì nacque il
proverbio:
San Paolo prima rase la barba sua, e poi quella degli altri.'
Or dunque, soggiunse il villano, l'ha intesa la storia di San
Paolo? Se non mi amo io stesso, chi diavolo sì prenderà fastidio di
me? Non lo sa che il povero è fuggito come la peste?
Nè per questo intendo dire che il nostro villano sia invincibilmente
duro di cuore. Oh questo, no! ma gli affetti suoi, oltrecchè brevissimi
di durata, son così lisci, che ti scivolano fra le mani; e dopo

Narrato da Salvatore Gatto, inteso Bìdduzzu villico di Chìaramonte.


In fine del volume questa storia sarà trascritta ìn dialetto, come mi fu
narrata. Vedi la nota A.
quegl'impeti momentanei si rannicchia con una specie di
beatitudine nell'esclusivo amor di sè stesso, e l'assapora e lo va
dirigendo a bell'agio. E in virtù appunto di pensare unicamente e
intensamente alla sua sola persona, sa a tempo e a luogo scavar
fuori una certa moralità capziosa, sottile, piena di ripieghi e di
sottintesi, capace di dare i punti ai più cavillosi casisti. Ed è bello
vedere il fine sorriso degli occhi, con chè sembra far la chiosa alle
sue sentenze, profferite con la voluttuosa lentezza di chi succia una
caramella. Del resto, si sa, il villano non ama i lunghi ragionamenti,
ma concentra tutta quanta la sua dottrina in un proverbio, o in un
apologo, ch'egli intitola parità, o in qualche bizzarra leggenda, da
lui chiamata storia, tanto più creduta quanto più inverosimile. Ed
anzi nei casi dubbi è la storia quella che preferisce, perchè la tiene
in conto di verità a ventiquattro carati, laddove alla parità,
considerata come fatto realmente avvenuto, non ci crede per nulla,
ma crede alla moralità che racchiude, e la stima lo stillato dell'antica
sapienza.
Da quali fonti il popolo abbia tratte quelle parità e quelle storie
sarebbe difficile investigare; ma sembra che talune di esse derivino
dal mondo orientale, come lo dimostrano certi speciali caratteri, e
certi non accidentali confronti; e che altre abbiano un'origine rela-
tivamente moderna; ma sì le prime che le seconde a poco a poco
sono state ritagliate o accresciute per successive evoluzioni confor -
mandosi all'indole, agli affetti e alle nuove credenze del popolo.
Il nostro villano si consola della sua povertà con l'esempio di
Gesù Cristo; e anzi crede col suo grosso buon senso, che se tutti
quanti fossimo ricchi, addio fave! il mondo non potrebbe sussistere.
Oh se lo crede! Ma crede eziandio che codesta divisione di chi ha
tutto, e di chi non ha nulla sia una birbonata solenne. Del resto un
certo equilibrio ce lo trova anche lui, perchè il ricco ha centomila
malanni: ha i reumi e la gotta e la calvizie e la vista debole e le in -
digestioni e i denti cariati, e non so quante altre diavolerie; ed egli
al vento, alla neve, al sollione, alla pioggia è sempre vegeto e sano. Il
ricco ha un'infinità di grattacapi, ed egli è senza pensieri, o ha quel
solo di frodar meglio i padroni.
Spesse volte il ricco lo tratta senza carità, e gli dà in faccia del
ladro, del tanghero, dell'animale; ed egli allora ama ripetere i versi
di una canzone:

Adamu fu lu zuccu, e nui li rami, La vera nubirtà su' li custumi,

e li ripete per tacciar d'ingiusta la disuguaglianza sociale tra i figli di


un medesimo padre; ma poi, per reazione di orgoglio, stimandosi più
utile e più morale del ricco, dà a sè stesso il titolo di figlio di Dio,

al potente quello di figlio del diavolo.

24
o Quando Domineddio pensò di crear l'uomo,, mi

raccontava una volta un vecchio castaldo di mia famiglia,' avea


fatto due modelli, ed era incerto quale preferirebbe dei due. L'uno
era di creta finissima, inverniciato e dorato, una meraviglia a
vedersi; e l'altro di creta rustica, fatto come vien viene ed in fretta.
Ma siccome tra creatura e creatura non manca mai l'equilibrio, alla
bella statua invece di cervello Dio aveva posto un diamante, e in
luogo di cuore uno scabro pezzo di ferro; laddove nella brutta
invece di midolla ci era un tappo di sughero, e una palla d'oro per
cuore. Poscia, pensandoci meglio, Dio lasciò in disparte la statua
bellissima, e diede vita a quell'altra. Lucifero, eterno nostro
nemico, passando un giorno pel paradiso terrestre, vide la statua
abbandonata, e, per far dispetto a Domineddio, si chinò e le soffiò in
bocca la vita. Ebbene: noi berretti, soggiunse con fine sorriso il castaldo,
discendiamo dalla creta rustica animata da Dio, e voi altri cappelli
dalla creta finissima animata dal diavolo; ed è per questo che siete
dotti, ma senza timore di Dio, e senza pietà per le miserie del povero.
Che il diavolo perciò voglia aiutare i ricchi è cosa che va pe' suoi
piedi; e il villano non se ne lamenta. Ha però la suprema con-
solazione di dire: Ci rivedremo nella valle di Giosafatte. E allora!...
Dissi che il villano non ha passioni, o le ha di breve durata: e dissi
male, periffiè ha un odio profondo pel birro, e an vivo e costa nte af-
fetto per l'asino. Posto al bivio di scegliere fra la morte della moglie o del
ciuco, non starebbe in forse un momento . Un'altra donna è presto
trovata, ed egli avrà il beneficio di un'altra dote, e della carne fresca,
come cinicamente si esprime; ma, invece, a comprare un altr'asino
s'impantanerebbe nei debiti, e a trarsene fuori ci vorrebbe l'aiuto di
Dio. Ora in argomento sì vivo, e che ha tanta parte nella vita di lui,
la parità non potea certo mancare; e non manca di fatti: ed anzi è
delle più belle e delle meglio scolpite.
Un giorno il Signore Dio benedetto, infastidito dai tanti lamenti
degli uomini, volle fare la distribuzione dei beni e dei mali, in modo
che a ciascun ceto toccasser degli uni e degli altri. I primi ad accor-
1
Salvatore Ventura, inteso Libbròniu, da Chiaramonte. Vedi infine la nota B.
g

a
d
o
s

D rere furono i cavalieri,' i quali, non trovando lotta od


o ostacolo, si acciuffarono le ricchezze, le terre, le onorificenze
e tutti i divertimenti di questo mondo; ma non poterono
n
a
acciuffar la salute, che fuggì via spaventata. In secondo
luogo vennero i preti ed i monaci, i quali dissero al Signore:
d
e O Signore, noi ci contentiamo dei soli beni del paradiso;
ma poi, pensandoci meglio, si accorsero che coi beni del
paradiso non bollisce la pentola; sicchè spazzaron via quel
f
tanto, che fu dimenticato dai cavalieri. E anch'essi ebbero
n la quota dei mali, e fu il rinunziare alla donna. I monaci e i
s preti, a dir vero, non restarono rassegnati a quella
o privazione; e dissero e fecero e tempestarono, ma

d Domineddio fu ostinato: e volle anzi che portassero la gon-


nella, per significare che le donne dovessero riguardarle
c
r come sorelle, non come mariti od amanti. Ultimi e senza
e
a fretta giunsero finalmente i villani, i quali trovarono il
campo delle distribuzioni nudo come un ginocchio, all'infuori del ciuco
che pascolava lì presso.
— E noi, o Signore, chè cosa faremo? dissero a Domineddio.
Eravamo poveri, e ora lo saremo sette tanti di più.
— Chi non si affretta non mangia, rispose il Signore. Perchè
siete venuti sì tardi? Ora il solo bene che vi resta è codesto. E così
dicendo additò l'asino, che ragliava e sgambettava per la campagna.
— E il nostro male, o Signore?
— I vostri mali son molti, ma il principale è lo sbirro.'
Difatti l'asino è il compagno, l'amico, direi quasi, il solo pa -
rente del contadino. Lo cura, lo netta, gli lava gli occhi cisposi, bada
che il basto non gli punga le schiene. Ogni notte si alza tre o quattro
volte dal letto, e con amorosa insistenza osserva se manchi di paglia,
se sia sdraiato, se per caso la cavezza gli si attortigli alla strozza. Nel
giorno di San Vito fa benedirlo dal prete, perchè il Santo lo preservi
dai morsi dei cani idrofobi, e fa benedirlo nel giorno di San Silve -
stro, perchè il glorioso pontefice lo difenda dai lupi. I figli spesso
strillan per fame, ma all'asino non manca mai il manipoletto del
fieno, o un pugno di orzo, o se non altro la paglia. E quando la po -
vera bestia non fiuta più il cibo, e tien pensoloni le orecchie, e le
sbattono i fianchi come mantici da fucina, oh allora è pietosa scena
a vedere con quanta angosciosa sollecitudine il contadino lo vegli,
i Col nome di cavalieri i villani della Contea indicano i nobili e i
grossi possidenti. Quanto agli altri cappelli sogliono beffardamente
chiamarli cavallacci.
Narrato da Vincenzo Gulino, inteso Sirènu, massaro da Chiaramonte. Vedi infine la
nota C.
il curi, gli lisci il pelo, gli somministri i rimedi. Egli che per le
malattie della famiglia non spenderebbe un centesimo, per la guarigione
dell'asino darebbe un occhio del capo.
Del resto il nostro villano ama l'asino, ma non questo o quel -
l'altro, perchè è pronto sempre a cambiarlo, spesso per necessità di
averne uno di minor pregio, più spesso per desiderio di averne uno
più giovane, o più robusto, o con minori vizii del suo. Di cambio in
cambio, e di disgrazia in disgrazia, qualche volta si riduce a pos-
sederne qualcuno, che, a scannarlo pel solo cuoio, sarebbe atto di
previdenza; ma il villano non si smarrisce di animo, e aspetta con
ansietà la fiera di Palazzolo. Or per San Lorenzo, chi nol sappia, c'è in
Palazzolo una delle più grosse fiere dell'isola nostra; ma, termi nata
la vera, ne sorge un'altra quasi da burla, instituita pel cambio degli
asini malandati: specialità che in dialetto è significata con le parole
di cànciu a la curcata, o cànciu ri Palazzuolu. La sera del nove agosto,
vigilia di San Lorenzo, in un campo predisegnato va dunque a ridursi
la strana processione degli asini da scarto, tratti a furia di stenti da
questo o da quell'altro comune vicino. Potenza divina ! A niuno
verrebbe in testa che quelle povere bestie fossero sottoposte a tanta
infinità di malanni. Bisogna vederle per crederlo.
Ce n'è di ogni sorta: asini senza coda, o senza orecchie, o senza
pelo, o con radi brani di pelle come neri scogli in un mare rossic-
cio; e ce n'è dei zoppi e dei ciechi e dei rognosi, e dei rattratti, e
degli accartocciati come pergamene, e degli spolpati come periodetti
del Rubbi, e dei gonfi come metafore del Guerrazzi; e ce n'è di quelli
che hanno o nelle schiene, o nella groppa. o in una coscia di tali or-
ribili buchi da entrarci agevolmente una mano; e di quelli con una
sola occhiaia; e di quelli rosicchiati dai vermi; e di quelli che di
quattro hanno tre piedi soltanto; e di quelli che hanno una sola metà
del deretano, perchè l'altra metà è stata mangiata dai lupi; e ce n'è
dei vecchi, e degli stravecchi, specie di Matusalemmi asinini, che
più non han forza di ragliare e di fiutare l'orina. E tutti quanti, senza
eccezione alcuna, solcati da orrendi guidaleschi, che mettono a nudo
la carne illividita o marciosa.
Gli asini, appena arrivati in quel campo, guardan malinconi -
camente la terra, e vi si sdraian sfiniti, perchè, per Santa Nafissa! è
stata una mezza fatica di Ercole l'averli menati fin lì. E allora i pro -
prietari di essi, prendono i capestri, e li buttano e li rimescolano tutti
quanti in un mucchio. Ora il cambio degli asini si reca ad effetto
appunto col rimescolamento di quei capestri. Allo schiarire del
giorno l'un dopo l'altro ciascuno di quei villani piglia un capestro
nel mucchio: il primo, che gli venga alle mani; e con quell'atto ac -
quista legalmente la proprietà dell'asino sconosciuto, al quale ap-
partiene il capestro preso a casaccio. Le recriminazioni, le bestem -
mie, le ingiurie son tali che la parola non ha potenza di riprodurre;
ma i lamenti non approdano a nulla, dacchè la consuetudine della
fiera non ammetta pentimento od appello.'
i I1 costume risale al di là del secolo XVI. In una poesia carnascialesca del 1667,
trovo questi due versi:
A Palazzuòlu, vurpazzi ri tana,
Li ciaràuli, e lu cànciu a la curcata
Vedi l'Archivio delle tradizioni popolari, fascicolo del settembre 1883.
In una cronaca manoscritta di Palazzolo dei primi anni del sec. XVII, riferitami dal mio
illustre amico avvocato Gaetano Italia, si fa cenno di quel costume, come di antichissimo.
Quella stravagante consuetudine ha fra noi introdotto un modo proverbiale, perocchè
quando dal popolino si voglia esprimere un baratto dannoso ad ambedue le parti, dice: Fu
comu 'u cànciu ri Palazzuolu: Viri chi mi dasti, e viri chi ti dugnu.
II

Dopo l'asino, ma molti gradini in giù, e quando non abbia


altro da fare, il villano ama anche la moglie: ma l'ama di
quell'amore comodo e senza grattacapi, come si ama il gattino
natoci in casa, o il rosaio che abbiam piantato in un testo: un
po' per abitudine, un po' per bisogno.
Quando ei prende moglie è stimolato dal bruciore del sangue,
ma a cento doppi dal desiderio di metter casa anche lui; e per
metter casa l'amore e la bellezza ci sono per un dippiù, ma la
chiave dell'edifizio è la dote. Nè crediate ch'ei resti freddo
all'aspetto della bellezza, e non la desideri nella moglie.
Tutt'altro!... Difatti uno dei suoi canti, anzi uno dei più ripetuti, lo
dice a lettere di scatola:
Lu sàbbatu si ciama allèria cori: Miatu
cu' l'ha bedda la muggèri! E cu l'ha
brutta ci scura lo cori, Cci rispiàci lu
sàbbatu ca veni.

La bellezza che vagheggia il villano è per altro un po' diversa


da quella che vagheggiamo io e voi, miei lettori: perocchè, a
somiglianza dei cinesi, ei la ripone nell'adipe, nelle schiene
robuste, nelle tinte calde, e anzi tutto in quei seni voluminosi,
che sembrano scoppiare sotto il busto, e prender di assalto le
ascelle. A dir breve, ei preferisce quei fardelli di carne, che in
dialetto denominiamo sciacquate, parola intraducibile, atta a
significare la ricca procacità delle curve, la rigogliosa salute e la
nettezza della persona. All'opposto le gracili, le delicate, le
bionde, quelle che nel suo gergo denomina pale di baccalà,
quando anche fossero belle come Madonnine del Cinquecento,
oh quelle lì son merce da cavalieri, nè gli riscaldano
il sangue. Chè diavolo dovrebbe farsene di quelle pupattole,
che gli si rompono fra le mani? Pel villano la moglie
all'occorrenza dovrà far le veci dell'asino; dovrà portar sulle
spalle il sacco del grano, e le fascine di legna. E poi... sarà una
buaggine, ma ei la crede come il Vangelo. Dio lo perdoni! Ei
crede che le sciacquate nove volte su dieci riescan fedeli al
marito, laddove le pale!... Non pertanto posto al bivio tra la
magra che gli reca un dippiù di biancherie o di stoviglie, e la
grassa che glie ne reca di meno, il villano, con dispiacere sì e di
malgarbo, preferisce sempre la prima. In tavola ci vuol pane e
coltello, dice nel suo proverbio; e dice benissimo, perchè nei
matrimoni bisogna pensare anche ai figli.
Una volta un povero topolino stava per essere acchiappato
da un gatto, e mandava guaiti sì mesti, sì lamentevoli, che
spezzavano il cuore. Un villanello, che stava lì presso a zappare,
sente quei gridi, ne ha compassione, e con un ciottolo volge in fuga il
gattaccio.
L'indomani mentre il villanello era occupato a sputarsi nelle
mani per ripigliare il lavoro, vede presentarglisi una Signora,
vestita come una regina, e bella come un raggio di sole. Lo salutò
per nome, e gli disse:
— Io sono il topolino, che tu salvasti dal gatto.
Dimmi chè cosa brami, perchè sono una Fata; ma sappi che
una sola grazia io posso concederti.
— E a me basta una sola, rispose il villano. L'unica
cosa che desidero è di menare a moglie la donna più bella che ci
sia in questo mondo.
La Fata torse il muso, poi si trasse dal petto un ritrattino :
— Vien quì, figliol mio. Ti piacerebbe codesta?
— Oh Dio! com'è bella!... Chè occhi! Chè capelli!
Che labbra! Questa, questa sola desidero.
La Fata trasse dal seno un altro ritratto:
— Vien qui, figliol mio, e dimmi cosa ti sembra di
questa?
— Questa? questa è più brutta del peccato mortale.
— Ebbene, figliol mio, replicò la Fata, questa donna
che ti è sembrata sì brutta è quella stessa che ti è sembrata sì
bella. Ora ha sedici anni: da quì ad altri venti diverrà come
quella; si ridurrà calva, sdentata, rugosa, e ingiallita come una
mela posta a disseccare. Bada a te, perchè non posso concederti
più di una grazia. Scegli piuttosto una moglie ricca, che una
moglie bella: a quarant'anni ed anche prima dei quarant'anni, le
brutte e le belle parranno una
sola cosa, ma il danaro non scaderà di pregio giammai.' una filza di
proverbi ingiuriosi, e di frasi canagliesche contro la povera
donna. Essa è detta toppa, è sacco, è mulino in cui moliscono
tutti; è fontana in cui si dissetano anche i porci; è cagna che alza
sempre la coda, e via su questo andare feccioso:2 e ne sa píù
del diavolo, e sembra sorella della pigrizia, e ha la testa
dura come un macigno.'
La sua pietà religiosa è pretesto per andare attorno da
mane a sera, divozione di calcagna, come diciamo con una
frase vivissima; nè trovano compassione gl'ineffabili dolori del
parto, perchè la donna tra l'impastare il pane e il figliare,
terrebbe per minor fastidio il figliare.' In argomento sì vivo
le leggende son copiosissime, ma tutte quante sì oscene da
infangarvisi a ogni tratto. Non pertanto ne scelgo
1 Narrato da Francesco Scopo, villano da Chiaramonte. Vedi in fine la

nota D.
Nella parlata di Chiaramonte il dir toppa invece di femmina è cosa co-
munissima, anche nei discorsi più selli.
La femmina, (ovvero la mamma) è saccu. Proverbio di tutta Sicilia. Li
fimmini d'avannu
Su' comu li mulina;
Cu"rriva cci macina,
Li pajia e si nni va. (Arietta popolare).
Vippiru tutti ni la to funtana,
Li stissi puorci 'un ni vuòsiru cciui ecc. (Canto inedito di sdegno).
Lagnusa com'a ttia nun ci nn'ha statu,
Si ssuoru ri la stissa tinturia ecc. (Canto inedito di sdegno). Si'
comu 'na canazza quann'è gnesta,
Spinci la cuda, e ccu'cci arriva tasta ecc. (Canto inedito di sdegno). "
La novella di Belfegor, sotto altro titolo e con altre circostanze è comune
in Sicilia. Vedi la raccolta del Pitrè, Cunti Siciliani.
Majara, ca ppi ttia cacu luppini,
Cacu li pipi ardienti e li zammàri ecc. (Canto inedito di sdegno). La
testa ri la donna è petra viva,
Mancu cci po"na mazza ri firraru ecc. (Canto inedito di sdegno).
Molti raccontini della plebe versano sull'argomento dell'infedeltà della
donna effettuata col pretesto della divozione.
La fimmina si cuntenta figgiari, e no fari 'na 'mpastata di pani. Il qual pro-
verbio trovo nel Napolitano:
E disse non me stare rognolosa (pei dolori del parto).
Ca cchiù fatica è fare 'na colata.
La Vaiasseida di Giulio Cesare Cortese, Canto II, Stanza IX.
una delle più comuni in Sicilia, ingegnandomi di fare
come si fa nel ballo dell'ova, cioè di muovere il piede
in modo di non ischiacciarne qualcuno.
San Silvestro aveva una sorella: un vero cancro,
una vera fogna di vizii; una di quelle donnacce che
volgono in beffa i sette Sacramenti, e accarezzano i
sette peccati mortali. Nè eran valse ammonizioni e
minacce, nè valso il timor dell'inferno, nè le sante
prediche del pontefice.
San Silvestro, che per ostinazione non la cedeva
a uno svizzero, volendo finirla una volta per
sempre, un giorno senza molti preamboli le avvince le
ginocchia con una pastoia di ferro, e le dice: Vediamo,
se ancora avrai grilli pel capo! Ma i grilli non li
dimise, nè la pastoia fu rimedio. Il papa si incaponì
maggiormente: e un bel giorno la chiuse in una
stanzina, e le murò porta e finestra, tranne un
angusto foro, donde le veniva sporto il cibo della
giornata: eppure per quel foro l'incontinenza
entrava ed usciva come una gattina di casa. Il
povero papa si morse un dito, e sciamò: Ah, se non
fossi papa!... Come vorrei strozzarla di cuore!... Ma
non perciò volle dargliela vinta, e, dopo avere
escogitato un mezzo migliaio di rimedi si attenne a
quello eroico di caricarsela su le spalle giorno per
giorno,
e aggirarsi per le campagne deserte, dove non
comparisse vestigio di uomo. E nondimeno una volta...
e su le stesse spalle del Santo...
e senza ch'egli se ne accorgesse!...'
Eppure è una crudele ingiustizia lo svillaneggiare
in tal modo la donna del contadino. È lei la vera
martire della famiglia; è lei che va al mulino col
sacco su le spalle; è lei che porta l'acqua dalla
fontana con la brocca sul capo; è lei, che in su la
notte, munita di un lanternino, va a lavare i poveri
cenci: e vi si reca di notte, perchè le lavandaie di
mestiere, durante il giorno, non le cederebbero il
posto; è lei che dall'alba a sera tarda, o inferma, o
incinta,
o affamata, si sciupa gli occhi a rattoppare gli
stracci, che le si sfilacciano fra le mani; a
riammagliare le calze sparse di buche; a rassettare i
bambini; a mangiarsi il cervello per trovar modo di
comprare il sapone per la mutanda2 del marito, o di
rifornire con una nuova la pentola che non trattiene
un gocciol di acqua, o di rac-
I Ho soppresse tutte le peculiarità sozzissime della leggenda. Vedi in
fine la nota E.

2Sotto il nome di mutanda il volgo intende significare la camicia, le sot-


tobrache e le calzette.
conciare la vecchia cassa rosicchiata dai sorci, giacchè è Lei
che deve pensare a tutto, dall'acqua al sale, come dice ella
stessa. Col salario settimanale del marito essa compra il
frumento, lo molisce, lo impasta, e di quei cinque o sei grossi
pani ne lascia un solo per la famiglia, sia anche una vera
nidiata. E allora, non dico per saziare quella nidiata di bimbi,
ma perchè non le periscan d'inedia, essa si reca in campagna a
raccoglier lumache, o erbe mangerecce,
e parte ne vende, parte le mette a bollire: o compra
un po' di quei cibi, che son la provvidenza del povero: i lupini, le
carrubbe, i fichi d'india, le pastinache, secondo la propria
stagione. Nè sta in ozio un momento: ma fila, o annaspa, o
tesse, o fa calze, o va a giornata per raccoglier magliuoli, o per
isgusciar fave, o per nettare frumento,
o per vagliare farina. Finchè dura la messe spigola
dietro il marito,
e guadagna più del marito; nelle raccolte dell'olio,
del cotone, de le carrubbe si rimpannuccia, compra il canape
per la tela, o qualche gingillo di oro, che impegnerà nei bisogni.
Da Giugno a Natale su per giù la provvidenza non manca; ma
dopo Natale il freddo e la fame, dice il proverbio. E il freddo e la
fame non si fan mica aspettare, ma picchiano inesorabilmente
all'uscio del povero, specie negli anni di carestia, e in quei
terribili mesi, che il contadino denomina mesi grandi, perchè gli
stenti della famiglia fanno sembrarli interminabili: l mesi, in chè
si è dato fondo alle magre provviste; e il frumento e le fave son
cresciuti di prezzo;
e il lavoro è divenuto scarso, o è mal retribuito, e
spesso è interrotto dalle intemperie. Oh in quei mesi grandi! È
l'agonia che sta fra le nude pareti. Cinque o sei bimbi scalzi,
laceri, mezzo nudi, con le carni color rosso di ruggine, con le
faccine gialle e infossate, avvolti entro un putido e grasso vortice
di fumo, tossono orribilmente e strillano dalla fame, mentre la
madre livida, scarna, affamata, con gli occhi gonfi dal fumo si
ammazza a soffiare sui tizzoni verdi per destarne la fiamma.
A quei gridi acuti dei figli, a quel pianto che non ha, n è può
avere conforto, essa dà in un tremito con sembianze scomposte,
e cerca racquetarli con le promesse, colle minacce, e coi calci. E
si racquetan davvero per un momento, ma da lì a poco
incominciano a cacciar stridi più spaventevoli, e ad avvoltolarsi
rabbiosi sul pavimento ghiacciato. L'infelice donna esce a furia da
casa, e cerca avere a credito un pane, un pugno di fave, qualsiasi
cosa che possa mettersi in bocca dei bimbi; ma, oh, quante volte
ritorna con le mani vuote e la disperazione nel cuore! E non
potendo più reggere a quei strilli, a quella fame, a quella fiera
agonia si avvinghia le mani alle fauci, e grida con voce rauca dalla
rabbia:
— O Cristo di misericordia!... Son forse io sola la peccatrice
nel mondo?... Sono stata la sola a configgervi i piedi? Perchè
siete senza pietà? Ne muoion tanti, e questi soli non muoiono!...
Per questi soli non c'è nè angina, nè colera, nè vaiuolo, nè il
diavolo che se li pigli! Sia maledetta chi si marita! Il padre in
campagna, che mangia e beve e sta in pace... e io qui... in questo
inferno!
Ed esce di nuovo, e fa... di tutto perchè ritorni col pane.
Sono febbraio, marzo ed aprile.

31
III

Le malattie bazzicano poco col villano dacchè forse incontrino


viva resistenza nella scabra pelle, nelle ossa durissime, nello
spietato egoismo, e anzitutto nella temperanza di lui. Se non
fosse pel mal di punta o per la malaria, sopratutto per la malaria, il
villano camperebbe cento anni: ma la malaria, una volta entratagli
in corpo, non ne esce, o finge di uscirne, e va e viene senza
cerimonie come un amico di casa. Non è rado però che qualche altra
malattia colga l'occasione d'introdurvisi di straforo. Il villano nei
primi giorni non se ne dà per inteso, e la crede una tristurazza,
parola che non denota nulla di preciso, ma può denotare una
infinità di cose, e sopratutto un mal essere indeterminato; ma, col
non darsene per inteso, nove volte su dieci si riduce a tale, che
rade volte la scampa, e io stesso ne ho veduto morire qualcuno
sull'asino, che lo trasportava da villa.Siamo ai primi di aprile. La
gnora Concetta, massaccia di carne, con le setole nel mento, in
sull'uscio di casa è intenta a far quattro chiacchiere con le vicine:
ed ecco che una voce stridula le grida da un rialto della via:— Gna
Cuncè, affrettatevi: mettete le lenzuola nel letto, che vostro marito
lo stan portando ammalato.La misera sente cascarsi le braccia,
prega una vicina, che le rifaccia il letto, e, schiamazzando e
graffiandosi, e accompagnata da una processione di vicine curiose,

34
corre incontro al marito. E lo vede venire curvo sull'asino,
avvoltolato entro la giucca,' in compagnia

i La giucca è il mantello contadinesco, ampio e di ruvidissima lana.


di un altro villano, che lo sostiene perchè non istramazzi; e,
appena vedutolo, grida come una energumena:
— Massa Bla', Massa Bla', chè cosa è stato? Che cosa vi sentite?
Parlate: non mi fate morire.

Ed in vece di massar Biagio, che non può aprire la bocca, ri-


sponde l'altro villano:
— Niente, niente: non v'impaurite; non gridate come una gazza.
E" una tristurazza. Dategli il sale inglese, e domani starà meglio di
noi.

Vien chiamato il medico; ma in fatto di medicina la villana ha


idee preconcette, che si accordan pochissimo con la scienza.
Anzi tutto non ammette la dieta, e crede che il vero farmaco sia
da ricercarsi in quelle voglie insistenti del malato, derivate dall'istinto
della conservazione. Nè forse ha torto del tutto; ma ne esagera la
virtù in siffatta guisa, che se l'ammalato, per un supposto, avesse
desiderio di una fetta di polipo, glielo darebbe senza uno scrupolo
al mondo. Or dunque la villana chiama il medico per l'occhio del
mondo; ma la vera, la viva fede l'ha nelle dottoresse del proprio
ceto, le quali, al letto dell'ammalato, assumono il sussiego
scientifico, e, dirò anzi, la sollennità pedagogica degli antichi
dottori di Salamanca, descrittici dal Lesage.
Il povero massar Biagio giaceva da otto giorni, infermo; il me-
dico andava e veniva, e nondimeno si era sempre al principio: nè
si cantava, nè si sonava, come si dice in dialetto. La povera moglie
non sapea più a qual santo votarsi. Avea accesa una lampada
all'EcceHomo di Spaccaforno, avea promessi i pendenti alla
Addolorata di Modica, e le trecce a San Sebastiano di Melilli, da
recargliele a piedi scalzi; e aveva fatto voto di fare il trapasso
per la vigilia di San Giovanni, e di far celebrare una messa in
suffragio delle anime sante del Purgatorio; ma, a farlo apposta, nè
l'Ecce-Homo, nè la Madonna, nè i Santi, nè le anime benedette
sembrava volessero accettarne le offerte. Or dunque mentre la
povera gnura Concetta piangeva in silenzio, e cacciava le mosche
dalla faccia dell'ammalato, ecco che, come il Deus ex machina
giunge improvvisamente la zia Sara.
Conoscete la zia Sara? È un portento, è un oracolo, a detta del
volgo. Oh, come è vero Dio, se avesse appreso a leggere!... La zia
Sara si accosta al letto, guarda lungamente l'infermo, ne tocca i polsi,

l II trapasso è un digiuno, che dura dal mezzogiorno del Giovedì santo al mezzogiorno del
Sabato santo. Ora è usato da pochissimi.
ne osserva le orine, e torce il muso in aria significativa. Poscia
domanda:
— Che cosa gli ha ordinato il dottore?
— Bicchieri, risponde mestamente la gna Cuncè, facendo uso
di quella figura comune del contenente pel contenuto. Eccolo
qui: lo speziale me l'ha fatto pagare ventidue soldi.

La zia Sara, l'osserva, l'agita, l'odora; poi le dice con accento


di convinzione profonda:
— 11 medico ve l'ammazza. E voi non gli date nulla?...
— Qualche mezzo biscotto, all'insaputa del medico, perchè dice
che il cibo gli sarebbe veleno.
La zia Sara risponde in tuono dottorale:
— I medici, che prescrivon la dieta ai villani, dovrebbero es -
ser legati alla mangiatoia. Sappiate che tutte le malattie del ceto
nostro derivano dal difetto di cibi sostanziosi. Sentite che voglio
contarvi una parità.
Quando il Signore cacciò Adamo ed Eva dal paradiso terre -
stre, essi si ricoverarono in una misera grotta, si vestiron di
foglie di fico, e, come Dio volle, da mattina a sera a lavorare la
terra. Un giorno la povera Eva ammalata, tremante di freddo,
corcata sopra uno strame di erbe, si pose a piangere tanto, che
gli occhi le avea disseccati. Il Signore, che è sempre padre di
misericordia, ebbe compassione di Lei, e le mandò l'Angelo
Gabriele, il quale le disse così: Eva, non pianger più, chè a te mi
manda il Signore. Prendi questo cassettino, dove stanno
racchiusi i rimedi per tutte le malattie; ma bada di non aprirlo,
perchè i rimedi volerebbero, nè potresti più riafferrarli. Soltanto
quando tu o Adamo o i tuoi figli giacerete infermi, t'inginocchierai
pregando Dio benedetto di darti il rimedio;il rimedio uscirà dal
cassetto senza bisogno di aprirlo.
Eva, appena sparito l'arcangelo, s'inginocchiò e pregò Dio del
rimedio; ed ecco che dal cassettino esce un piccione. Gli tirò il collo,
e fece un brodo che la tornò da morte a vita. L'indomani e gli altri
giorni consecutivi, Eva inginocchiata e piangente pregò Dio per
la medicina opportuna, e volta per volta uscì un piccione dal
cassettino. E la stessa cosa avvenne nelle malattie di Adamo e dei
figli.

Un giorno però Caino ed Abele, giocando fra loro, aprirono


il cassettino, e tutti i rimedi volaron via come i passeri
all'approssimarsi del nibbio. Eva fe' salti da pazza per afferrarli,
ma non afferrò che un piccione, il quale era sul punto di volare.—
Non ti affliggere, disse Adamo. Il Signore non vorrà punirci di
una colpa non nostra; e forse volle significarci che l'unico rimedio
per ogni malattia è il brodo di piccione.1
Codesta parità, la quale, come ognun vede, è una variante del
vaso di Pandora, fu condensata dai nostri villici in un distico,
che suona così:

A lu malatu vroru ri picciuni,


Ca all'omu sanu ci abbasta lu pani.

— Via, massa Bla', state allegro, gli dice la zia Sara, nè v'in-
ghiottite tutte le fandonie dei medici. La vostra malattia l'ebbi anch'io,
mentre ero zitella; e se obbediva al medico, burr!... i vermi mi
avrebbero fatta la festa. Figuratevi, massar Biagio mio: la fame
mi mangiava viva, e il medico non sapeva e non voleva
somministrarmi che acqua di altea, o acqua di gramigna a mia
scelta, e andava ripetendo a mia madre: Dieta! dieta! o la figlia vi
muore. La dieta è forse buona pei ricchi, ma venircela a predicare
a noi, che litighiamo sempre con la fame!... Basta: dopo nove
giorni mi sentivo sfinita; avrei dato un occhio del capo per un
morso di pane, ma il medico sempre duro: Dieta e bicchieri! Or,
non potendone più, dissi a mia sorella: Senti, Vicè, se mi dai
qualche cosa da mettermi in bocca, ti do l'anello che ho in dito.
E Vincenza, colta l'occasione che mia madre era a sentir la
messa di mezzogiorno, mi diede un bel piattello di fave coi cavoli e
le cipolle. Le divorai, e volli anche due dita di vino. Massar Biagio
mio, ve lo giuro sull'ostia consacrata, sentii ristorarmi tutta, tanto
che sarei potuta alzarmi da letto. La sera al solito venne il
medico, e, tastandomi il polso, mi disse: Sta allegra, Saridda, che
la febbre è scemata. Non potrei dargliela una briciola di
berlingozzo? gli chiese mia madre. Se la volete al camposanto,
dategliela pure, rispose il medico, agro come un limone. Mia
madre, che aveva di già saputo il contrabbando delle fave, la
sera tirò il collo a un galletto, e vi so dir io che sentivo ritornar la
salute a misura che me lo spolpava. Me ne mangiai il petto ed il
collo; e il resto la dimane prima della visita del dottore, e ci bevvi
di sopra, e ci dormii un paio di ore. Quando venne il medico trovò
che la febbre se ne era andata: e allora, rivolgendosi a mia madre,
le disse in aria di trionfo: Gna Venturina, se avessi ceduto alle
vostre stolide preghiere di darle il
i Narrazione di Emanuela Santaèra, contadina di Modica. Vedi in fine la nota F.

37
briciolo del biscotto, il frammento del berlingozzo, la fettina
della mela, a quest'ora non sareste vestita di nero?... Mia madre,
che non era dolce di groppa, ad udir questo sproposito rinnegò la
pazienza.
— Sì, sì, gli rispose, rallegratevene pure con la vostra dieta!
Senza le fave e il galletto a quest'ora Saridda sarebbe in mano
ai becchini.
Il medico, rosso come una cresta di gallo, ci svillaneggiò in
modo feroce, e l'indomani istesso citò mia madre a pagargli le visite.
— Dunque, za Sara, che cosa prescrivete per l'ammalato?
— Scannate un galletto o un piccione, e dopo il primo bollore
pestatelo in un mortaio; poi riponetelo nella pentola con un po'
di cannella, e uno spizzico di noce moscata; e dopo che l'avrete
mangiato, mi saprete dire, massar Biagio, se starete meglio di noi.
— Za Sara, sclamò l'infermo con impeto di tenerezza, acco -
state la faccia, che voglio baciarvi di cuore.
— Però il cibo solo non basta. La febbre dovrà uscire dal corpo
a via di fregagioni. Pestate un po' di lumache e di nipitella,
aspergetele di olio e di pepe, e fregatene tutte le giunture... E
domani me ne darete poi la risposta.
E la gnora Concetta che ha una fede vivissima nella scienza
della zia Sara, dà il galletto all'infermo, e gli strofina le
articolazioni; ma per iscrupolo di coscienza gli fa ingoiare anche
i bicchieri del medico, dicendo:
— Chi sa!... alle volte!... anche il medico dovrebbe saperne!
Non pertanto passa l'indomani, passa l'altro giorno, ne passano
altri tre, e la febbre non vuol andar via nè con le fregagioni, nè
coi galletti. La zia Provvidenza, che è una cugina dell'ammalato,
scuote la testa, e borbotta fra i denti: La zia Sara fa la pariglia col
medico! Facciano come vogliono : me ne lavo le mani... Muoia o
campi, me ne lavo le mani!...
— Ma chè cosa vorresti dargli?... prorompe la gnora Concetta...
Borbottate fra i denti, scotete la testa, e poi non volete dare il
vostro parere. Via, sentiamo; non state sui puntigli; ché colpa ci
ho io, se la zia Sara fu chiamata prima di voi?
— La malattia del cugino è febre biliosa, risponde la zia Prov-
videnza. Guardategli il bianco degli occhi, e le pinne delle
narici. Lo vedrebbero anche i ciechi... Perchè non gli avete
recitata l'orazione del Re Costantino?...E voi la sapete? - Se la so!
Ne ho guariti centinaia con quell'orazione! ma non basta:
bisogna ad ogni due ore che prenda un cucchiaio di decotto:
nipitella e foglie di nespolo, dolcificati col mosto cotto.

-Foglie di nespolo?... Ma non ho inteso mai servano come rimedio.

La zia Provvidenza punta dal dubbio risponde in tuono di pitonessa:

-La sapete la parità delle piante?

-Non l'ho intesa mai.

-E in questo caso, cugina mia, non aprite scioccamente la bocca.


Una volta adunque tutte le piante e l'erbe, che ci sono nel
mondo si lamentarono col Signore, e gli dissero : Signore Iddio,
Voi a ciascuna di noi avete data una speciale virtù, e non
pertanto è rimasta, e rimarrà sconosciuta. Ci duole il cuore a
veder morire tanta povera gente, quando con le virtù che ci avete
dato, ci sarebbe agevol cosa salvarle. Perchè, o Signore Iddio,
volete che gli uomini ci conoscano per le foglie, anzicchè pei
pregi nostri? E il Signore rispose: Sapete perchè? Perchè gli uomini
guarirebbero tutti, e si mangerebbero fra loro. Ma non voglio
lasciarvi scontente del tutto, e di tanto in tanto darò alla donna
il dono di scoprire la virtù di qualcuna di voi: ma perchè non ne
invanisca avrà la disgrazia di non esser creduta.

Favola significa.' Ed ora avete capito?...2


A malgrado l'orazione di Re Costantino, 3 a malgrado il decotto
di foglie di nespolo della zia Provvidenza, e a malgrado i galletti
e le fregagioni della zia Sara, e, bisogna esser giusti, a malgrado i
bicchieri del medico, il malato non migliorava: sicchè le vicine comin-

i Favola significa presso il volgo, è locuzione che sta da sè, senza bisogno che si
esplichi.
2 Narrazione di Serafina Distefano, villica di Chiaramonte. Vedi in fine la nota G.
3 Codesta orazione, tenuta dalle donnicciuole in gran conto per la guarigione delle
febbri biliose, è la seguente:
Frevi, friuzza, parti di stu luocu
Ppi l'aria, l'acqua, la terra e lu fuocu;
Frevi, friuzza, lassa sta pirsuna
Ppi li praneti, lu suli, e la luna;
Frevi, friuzza, parti di sta 'gnuni
Ppi li setti virtù ri Salamuni;
Frevi, friuzza, parti sta matina
Ppi la priera di Re Custantina.

il muso in segno di malaugurio, e le due medi chesse


medesime a veder buio pesto.
L'indebito prolungamento della malattia cominciò a destare
il dubbio in qualche vicina che potesse esser l'effetto di un
sortilegio: e codesto dubbio trovò due fiere sostenitrici nelle due

40
medichesse, le quali videro in quella credenza l'anc ciavano a
torcere ora di salvezza della loro riputazione. Ma in questo caso,
si sa, ci vuole una specialista: e come specialista, chi potrebbe
lottare con la Stefanù, la quale, com'è vero che dobbiamo morire,
non ha l'eguale in Sicilia nello scoprire e nel distruggere i
sortilegi?
La Stefanù, che vien chiamata in fretta ed in furia, guarda
un momento l'infermo, lo fissa nelle pupille come se volesse
magnetizzarlo, poi dice: È fattura: non ci è da ribattere; è
chiara come questo raggio di sole; e mi meraviglio che voi, za
Sara, e voi za Pruviriè, che in fatto di medicina non avete le pari,
non ve ne siate accorte al primo momento. Gna Cuncè mia, non
gridate, chè ora ho bisogno di calma; ma, santa morte! non
gridate, che non potrei far nulla. Za Sara, porgetemi l'arcolaio.
La Stefanù congegna una crocina di canna in uno dei co rni
dell'arcolaio; prende due foglioline di valeriana e le mette sul
capezzale; immerge un pugno di sale entro una brocca di
acqua, e ne sparge le pareti ed il pavimento.
— Voi dite che è una fattura davvero? grida la gnora
Concetta. E perchè sopra mio marito? E perchè Dio permette che
le streghe maledette abbiano un siff atto potere?
— Gna Pruviriè, datemi 1' agoraio. Perchè Dio lo
permette? In questo potrò appagarvi, specie che potrò parlare e
operare contemporaneamente. Or dovete dunque sapere che
un giorno Lucifero (sia maledetto in eterno!) trovandosi nelle
campagne di Spaccaforno afferrò una capra — Datemi un
momento le forbici — afferrò una capra e la rese pregna. Venuto
il tempo del parto, la capra, invece di partorire uno o due
caprettini, diede alla luce una bambina siffattamente
mostruosa, che si cadea tramortiti al vederla. Fi guratevi: ogni
capello era un serpente... Gna Cuncè, mettete un altro guanciale
sotto il capo dell'ammalato... Come dunque dicevo, ogni capello
era un serpente che si rizzava e fischiava; e gli occhi pareano due
candele accese, e accecavano al solo fissarle. La portorì sotto un
albero di noce, e Lucifero le legò l'ombelico con refe rosso... A
proposito di refe rosso, datemene un'agugliata... le legò l'ombelico

con refe rosso, e quel tanto che recise dell'ombelico l'infilzò


tutto di aghi e di spilli. Poscia, baciandola in volto, le disse: Tu
sei la vera mia figlia — Gna Cuncè, avete una noce? — e io vo'
dotarti delle mie sette virtù. E quali sono codeste virtù?
interrogò la bambina, che cominciò a parlare fin dal primo
momento.

Lu suli ccu la luna po' aggrissari, Iri ppi


l'aria comu va lu vientu, Mmienzu li porti
ciusi trapassari, L'uomu cciù forti addivintari
lientu, L'amici stritti falli cutiddiari,
Mariti e moggi sciarri ogni mumientu. Uomini
e donni po' fari ciuncàri, Dulura fuorti, e
nun aviri abbientu.

— E quando sarò morta, chi terrà le mie veci?


— Le terrà, rispose Lucifero, chi avrà cuore di farsi tua se -

guace; ma per farsi seguace tua è necessario che vi si prepari


col celebrare la mia quaresima, cioè col commettere un peccato
mortale ogni giorno per quaranta giorni consecutivi.'
La gnora Concetta, le due medichesse, e le altre vicine, tre -
manti, spaventate, si segnavano in fronte, e picchiandosi in petto
andavan ripetendo: Iddio sia benedetto! Gesaccàmaria! 2 Non ci
acconsento, non ci acconsento, o Signore!
Intanto la Stefanù, avendo dato termine alle operazioni
preliminari, domandò alla padrona di casa:
— Non avete trovato nulla nello spazzare la casa?
— Nulla, nulla affatto, ve lo assicuro, neanco uno spillo.
— Non avete cercato bene. Date a me la scopa, che troverò

ben io la fattura.
E qui si dà a scopare con cura miticolosa; non lascia
inosservato un granello di polvere, guarda sotto la cassa, sotto il
letto, dietro le immagini dei Santi incollate con pane, e ritrova
finalmente tra la

i Narrato da Palma Marino, contadina, da Modica. Vedi in fine la nota H.


2 Gesaccà Maria, cioè Gesù è quà e Maria. È uno scongiuro delle donnicciuole
contro le tentazioni. Perchè poi il sortilegio riesca inefficace, bisogna che il paziente lo
rilutti con la formula : nun coi accunzientu, Signuri! Il Tempio nel suo poema La
Carestia descrive stupendamente una simile scena.
cannara 1 e il pagliareccio un guscio di noce avvoltolato in un
ma-tassino di refe nero.
Tutte quante tramortirono pel terrore; ma ben tosto ebbe il
sopravvento un'ira feroce, e non s'intese più che un concetto
d'imprecazioni e di stridi.
— Vergine Immacolata! proruppe la povera moglie, se mi fate

scoprire la strega, fo voto di andare scalza per tutta la dodicina


vostra. E voi, Stefanù, non potrete aprirmi la mente?
La Stefanù senza rispondere domanda alla sua volta:
— Avete prestata qualche camicia, o qualche berretto, o qual -

che calza di vostro marito?


— Prestato? Ah, sì, ho prestato la camicia dello sposalizio a

Iacopazza la nera, perchè mi disse voler fare la simile allo zito di


sua figlia Palma.
— E non sapevate che Palma doveva sposar vostro marito,

prima che si fosse impegnato con voi?


Uno sprazzo di luce illuminò tutte le astanti, sicchè gridarono
come ossesse:
— È stata lei! è stata lei! è stata la Iacopazza!

— Zitto, gridò Stefanù,.. Gna Cuncè, chiudete la finestra e

la porta. Ed ora a noi: inginocchiamoci tutte, strecciamo i


capelli, sporgiamo le poppe, baciamo la terra, e dite tutte con me:
O Signuri, 'un cci accunzientu!... Acqua e
sali, senz'abbientu!... Acqua e sali, o
Gran Signura, Ppi livari sta fattura.
Acqua e sali, o San Ciuvanni, Ppi
stutari stu fuocu ranni. Acqua e sali,
acqua e sali! Setti jastimi supra li
Majiàri.
Sicca la lingua, abbirmati li dienti,
Li carni sfatti, 'gni (ogni) pilu 'n sirpenti.
L'uocci abbrusciati, vilènu ni ll'ossa! Setti
jiastimi supra la so fossa!'
Cannàra, cioè canne legate fra loro e congegnate a lettiera.
Confesso che questo scongiuro, se è genuino nelle idee, non lo è del tutto nelle
parole, perchè lo udii una salta volta, nè so se la memoria mi abbia tradito.
La voce di quel terribile sortilegio si sparse ben tosto nel pae -
sello, e Iacopazza la nera non potea più passar per le vie, perchè
da ogni uscio, da ogni finestra, da ogni terrazzo le veniva buttata
acqua e sale, mista a maledizioni terribili.'
Ma il medico, potrà dirmi il lettore, chè figura ci fa in questo
guazzabuglio?
Il medico è come l'Arlecchino delle commedie dell'arte, che ri -
ceveva busse da nemici e da amici, giacchè se l'ammalato
guarisce è stato il Santo a fargli il miracolo; se muore, è stato il
medico ad ammazzarlo. i
L'uso di questa superstizione è frequentissimo in Modica.
IV

Il marito è il despota, il padrone assoluto, il pascià della fami -


glia, ed è siffattarnente puntiglioso dell'autorità sua, che ad
ogni sospetto si adombra. Alla moglie dà del tu, e vuol esser
ricambiato col voi; e guai se in un impeto di tenerezza essa volesse
deporre quel voi. In quel caso le guanciate non si farebber mica
aspettare. Guai alla casa dove canta la gallina, dice egli con
alterigia. Quando la moglie non è pronta a ubbidire, o ha
dimenticato il comando, vien da lui rimbrottata con sozze e
stomachevoli ingiurie; ma quando la miseria si ricorda che anche
essa è di carne, e strilla e rimbecca l'ingiuria, il villano scioglie la
cinghia dell'asino, e mena colpi rabbiosi.
Un giorno domandai ad un villano:' Dimmi un po', perchè ba-
stoni la moglie? Nè Dio, nè le leggi ti danno un diritto sì iniquo.
E il villano, guardandomi in atto di maraviglia, come se mirasse
un fenomeno, ricorse alla storia per cavarmi quel pregiudizio dal
capo.

Quando Domineddio creò Adamo lo fece Re di tutte le cose


create. e, menandolo attorno pel paradiso terrestre, gli mostrò
ad uno ad uno tutti gli animali utili e tutti i nocivi.
ammaestrandolo a fuggir questi e a servirsi di quelli. Questo è il
bove, e servirà ad arare la terra; questo è l'asino, e ti porterà
sopra il dorso; questa è la pecora e ti darà il latte e la lana;
questo è il cane, e ti guarderà la casa dai ladri; questo è il gatto, e
te la terrà netta dai topi; questo è il gallo, e t'indicherà i
cambiamenti del tempo. In quel punto Adamo vide venire Eva,
uscita allora allora dalla mano di Dio, e veniva tutta smorfiosa e
tutta adorna di fiori.
— E questa, o Signore Iddio, a chè cosa potrà servirmi?

Mariano inteso lu Marchisi, villico di Chiaramonte. Vedi in fine la nota I.


— Questa? Questa te l'ho creata per partorirti i figliuoli, ed
essere la tua compagna; ma non ti esca di mente che il padrone
sei tu, ed essa è la tua serva in tutto e per tutto.
— E, ditemi un po', soggiunse Adamo, se non volesse obbe-
dirmi con qual mezzo potrei costringerla?
Il Signore gli additò un grosso virgulto di quercia, e gli disse:
— Sai tu come si chiama cotesto?
— Si chiama una verga, rispose Adamo.
— T'inganni, replicò il Signore. Quando la scaricherai sulla
moglie per raddrizzarla cambierà di nome, e sarà chiamata Ragione.'
Ma non si creda che il nostro contadino sia sempre di umor
fastidioso, che anzi ama scialarsela, e principalmente nella
messe, nella vendemmia, e nella raccolta dell'olio, tempi di
sazietà e di allegria, nei quali uomini e donne vivono un po'
mescolati, e un po' alla cosacca. Allora ei scherza, e ride e gioca
con le donne dell'anto;2 ma quegli scherzi e quei giochi sono una
laida miscela di sudicerie e di crudezze; ne só come le donne
possan trovarle di gusto loro, e ricambiarle all'uopo con altre
sguaiate indecenze.
Quando il villano si trova nel paesello natio maschera un po'

1.
quella soverchia libertà di modi e di linguaggio adoperato
nei campi. Ride e gioca, egli è vero: ma sono scherzi un
po' freddi, sono sudicerie semivelate, son punture che non
passano la prima pelle, come dice egli stesso. Il riso si mangia col
grasso, è una delle sue favorite sentenze; e intende significare
che il vero condimento dell'allegria sono l'allusione oscena, la
frase scollacciata, e lo scherzo, che prende a calci il pudore.
Ecco qui: c'è uno zitaggio. Una cinquantina di persone tra pa-
renti ed amici: gli adulti nell'unica e ampia stanza, i fanciulli
sui gradini dell'uscio, perchè nella casetta non ci è posto per
tutti. La stanzona per quell'occasione è stata spazzata dai
ragnateli, è stata scopata con diligenza, ed è adorna di tre fila di
sedie, tutte dispaiate, perchè si è dato il ripulisti a quelle delle
vicine e delle parenti. Il letto degli sposi occupa un angolo della
casa: un bel letto di parata, non c'è da sofisticare; coi guanciali
adorni di rannag larga tre dita;

È con tal nome che il villano denomina la verga con la quale


percote la moglie.

2 L'anto è la riunione dei coltivatori in un dato campo.


L. ranna è merletto di filo, lavorato sul tombolo. In Chiaramonte quest'arte
donnesca era giunta a tal perfezione da sfidare i merletti di Venezia e del Belgio.
con una coltre bianchissima, ove è tessuta la chiesa della
SS. Annunziata di Comiso; 1 con lenzuoli nuovi, novissimi, di tela
di casa, egli è vero, ma tela di sedici e di tre vitte, 2 che costò
mezzo porco... Sul capezzale ci è l'acquasantino, con un
ramuscello di ulivo e una crocina di palma; ci è il rosario venuto
dai luoghi santi; c'è una collezione delle Madonne più
taumaturghe: la Madonna di Gulfi di Chiaramonte, la Madonna
delle Grazie di Modica, la Madonna di Alemagna di Terranova,
la Madonna della Neve di Francofonte, la Madonna dell'Orto di
Gran Michele, la Madonna Addolorata di Monterosso, la
Madonna del Màzzaro, di Mazzarino, e via e via e via, tutte
incollate sul muro, l'una accanto all'altra.
Fra gli invitati ci è sempre il poeta, e costui sa farsi largo
fra la comitiva, e intonare una canzone alla sposa: canzone sudicia
nove volte su dieci, e quando non lo è nella parola, lo è sempre
nell'allusione, come è la seguente:
Signura zita, siti bemminuta,
Rumàni fazzu a bbui la bollivàta. c

La vostra vigna sta sira si puta,


r
E. ddumani si trova virignàta (vendemmiata). c

La scenetta che vi descrivo l'ho tuttora fitta nella memoria, r


c
perchè ragazzino dai sei ai sette anni fui invitato una volta ad c

una di quelle festicciuole dal castaldo di casa, che maritava una


figliuola di undici anni e tre mesi; 3 una vera bimba, vestita color
di rosa e nera come un tizzone.
1 Le popolane di Comiso tessono stupendamente le coltri.
Ogni cento fili dello stame formano un mazzettino; ogni
venti fili una vitta. Or siccome, più è delicato il filo, più
s'accresce il numero dei mazzettini, la tela riuscirà più o meno
fina, a secondo del numero dei mazzettini necessari.
Ordinariamente le tessitrici siciliane (carère) vanno dal numero
otto (tela grossissima) sino al sedici. Tempo fa si tessea sino al
numero venti, e codesta tela, fina come batista, per lo più si
tessea in Mazzarino (provincia di Caltanissetta): e da questo
nacque che il vocabolo mazzarinu si adoperò per significare la
delicatezza della pelle, sopratutto dei bimbi. In una ninna-nanna di
Modica...
Figgiu miu, v'amu e vi stimu
Cciù ri munita r'oru, e argentu lìnu:
'Nzuccaratieddu siti e mazzarinu.
Fra i villani della Contea era frequente il caso che la
sposa non sorpassasse i dodici anni, età canonica per le nozze.
La legge però veniva elusa non poche volte, calcolandosi nel
computo dei dodici anni i nove mesi che la nubenda era stata
nell'alvo materno. I villani solean dire a questo proposito: Si
maritai, cu li navi misi di la ventri.

a
r
r
La madre della sposa, rossa, affacendata, sudata, corre qua
e là; provvede a tutto; non ha riposo un momento: ed ecco che il
poeta (si chiamava compar Mariano ed era innanzi con gli anni)
le grida: Za Catarì, riposate un momento. Che diavolo! Siete in una
saponata;
sedetevi quì sulla mia sedia.
La zia Caterina, che non ne può più, si china per riposarsi un
momento; ma in quel punto istesso le vien tolta la sedia; ed
essa stramazza. E tuttora ho negli orecchi il riso largo e sfacciato
di tutti quei contadini; e quel baccano di frizzi e di allusioni
sozzissime, perchè la povera vecchia era caduta con le gonnelle
scomposte.
Passa un po' di tempo. Un altro villano grida a una
giovinetta: Tufa', chè diavolo ci hai su quel braccio?
— Dove? risponde Teofania.
— Quì, proprio quì. E il villano le dà un sì furioso
pizzicotto che la costringe ad urlare. Fra le convitate ci era
un'ortolana: nè brutta, nè bella, ma con un paio di poppe da
scambiarle per mappamondi. Le si accosta il poeta, e le dice in tuono
serio:
— C'è delle lattughe' nell'orto vostro?
— Diamine! vorreste lattughe in Agosto?...
— Voi mentite come un notaro. Eccone quì due
bellissime. E ridendo le caccia la mano fra i mappamondi.
E uomini e donne a ridere tutte quante.
E le donne, oggetto di sì sguaiati scherzi, mi duole il dirlo,
fingono di adirarsi, ma in cuor loro ne ridono, e ne fan tema di
chiacchiere compiacenti.
Il gran fatto dei matrimoni contadineschi è il banchetto; ma
il banchetto non offre che tre sole specialità: una sfuriata di
brindisi, ricambiati dall'uno all'altro, i doni alla sposa, e un
imbriacamento, che suol esser di rito.

Ho tuttora negli occhi il banchetto, di cui feci parte


quand'ero ragazzo. Una tavola enorme coperta di enormi boccali
di vino: nè i commensali eran tutti quanti villani, ma ci erano i pezzi
grossi. Senza contare me, che ero un ragazzino, ci era il padre
Giammarìa2 un

' Le mammelle son dai villani denominate lattughe.

2 Era un tipo che val la pena di una pennellata. Buon uomo in fondo, e
anzi di delicata coscienza, predicava come forse non fu mai predicato, mesco -
lando alle verità evangeliche buffonerie stravaganti, risa sguaiate, satire perso-
nali, feroci pugni sul tavolo, contorsioni ridicole, e contraffazioni di voci fem -
minili e maschili. Ricordo che con altri scolaretti un, giorno entrai in chiesa,
mentre ei predicando profferiva le seguenti parole: Vu' àutri fimmineddi pirchì cci vinìti a
la prèdica? Cci viniti ppi la palora ri Diu? No, no, no, no, no, no, no, no! (e alzava
e abbassava rapidamente la testa) Cci viniti... Nun lu vuòggiù diri pirchì cci viniti.
E chissu in primi luocu; e in secunnu luocu cci viniti... nun riditi... talìatimi ni la
facci!.. cci viniti ppi criticar a lu pridicaturi (quì modulava la voce in falsetto). Sa cu'
prèdica sta jiurnata? Cu' prèdica? Prèdica lu patri Climenti... Bih! bih! bih! bih!
bih!... Chissu nun sa nenti. Prèdica lu patri Luiggi!... Bih ! bili! bih! Chissu va
cirniennu i curtìggi. Prèdica lu patri Arcàncilu... Bih! bih! bih! Sappici i numiri e
ciàncilu! (era ritenuto cabalista di lotto). Prèdica lu patri Giammaria!... Bih! bih!
bih! Chissu si vota e si giria. (quì ripigliava la sua voce) Mi votu e girìu eh? Ma la
palora di Diu nun mi la tegnu ni li cannarozza... pirchì aiu liggiutu libra comu gardùna.
E chista è cosa certissima... sicurissima... infallibilissima!... Pirchì mi taliati ccu tantu
d'uocci?. Chisti si ciàmanu superlativi. Vu' àutri fimmineddi nun ni sapìti nenti; ma c'è
ccà cu' mi senti (e additava noi scolaretti).
47

cappuccino allegro, vecchietto, e secco come un'aringa, un


po' parente del castaldo; ci era la mammana e lo scarpaio di
casa, e il sagrestano maggiore della parrocchia, e un calderaio dal
naso rosso e peloso, e, ciò che mi dava nei nervi, una serva di casa
mia, zia dello sposo. E, a farlo apposta, quella serva me l'avean
posta accanto, a tavola. Apriti, terra! Tutte le mie nozioni
pratiche delle disuguaglianze fra servi e padroni eran strappate via
crudamente.
Il banchetto era una meraviglia: prima un gran piatto
d'insalata; poi i maccheroni natanti nel sugo di pomidoro; poi lo
stufato, con grossi pezzi di lardo; poi il tonno fritto con le cipolle;
finalmente le cassatelle dolci; e vino e vino ad ogni piatto, e starei
per dire ad ogni boccone: ma i brindisi cominciarono col tonno;
e il primo, com'era di rigore, fu diretto a me dal castaldo, il quale
alzandosi, e asciugandosi la bocca con la manica del robone, sclamò:
Ccu stu vinu — bellu e finu
Fazzu un brinnisi o (al) patruni,
Ca n'ha fattu tantu anùri.

E per me, che mi vergognavo e volevo sparire sotto la


tavola, rispose il padre Giammaria, che era seduto alla mia
dritta: Lu patruni è picciriddu,
Nun ha pinna e calamaru,
Ma fa un brinnisi o massaru.

E mi costrinse a bere; e dopo quel brindisi venne la volta


di tutti gli altri, sicchè s'incrociavano come i diavoli della Zisa.

Dopo le cassatelle dolci venne portato un gran piatto


adorno di fiori, e fu collocato nel mezzo; ed era lì che ciascun dei
commensali dovea deporre il dono alla sposa: chi un anello, chi
una piastra, chi un fazzoletto di seta, e chi i fibbioni di argento
pel cincitore,1 chi questo, chi quell'altro oggetto.
Costume grazioso, ma tale che dà luogo alla gara, perchè
nessuno vuol restare da meno, e lo terrebbe anzi a vergogna. Il
solo padre Giammaria offerse il dono più povero, cioè un agoraio di
bosso, lavorato con le sue mani, dicendo:
— Noi Cappuccini non possiamo possedere oro ed argento.
Vi offro quel che mi permette di offrirvi la regola del Patriarca.
Dopo che il piatto fu ripieno dei doni, e i commensali si
diedero a masticar càlia e avellane torrefatte e fave infornate, lo
sciupo del vino fu in proporzioni sì larghe, che gli occhi eran
diventati lucidi come occhi di gatti, sicchè il padre Giammaria,
credè opportuno fare un po' di predicozzo inculcando a non ne
bever dell'altro; ma il poeta della comitiva rispose con la storia
del glorioso Vescovo San Martino.
San Martino, signori miei, era uno di quei Santi, che
dovreb-
bero servir di esempio a quei preti e quei frati, che sono avari
come le cimici... Non lo dico già per Voi, o Padre Giammaria... I
Cappuccini son poveri, ma quel che possono lo danno senza farsi
pregare.Or dunque San Martino era un santo caritatevole: il suo
nonera suo, e spesso per vestire un nudo denudava sè stesso.
Aveva però il
viziaccio di ubbriacarsi ogni giorno. Difatti dall'alba a
mezzogiorno spargeva elemosine sopra elemosine; ma da
mezzogiorno a sera si
tappava in casa, tirava il catenaccio alla porta, e lì in mezzo ai
fiaschi e ai boccali non voleva sentir di malinconie, ruinasse
anche il mondo. I preti, che erano e si sentivano umiliati dal
confronto col Vescovo, fecero al papa un diavolo di denunzie; e il
papa,imbizzitosi, gli scrisse che cessasse dall'ubbriacarsi o
l'avrebbe scomunicato.
Ora avvenne un giorno che San Martino uscì a passeggiare in
campagna. Incontra un povero, e gli dà il danaro che ha in tasca; ne
incontra un altro, e gli dà l'orologio; ne incontra un terzo e gli re
gala l'anello di Vescovo. Non avendo più da dare, agli altri poveri

i Non si usa più, tranne da qualche vecchia. Era un grembiale larghissimo, di


panno color tanè in Chiaramonte, di panno verde smeraldo in Modica. Veniva
annodato con due grosse borchie di argento, per lo più raffiguranti aquile o cuori.
che incontra prima dà gli stivali, poi la tonaca, poi le
sottobrache, poi le calzette, poi la stessa camicia, sicchè rimase
con la sola cappa, e bisognò avvoltolarvisi come un bimbo tra le
fasce. Era ridotto in sì miserevole stato quando incontrò un altro
povero; ma questi era un povero, di quei che non se ne vedono
più: nudo come un pidocchio, affamato, pieno tutto di piaghe,
che destava il pianto a guardarlo. Il Santo non istette in forse un
minuto, e, spogliatosi della cappa, stava per rivestirne il
mendico. Ma che? il povero, trasformandosi mirabilmente,
apparve esser Gesù Cristo in persona. San Martino si buttò
allora faccia a terra, piangendo e picchiandosi il petto, ma il
Signore, afferrandolo pel braccio, lo sollevò, e gli disse benignamente:
— Domandami le grazie che desideri, e f o giuramento che ti
saranno concesse; ma non domandarmi la grazia dell'anima.
—E perchè, o Signor mio?
— Perchè te l'ho concessa da un pezzo.
— O Signore Iddio benedetto, rispose il Santo, voi sapete
che ho il vizio di ubbriacarmi, e che il papa vuole lanciarmi la
sua scomunica. Io vorrei dunque che nè il Santo Padre mi
scomunicasse, nè io cessassi dal bere a mia voglia.
— Sta di buon animo, rispose Gesù Cristo, chè porrò rimedio
a tal guaio. Egli è vero che il bere smodatamente è peccato: ma
è peccato quando si beve nelle taverne, o, come hai fatto tu, in
propria casa: non è già peccato nelle occasioni solenni, e sopratutto
nei banchetti nuziali; e tu sai che in Cana io feci il miraco lo di
cambiare l'acqua in vino, perchè i commensali bevevano come
spugne. Or dunque da oggi in poi, invece di chiuderti in casa,
assisti a tutti i banchetti di nozze, che nella tua città non
mancano mai, dà la benedizione in mio nome, e bevi quanto sai
bevere.'
Spesso le povere case dei contadini sono rallegrate da
chiassosa allegria, più spesso son rattristate dal pianto: ma oh
quante volte non vi si svolgono di quelle scene intime, crude
come morsi di vipera, note per lo più al solo occhio di Dio!
Nello scorso ottobre (1882) conobbi in Modica una Grazia
L... contadina in sui venti anni, che aveva una bambina e un piccino
al capezzolo. Certo non era bella; ma aveva un sì mesto sorriso negli
occhi,

i Questa storia fu raccontata, come ho detto nel testo, da un contadino, che si

chiamata Mariano; poscia mi fu narrata da Vito Migliore, inteso Pignatu, stalliere, da


Chiaramonte. Vedi in fine la nota J.
e un'aria di sì affettuosa bontà in quel suo volto scarno,
pallido e delicato, che quella immagine l'ho tuttora viva negli occhi.

La poveretta era tisica, e lo sapeva; non pertanto andava


incontro alla morte con rassegnazione di santa. Un giorno,
instigata dalle vicine, si recò in casa del medico; e al ritorno il
marito fu sollecito a domandarle:

 Chè ti ha detto il dottore?

— Mi ha detto che ho il mal sottile.

Il marito fece un balzo, e si percosse la testa.

— Come! È il mal sottile che hai? Ma se ciò si avvera,


son ruinato! E nei tre o quattro mesi, che potresti ancora
campare, chi baderà alla mia persona? Chi alle faccende di casa?
Questa è una mazza che mi cade sul capo.
— Per carità non gridate, che finchè le braccia mi
reggano, mi ingegnerò di servirvi. Il dottore però ha detto, che
dovremmo dare a balia il bambino.

Il marito fece un altro balzo furioso:

— Darlo a balia? E il danaro te lo dà forse il dottore?


—E non potreste aiutarmi voi stesso?
— Io? Ma la testa dove l'hai? Nelle scarpe? Io? Ma non sai
che per San Martino dovrò pagare l'ultima rata della casa, e che
le poche lire poste in serbo mi bastano a malapena? Ma... darei
l'anima al diavolo! Dove hai potuto prenderlo quel mal sottile?
Dare il piccino a bàlia? Se tu potessi guarire, vorrei dare in
pegno anche gli occhi, ma dacchè non puoi cavartela... Oh i bei
consigli, che ti sa dare il dottore!

Un altro giorno l'infelice donna pregò il marito che le


desse qualche soldo per una tazzina di brodo, perchè, Dio santo!
a mandar giù il solo pane le riusciva impossibile.

—E dove vuoi che li peschi? Rispose il marito, che le voleva


bene a suo modo. Se quel ladro di tuo padre mi avesse dato il
tanto che mi promise, oh allora!... non natarei con le zucche...;'
ma ieri comprai il basto nuovo per l'asino, e, a scuotermi come i
sacchi, non mi cascherebbe un centesimo. Cerca ingegnarti a la
meglio. Diamine! Che non ci sia una vicina da darti a credito un
galletto o un piccione? E poi... alla fin fine, perchè non impegni i
pendenti?
—I pendenti son della bambina, nè voglio toccarli.

' Locuzione proverbiale per significare la povertà, e sopratutto i debiti.

51
Passarono alquante settimane. Il bambino le era morto
avvizzito, ed essa si era trasfigurata in tal modo che parca la morte
dipinta. Il marito vedendola a quegli estremi, le disse in tuono
affettuoso:
— Grazia, tu sai che sempre ti ho voluto un gran bene, a mal-
grado che tuo padre mi promise mari e monti, e poi mi diede...
il vento dell'Africa; e Dio sa come mi duole il cuore a vederti in
sì misero stato; ma ad occultare la verità, chè cosa ci si
guadagna? Sta-mane sono andato dal medico, e mi disse che tutto
al più potrai campare un'altra settimana. M'intesi una stretta al
cuore; ma con chi pigliarcela? Or, Grazia mia, mettiti nei miei
panni: vedovo non ci posso restare, chè ho bisogno di chi mi
serva; e poi... c'è la bambina, nè posso mettermela in tasca.
Potresti dirmi: Ma il padrone non siete voi? Sì, Io so che il padrone
son io, ma ti ho voluto e ti voglio bene, e mi piacerebbe far le
cose di amore e di accordo. Fra le vicine di casa c'è la Giorgia,
c'è la Preziosa, c'è la Maria Stella, tutte e tre da marito. Quale
preferiresti per me?
—E perchè chiedete il mio parere? rispose singhiozzando la
moglie... Sia chi si voglia... purchè... purchè... non mi maltratti
la figlia. E diede in uno scoppio di pianto.
— Via, racquètati, te ne prego. Sceglierò la Preziosa, che vorrà
bene a la bimba.
Grazia pianse segretamente ed a lungo, e tutto quel giorno
volle la bimba ai suoi fianchi; e le carezzava i capelli, e la guatava,
senza staccarle gli occhi dagli occhi.
L'indomani era domenica, e Grazia disse al marito:
— Fatemi un piacere, l'ultimo che vi domando. Dite alla Pre -
ziosa, che venga a vedermi.
E Preziosa venne sollecita. Baciò l'inferma, e carezzò la
bimba, cui diede una bella chicca; ma l'inferma, sollevatasi a
mezzo letto, le disse:
— Senti, Preziosa: Siamo state amiche come sorelle. Ora io sto
per morire, e tu per pigliare il mio luogo. Nè te ne serbo
rancore: meglio tu che un'estranea. Or se vuoi che io mora in pace
dovrai giurarmi su questo Crocifisso, che fu benedetto dal papa,
dovrai giurarmi che a questa orfanella le vorrai sempre bene, nè
farai differenza tra questa, e i figli che vorrà darti il Signore.
Dovrai giurarmi che le conserverai questi pendenti; e in ogni
primo lunedì reciterai una posta del santo rosario in suffragio
dell'anima mia.
Preziosa piangendo si punse il dito con uno spillo, e poi lo punse
all'inferma; e, raccogliendo in un fiocco di cotone le due stille di
sangue, lo pose fra i piedi del Crocifisso. Terribile giuramento che
i villani non rompono impunemente.1
Grazia brillò in volto di una gioia quasi celeste, e,
volgendosi a la figliola:
— Senti, Teresella. È questa ora la tua mamma, e tu le
obbedirai sempre, e sempre le vorrai bene...
Ed ora Preziosa recita ogni primo lunedì il rosario per la
povera morta.'
iNon ho trovata una parità, che si riferisca a codesto costume, or quasi dei tutto
ch
andato in disuso.
2 Non ho inventato la menoma peculiarità. Soltanto non ricordando più il nome della
nc
nuova moglie le ho dato quello di Preziosa.
53
V

Vivendo a stecchetto dal primo all'ultimo giorno dell'anno,


il nostro villano ha proceduto il Prudhon nella teorica che la
proprietà sia il furto legale: anzi ritiene per fermo che il vero, il
legittimo padrone della terra dovrebbe esser lui, che la coltiva e
feconda, non l'ozioso e intruso possessore che ingrassa col sudore
degli altri. E da codesta persuasione sgorga in lui una serie di
pensamenti, che, quando più, quando meno, discordano dal
Vangelo e ha creato un ingegnoso embrione di etica civile con
tante distinzioni e sotto distinzioni da disgradarne uno
scolastico. Una delle più curiose leggende su questo argomento è
quella che va sotto il nome di « botte di San Gerlando », nella
quale il perdono divino pel furto si concede quasi per nulla, e il
ladro viene glorificato col dono dei miracoli. Eccola quì, netta e
precisa, come l'ho sentita da una donna del popolo.'
Ci erano una volta un fratello e una sorella: il fratello era
un ladro dei più famosi, e si chiamava Gerlando; la sorella si
chiamava Marta ed era una vera reliquia.' La misera pregava
notte e giorno il Signore pel ravvedimento del fratello, ma lui era
un marmo, e la lasciava predicare a sua voglia. Ora un giorno ella
gli disse:
— Gerlando mio, me la vuoi fare una grazia?... Una volta,
chè cosa ti costa? una volta sola ti prego di recarti a piedi del
Confessore.
— Lo farei, rispose il fratello; ma la penitenza che mi darà il
Confessore nè voglio, nè intendo farla.
1 Bartolommea Bonomo, da Modica. Vedi in fine la nota K.
2 Frase popolare che indica la perfezione di un individuo.
La povera Marta andò dal confessore, e gli raccontò la
faccenda. E il confessore le rispose:
— Digli che non gli darò penitenza.
A Santa Marta tornò il cuore nel petto, e tutta lieta disse
al fratello:
— Gerlando mio, va pure di buona voglia, che il confessore
non ti darà penitenza. Andrai, non è vero?
— Andrò di sicuro, che la promessa è promessa: ma nè oggi,
nè domani, nè il giorno susseguent e, perchè a dirtela in
confidenza, si ha a svaligiare la casa di quel tale riccone; ma dopo
che sarà fatto il colpo, andrò a confessarmi e te ne fo giuramento.
Da lì a due giorni il colpo fu fatto, e Gerlando, fedele alla
parola data, andò dal confessore, e ad uno ad uno gli snocciolò
tutti i peccati. Il confessore stette alquanto soprapensieri, poi gli
disse:
— Ho promesso di non darti penitenza, nè te ne darò. Sola-
mente da oggi innanzi in ogni cosa che tu sii per fare, dovrai dir così:
Santu Macari!
Zoccu 'mmo' fattu a tia, ar àutru 'un fari.
— Oh! questo è nulla, e vi prometto di farlo.
Erano trascorsi una quindicina di giorni, e i perversi
compagni vennero una sera in casa di lui, e gli proposero un
altro furto; ma Gerlando rispose immediatamente:
Santu Macari!
Zoccu 'mmo' fattu a tia, ar utru 'un fari.
I compagni proruppero in una sfuriata di bestemmie:
— Chè linguaggio è cotesto? Ti sei forse convertito? Ti sei ven-
duto alla polizia? Ma se l'è così, tu sei capace di vomitar le
budella. E senza dargli tempo di difendersi, e di chiamar soccorso
lo afferrarono e lo strozzarono.
In quella casetta ci era una stanzina con una botte; e fu lì
che Santa Marta senza dir gallo o gallina seppellì il fratello proprio
sotto la botte. E siccome per tirar innanzi la vita l'unico mezzo
eran quelle quattro gocce di vino, la meschinella si diede a
venderlo a minuto: ma per quanto ne levasse altrettanto ne
crescea, talchè la botte era sempre la stessa. Nè ciò era tutto: ma
quel vino, potenza di Dio! aveva la virtù di guarire i malati, fossero
anche agli ultimi sgòccioli. La notizia di quei fatti maravigliosi
andò alle orecchie del Vescovo, il quale, volendo vedere con gli
occhi suoi, seguito dal Capitolo in cappa magna, e precesso
dalla Croce si recò in quella casetta e costrinse Santa Marta a
svelarle la verità. E Santa Marta, tremante come una foglia, non
solo gli raccontò ogni cosa, ma sollevando la balata gli mostrò il
cadavere del fratello. Allora il Vescovo pren dendo la stola e
l'asperger disse al cadavere:
— In nome di Dio, dimmi chi tu sei. Sei un mago, uno spirito
maligno, o un'anima benedetta?
E il morto rispose:
— Io sono Gerlando, quel ladro famoso, che era lo
spavento della Sicilia, ma per aver detto ai compagni, che mi
proponevano un altro furto:
Santu Macari!
Zoccu 'mmo' fattu a tia, ar àutru 'un fari.
fui strangolato da loro, e sepolto quì dalla mia santa
sorella. Dio però in virtù delle parole che dissi, e che mi
fruttaron la morte, mi ha annoverato fra i santi Martiri, e mi ha
dato la virtù dei miracoli nel nome suo.
Il vescovo racchiuse il santo corpo in un'arca di argento e
gl'innalzò una bellissima chiesa.

Avvi in questa leggenda un fatto morale, non indegno di esser


notato; ed è il nessun conto in che si tiene la restituzione degli
oggetti derubati, la quale, in materia di furto, è il cardine
dell'assoluzione ecclesiastica. Nè codesta omissione può o deve
recar meraviglia, perocchè è conseguenza logica ed immediata
della teoria dei compensi escogitata dal proletario. Difatti ei tiene
per fermo, che ne spetti a lui solo l'esame nei furti grossi o minuti
che va commettendo. Spesso, secondo lui, riesce pari e patta: e in
questo caso non se ne dà più pensiero; ma quando il furto,
secondo i suoi calcoli, ecceda l'equo compenso, non restituisce il
superfluo, ma per mettere in salvo la coscienza, ritaglia una
porzioncina del furto, e ne fa oblazione a chiese, a conventi, a
immagini prodigiose, o ne fa celebrar messe in suffragio delle anime
benedette.
Ad ogni modo il furto è peccato. Nè il villano il miscrede
perchè l'ha detto Dio, nè c'è da ribattere. Ma da furto ci corre. Se
uncontadino rubi, verbigrazia, un covone di grano, o un cestello di
uva, o un paniero di fichi a un altro contadino, àpriti, terra! tutta
l'acqua del mare non basterebbe a lavarne la colpa, dacchè
rubare al povero sia un rubare a Gesù Cristo: nè d'altronde il
ladro ha lavorato in quel campicello per far crescere le spighe di
quel covone, o far maturare l'uva e i fichi rubati: condizione
indispensabile dell'onesto compenso. Le leggende che tuonano
contro siffatto peccato son così orribilmente paurose, e le pene
son così diaboliche da far riscontro alle più cupe visioni del
Medio Evo, dalle quali forse derivano. Ed io ne trascelgo una
soltanto, narratami da una buona e onesta massara.1
Si conta che una volta c'era un vecchio staffiere, il quale,
dopo aver servito lungamente e onestamente un padrone ricco e
vizioso, fu scacciato senza pietà perchè era divenuto tremulo e
mezzo cieco. L'infelice non si era però allontanato dal feudo,
dove la più gran parte dell'anno soggiornava il padrone, e dove
per la carità del castaldo aveva un buco per dormire, e un
rimasuglio di minestra per acquetare alla men peggio la fame. Un
giorno, che era più estenuato e affamato del solito, sdraiato sopra
un letamaio per riscalducciarsi le membra si volse al Signore,
sciamando iratamente:
-O Signore, voi non siete giusto! Centinaia di prostitute, di
ruffiani, di adulatori e di ladri fanno a gara per dare al diavolo
l'anima del mio antico padrone; e ne han carezze e regali, e
mangiano e bevono come porci; ed io, che ho perduta la salute
per lui, io che l'ho servito senza rubarlo, eccomi quì come il
Santo Giobbe, solo come un romito... come un pazzo... come un
appestato! No, non siete giusto, o Signore!
E il Signore gli rispose:
-O vecchio imbecille, perchè te la prendi con me? N on sai forse il
proverbio: aiutati, che Dio ti aiuta?
-E in chè modo potrò aiutarmi, o Signore, or che son dive nuto
tutto tremulo, e che la vista mi basta appena per non dar della
testa in un albero?
E il Signore soggiunse:
-A quel tanto di cibo che ti somministra il castaldo aggiungi il
dippiù che sia necessario per isfamarti, e prendilo senza scrupoli
sui beni dell'antico padrone: ma, bada veh!... sopra i soli suoi beni.
Il vecchio staffiere a quelle parole sentì rinvigorirsi lo spirito,
1 Sebastiana Albani, da Chiaramente. Vedi in fine del libro la nota L.
e da quel momento, andando attorno con la forcella, faceva
allegre scorpacciate di tutto quanto gli veniva sotto l'unghie. E
di questo passo era diventato liscio e lucente; ma con la
grassezza gli era entrata in corpo l'insolenza. Ora una volta,
ispirato dal demonio, vide una contadina che portava un uovo ad
un santo eremita, abitante in una grotta vicina; e subito sentì un
desiderio sfrenato di sorbirsi quell'uovo. Ed entrato nella grotta, e
vedendo l'eremita dormente, acciuffò l'uovo, gli fece due forellini,
e... burr!... lo sorbì in unico sorso. Non l'avesse mai fatto! che in
quel punto sentì la voce di Dio tonare col fragore del fulmine:
-Sii maledetto, o vecchio staffiere, dacchè rubando al povero
hai rubato a me stesso!
E in quel medesimo punto si aprì una voragine di fuoco,
che inghiottì quel ribaldo.
Intanto l'eremita si era destato, dandosi pietosamente ad
orare; e, durando in quell'orazione udì una voce paurosa che
parea uscisse dal fondo della voragine:
-Salvami, o santo eremita! Salvami con la tua preghiera! Sal-
vami, chè son nell'inferno!
E l'eremita in visione vide il vecchio staffiere con le mani e
le labbra rotte e sanguinolenti, divorate senza posa da furiosi
mastini, e senza posa rinate; e vide un sozzo demonio che gli dava la
berta, mostrandogli l'uovo.' Il Santo eremita si genuflesse, sparse
i capelli di cenere, e pregò per quell'anima tormentata, dicendo:
-Signore, Signore Iddio, io, miserabile verme, l'avrei perdo -
nato, e voi nol vorrete perdonare, Voi che siete il padre
delle misericordie?
E il Signore gli rispose:
-Sono anche il padre della giustizia. Cessa dunque dalle vane
preghiere. Se colui mi avesse crocifisso una seconda volta,
forse per le tue preghiere avrei potuto salvarlo da codesti
tormenti; ma chi ruba il povero non isperi mai misericordia.
Or da codesta leggenda, importantissima per lo svolgimento dei
1) Nel Ricciardetto, canto XX, stanza 115 il diavolo per far dannare Ferraù,
che era stato castrato da Rinaldo, ed era presso a morire
................................................................... il feritore
Coltello avea, che fece il ripulisti
In una mano, e nell'altra le cose
Che gli recise, ed anco sanguinose.
concetti morali dell'uomo sgorga una teorica che sotto varii
nomi e sotto varii sistemi ha fatto, e farà sempre capolino nel
mondo: cioè che la reità non consista nell'appropriarsi l'altrui
(chè anzi, secondo la morale del volgo, in taluni casi è
prescritta), ma unicamente nel rubare il necessario. Cosicchè
non è il valore del furto, nè le circostanze che l'accompagnano,
sian anche crudeli, ma la povertà dell'individuo derubato, che
costituisce la colpa morale. E nell'egual modo il povero che
commetta un furto per isfamarsi, e lo rinnovi perfino ogni
giorno, non solo è privo di qualsiasi colpabilità, ma quel furto,
costituendo il dritto alla vita, è assolutamente imposto da Dio. Il
date pauperibus quod superest, non è, secondo il volgo, un
precetto morale inculcato ai ricchi, ma un dritto che ha il
povero di appropriarsi il necessario, e di appropriarselo come gli
torna più comodo. Un secondo concetto morale, che sgorga
dalla leggenda panni sia questo.
L'irrevocabilità delle pene infernali sta a disagio nell'intelletto
del popolo, e, non potendo discrederlo, cerca una scappatoia nell'in -
tercessione dei Santi, o in una promessa di Gesù Cristo; e fa sì che
per singolari eccezioni qualche dannato sia tratto alla vis ione di Dio.
Difatti nella leggenda che ho narrata, Gesù Cristo ammette la pos -
sibilità che un dannato possa esser tratto in paradiso. Or codesta cre -
denza che diede vita nel medio evo alla leggenda dell'imperatore
Traiano, e che è accennata in qualche a zione sacramentale del Cal -
deron, vige nel nostro popolo con le fiabe di Fra Giovannone, del
Prete senza pensieri, della Madre di San Pietro, e con altre parecchie.'
Un'altra eccezione, che spoglia il furto da ogni idea di colpa,
gli è quando si rubi per soddisfare alle voglie di un ammalato; ed
anche questa eccezione fluisce dalla teoria del dritto alla vita. Nella
leggenda di San Ginepro il santo frate ruba e taglia il piede ad un
1
Pel Fra Giovannone vedi la stupenda raccolta delle fiabe del Pitrè. Prete Olivo,
che è una delle novelle del Batacchi, è leggenda comune in Modica, con varietà di
accessorii, ma con non poche aggiunzioni, e col titolo: Lu parrinu senza pinzieri, da
non confondersi con quella che sotto lo stesso titolo è nella raccolta del Pitrè. Una
delle aggiunzioni più bizzarre nella novella ella è questa. Gesù Cristo è inesorabile, nè
vuole in paradiso le anime dannate; ma la Santa Vergine per rimuoverlo gli dice: Se
non farai grazia a quelle anime io partirò dal paradiso con tutta la dote mia. E
avendo G. C. negato di far grazia, la Madonna chiama a sè gli Angeli, i Patriarchi,
gli Apostoli, i Martiri, i Santi tutti, perchè essendo Regina di tutti loro è forza che li
porti con sè. G. C. vedendo spopolarsi il paradiso, concede finalmente la grazia.
porco, per sollievo di un frate infermo, che si struggea di
siffatta voglia; e, rimproverato da San Francesco, discolpa il furto e
se ne gloria. Non poche altre leggende potrebbero all'uopo
racimolarsi, ma io starò pago ad una sola, che ha per protagonista
il più simpatico fra tutti i Santi, quello che è venerato dal popolo
con culto e devozione più schietta, dico il patriarca San
Giuseppe: e la sceglierò a preferenza, perchè intorno ad essa
leggenda ci è un canto popolare incompleto.
La madre Sant'Anna, inferma e vecchiarella, avea perduto
l'appetito, e andava deperendo ogni giorno. La sua santissima
figlia le cucinava con le sue mani or questo or quell'altro
manicaretto, figuratevi con quanta soavità di gusto! con quali
odori di paradiso!' Ma la Madre Sant'Anna ne assaggiava un
boccone, e al secondo aggrinzava il naso, nè c'era verso a
inghiottirlo. Un giorno, che parve un po' migliorata, chiamò il
patriarca e gli disse:
— Genero mio, stamane ho voglia di fichi freschi.
— Come! dice San Giuseppe. Siamo in gennaro, e avete di si-
mili voglie? E dove potrei trovarli?
— Li troverai nell'orto di Tal dei Tali, dove appunto ce n'è
un albero maraviglioso.
San Giuseppe si grattò il capo, sapendo per intesa che
sarebbe stata cosa più facile destar pietà nel diavolo, anzicchè in
quel dannato usuraio che non dava nulla per nulla, neanco gli
sputi. A buon conto prese per mano il bambinello Gesù, e adagio,
adagio in campagna. Cammina, cammina, giungono all'orto e si
avvengono in quel bellissimo albero. L'usuraio era lì: una
bestiaccia tutto fiele e con occhi di basilisco; e San Giuseppe,
cavandosi umilmente il berretto, disse a quella bestiaccia con voce
piana e soave:
— La madre Sant'Anna, che da lungo tempo è ammalata, ha
Varii canti popolari parlano dei manicaretti cucinati dalla Santa Vergine.
La Matri Santa l'aggiotta facìa,
Tri pisscitieddi cci fuoru mannàti:
'Aggiu e putrusìnu cci
Lu sciàuru sanava a li malati, ecc.
Tutti li Santi j eru a bbavalùci , San Cisippuzzu spàrici
cuggia. Sant'Antuninu cci adduma lu luci, La Matri
Santa cci li cucinia. A San Lunardu cci sàppiru arùci,
'N'àutra cucciaratedda ni 'ulia. Lu Bamminieddu cci fici
la cruci: Manciàti tutti, figgi ri Maria.
nausea di ogni cibo, ma avrebbe voglia di uno o due di codesti
fichi freschissimi. Se avessi danaro, darei quel tanto che vorreste;
ma il tempo è scarso, il lavoro non corre, sicchè ve li domando per
l'amore di Dio e a titolo di compassione.
L'usuraio non si degnò rispondere, ma, agitando, il
randello, fece conoscergli chiaramente che se non se la svignava
a corsa, gli avrebbe rotte le spalle. Il povero San Giuseppe chinò
dolorosamente la testa, e si pose la via fra le gambe; ma pervenuto
a tal luogo donde potea vedere e non esser veduto si appiattò col
Bambino, raccomandandogli di non piangere. Aspetta, aspetta:
aspettò tanto che finalmente vide partire quel ribaldo usuraio. E
allora sbucò anch'egli, camminò in punta di piedi, e,
arrampicatosi sull'albero, spiccò più che potè di quei fichi. Ed
ecco che il proprietario, il quale sospettando di qualche
gherminella stava sull'avvisato, agguanta pei piedi il patriarca
che già scendeva dall'albero, e mena legnate da orbi. Alle strida
dolorosissime accorse il Bambino, il quale, lampeggiando negli
occhi e sollevando la Croce, gridò con fierissima voce:
— Sii maledetto, perchè rifiutasti un fico ad una povera
inferma! Sii maledetto, perchè bastonasti un povero vecchio! Sii
maledetto, perchè non senti pietà pei poverelli di Dio! Da
questo momento sarai costretto sino al giorno del giudizio a
urlare per fame come i lupi del bosco.'
' Narrata da Concetta Corbino, contadina di Vittoria. Vedi in fine la nota
M.
Una ninna nanna di Vittoria:
San Cisippuzzu jiu a rrubàri ficu;
Tutta la notti fu vastuniatu.
Nun mmi nni (non me ne) rati cciù, ca vi lu ricu:
Setti piruzzi (alberetti) suli n'hé manciatu.
E un panarieddu n'aiu arrialàtu:
A la Matri Sant'Anna l'hé purtatu.
E l'hé purtatu a la Matri Sant'Anna,
Ch'è malatedda, e cci spìccica l'arma.
In Modica e Chiaramonte corre il medesimo canto con qualche varietà; e il
protagonista è San Vito, non S. Giuseppe.
VI
Le idee di furto nel villano non essendo determinate dal
concetto legale della proprietà di fatto, ma da quello speculativo
della proprietà naturale, che ha per norma il lavoro, ne sussegue che
i convincimenti di lui corrano in direzione opposta delle
prescrizioni dei codici. Difatti in ogni perturbazione sociale quelle
idee vengono a galla, come nel 1837 in Monterosso, dove i villani
si elessero perfino un Re del loro ceto;' come nel 1820 in
Ragusa, dove i villani erano intestati a dividersi il territorio;' e
come ce ne fu in Modica un embrione di desiderio nel 1860.
Or dunque se il contadino sottrae qualche tumulo di
frumento, qualche cafiso di olio, e qualche barile di vino,' o chè
altro si voglia in un campo, che ha lavorato con le sue mani, non ne
ha il menomo scrupolo, nè se ne confessa,' ma lo crede un onesto
ed esiguo compenso. Codesto onesto compenso potrà però esercitarsi
con tranquilla coscienza quando la roba è tuttora nei campi, non
quando è stata riposta nei recipienti opportuni: perchè, riposta che
sia, il compenso
1 Era un contadino chiamato Giovanni Fatuzzo, dal muso di faina e dai capelli
rossissimi. Gli si era dato lo stipendio di tarì due il giorno (85 cent. di lira), e l'onore
di due guardie.
2 I villani di Ragusa avean dato incarico all'agrimensore Puglisi di dividere il
territorio in parti uguali: e l'agrimensore fece il lavoro; ma in quel frat tempo giunsero
gli Austriaci.
3 il tumolo varia di peso secondo la qualità del fru mento, e per lo più
corrisponde a un decalitro, e litri cinque; il cafiso non varia, e corrisponde a un decalitro
e mezzo; il barile a sette decalitri e a cinque litri.
4 Il sacerdote Antonio Nobile, da Chiaramonte, mi diceva una volta: E cosa
infallibile che i nostri villani son ladri, e pure nessuno se ne accusa in confessione,
neanco i mugnai/
cessa e subentra il furto più o men grave a seconda dei casi.
Nè dico con ciò che tali teoriche siano rese ad atto da tutti quanti i
nostri villani. Oh questo, no! ma dico che tutti quanti le credono
lo stillato della vera giustizia, e dove sorga differenza è più nei
mezzi, che nella cosa in sè stessa.
Ma dove tutte le opinioni si amalgamano in una sola è nella
credenza inveterata del volgo, che rubare al Re sia azione lecita, e
su per giù meritoria; e che anzi si possa farlo in ogni luogo, e in
ogni tempo, e con qualsiasi mezzo, non esclusa la violenza, ove
rendasi necessaria. La roba del Re è roba del pubblico. Chi diamine
l'ignora?
Ed anzi il popolo, non pago del primo, ha formulato un secondo
proverbio : Chi ruba al Re non ruba a nessuno. E quì giova avver-
tire che per roba del re i contadini nostri intendono le rendite
dello Stato, e, non so per qual figura retorica, anche quelle d el
Comune, e delle amministrazioni sociali. Il Re è come la pulce,
sentenzia il villano; entra dove gli piace, e succia quel che gli piace.
Il contadino crede con tanta buona fede in codeste dottrine
di giustizia distributiva, che le puntella con certe leggende tra
buffonesche e maligne, nelle quali il protagonista è sempre un
santo dei principali e qualche volta Dio stesso. E, quel ch'è
peggio, ha profilati certi tipi di Santi a immagine e similitudine
sua, diversi da ogni concetto storico, ma consoni
maravigliosamente alle credenze e all'indole propria. Or se
dottrina non controversa, anzi non soggetta al menomo dubbio, è
di considerare il furto al re come lecito, il modo più spiccio di
rubare al Re è il contrabando. E difatti il contrabbandiere assume
nella fantasia popolare contorni èpici di sì abbaglianti colori, da
disgradarne i più maravigliosi paladini del ciclo carolingio. Pel
popolo il contrabbandiere quanto all'audacia cede ben poco a
Rinaldo e ad Orlando, ma quanto ad astuzia metterebbe nel sacco
tutti gli Ulissi e i Sinoni del mondo. E poi il contrabbandiere è la
bi
provvidenza del povero, laddove il Re ne è la gragnuola. Il re ci di

affama? E il contrabbandiere cerca aprirci la bocca. Il re tassa nc


la
maledettamente i tessuti? E il contrabbandiere con la mitezza dei
nc
prezzi ne rende possibil la compra. Il re battezza per tabacco le sb
Q
foglie del carrubbo, della cicoria, del fico e di altre simili porcherie? E
P(
il contrabbandiere ci riempie la pipa di un po' di tabacco
tic
cristiano, nè ci assassina sul prezzo. È il contrabbandiere
te
soltanto che ristabilisce l'equilibrio tra l'ingordigia di chi vende e sa
e
la lesineria di chi compra. E ove mancasse ogni altro argomento di
sa
lode, la sola considerazione che la fa a fucilate col birro,' avrebbe di
ci
sempre un gran peso nel criterio del volgo, e l'ecciterebbe a
parteggiare per lui.' le
sc
Ed ecco una leggenda su codesto argomento. d(
ft
Nei tempi dei tempi sulle coste della Calabria viveva un
sc
Sant'Elmo, povero eremita, che abitava in una tetra caverna, e g:
fr
per sostentarsi andava attorno con le bisacce. Nessuno, neanco i più
poveri,
P
ricusavano al Santo la fetta del pane, o la scodella de la
minestra e finchè visse solo se la passava da papa. Ma Sant'Elmo
avea un fratello, con sette bambine come le canne dell'or g ano, e
sì povero... sì povero, che quando morì ebbero a seppellirlo con
la sola camicia. Fu giocoforza allora che il servo di Dio
accogliesse come proprie le sette bimbe del morto, e cercasse
vestirle e alimentarle a la meglio. A quel cangiamento di scena, la
gente, che solea essergli larga di elemosina, aggrinzò il naso
dicendo: Fossimo bestie! Dovremmo metterci sulle spalle anche le
nipoti di lui? Venga un'altra volta per la cerca, e gli si daranno
sassate e non pane.
Il povero Sant'Elmo si buttò in ginocchio, baciò i piedi del
Crocifisso, e con grandissimo pianto si diede a pregare.
—O Signore Iddio, è forse cosa giusta, che io sia punito per
un'azione virtuosa? Ed è forse giustizia che queste innocenti mi
periscano fra le mani?
E mentre così parlava gli comparve un uomo di statura
gigantesca, con in mano una lanterna che spandeva una luce
maravigliosa. Sant'Elmo cadde a terra dallo spavento, ma il gigante,
dandogli animo, gli disse amorevolmente:
— Non t'impaurire, o balordo. Io sono San Cristoforo, e a te
mi manda il Signore. Prendi questa lanterna, e con essa e per
essa saprai trarti dalla miseria.
—E chè volete che ne faccia? rispose Sant'Elmo in aria di
malcontento. Questa lanterna riempirà forse la pentola?
M'impasterà forse il pane? Mi darà una tonaca nuova o le gonnelle de
le mie

1 La voce birro pel volgo è generica, e comprende il giudice, il cancelliere, l'usciere, il


doganiere, il ricevitore, l'esattore, la guardia di polizia e via dicendo.
2 Non c'è un tipo leggendario di contrabbandiere, laddove i banditi più celebri
sono argomento di storie e di racconti. E la ragione parmi vederla in questo: che il
h
bandito ristabilisce, a senno del volgo, in certo modo le disu guaglianze sociali,d
perocchè ruba il ricco, e profonde sul povero; assassina il prepotente, e dota l'orfana,
laddove il contrabbandiere fa ribassare in certi tempi e in certo modo il prezzo dei tessuti
e dei generi coloniali.
bimbe? E quando per ristorarmi lo stomaco avrò bisogno
di due dita di vino lo succerò forse da la lanterna?
— O Elmo, rispose San Cristofaro, tu pensi con le
calcagna, nè vedi più in là de la barba. Mi chiedi chè cosa potrai
farne de la lanterna? Ascoltalo bene, e non fartelo scappare dalla
memoria.
Tu sai che quando la tempesta infuria fra questi scogli, e
la notte scende nera sul mare, i poveri contrabbandieri
s'ingegnono a sbarcare il lor carico: ma quante volte non
periscono fra gli scogli! Quante volte non son presi dai doganieri
che sorvegliano le coste! Tu con questa lanterna rischiarerai i
seni e le punte delle scogliere per trarre in salvo quegl'infelici. E ora
lamèntati, se tu sai!
E da quel giorno Sant'Elmo nelle notti più orride, quando il
fischio dei venti rispondeva all'urlo del mare, accendeva la
prodigiosa lanterna, saliva in cima a le rocce, e si riduceva alla
grotta con le bisacce gonfie di doni. E in tal modo ebbe l'agio di
maritar le nipoti, e divenne più santo di prima.'
Nè credano i miei lettori che la protezione del Santo sia
cessata, or che è morto da tanti anni e tanti secoli: chè alle
preghiere di chi l'invoca scende dal cielo con la lanterna accesa, e
salva le navi, che stan per rompersi fra le punte degli scogli
insidiosi.2
Or se il furto, secondo l'etica dei villani, è permesso in
taluni casi; se il contrabbando non fa una ruga su la coscienza; i
ripieghi, le vie coperte, i tranelli, le restrizioni mentali per
accoccarla altrui son la rivincita dell'astuzia sulla stupida
burbanza, l'unica forza del debole contro il soverchiatore potente.
Dacchè l'eguaglianza sociale fra gli uomini, pensa il villano, è ed
è stata un nome vuoto, senza soggetto, è necessità che i poveri
vivano sui ricchi, e i piccini sui grandi, e i deboli sopra i forti. È
il fatto perenne del verme entro il frutto, del bruco nel cavolo,
della formica che vive del frumento dell'aia, e via dicendo con
infinità di altri esempi. Il villano in quei tentativi non è più quel
goffo, quel gocciolone che vorrebbe far credersi; ma si ripiega come
un gomitolo, striscia come serpe, s'insinua come punta di ièsina,
entra per gli occhi e per le orecchie di chi ha desti-

' Narrato da Salvatore Sallemi, contadino di Vittoria. Vedi in fine la nota N.


2 In un quadro esistente in mia casa, con la data del 1742, c'è rappresen-
tato San Cristofaro col Bambino su le spalle, e in seconda vista S. Elmo, con
la lanterna accesa, che salva una barca in procinto di naufragarsi. Segno evi-
dente che la leggenda popolare era così comune, da costringere in certo modo
l'artista a riunire i due personaggi, l'uno dei quali è incontrastabilmente allegorico.
nato a sua preda. E dato il caso che qualcuno ne conosca
gl'intendimenti e li disapprovi, egli si caverà d'impiccio con una
delle sue parità: per esempio con questa:
Quando ci fu il diluvio universale Dio comandò a Noè di
metter nell'arca tutte le specie degli animali, maschio e
femmina per ogni specie, e tutti quanti i cibi appropriati al loro
diverso modo di vivere. Ora il primo giorno che Dio fe' la chiama
di tutte le bestie, una per una, per somministrare il cibo, udì una
vocina sottile, come se venisse articolata da un fil di capello:
—E a me, Patriarca santo, perchè non dai nulla? Non son
forse anch'io creaturina di Dio?
u
— Chi diavolo sei? domandò il Patriarca. si

— Sono il pidocchio. Tu dimenticasti salvarmi; e io e la mia P


li
compagna cercammo trarci in salvo, arrampicandoci sulla tua h
n
persona. n
—E ora dove sei? c
a
— Sono su la tua testa. cr
r
— Ti assicuro, o pidocchio, che non avevo inteso a parlare di I
te. E, dimmi un po', di chè vivi?
— Vivo di sudiciume.
1
— In tal caso, pidocchio mio, mettiti il cuore in pace, perchè
l'arca è novissima, e di sudiciume non ce n'è quanto potrebbe
volar via con un soffio. Ma io feci il danno, e io farò la penitenza, e
giacchè ti salvasti sulla mia testa, rèstaci alla buon'ora, e mangia
di quel che trovi.
E d'allora in poi il pidocchio visse e moltiplicò sulle teste
degli uomini. Or bene, noi villani, mi soggiungea il narratore,
siam diventati come il pidocchio. Il Signore si scordò di noi, e
noi dovremmo vivere a spese dei ricchi. E se i ricchi hanno il
pugno chiuso, tanto peggio per loro!... per aprirglielo il solo rimedio è
l'astuzia.'
Narrato da Paolo Spada, inteso Capizzòne, villano di Chiaramonte. Vedi in fine la
nota O.
VII

È, tempo di fiera. Lo zio Rocco, un cosaccío nero e peloso,


con un occhio scerpellato, furbo e bugiardo come uno zanni, dice
in cor suo: San Giorgio benedetto!' Se non m'ingegno or ch'è tempo
di fiera potrò cantare il labia me aperies.' Io non possiedo a questi
quarti di luna che due sceleratissime piaghe: una giumenta
stravecchia, che ha più vizii che peli, e una piastra falsa, che un
ladro di cavaliere mi appioppiò, e poi negò avermela data. Bisogna
che in questa fiera mi disfaccia dell'una e dell'altra.
Quella benedetta giumenta era davvero il Giobbe della sua
specie: era vecchia, bolsa morvosa, col falso quarto e non so con
quanti altri malanni; ma quindici giorni prima il furbo villano
aveva posta ogni cura ad ingrassare, a lisciare, a verniciare, a tirare a
pulito quella maledetta anticaglia. Le aveva segati i denti; le avea
rigonfiate di aria, mediante un'incisione, le enormi conche sugli
occhi; e un paio di ore prima, le aveva fatto inghiottire
un'anguilla viva, perchè non tossisse e non le sbattessero i fianchi;
le avea ficcate nelle nari due spugnettine per rattenerne lo scolo;
avea coperta di pece e tacche l'ugna col falso quarto, e strofinate
con foglie di euforbia le magre poppe per darla a credere pregna.
E quasi ciò fosse poco l'avea rifornita di basto nuovo, di cavezza
nuova, di ferri nuovi; le avea intrecciata la coda con cordella di
un . bel rosso fiammante; e insaponata, e strigliata ch'era una
bellezza a vederla.
Datosi principio a la fiera lo zio Rocco cominciò a sbirciare,
S. Giorgio è il protettore dei cavalli, S. Aloi, (o Eligio) dei muli, e San t'Erasmo
degli asini.
2 I villani pronunziano Labbramapéri, e intendono significare che han fame; anzi la
frase, divenuta sostantivo, significa fame.
a fiutar dapertutto, a fare studii fisionomici su centinaia di
persone, a indettarsi con questo o con quell'altro compare, talchè
avea l'apparenza di un doganiere o di un birro.
-Rocco, a chi intendi accoccarla? gli domandò un giovina -
stro. Bada: non sempre ride la moglie del ladro.
-E a chè cosa dovrei badare? Chi è minchione, suo danno.
La sola ricchezza del povero è l'astuzia; e se la ponessimo da canto,
potremmo legarci una pietra al collo. Noi siamo come
Giovannuzza.1 La sa Vossignoria la parità di Giovannuzza?
-No; e ti prego anzi contarmela.
-Dicono i nostri antichi che quando il Signore creò gli ani-
mali domandò a ciascuno di loro qual virtù preferisse, e
ciascuno preferì questa o quell'altra virtù. La volpe a furia di
morsi e di sotterfugi si era posta a capofila per esser la prima a
rispondere, e difatti il Signore le domandò:
-Comar Giovannuzza, tu chè cosa desideri?
E comar Giovannuzza rispose:
-Io desidero la forza, o Signore.
In quel punto il leone con un colpo di coda la balzò dieci
passi lontano, e poi disse:
-La forza tocca a me, perchè sono il leone.
La volpe si era novamente posta a capo fila, e il Signore le
domandò un'altra volta:
-Comar Giovannuzza, quale è la virtù che desideri?
-Dacchè non mi è toccata la forza, o Signore, datemi almeno
la sfacciataggine:
Ma in quel punto una mosca le volò sopra la testa, dicendo:
La sfacciataggine tocca a me, che sono la mosca. E il Signore
gliela concesse.
-Via, comar Giovannuzza, non affliggerti, le disse Domined -
dio, chè questa volta sarai proprio contenta. Dimmi chè cosa
pretendi?
-O Signore, rispose la volpe, son sicura che in questo porco
mondo sono gli sfacciati ed i forti quelli che ingrassano alla barba
degl'imbecilli e dei deboli; ma essendomi state rubate codeste doti,

i I nostri villani chiamano coi nomi dei Santi quasi tutti gli animali domestici, e
qualcuno che non è domestico. Il porco è Antonio, la gatta è Marcùccia, il bove è
Luca, il cavallo è Giorgio, il mulo è Aloi, il montone è Martino, il cane è Vito, la
volpe è comar Giovanna, o comar Giovannuzza, il lupo è Silvestro, e via dicendo.
datemi almeno l'astuzia, che se non mi farà viver da papa,
non mi farà crepare di fame. Favola significa: Voi cappelli avete
acchiappato la forza e la sfacciataggine, e a noi berretti è
rimasta l'astuzia per tirare innanzi la vita.
Lo zio Rocco mentre parlava col giovinastro avea sbirciato
con la coda dell'occhio un certo prete, biondo e rotondo come
una frittella di riso, con un faccione di uomo dabbene in cui gli
occhi cerulei, stupidi anzicchè no, e velati da occhiali verdi,
facean contrapposto a un becco di pappagallo, che gli serviva da
naso. Del resto chi voglia rappresentarselo intero gli metta in
mano una forcella, sul capo un cappellaccio di paglia, lo insacchi
tutto quanto entro un soprabito lungo, largo, intabaccato e pieno
di enormi tasche, gli tagli i calzoni al ginocchio, gli adorni le
scarpe con fibbioni di argento, e lo avrà netto e sputato.
Dimenticavo dirvi che era seduto sopra uno sporto de la via, e
chiacchierava con un villanzone, che tenea per la briglia un
bellissimo ciuco, vispo e gagliardo.
-Ecco qui il fatto mio, disse Rocco tra sè: Codesto prete dee
aver tanto cervello, da beccarselo un pulcino in un morso.
Gli si accosta adunque in aria graziosa, e, cavandosi il
berretto, gli dice a bruciapelo:
-Le bacio le mani. Vostra Riverenza vuol forse vendere
l'asino?
-No; vorrei soltanto cambiarlo con un'asina mansueta, o con
una cavalla non troppo giovine, perchè con gli anni che ho e con
le abitudini sedentarie quest'asino è troppo vivace per me.
-Voglio servirla io. Vostra Riverenza si fidi di Rocco, chè le
darò una giumenta, mansueta come l'agnello pasquale; una giu -
menta, privo di Dio!, che a scrutarla col lanternino non le
troverebbe il menomo vizio: bella di vista, sincera come l'oro, e
tale che in tutta quanta la fiera non potrà trovarne una simile. Ma
non devo occultarle che è pregna, la qual cosa non farà forse al fatto
di Vostra Riverenza.
-Oh quanto a questo ci ho più piacere che dispiacere. M'im-
pedirebbe per qualche mese di cavalcarla, e non ci sarebbe
altro danno. Ma dov'è codesta vostra giumenta?
-Eccola qui, dice trionfalmente il villano. Chè ne dice, eh?
Non sembra dipinta? La guardi un po' con l'occhio del cuore.

i Narrato da Giuseppe Terranova, inteso Furticciùni, villano di Chiara-monte.


Vedi in fine la nota P.
Una filza di bazzariòti si assiepa tra la giumenta ed il prete,
tal che in gran parte gl'interdicon la vista, e tutti fanno a gara a
lodarla. Il prete però, che, per dabben che fosse, non era già un
imbecille, si accorse non esser oro tutto quello che lucea, e stette
in sull'avvisato, e cominciò a notar questo o quell'altro difetto. E
allora lo zio Rocco giurando e sacramentando gridò incollerito:
— Cristo di pietà! Vostra Riverenza osa opporle difetti? Ma
l'anima non la stima? Ma la coscienza l'ha gittata dietro le
spalle? E Vostra Riverenza osa bever nel calice?
E quì chiamando Gesù Cristo e la Madonna or fra i
giuramenti, or fra le bestemmie, apriva la bocca de la giumenta,
ne sollevava la coda, con la mano aperta ne percoteva la pancia, e
invitava i villani a osservare se l'animale avesse difetti, e in chè
consistessero questi difetti. E i villani a gridare:
— Ma Vostra Riverenza s'inganna; ma la cavalla è sincera
come il pane: ma la cavalla potrebbe cavalcarla anche il papa!
— Sarà come voi dite, replicava il povero prete; ma quanto
ad esser pregna, farei cavarmi gli occhi, è impossibile che sia pregna.
Guardatele le mammelle!...
— Legga nel messale e non s'impacci di gravidanze, gridò Rocco
gittando lampi dall'occhio scerpellato. Eppure i preti se ne
intendono! E stringendo le poppe della povera bestia:
— Eterno diavolo! Potrà dire che queste non son poppe di
pregn a?
— Sarà come voi dite, ma vi prego di non bestemmiare. E poi...
e poi... che se io! ma i denti non mi paion sinceri.
— Oh i denti son di carta pesta! sciamò Rocco con feroce iro-
nia; ma poi accendendosi di bel nuovo, sclamò inviperito:
— I denti?... Ma questi son denti di nove anni e lo vedrebbero
anche le vostre scarpe. E difatti è per San Francesco che la giumenta
compie i nove anni.
In questa, il Dissossato, uno di quei compari, si frammischiò
improvvisamente dicendo:
— Cumpà Ro', la verità anzi tutto. La giumenta compie i dieci
anni per San Francesco. Non le occultate un anno, chè a me
gl'inganni non piacciono.
—E io vi dico, cumpà Pullò (Apollonio), che la memoria ve la
scordaste nel fiasco, e che la giumenta compie i nove anni.Compie i
dieci, e nessuno potrà dirlo meglio di me, chè sono stato io a
vendervela.
Qui succede fra i due compari un accapigliarsi a parole, e
poscia a frizzi mordenti, finchè il prete, credendo che facesser sul
serio, e interponendo la sua autorità:
— Nove, o dieci, non sarebbe il gran male, ma a me
sembra che ne abbia molti di più.
E qui i bazzarioti a giurar tutti quanti chi sull'abito santo,
chi per gli ordini santi del prete, chi pel santo rosario, chi per la
santa luce di Dio, chi per la santa bolla dei luoghi santi che la
giumenta non oltrepassava i dieci anni, e potea pigliarsela a
occhi chiusi. Il povero prete stordito, ramminchionito più
dell'ordinario, non sa più che cosa rispondere, e volgendosi al suo
garzone, che stava lì senza aprir bocca:
— Ti colga il malanno! Perchè non parli? Di un po': chè
cosa ti sembra di questa giumenta?
Michele il garzone, che avea capito a volo un pizzicotto di
Faccia di vecchia, uno di quei compari, rispose immediatamente:
— A me mi par buona... Ma il padrone siete voi.
— Ebbene: quando è così, cerchiamo venirne alla
conclusione. Voi, zu Ro', quanto mi date sul cambio?
Lo zio Rocco saltò tre palmi per aria, facendo una diecina
di croci sul volto e sulla pancia:
— Vostra Riverenza p retenderebbe anche un dippiù,
quando son io che devo pretenderlo? Madre di Dio! chè razza di
lèsine ci è a questo mondo! Io credo che se Dio l'accogliesse in
paradiso il sor Canonico vorrebbe pagato il viaggio.
— Eh via, cumpà Ro', proruppe in questa Ventun'ugna, un altro
di quei compari, non la stirate più a lungo. L'asino del
Reverendo ha tre anni, e vale quindici onze.
— L'ho comprato ventidue alla fiera di Buccheri, non
sono ancora tre mesi.
— Ve l'hanno accoccata, soggiunse il compare. L'asino val
quindici onze, nè un tarì di più, nè un tarì di meno. La giumenta
per quindici onze gliela strapperebber di mano: ma l'asino andrà
crescendo di prezzo, laddove la giumenta da qui a qualche anno
andrà sempre scemando. Una cosuccia, un regalo qualunque dovrete
darglielo.
— Neanco un pelo di barba. Se l'asino è più giovane, la giu -
menta è pregna, e vale per due.
— Non è cosa sicura, rispose lo Sfatto, un altro dei bazzarioti.
Può essere, e può non essere. Se la giumenta è pregna sarà la
sorte del Reverendo, se non è pregna, una cosuccia dovrete
dargliela. Voglio così, nè state più a replicare.
E lo Sfatto che si era posto ad arbitro della questione si fa dare
la piastra falsa dallo zio Rocco, la chiude questi per forza nel
pugno del prete, dicendogli:
— Cambio per cambio, e questa non passa. E badi, Sor Cano-
nico, che compar Rocco le consegna la giumenta come un
sacco d'ossa. Nè stia più a parlare.
Chè volete? Fu giocoforza che il dabben prete se ne
contentasse. Lo zio Rocco sostituì in un lampo gli arnesi delle
due bestie, e sparì con l'asino fra la ciurma, mentre Michele
portava al fondaco la giumenta: ma non andò guari che il prete,
dando un occhiata a la piastra, si avvide esser falsa: e, montato in
bizza, mosse a rumore la fiera perchè nè voleva nè intendeva
essere giuntato. Le fiere, chi nol sappia, sfuggono alle ordinarie
prescrizioni dei nostri codici sui contratti, essendo regolate da
consuetudini speciali; e prima e principale di tutte è quella di
non ricorrere ai magistrati ordinarii, ma scegliere un arbitro, che
abbia più larghe facoltà di derimere le questioni tra chi vende, e chi
compra.
Or questa volta di amore e di accordo fu scelto un vecchio
e onorato borgese l avvezzo a farla, da giudice, e stimato un
oracolo per l'equità delle sentenze, le quali, per un'altra
consuetudine, son sempre inappellabili.
Il giudice, i contendenti, i testimoni, i curiosi si assisero sui
gradini di una chiesa vicina. Il giudice si fece il segno della santa
croce, e invitò il prete ad esporre il suo richiamo, e, udito che l'ebbe:
— Ro', gli disse, perchè gli hai data una piastra falsa?
— Non ha dritto di richiamarsene, rispose pronto il villano.
Se la piastra gliela avessi data per buona, oh allora!... avrebbe
il dritto di chiamarmi furfante; ma io coscenziosamente glie l'ho
data per falsa, e glielo ho spiattellato sul muso. I testimoni son
quì, e possono comprovarlo. C'erano Tagliascuro, e lo Sconsacrato e Testa
1
I borgesi, fra noi, sono quei villani agiati che hanno terre in proprio, o le
conducono a fitto.
di galera, e Labbra di turco, e Brache lente, e Piscia gatti, e
Salta finestre, e Ruba santi e una ventina di altri.' Quando mio
compare lo Sfatto gli pose in mano la piastra, chè cosa gli ha
detto? Gli ha detto: E questa piastra non passa.
-È vero codesto? domandò l'arbitro ai testimoni.
- È vero come la messa, rispose la filza dei bazzarioti.
- E in tal caso perchè vostra Reverenza se ne lamenta?
, Mi lamento a buon diritto. Quando mi disse che la piastra
non passava, intendea dire che non dovea mettersi in conto, ed
era un dippiù sul cambio dell'asino.
-È certo che si può intendere nell'uno e nell'altro modo, rispose
sentenziosamente l'arbitro.
-Si deve intendere nel modo mio, replicò vivamente il prete; in
caso diverso, perchè dovea pormi in mano una piastra? Per qual
causa me l'avrebbe data? Ero forse un bambino per ispassarmene?
-Glie l'ho data per segno del cambio, rispose pronto il vil-
lano; perchè non eí fosse luogo a pentimenti, non perchè avesse
un valore. Avrei potuto dargli un chiodo, che sarebbe stata
l'identica cosa. Tale è stata ed è la consuetudine delle fiere, e mi
meraviglio come un sacerdote, che beve ogni mattina nel calice,
venga con siffatte soverchierie a scavarmi il terreno sotto i piedi.
Anima ne abbiamo una sola, nè la mia voglio darla al diavolo.
Il giudice chinò la testa per riflettere, poi sentenziò lentamente:
-Le ragioni esposte da Vostra Reverenza non son cattive,
ma quelle addotte da Rocco, e avvalorate dai testimoni mi
sembrano più convincenti. In nome dunque della Santissima Trinità,
Padre,Figliuolo e Spirito Santo, sentenzio che chi ne ha avuto ne
ha avuto, nè se ne parli più oltre.
Il prete, masticando veleno, determinò ritornare al paesello
natio, ma avea fatti i conti senza la giumenta, la quale tirata per
la briglia dal villanzone, ricalcitrava ad andare innanzi, e sparava
calci massicci; o quando le veniva fatto si avvoltolava fra la
polvere dello stradale. Quando poi il povero prete allargò le gambe
per cavalcarla, la mala bestia, non avvezza alla briglia, e mal
soffrendo le gambe del, che le ammaccavan la pancia, si diede a
correr di furisa, e poscia fermatasi di botto e chinando
improvvisamente la testa lanciò il cavaliere a dieci passi lontano.

i Nei nostri Comuni è difficile che i varii casati non abbiano un nomignolo,
tratto per lo più da difetti fisici o morali. I nomignoli che ho trascritti nel testo
appartengono realmente a casati contadineschi di Chiaramonte, Modica, Vittoria,

Spaccaforno, Comiso e Ragusa.


.
Pesto e ammaccato e sparso di polvere come un gladiatore,
con gli abiti lacerati e col tricorno sfondato, il Reverendo rinnegò
la pazienza, e giurò sull'ostia consacrata che gliela avrebbe fatta
vedere, parola di prete, gliela avrebbe fatto vedere a quel falsario, a
quel briccone, a quel filisteo, a quell'anima persa dello zio
Rocco. Ritornò dunque alla fiera, seguito da Michele e dalla
giumenta, e fece prete, che le ammaccavan la pancia, si diede a
correr di furia, e poscia fermatasi di botto ira di Dio perchè
ottenesse giustizia; ma insospettito del primo arbitro, nè volendo
farsi giuntare, volle e ottenne che se ne scegliesse un altro. E fu
scelto un massaro, vecchio di novant'anni, bianco e tremulo
come un raggio di luna, un vero patriarca, un'anima dei tempi
di Abramo trasmigrata, non so per qual caso, in un uomo dei
nostri tempi.
Questa volta il giudizio fu reso sotto un olmo. come ai
tempi di Romolo. Il prete, fattosi innanzi, tuonò perchè il
cambio fosse dichiarato nullo, essendo stato fraudolento, ed
essendoglisi giurato sul Crocifisso che la giumenta era senza un
vizio, laddove era una vera sentina di vizi.
— Egli è vero, o Rocco, che tu giurasti sul santissimo Croci-
fisso che la giumenta era priva di vizii?
— Sicuro, che l'ho giurato. Oh bella! Quando si vuol vendere
una mercanzia, se ne occultano a via di ciarle i difetti. Il
panniere non verrà a dirci sul muso: Comprate il mio panno, che è
più cotone che lana; l'argentiere non verrà a dirci: Comprate le
mie posate, che son più stagno che argento; il tavernaio si farebbe
castrare prima di dirci: Comprate, comprate il mio vino, che è
metà di vigna, e metà di fontana. Negozii non se ne farebbero
più. E voi stesso, Massaro mio, quando l'anno scorso vendeste il
frumento ai maltesi, avete forse detto che era svariato in gran
parte? Non avete all'opposto messa la parte avariata sotto la parte
più sana? Chi vende, loda; e chi sprezza, compra, lo sanno anche i
bimbi. Spetta dunque a chi compra il notarne i difetti.
— Questo è più che vero, disse l'arbitro, ma il giuramento falso
è un grave peccato. Ottavo: non fare falsa testimonianza; e tu
hai giurato sulle cinque piaghe santissime, che la giumenta non
aveva un sol vizio. Potevi asserire, non giurare il falso.Eh via, gnor
massaro, i vostri mi sembran gli scrupoli della goccia del latte.
Mio compare lo Sfatto gli ha detto: Badi, che le consegno la
giumenta come un sacco d'ossa, sicchè me ne son lavate le mani. No,
non ho giurato il falso, ma ho giurato con la restrizione mentale.
Primaddio, non sono uno scomunicato. Se gli stessi Santi spesso
giurarono in questo modo, come diamine non avrei potuto
giurar io, povero e ignorante villano?
Qui il prete gridò come un energumeno:
— Amalacita del diavolo! osi asserire che i Santi
giurarono il falso?
— Non ho detto che giurarono il falso, ma non dico
neanco che giurarono il vero. Così una via di mezzo; nè tutto
Marco, nè tutto Turco, come il romito di Lampedusa.' Senta un
po', Reverendo, che questa è storia che si trova nei libri.
Una volta San Francesco di Paola era perseguitato. e si
nascondeva qua e là per isfuggire alle persecuzioni dei bi r ri. Or
taluni birri, che nol conosceano, l'incontrarono un giorno e gli
dissero: Fratello mio, avete visto passar di qui San Francesco
di Paola? Il Santo, toccandosi la manica della tonaca, rispose di
botto:
— Di qui? Di qui non è passato nessuno. E intendea
dire che non era passato dalla sua manica. Un'altra volta, non so
più qual altro Santo, vide assassinare un uomo, e fu chiamato per
renderne testimonianza. Il Giudice gli domandò: Avete conosciuto
l'assassino? Il Santo l'avea conosciuto benissimo, ma disse tra sè
e sè, e disse bene: Il morto è morto; or bisogna salvare il vivo; e
poi rispose a voce alta : Non l'ho conosciuto!... ma si affrettò a
soggiungere tra sè : per un uomo onesto. In questa guisa una
porzione del suo pensiero la diceva al giudice, e una porzione a
sè stesso. L' assassino era corto e robusto; e il magistrato
domandò al Santo: Ditemi, qual era la sua statura? E il santo al
solito suo rispose a voce alta : Era lungo e sottile..., e poi tra sè: il
coltello con chè l'uccise. E con

I Quando nelle fiere il venditore dice al compratore: Vi lu cunzignu come un


saccu d'ossa, il compratore non può rescindere la compra per qualsivoglia difetto
che trovi nell'animale.
2 Frase proverbiale in Sicilia. In Lampedusa abitava un eremita, il quale portava
uno scapolare a due facce; nell'una c'era dipinto il Crocifisso, e lo porgeva al bacio dei
cristiani; nell'altra c'era dipinto Maometto, e l'offriva all'adorazione dei turchi, che
sbarcavan nell'isola.
questo mezzo salvò capra e cavoli, cioè la coscienza sua, e la vita
dell'assassino.'
— Eh!... Eh!... Eh!... rispose il Patriarca, la cosa muta d'aspetto.
Non ci fu giuramento falso nell'intenzione; ma Vostra Riverenza
mi dica : Nel contratto si è riserbata la vista, o pur no? 2
— No, non ho pensato a codesto. Avevo la testa come un ce -
stone, perchè tutti parlavano insieme, nè me n'è venuto il sospetto.
—E se Vostra Riverenza non si è riserbata la vista, mi duole
dirlo, il contratto non può rescindersi, neanco se le avessero
data una giumenta di carta pesta.
In nome della Santissima Trinità, Padre Figliuolo e Spirito Santo,
sentenzio adunque che il contratto è valido secondo la
consuetudine delle fiere.

Narrato da Paolo Spada, inteso Capizzone, contadino di Chiaramonte, Vedi in


fine la nota Q.
La dottrina della restrizione mentale è diffusa nel nostro volgo più che non
sarebbe opportuno; e alla casistica dei gesuiti la plebe ha aggiunto del proprio vagii
casi speciali, attribuendoli, ed è una vera sconcezza, a taluni Santi, insigni per sacrifizj, e
per amore alla Verità.
2 Riserbarsi la vista, cioè sperimentare se l'animale abbia difetti o no, è formula di chi
compra, e gli dà la facoltà di rescinder il contratto.
VIII
Del resto codesto sottile ingegnarsi per abbindolare un cappello
pel villano è una semi necessità derivata dalle strettezze e dagli
esempi domestici; nè Dio, amo credere, vorrà tenerne conto severo. Il
sistema educativo che vige fra i villani può riassumersi dalla parte
del padre in iscarsezza di pane, e in abbondanza di calci; e dalla
parte della madre in imprecazioni si vive, si feroci, si
abbominevoli da far rizzare i capelli sul capo. Ciò per altro dai
quattro ai setti anni, perchè dai sette in poi il pane dovrà
procacciarselo il fanciullino, e le pugna si convertono in fierissime
busse col capestro dell'asino.

E se qualcuno il rimproveri per quella sua crudeltà bestialis -


sima, il villano risponderà col proverbio, che l'albero, può
raddrizzarsi quando è giovane, o verrà fuori con questa storia,
nella quale il protagonista è quel San Cristofaro, rappresentato
dalla fantasia popolare come una specie di Micromegas.

Il padre di San Cristofaro era un villano, come ce ne sono tanti


nel mondo;' ma a rovescio di tutti gli altri villani, che
ammazzano i figli a legnate, egli accarezzava il suo e lo compiaceva in
ogni me-
i L'illustre e gentilissimo amico Tommaso Cannizzaro mi mandò, richie stone, da
Messina una storia di S. Cristofaro, in ottava rima siciliana, recitata dal cieco
Litterio Corso. È similissima nel contesto a quella in prosa raccolta da me in
Chiaramonte, se non chè nella leggenda messinese Cristofaro era no bile e ricco,
e nella chiaramontana è povero ed è villano. Ecco i primi versi della leggenda di
Messina:

Cristofulu, fratelli, m'ascultati,


Figghiuolu, di la casa si n'annàu.
Era figghiu di grandi nubiltati.
Vi spiecu, in campagna si jttàu.
Micidii ni fici 'nquantitati.
E sempri cosi tinti opirau etc.
noma voglia; ma, a dirla com'è, in quel suo sviscerato amore
entrava ìn gran parte la paura, destàtagli da quella statura
gigantesca, da quella terribile forza e da quegli occhi fulminanti
da figlio. San Cristofaro adunque, accarezzato e temuto, si
piaceva a scialarsela, a sbevezzare nelle taverne, a slanciar pugni
e calci, che schiacciavano come ova i cristiani, sicchè a breve
andare era schivato come la peste. Un giorno il padre gli disse:
— Fammi la carità, figliuol mio, vieni nel bosco con me, perchè
son vecchiarello e le forze non mi bastano più per maneggiare
l'accetta.
E San Cristofaro, che quel giorno era di buon umore, andò al
bosco col padre; ma in mezzo ad una infinità di alberi, dritti
come fusi, vedendone uno tutto contorto e spinoso, ne restò
maravigliato e disse al padre:
— Ditemi un po', perchè quell'albero è così torto?
— È così torto, perchè non fu raddrizzato da giovane, rispose
il padre sospirando.
San Cristofaro sí diede a riflettere amaramente, con la testa chi-
nata, e riandò nella memoria le tante iniquità commesse, i tanti
scandali che avea dato alle genti. e come invece di divenire
l'amore del suo paese, ne era diventato l'obbrobrio. Pensa, pensa,
78 pensa: final-
mente proruppe in queste amare parole:
— Guai a voi, iniquissimo padre, che potevate raddrizzarmi, e
mi avete fatto venire su come quell'albero!. Guai a voi, che mi
avete indotto ad o g ni malva g ità con la vostra maledetta
condiscendenza! Guai a voi, che mì avete aperto l'inferno!...
E in così dire gli mena in testa un colpo di scure.
Poscia il parracida fuggì, e pentito dell'atrocissimo fatto, andò in
cerca di un eremita, rendendosi in colpa, e bramando un'aspris -
sima penitenza. E il santo eremita gli disse:
— Tu sei stato collerico, ed ora sarai pazientissimo; sei stato
ladro, e ora rifiuterai il compenso delle tue fatiche; hai scannate
le genti, ed ora cercherai salvare le genti. Va ed abbi ìn mente, che
non sarai perdonato se non avrai veduto Gesù Cristo a cercarti.
E San Cristofaro fabbricò un pagliaio in riva al fiume Giordano; e,
facendo il mestiere di marangone, salvava i transitanti, che eran
lì lì per annegare; e non solo rifiutava ogni mercede, ma non
volea neanco un ringraziamento.
Or un giorno, essendo più stanco ed affaticato del solito, intesela
voce piagnucolosa di un bimbo:
— O Cristoforo, piglimi un po' su le spalle.
Intese la voce, ma non vide il bambino. Corse alla riva
donde era partita quella vocina, ma non vide nessuno; ed ecco
che la voce si fa udire dalla riva opposta:
— O Cristofaro, perchè non vieni a pigliarmi?
Il Santo, senza irritarsi, ritorna un' altra volta; ma
arrivato li, ode la vocina da un punto lontano:
— O Cristoforo, non senti tu la chiamata?
Pieno di pazienza sino alle unghie dei piedi, il povero Santo
va e viene come una spola, tanto, che sciupò due o tre ore di
tempo. Finalmente, come Dio volle, vide un bimbo che portava
una palla, sormontata da una crocina.
— Ah, figliol mio, gli disse pazientemente, chè capriccio è
stato il tuo di nasconderti?
E se lo caricò sulle enormi spalle per tragettarlo; ma
pergiunto in mezzo al fiume il bambino diventò di un peso, così
opprimente, che il povero Santo non potè più movere un passo,
e affondò sino ai ginocchi nel letto del fiume, mentre il bastone
prendea radici e diventava un albero pieno di frondi e di frutti.
Stanco, anelante, maravigliato, con gli occhi sbarrati, col petto
come un mantice, potè solamente sciamare:
— Ah bambino mio, tu pesi quanto il mondo!
E il Bambino rispose:
Giustu dicisti Cristòfulu santu,
Ca puorti a Cristu ccu tuttu lu munnu.
San Cristofaro allora si avvide essere stato visitato da Gesù
Cristo in persona, e in quel suo bastone ricurvo, divenuto
improvvisamente albero dritto e fruttifero, vide il perdono delle sue
colpe.
Or dunque, o Signore, proseguì il villano, che mi avea
narrata la storia di San Cristoforo, questa storia ci ammaestra
che i figlioli dovranno domarsi a nerbate. se no i primi a risentirne
i guai saranno il padre e la madre; e ci avverte benanco che noi
poveri villani dovremo avere la pazienza di San Cristoforo, se
vogliamo sentire la chiamata divina.
i Narrato da Luciano Di Cunta, contadino di Chiaramonte. Vedi infine la nota
R.
IX
Il fanciullo, intento unicamente a procacciarsi il pane, non
può vagliare il grano dal loglio; o, per parlar senza metafora, non
può fare una retta distinzione tra mezzi leciti e illeciti, ma ne fa un
tristo guazzabuglio, una di quelle pietanze tedesche nelle quali lo
zucchero è mescolato col lardo e l'aglio con la cannella. Ora in
quel misero guazzabuglio l'idea del mio e del tuo è modificata
dal timore, non dalla sanzione morale. Il fanciullo, quando tocca
i quattro anni, va in campagna col padre, e, non potendo altro, gli
custodisce la roba, cioè la giucca, la sacchina col pane, la scodella,
il barilotto e un paio di larghe bisacce, che, durante la notte, gli
rendono ufficio di materassa o di coltre. Il bimbo non avendo
altro da fare, mena l'asino al beveratoio cinque, sei, sette volte
ogni giorno; e si scalmana a buttar pietre sugli alberi per
ispiccarne qualche frutto immaturo. Un paio di volte la settimana
il padre, in sull'imbrunire, carica l'asino di due grosse fascine, vi
pone a cavalcioni il figliuolo e gli ordina di scaricarlo a casa e
tornare. Nè al villano fa una grinza il timore che il bambino possa
esser buttato a terra e calpestato dall'asino, perchè
i figli del povero non devono crescere sulla bambagia, e poi
alla fin fine il mal governato è Dio che lo governa; nè gli reca molestia
il sospetto, che possa smarrir la via, perchè se non la sa il bimbo,
la sa lo asino, dice il padre, e dice il Vangelo.
I cani e i bimbi del villano crescono con la fame, tanto che
sembra cucita con loro; ma il cane non parla, o fisa
malinconicamente il padrone. Il figlio, all'opposto strilla, e
quando non ne può più per istanchezza di voce, acconcia la
mano a cucchiaio, agitandola, come un pendolo, innanzi a la
bocca, che apre e chiude velocemente: pantomina
significantissima per indicare che ha fame. Il padre lo guarda
bieco, e gli grida:— Lascia le smorfie, o ti stampo in faccia i dieci
comandamenti di Dio. Mi credi forse un fornaio? Nol sai che il
pane dovrà bastarci per la settimana? Màstica erbe o cerca
d'ingegnarti alla meglio.
E il bambino s'ingegna quando ci è campi di fave, e frutti
sugli alberi, e i grappoli da verdognoli cominciano ad
arrubinarsi; ma quando non c'è nulla di nulla; quando si è in
inverno fitto, quando gli battono i denti in nota di cicogna, il
bambino tenta ingraziarsi il padrone o il castaldo o il campiere
del predio, i quali lo fan ballare e saltare e cantare e per lo più
Pubbriacano. E il piccino non cape nella pelle dall'allegrezza, e ha
per fermo che la felicità vera del mondo consista nel leccare quel
residuo di minestra, o nello spolparsi quell'osso. Cresciuto
adunque con la persuasione, che per farsi un po' di largo nel
mondo la piaggeria e la furberia son le due Fate, che dovran
reggerlo per le mani, con l'età e con l'esperienza va perfe -
zionando il sistema, ma ha la rara accortezza di fermarsi a quel
precisissimo punto, ove la galera si rasenta senza toccarla.
Ora pel villano il tipo più ingegnoso del furbo e del
piaggiatore è l'apostolo San Pietro, cui la fantasia popolare, con
manifesta ingiustizia, ha data una bizzarra fama di ghiotto, di
raggiratore buffonesco e di brontolone maligno. Qui le leggende
son molte, e molte ne raccolse il Pitrè; ma ne trascelgo una sola,
che stimo inedita, e che si attaglia al nostro argomento.
Eccovela calda calda.
Un giorno Gesù Cristo disse a San Pietro: Va al mare, e
pèscami un pesce.
Pietro andò al mare, tirò la rete, e pescò un pesce sì grosso,
che quasi non capia nella gerla. Si volge Gesù Cristo e gli dice:
— Pietro, va a Gerusalemme, e a nome mio porta questo pesce
alla mia santissima Madre.
San Pietro atteggiò la faccia ad una filza di smorfie, e
cominciò a borbottare fra i denti:-Che bella vita! Nudi e
affamati!... e quando c'è la provvidenza dovrem torcela dalla
bocca!-Ebbene: chè cosa hai che borbotti?Ho, Maestro, che qui
siam dodici apostoli, ed è una vergogna a vederci, nudi, scalzi e
con la pelle sull'ossa. Or non sarebbe più giusto che questo pesce
ce lo mangiassimo noi, e alla vostra santissima Madre se ne
mandasse una fetta?
— Il Maestro rispose severamente:
— Pietro, ubbidiscimi, o ti tolgo le chiavi.
San Pietro mise nell'una mano le scarpe vecchie, nell'altra
mano la gerla col pesce, e via per Gerusalemme: ma e pel
cammino e pel caldo era stimolato talmente dalla sete e dalla
fame, che proprio non poteva più reggere. Arriva, come Dio volle,
in Gerusalemme, e per prima cosa vede innanzi l'uscio della
bettola il tavernaio: ed essendo giorno di magro, stava ad aspettare
il pesce, e il pesce non era ancora venuto.
Il tavernaio, adocchiando quel pesce maraviglioso, ebbe un
sussulto di gioia, e disse di botto a San Pietro:
— Pietro, quanto ne vuoi?
— Non lo vendo, rispose l'Apostolo; ma ho l'ordine del
Maestro di cambiarlo con vino.
— Ebbene: entra nella taverna, e cercheremo d'intenderci.
— Sia pure, purchè il vino mi piaccia.
Il tavernaio glie ne reca un bicchiere; e San Pietro lo pone
al raggio del sole, l'agita, ne osserva la schiuma e se ne mette
qualche gòcciolo in bocca.
 Chè te ne pare, eh? Vino più sincero di questo nè tu, nè
il tuo Maestro ne avete bevuto finora.
— Che vuoi farci? Io non sono come gli altri bevitori, e
non conosco il vino a digiuno.
E il tavernaio, avido di avere quel pesce, gli recò un
mezzo pane, e un residuo d'intingolo. L'apostolo mangiò e bevve
senza dir nulla, ma, ingoiato l'ultimo sorso, finse di sputacchiare, e
disse con ira:
— Non ne facciam nulla. Non mi hai dato vino, ma sugo
di liquirizia.
— Forca, ti conosco! gridò il tavernaio coi pugni stretti.
E San Pietro ridendo sotto i barbigi, gridò più forte di
quell'altro:
 Perchè ti lamenti? Non ho posto la condizione che il
vino avesse a piacermi? Ebbene: non mi è piaciuto. Ci trovi forse a
ridire?
e come canzonò quel tavernaio, ne canzonò altri tre o altri
quattro, tanto che già parlava col naso, e si cacciava dal
volto una mosca che non esisteva. E fu allora, allora
soltanto, che portò il pesce alla Madonna santissima.'
È curioso che il nostro villano creda più al soprannaturale
che
1 Narrato da Giuseppe Cuddèmi, contadino di Modica. Vedi in fine la nota
S.
al naturale; nè c'è leggenda così spropositata che gli susciti
un dubbio: tanto, che, per dirla con un bisticcio, il credibile è
per lui l'incredibile.
Ma quanto alla bontà degli ordinamenti sociali, quanto alla virtù
collettiva, quanto all'amor per la patria, e, peggio, all'amore per
l'umanità, quanto al sacrifizio, alla buona fede, alla giustizia
umana, è peggio di un nihilista, e non ne crede una buccia.
Crede però all'interesse, e lo stima (nè a torto) la molla segreta o
palese di ogni azione dell'uomo; e va tanto in là, che ritiene ogni
legge esser fatta per danno del povero e per vantaggio del ricco.
Oh quanto a questo è di uno scetticismo sì ritroso, sì ferreo, che
nessuna argomentazione varrebbe a scuoterne la credenza. Ha
sempre sulla lingua una sentenza favorita: Io? Io sono come
San Tommaso: se non vedo, non credo. E quando in nessuno
modo può discredere all'evidenza di taluni provvedimenti intesi a
migliorare le condizioni del povero, sta alla larga e in sospetto, ed
ama ripetere un'altra favorita sentenza : Sette grana sessant'onze?
C'è imbroglio, disse il maltese.' Difatti si aprono scuole per
educargli i figliuoli? Marameo! chi sa chè birbarìa c'è na -
scosta. Si nettan le strade? La abbiamo intesa: c'è il colèra
per aria!' S'inaugura un asilo infantile? Vorrebbero guastarci i
figliuoli! E se qualcuno insiste a renderlo persuaso, il villano
per troncare ogni discussione, ricorre ad una delle sue solite storie.
C' era una volta un villano; e codesto villano aveva
commesso uno scelerato delitto, tal chè non c'era confessore che
volesse o potesse assolverlo. Va a piedi dal parroco. Nulla. Va a
piedi dal Vescovo. Nulla. Va a Roma dal papa e il papa lo
assolve, perchè il papa è Dio in terra; ma gli dà la penitenza di
percorrere il mondo finchè trovi un ricco, che, senza secondo
fine, sia veramente caritatevole coi poverelli di Dio.
Al villano parve quella penitenza una leggerissima cosa, e
si diede a picchiar all'uscio dei ricchi: ma, i ricchi! Chi gli diceva
di non poter nulla per lui, chè il faceva discacciare dai servi, chi gli
i È modo proverbiale di tutta Sicilia. Un maltese avendo inteso che in Sicilia
ci era un gioco (il lotto), il quale con soli sette grani (15 Centesimi di lira) potea dare
un guadagno di sessant'onze (lire 765), sclamò: Sette grana sessant'onze? C'è imbroglio.
2 In Modica la plebe crede fermamente che gli avvelenatori (mezza Sicilia crede
tuttora al veleno) non possano esercitare la loro esecrabile arte, quando le vie son
coperte di immondezze; ma perchè il Colera appigli è uopo della nettezza delle strade.
lanciava il mastino, chi il rimbrottava di quella vita di
vagabondo; e se qualcuno gli buttava una monetuola, non gliela
buttava per compassione, ma per fastidio o per fasto. Vivendo in
tal modo, i giorni di magro eran più dei giorni di grasso, e si
ridusse a tale che cadea dalla fame. Un giorno pensò:
-Oh lo bestia che sono! Perchè non vo da q uei frati che son
tanti ricchi, e che ogni mezzogiorno distribuiscono ai
poveri la minestra?
E va al convento, e dice al guardiano:
-Muoio dalla fame! Datemi una boccata di pane.
-Torna a mezzogiorno, che avrai la minestra, gli risponde il
guardiano.
-Ma da qui a mezzogiorno avran l'agio di sotterrarmi.
-Mi dispiace, ma non ho da farti. Il nostro Instituto vuol che
l'elemosina sia pubblica, e si distribuisca a mezzogiorno preciso.
-Questa non è carità sincera, prorompe indignato il villano, è
carità di apparenza. Il papa avea pur troppo ragione!
E picchiò al portone di un grandioso palazzo, tutto oro e
marmi preziosi. Or una figlioletta di quel Signore, essendo testè
uscita in compagnia della cameriera, stava per essere calpestata
da un mulo che correva a rotta di collo. Il villano la prende in braccio
e la salva.
Allora Sua Eccellenza il padrone lo prende ai suoi servizi, e
gli dà un largo salario e lo tratta più da amico che da servitore;
ma un giorno il villano casca da una scala, e si rompe una gamba; e
Sua Eccellenza il padrone lo manda a spasso.
-Questa non è carità, è ingratitudine marcia, disse il povero
sciancato, e quasi quasi disperò di trovar un sol ricco
sinceramente caritatevole. Ma... chi cerca trova, dice il
proverbio, e la speranza è l'ultima che si perde.
Il villano, non ve l'ho detto?... il villano avea moglie, ed
era bella come una Fata. Ei le manda dunque una bella lettera
perchè venga ad assisterlo nella malattia; e la moglie venne, e
parve a tutti una faccia di sole. Uscito che il villano fu
dall'ospedale ebbe visite, e contrasegni di amicizia e questo e
quell'altro regaletto perfino da sconosciuti. Un signore dei più
ricchi di quel paese lo volle ai servizi insieme alla moglie, e li
trattava da padre, non da padrone; ma un giorno la moglie disse al
marito:
-Usciamo da questa, casa, perchè il padrone ha mala inten-
zione su di me, nè io voglio offendere Dio.
— Questa è carità pelosa, disse il villano; non è la carità
sincera che avrei dovuto trovare.
E tornò nuovamente dal papa, e gli s'inginocchiò dinnanzi,
pregandolo di commutargli la penitenza, dacchè trovare un ricco
che aiuti sinceramente il povero, varrebbe lo stesso, che cercare
un asino che volasse.'
Or di codesti sospetti contro i cappelli (è con tal nome che
i berretti, cioè i villani, indicano la borghesia grassa e minuta) ne
ha un centinaio, a dir poco, congegnati a proverbi, e impregnati
tutti di feroce ironia o di rassegnata amarezza, come: La forca è fatta
pel povero; — Pel povero non c'è giustizia; — Pel povero non c'è
compassione; — Il povero non è creduto; — Tutti i difetti gli ha il
povero; — Al povero, chi glie ne fa poche, se ne pente; — Quando il
ricco accarezza il povero è segno che vuole ingannarlo; — Siamo come
le spighe: ci mangiano e ci calpestano; — Siamo come gli asini dei
gessai: guidaleschi e nerbate; — I lupi non si mangian fra loro; — I
cenci van per l'aria; — Siamo minchioni perchè non abbiamo
danaro; ed altri ed altri, da non finirla sì presti.
Or se non tutti, egli è certo che una porzione di essi
proverbi servono come di sostrato ad una leggenda, ad una parità,
ad una fiaba e anche a un semplice aneddoto. E ignoro se dalla
generalità astratta del proverbio siasi passato alla specialità dei
fatti, o se questi, condensandosi nel solo ammaestramento morale,
abbian data vita al proverbio. Sia come vuolsi; ma i racconti e gli
apologhi in siffatto genere son copiosi: e qui potrei recarne non
pochi, ma sto pago ad una parità sola, come quella che non
prende di mira questa o quell'altra infrazione della giustizia
umana, ma la riguarda in astratto.
Quando il Signore Iddio benedetto venne a patire nel
mondo portò con lui la Giustizia, perchè mettesse la pace e la
concordia fra gli uomini. La Giustizia dava udienza a tutti,
respingeva le raccomandazioni, rifiutava i regali, e, cosa che sa
di favola!... per lei valeva tanto chi misurava il danaro a staio, e
chi mendicava una crosta. È da sapersi però che aveva il costume
di ascoltare i ricchi con l'orecchia destra, che dicono esser
l'orecchia dell'intelletto, e i poveri con l'orecchia sinistra, che è
l'orecchia del cuore. Or quando ella dava udienza era visibile a
tutti, ma quando non dava udienza stava rin-
Narrato da Giuseppa Bianchetto, serva, da Ragusa Inferiore. Vedi in fine la nota
T.
chiusa in una torre di bronzo, munita di sette porte, che
non potevano esser disserrate da alcuna chiave nel mondo.
I diavoli, essendosi accorti che le anime che cadevano
nell'inferno di più in più divenivano rade, tenner consiglio fra
loro, dicendo: Se la dura così potremo chiuder l'inferno. Dunque
pronti al rimedio. E il rimedio trovato fu di congegnare una
bellissima chiave d'oro che avesse la virtù di aprire le sette
porte di bronzo. Appena adunque ebber fatta la chiave, la
consegnarono agli Scribi e ai Farisei, dicendo:
— Con questa chiave potrete aprire le sette porte; ma aprir le
porte non basta. t uopo che la Giustizia cambi di nome, e si chiami
da ora innanzi Ingiustizia. Provate i mezzi più acconci, o siete le
più goffe bestie del mondo.
Gli Scribi e i Farisei ne fecero festa maravigliosa, e senza
perder tempo, mediante la chiave d'oro, aprirono le sette porte di
bronzo. Fruga, rifruga, trovaron finalmente la Giustizia, che si era
un po' appisolata. E senza darle agio di ridestarsi le conficcarono un
chiodo nell'orecchia sinistra, quella con chè ascoltava le
lamentanze dei poveri. La povera Giustizia, senza colpa sua,
divenne sorda di quell'orecchio; e da quel momento in poi non
potendo ascoltare le ragioni dei berretti, la dà sempre vinta ai
cappelli.
iNarrato da maestro Gaetano Roccasalva, scarpaio da Modica. Vedi in fine la
nota U,
X

Il padre Ventura, lodando la politica cristiana di O'


Connell, la deffinì col famoso bisticcio di ubbidienza attiva e di
resistenza passiva; ma se i nostri villani non hanno inventata la
formola, l'hanno però messa in pratica molto tempo prima di O'
Connell, e del padre Ventura. Dacchè si furono resi accorti che la
giustizia, come ogni altra cosa del mondo, agita l'incensiere
innanzi a Mammona era facil cosa che provvedessero ai casi loro,
dicendo:
— Domine, falli tristi! Se non ci aiutiamo fra noi, chi diavolo
vorrà mettere un dito a nostro favore? Noi non abbiam danaro: e
il danaro è la sola merce del mondo, che fermi in aria la mano
sollevata a colpirci, o tappi la bocca, che sta per aprirsi
all'accusa. Noi non abbiamo dottrina : e senza dottrina chi
diamine potrebbe far credere agli ignoranti che il carbone sia neve, e
che il coniglio sia lupo?
Noi siamo senza occhi (e con questa figura il villano indica
che non sa leggere): e senza occhi è facilissima cosa che in quei
maledetti verbali, in quegli iniqui processi, in quegli interrogatorii
a foggia di trappola ci dipingano come diavoli, o c'impastoino
come muli selvatici. Domine, falli tristi! Vediamo dunque di
unirci per nostro vantaggio comune. Una mano lava l'altra, dice il
nostro proverbio, e il mutuo grattarsi dei ciuchi è stato, ed è
considerato come il simbolo della carità fraterna. Ingegniamoci di
non offrire ai maledetti cappelli i mezzi e gli elementi per nuocerci;
nè si trovi fra noi un Giuda, che accusi il compagno o gli renda
testimonianza contraria. Occhi e orecchi aperti, ma bocca chiusa
coi setti suggelli dell'Apocalissi.
Or questa solidarietà o consorteria o camorra (chiamatela
come volete) non riguarda le contese da villano a villano, che quanto a
ciò ciascheduno di loro ha carta bianca per darsi del ladro, del
cornuto, dei falsario, e di ogni altra ingiuria più ribalda, o di rompersi
l'ossa a colpi di falce e di zappa; ma riguarda esclusivamente i modi
di sfuggire alle unghie della giustizia, penale o civile che sia, nelle
contese coi maledetti cappelli; e di farla in barba alle ammende,
alle spese processuali, e alle sentenze esecutive di qualsiasi genere.
Or tutti codesti mezzi, sebbene con varietà pressocchè infinite, si
riducono a questo solo: di tenere a freno la lingua, memori del
proverbio, che

Parràri picca, e vèstiri di pannu Mai nun ha fattu dannu.

Ma restar muti è impossibile, nè il permetterebbero i magistrati.


Costretti dunque a scioglier la lingua, lo fanno in modo da
arruffare i fatti in tal guisa, che il giudice non ci trovi più nè capo
nè coda, precisamente come colui che smorzi la candela,
fingendo di smoccolarla.
Una volta il Parlare e il Mangiare si azzuffaron fra loro, e se
ne dieder di quelle che fan levare le berze, perchè l'uno e l'altro
erano stati condannati a stare insieme in una sola casuccia, come
88
due galeotti incatenati ad una stessa catena. Diamine!... dicevano
fra loro. Chè stramberia è stata questa! Il Signore Iddio ha fatto
due casucce per la sola Vista; due grotte pel solo Udito; e due
mulini a vento pel solo Olfatto. E ha fatte due gambe, e due
braccia, e due sopraciglia, e due fauci, e due mani, e due piedi... e
due mammelle... e due emisferi settentrionali... e poi quando si
trattò di fare l'abitazioncella per ciascun di noi, volle fare
economia, e ci tappò tutte due in una stessissima casa. Avvenne
adunque che non volendo o non potendo più stare insieme
ricorsero a Re Salamone, perchè sentenziasse chi dei due avesse a
restare, e chi sgombrar dalla bocca.
— Spetta a me, disse il Mangiare, perchè l'uomo senza di me
non potrebbe sussistere, laddove non c'è bisogno della parola per
campare quanto Noè.
— E tu chè cosa rispondi? Disse Salamone al Parlare.
— Io dico che senza di me l'uomo sarebbe simile alle bestie,
perchè son io che lo distinguo dallo scarafaggio e dal porco; nè
senza di me avrebbe or ora il mio nemico potuto difendere la sua
causa. Per mangiare mangiano tutti, anche il pidocchio, ma per
parlare, è l'uomo soltanto che parla.
E il Re sentenziò:
— Ciascuno di voi ha ragione, e farò in modo che rimanghiate
paghi senza dividervi, perchè a dividervi anderei contro la sapienza
di Dio. Tu, o Parlare, d'ora innanzi dominerai sul tuo
compagno nella bocca del ricco, perchè il ricco, che non ha da far
nulla, ed ha ogni bene di Dio, come diavolo potrebbe ammazzare
il tempo, se non fosse intento a ciarlare, e a scucire i panni alle
genti? Ma invece starai rannicchiato in bocca del povero, perchè
il parlar soverchio lo porterebbe a mina.' E tu, o Mangiare,
studio costante e unica occupazione del povero, sarai sempre il
benvenuto nella sua bocca,
e ti si adorerà come un idolo.2
È un bel giorno di Maggio, e sentesi alitare quel fresco alito
della vita, che si svolge dai fiori, dagli alberi, dall'acque, dalla
voluttuosa fecondità dell'aria, della luce e della campagna. Neghi
chi può il magnetismo! Il trovarsi in mezzo ai fiori e alle fronde,
in mezzo alle acque, all'ombre e alla luce, rapisce a loro insaputa i
villani, che, sparsi pei poggi e per le pianure, intenti a mieter
fieno o a zappare, si dànno a cantare quelle loro canzoni di amore,
inimitabili di soavità
e di freschezza. E a quel canto sembra rispondere
un'armonica confusione di belati, di muggiti, di ragli, di
cinguettii di ogni specie, che prorompono come inni di amore; e
sembra rispondere il mesto susurro degli alberi, che, scossi dal
vento, ti fan riverenze con gravità castigliana, e ti dicono nel loro
linguaggio: Eh, signor mio, volete una màndorla, o una pera
moscadella, o una nèspola del Giappone?
Una diecina di agricoltori, seduti sotto un carrubo, sono
occupati a sbocconcellare grosse fette di pane, accompagnate da
qualche oliva in salmoia, e inaffiate da larghi sorsi di vino. I
figlioletti stanno fra le gambe del padre a rosicchiar croste, dure come
pietre focaie,
e i cani (ogni contadino ha il suo cane) acculacciati, con la
testa eretta, con gli occhi immobilmente fissi guardano silenziosi i
padroni,
e agitano intorno le code. Di quando in quando qualcuno
di quei contadini butta una pillola di crosta al suo cane, e il cane
l'imbocca a volo, non cessando dal fissare il padrone con quello
sguardo lungo
e accorato, che potrebbe tradursi: Anch'io son creatura di
Dio. Perchè mi lasci basire di fame?
I villani mangiano con singolare lentezza, quasi si
apprestassero alla celebrazione di un rito; ma i fanciulli al
contrario divoran le croste, quasi senza masticarle, sperando
acciuffarne delle altre; e i cani stan lì a raccoglier le molliche
cadute.
' Lu parrari assai minti siti. Proverbio.
2 Narrato da Vincenzo Gulino, inteso Sirenu, massaro da Chiaramonte. Vedi in
fine la nota S.
Ed ecco che uno di quei contadini, andato a mutar la
cordata dell'asino, ritorna frettoloso, dicendo:
— Chi di voi sta in sospetto? Stan venendo gli sbìrrì.

— Vengono per pignorarmi l'asino, risponde lo zio Matteo, un

omaccio peloso financo nelle orecchie. Non ci è modo di trafugarlo?


— No, son poco lontani e ci guardano.

— Lasciate fare a me, dice un terzo.

E, senza parer fatto suo, strappa un fuscellino di spine, e


lo mette sotto la coda di un suo cagnaccio. Poi, dato un cenno, si
alza, e finge correre spaventato e con lui tutti gli altri, gridando:
Dalli, dalli, al cane arrabbiato! e gittano una grandinata di
ciottoli, che scansano il cane e colpiscon gli sbirri. Il cagnaccio,
fatto rabbioso per quegli acuti pungiglioni, si slancia di qu a e di
là, veloce come una freccia; e gli sbirri (che son un usciere e
due testimonii) sentendo quelle fiere grida, miste ai latrati degli
altri cani, e vedendo quel correre all'impazzata del cagnaccio ed i
contadini, e molto più quella tempesta di ciottoli, se la dànno a
gambe, più morti che vivi: mentre lo zio Matteo ha dí già avuto il
tempo in quella gran confusione di trafugare il suo ciuco. Quando
quella tempesta si fu un poco calmata, l'usciere ritornò pauroso e
domandò allo zio Matteo:
— In nome della legge, dov'è l'asino vostro?

— L'asino mio? Non me ne parlate. t morto da quindici giorni.

— Speriamo che fra breve risusciti, rispose l'usciere, acerbo come

una nespola. Mi avveggo che questa volta me l'avete accoccata, e


mi sta bene perchè sono stato una bestia.
Gli uscieri però son come i pensieri molesti: ritornano
quanto meno li aspetti. Ed ecco che Don Calcedonio, il nostro
usciere, accompagnato dai due soliti Angeli Custodi, dopo una
settimana ritorna a pignorare quel povero asino. Lo zio Matteo
questa volta era in un altro anto, affaccendato a tagliar roveti: e
convien dire che fosse di buon umore, perchè a voce sfogata cantava
una sua favorita canzone:
Sì bbirì a cocchi sbirru ti n'arrassa,
E si 'nzi bbistu struppèddicci l'ossa. La vita notti e giornu ti
l'attassa,
Ti spòggia, e pui t'ammutta ni la fossa.'
Se vedi qualche birro, te ne allontana — E se non seì veduto,
stoccagli le ossa — La vita notte e giorno te l'avvelena — Ti spoglia e
poi ti spinge entro la fossa.
Ma sul meglio del canto sente la voce piagnuccolosa del figlio
che va gridando:
— Pa'... pa'... venite... venite presto... si stanno pigliando
l'asino!...
Lo zio Matteo accorre con la falce in mano, e vede l'uno dei
testimonii tener l'asino per la cavezza, mentre l'usciere
acculacciato sopra una grossa pietra ha di già tratto di tasca il
calamaio di corno per iscrivere il verbale di pignoramento.
Succede quì un furioso contrasto dalle due parti, perchè lo
zio Matteo, minacciando lo sbirro di segargli il collo, vuole
strappargli l'asino a viva forza: e lo sbirro, non ostante la falce non
vuol cederlo, nè per Dio nè per i Santi.
L'usciere, che vede quel tafferuglio, grida con quanta ne ha
in gola:
— Zu' Matte', pensate ai fatti vostri; non venite a vie di fatto.
Zu Matte', per Dio santo! a chi sto parlando? Zu Matte', v'intimo
di non interrompere il corso della giustizia. C'è la galera per voi.
— C'è il diavolo che vi pigli! grida a sua volta il villano con
gli occhi che gittan fiamme, e col volto livido orribilmente. La
legge la so ancor io. Il verbale non è ancora scritto, e quando non è
scritto il verbale...
— Che andate sofisticando? Scritto o non scritto, l'asino non
potete più ripigliarlo. Pensate che avete moglie e figliuoli. Io quì
rappresento la legge, rappresento la giustizia del Re. Non tirate
quell'asino... per Dio santo! non lo tirate. Il Codice parla
chiaro... Ah Madonna, Madonna santa, aiutatemi!...
Questo brusco cangiamento di stile è cagionato da un
enorme ciottolo, che gli ha rotto il coccige; ma chi l'abbia tirato, e
da qual parte vattelo a pesca. I testimonii, lo stesso zio Matteo, i
villani dell'anto, quei degli anti vicini, i cacciatori, i caprai che
son per quei poggi corrono ad aiutare il caduto; si dà la stura a
mille supposizioni, e a mille fantasie, ma non si viene a capo di
nulla. Il povero Don Calcedonio disteso supino, col fiato grosso,
con la bocca sbarrata, con le occhiaie dilatate non può profferire
parola. Chi diavolo abbia fatto quel tiro nè si sa, nè è probabile che
si sappia; ma l'unico sul quale non può cader sospetto è lo zio
Matteo, che in quel momento era a tirar l'asino, e a bisticciarsi
col Rappresentante della Giustizia. L'asino anche questa volta
sparì; ma non appena l'usciere potè articolar parola si volse
bruscamente ai testimonii:
— E l'asino? Bestioni! Ov'è l'asino? Vi siete fatti gabbare? Zu
Matte', in nome della legge, ov'è l'asino?
— Ah, Santodià, questo è troppo! Avete la sfacciataggine
di chiederlo a me? A me che non mi sono distaccato un minuto
dal vostro fianco?
— Questo è verissimo, risposero i testimonii.
— Chi è dunque di voi, che ha trafugato l'asino? Non vi
mettete in qualche guaio. La legge non ischerza, e vi giuro
sull'ostia santa che farò un verbale incendiario.
Gli astanti giurarono a coro, che, com'è vera questa santa
luce di Dio, come è vero che dobbiam tutti morire, com'è vero
che c'è Dio in paradiso, non sapean nulla di nulla; che non avean
visto, nè inteso, nè sospettato nulla; e taluni, più veritieri
ignoravan perfino che lo zio Matteo avesse un asino.
E l'usciere inviperito e col coccige rotto fece davvero un ver -
bale incendiario di sottrazione di oggetti pignorati, di resistenza
alla pubblica forza, di vie di fatto, di omicidio mancato: una
specie di minestrone del giovedì grasso, una specie di pasticcio
alla miniola,1 in cui non c'è cibo che non possa trovar luogo.

Or fra quella nuvola di villani accusati c'era lo zio Croce: un


vecchio ch'era la stessa bontà, un uomo santo davvero, perchè ogni
ventun'ora recitava il rosario di quindici poste, con
accompagnamento di giaculatorie, di antifone, e di bacioni sovra il
nudo terreno. Come lo zio Croce senza saper leggere avesse
inghiottito tanta roba, e sapesse somministrarla alla ciurma
dell'anno era da considerarsi un semi miracolo.
Ora un sabato sera il nostro Don Calcedonio, andò a
trovarlo, e offerendogli una presa di Licodiano, gli disse:
— Zio Croce, voi siete vecchio e uomo dabbene. Ed è
possibile che anche voi vogliate dannarvi facendo una falsa
testimonianza? Ed è possibile che non sappiate chi sia stato il
galeotto che mi tirò il ciottolo nelle reni? Ora io vi prego adunque
di dir la verità innanzi ai giudici.
E lo zio Croce, annasando la presa dell'usciere gli rispose
lentamente:
- Sentite, Don Calcedò, che voglio contarvi la storia di Fra
Illuminato.

i Il pasticcio alla miniola, cioè secondo l'uso di Mineo (patria del Capuana) è, o era
manipolato con moltissimi ingredienti; e molti anzi erano in aperta opposizione tra loro,
come p. es. lo zucchero e il lardo. È rimasto come paragone proverbiale per esprimere fatti
e parole che si cozzan fra loro.
— Cominciate con le sofisticherie?
— Neanco per sogno. Parlando di Fra Illuminato, è lo stesso
che parlar del Vangelo. Or dunque Fra Illuminato era un monaco
di tal santità, che nel mondo non ci era il simile: il suo non era suo,
e per soccorrere il prossimo si sarebbe fatto sparare. Come
dico, era così santo che gli animali, anche i più selvatici, gli leccavano
i sandali quando lo vedean passare; ed egli ne comprendeva il
linguaggio, e, dove potea, li salvava dalla fame e dai cacciatori. Or
dovete sapere che il convento era in campagna, anzi in mezzo ad
un bosco; ed egli ogni giorno con le bisaccette su le spalle andava in
città per la cerca.
Un giorno di quelli, mentre andava camminando bel bello,
intese voci aspre di alterco, poi un colpo di fucile, poi un grido
acutissimo, poi un furioso galoppo, poi vide fuggire a cavallo un
giovane prepotente della città, e il compagno ucciso convellersi
negli ultimi squassi dell'agonia. Si accostò al morto, gli chiuse gli
occhi, pregò a lungo per lui; ma dopo aver pregato un bel pez zo
decise di denunziar l'assassino. Avea appena fatto un centinaio di
passi, quando vide un coniglio, che un giorno avea posto in salvo
dai lacciuoli, e il coniglio saltanto di gioia al vederlo, gli chiese
soavemente:
— Dove vai, Fra Illuminato?

— Dove vado? Vado a denunziare l'assassino.


— Guardatene bene! replicò il coniglio. Non sai forse che la
famiglia di quell'omicida è stata ed è la benefattrice del tuo con-
vento; e che ove tu lo denunziassi non darebbe più un soldo?
Guardatene bene! Il padre guardiano ti metterebbe a pane e ad acqua,
e ti farebbe marcire in una celletta priva di aria e di luce.
— Sia come si voglia, replicò il monaco. Il mio dovere è
di denunziarlo.
— Va dunque, o spione! gridò incollerito il coniglio, e
s'internò nella boscaglia.
Fra Illuminato proseguì a camminare: ma dopo aver fatto
un altro centinaio di passi, incontra un cagnaccio, che un tempo
avea guarito da una sozzissima piaga.
— Dove vai, Fra Illuminato? gli domandò leccandogli i piedi
E le mani. Dove vado? Vado a denunziare l'uccisore di quel
povero giovane.Scaccia codesto pensiero, o monaco santo, scàccialo
come suggerimento infernale. Non sai forse che colui ha più dobloni,
che tu capelli sul capo? A via di buttar l'oro a rotta di collo, non
sai tu che corromperà la giustizia e ne uscirà bianco come la neve,
laddove tu saresti tenuto in conto di testimonio falso, e
condannato a pena infamante?
— Sia come destina il Signore, rispose Fra Illuminato. Gli altri
faran come vogliono, io farò come devo.
— Va dunque, o spione! urlò il cagnaccio e si involò rapi -
damente.
Il monaco proseguì a camminare; ma passando a pochi
passi da una mandria, vide sbucare un agnello, il quale, belando
di gioia, gli domandò:
— Dove vai, Fra Illuminato?
— Dove vado? Vado a denunziare l'uomo micidiale, che testè
ha ucciso il compagno.
— Non te ne venga il pensiero! gridò spaventato l'agnello. E
chi sei tu, che vorresti togliere la podestà a Domineddio? Lascia
a lui, a lui solo la cura di punirlo in questa vita o nell'altra. Va,
ritorna al convento; chiedi perdono a Dio del maligno pensiero
che ti offuscava il giudizio; e tieni in mente, che ove tu lo
denunziassi, tutti quanti avrebbero orrore di te.
— Il mio dovere è di denunziarlo, rispose Fra Illuminato, e
avvenga di me quel che piace al Signore.
— Va dunque, o maledetto spione! Va, vendi la carne battez -
zata! gridò indignato l'agnello, e ritornò alla mandra senza
rivolgersi indietro.
Il frate era intanto pergiunto innanzi la porta della Città,
sopra la quale si erigeva una statua, congegnata, per arte
magica in siffatto modo, che all'appressarsi di un pericolo o di
un nemico dava fiato alla tromba per dar l'allarme ai cittadini.
Fra Illuminato stava già per entrare, quando vide la Statua
muoversi furiosamente e porsi in bocca la tromba; sicchè
maravigliato le chiese:
— Perchè vorresti sonare? Son io forse un nemico della Città?
1 Arturo Graf rapporta il passo seguente del Libro Imperiale:
... Al Panteon... erano in luogo alto statue, le quali
rappresentavano le provincie del mondo, et quando alcuna si
ribellava quella tale statua voltava le spalle, et però gli Romani,
quando vedevano aperto el delubro di Jano ricorrevano al Panteon,
et riguardata la statua, formavano le melizie, et prestamente
andavano in quella parte.
Graf, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medio Evo, vol. I., pag.
195.
-Ne sei il principale, gli rispose la statua. Perchè sei venuto
quì? Perchè hai sprezzato i consigli degli animali? Sappi, o
scellerato, che il giovane che tu vorresti punito diverrà col tempo un
gran Santo; lascerà tutte le sue ricchezze ai poverelli di Dio, e
ritirato in un deserto piangerà notte e giorno la colpa sua.
Fra Illuminato pensò, pensò a lungo, sì a lungo, che quasi
annottava. Poi ritornando lentamente al convento sclamò:
-Dio non vuole che lo denunzi!
E nel ritornare che fece, l'agnello, il coniglio e il cagnaccio
gli si prostrarono e gli leccarono i piedi.'
Or l'ha intesa la storia, Don Calcedò?... Se l'ha intesa le
auguro la buona notte, perchè io vado a dormire.
Un giorno — era una domenica — lo zio Matteo tornando
da messa vide l'usciere e gli si sberrettò con un risolino di
scherno; ma l'usciere, che sputava verde, perchè il reo o i rei della
sassata erano rimasti impuniti, gli battè su la spalla, e gli disse:
-Zu Matte', lo sapete il detto di San Paolo?
-Come volete che il sappia? Noi villani siamo senz'occhi.
-Ah, non lo sapete? Avrò dunque il piacere di raccontarvela,
tal quale me l'ha raccontata un vostro degno collega. Dovete
dunque sapere, carissimo Zu Matte', che il demonio sa tutto; e
sapeva perciò che il più forte campione di Gesù doveva esser San
Paolo. E chè cosa fa il demonio, che in certe cose è maligno come
un villano? Gli introduce nel corpo, mentre era tuttora nel ventre
della madre, cento vipere l'una più micidiale dell'altra: e codeste
vipere non potevano esser cacciate via dal suo corpo, neanco con
gli scongiuri del papa. Ogni qualvolta però San Paolo commetteva un
omicidio, una di quelle vipere subitamente moriva: sicchè ammazza
di quà, ammazza di là, era diventato il terrore dei cristiani. Dopo
che egli ebbe ucciso cento cristiani, le vipere erano morte tutte
quante, ma per l'abitudine di esser manesco un giorno trasse la
spada, non so per quale alterco, e stava per ucciderne un altro. In
questa però intese una voce del cielo:
-o Paolo, o Paolo, durerà ancora questa storia di uccidere gli
uomini come polli?
-Cento, e cent'uno, rispose San Paolo.
-No, t'inganni, rispose la voce divina. Per cento volte te l'ho
tollerato: quest'altra non la tollero più, neanco se uccidessi una
pulce.
' Narrato da Francesco Amato, contadino di Chiaramonte. Vedi in fine nota W.
Era però inutile precauzione, perchè l'un di quei villani aveva
veduto a caso la testa di Sorcio vecchio, e si era affrettato a dire:
— All'erta, zu Mattè, che nella grotta ho veduta or ora la te-
sta del nano. Gli sbirri sono appiattati colà.
Lo zio Matteo smonta dall'asino, si mette su le spalle le
bisaccette e il tridente; e, rivoltosi a un giovinastro, che veniva a
piedi, gli dice:
— Peppanto', monta sull'asino mio, e tira novamente in cam-
pagna. Dopo l'ave-maria verrai a portarmelo in casa.
Quando quella gran frotta di villani fu a tiro della spelonca,
Don Calcedonio e i testimonii sbucaron con impeto; ma vedendo
lo zio Matteo venirsene a piedi, e non vedendo l'asino di lui in
mezzo a quella farraggine di asini, divennero bianchi ed
immobili, come Santi di stucco.
— Zu Matte', perchè venite all'arnalda?' L'asino non è forse
risuscitato?
L'asino è stato venduto, e il danaro l'ho tuttora in sacchetta.
— E a chi l'avete venduto?
— Scusate, Don Calcedo', non devo rendervi questi conti. Ma
se avete il danaro, perchè non pagate il vostro creditore?
— Don Calcedo', voi che sapete leggere e scrivere, l'avete letta
98 la storia
dell'asino del Saracino?
— Non l'ho nè letta, nè intesa.
— Contano dunque i nostri vecchi che negli antichi tempi in Si-
cilia c'erano i Saracini, e nessun cristiano era padrone di quel
poco che possedeva, presso a poco come nei tempi nostri:
aggiungendo che ora ci strappano anche i figli. Se un povero,
puta casa, possedeva una vigna, e tre o quattro volte l'anno si
rompeva le reni a zapparla, venuto il tempo della vendemmia, chè
cosa faceva l'esattore? Mandava subitamente gli sbirri: e questo
pel Re, questo per l'esattore, questo per gli uscieri, questo per gli
altri sbirri, questo pel dazio consumo, questo pel diavolo che se li
pigliava!... proprio come nei tempacci nostri!... e al povero villano
di quel vino non ce ne restava da bevere per una settimana. E
come facevan della vigna, facean dei cereali e dell'olio e del canape,
e via dicendo. Chi non aveva un brano di terra, ma possedeva un
mulo, un cavallo, od un asino, era costretto

i Quel che i nostri trecentisti chiamarono vestire all'arnalda, i nostri villani


dicono viniri alla neutra, cioè a piedi, e succinti.
a pagare una tassa; e se non la pagava, suo danno: marciava
nella casa del Re.' Chi poi non avea nulla di nulla, tranne le due
braccia, lo costringevano in certi giorni dell'anno a lavorare senza
salario nelle terre del Re. Ora in quei tempi c'era un villano, il
quale non aveva, nè possedeva che un misero asino, e cercava
tirare innanzi trasportando frumento da uno in altro Comune.
Giunse l'ora di pagare il dazio, e il villano, che avea le tasche sì
asciutte, che poteano stirarsi col ferro, disse in cuor suo:
-Questa volta sono spacciato: come diavolo potrò pagare quel
dazio?
E non potendo far altro va dall'esattore, e, piangendo come
un fanciullo, lo supplica per misericordia, che gli dia una
dilazione. Ma l'esattore, duro come un saracino che era, alla
durezza aggiungendo lo scherno rispose:
-Dilazione non te ne accordo; ma giuro di assolverti il dazio, se
avrai il potere di condurre alla mia presenza l'asino sulla
palma della tua mano.

Il contadino, udita la strana sentenza, si grattò il capo, nè


sapea come fare; ma poi, pensandoci meglio, disse in cuor suo:
-O sorte, o morte! O perdo l'asino, o mi franco dal debito! E
chè cosa fa? Vende l'asino e si reca dall'esattore, dicendogli:
-Vostra Eccellenza ha giurato di assolvermi il debito, se le
porto l'asino sulla palma della mano?... È vero, o non è vero?
-È verissimo.
-Eccolo dunque quì. L'asino è questo.
E così dicendo pose sulla palma della mano il danaro ritratto
dalla vendita di quell'asino.
Qui successe un battibecco tra l'esattore, che volea
perfidiare, e il villano che volea star sulla sua, sicchè, non potendo
accordarsi, la contesa fu portata innanzi al Re.
Or codesto Re, benchè saracino, era un uomo giusto, e udite
le parti, proferì questa sentenza:
-Bando e comandamento! Il villano ha ragione; e d'ora in
poí nessun birro, e nessun usciere — capite Don Calcedò?
— nessuno usciere, e nessuno esattore del mondo potrà frugare
nelle tasche dei debitori.' Don Calcedò, che ne dite?

i La vicaria è così chiamata dal volgo.


2 Narrato da Raimondo Vivera, contadino da Chiaramonte. Vedi in fine nota Y.
L'usciere era verde come l'aglio, ma non aveva da farci.
Non pertanto rivolse gli occhi a cerchio fra quella turba, e fra
tante facce ostili ne vide una sorridente e benevola: quella di un
suo vecchio compare, affezionato e dabbene.
Fu a costui dunque che si rivolse, e, traendolo in disparte:
-Compare mio, me la dite una verità?
-E Vossignoria, signor compare, può forse lamentarsi che io
l'abbia tratto in inganno?
-No; egli è vero, ma questa volta dovete giurarmelo sul San
Giovanni.'
Il compare torse la bocca, come se inghiottisse una sorba
immatura.
-Sul San Giovanni Vossignoria sa che non si può giurare nè il
vero, nè il falso, perchè attirerebbe disgrazie; ma glielo giuro su
questa santa bolla dei luoghi santi.
-Non è la stessa cosa, compare mio, e veggo che cominciate
coi sotterfugi, ma sia pure. Ditemi dunque sulla vostra
coscienza, se egli è vero che lo zio Matteo abbia venduto l'asino.
-Mi metto le mani sul petto. Codesto è vero, come è vero
che dobbiamo tutti morire. L'altr'ieri lo vedemmo venire all'anto
con le bisacce e il tridente addosso, tanto che ce ne piangeva il
cuore. Ed anzi lo zio Caterino gli domandò:
-Perchè a piedi, cumpà Mattè? Chè cosa ne avete fatto del-
l'asino?
Chè cosa ne ho fatto? L'ho venduto per disperazione... per
toglierlo dalle zampe di quel birro di Don Calcedò... Scusi, signor
compare. Cito le parole di lui.
-Bene,... bene;... lasciate i comenti, rispose l'usciere con una
smòrfia... Ditemi piuttosto a chi lo ha venduto?
-Quanto a questo, signor compare, non istemmo a doman-
darglielo.
-Compare mio, mi accorgo che mi credete della Mufarda ma
la bestia son io, che spero saper la verità da un villano. La
brocca va tante volte alla fontana, finchè si spezzi, dice il
i È così che il volgo chiama il comparatico; e giurare sul San Giovanni è cosa
troppo seria, perchè il popolano spergiuri.
2 La Mufarda è una contrada di Ragusa inferiore, e non so perchè è sinonimo
d'imbecillità, tanto che è divenuta locuzione proverbiale il dire: chistu è di la Mufarda,
chistu è mufardisi, per dire: costui è uno scioccone.
nostro proverbio. E la brocca questa volta fu l'asino, il quale
venne finalmente acchiappato. Se Don Calcedonio ne menasse
trionfo, e se lo zio Matteo avesse il fiele nel cuore è superfluo il
narrare. Nondimeno la speranza è l'ultima a perdersi; e questa
volta la speranza si presentò allo zio Matteo sotto forma di un
villano, che gli portò l'asino pignorato, e gli disse:
— Cugino l Mattè, le dita delle mani son fatte per aiutarsi. Or
io, che ebbi in deposito l'asino vostro, lo riporto a voi perchè
possiate servirvene. In questa guisa si piglieranno due piccioni con
una fava. Io intascherò i dritti del deposito, e non pagherò un
baiocco di spesa; e voi vi servirete dell'asino vostro, purchè me lo
consegniate nel giorno dell'asta pubblica.
Venne il giorno dell'asta. Si era accesa la candela, e il
banditore avea gridato la prima e la seconda, e poi la terza volta:
Per cinquanta lire! Chi è di voi che offerisce?

E non avea offerto un cane nè la prima, nè la seconda, ne la


terza volta.
Il banditore cessa dal gridare, la candela si smorza... e
l'asino resta al creditore, perchè nessuno avea voluto saperne.
Ora il creditore era un massaro, largo di cuore e di faccia, nè
sapea che farsene di quell'asino magro e cincischiato; ed ecco che
a toglierlo di confusione lo zio Matteo gli si presenta improvviso
come un colpo apoplettico. Il villano, com'era da credersi, prese a
prestito la più addolorata faccia del mondo, e, cavandosi
umilmente il berretto, gli disse:
— Benedicite, gnor massaro. Vedo che Vossignoria l'ha
proprio con me, e vuol ridurmi all'ospedale. Ma chè cosa le ho fatto?
— Ed hai l'ardire, pezzo di birbante, di lamentarti dei
fatti miei? Quando ti vendei l'asino a credito m'impastocchiasti cento
mila menzogne, giurandomi che mi avresti pagato in tre
soluzioni: per pasqua, per San Giovanni, e per mezzo agosto.
Ebbene: mi hai pagato per pasqua, maledetto bugiardo? Mi hai
pagato per San Giovanni, truffatore che sei? Mi hai pagato per
mezzo Agosto, ladro da forca, dì, mi hai pagato? E non è per
l'interesse, che monto in bizza. Grazie a Dio, non ho bisogno di
queste miserie. Monto in bizza, perchè, mancandomi di parola non
una, ma dieci volte, mi hai scam-

1 I villani si dan tra loro il titolo di cugini.


biato per Peppinappa. t Su, via, perchè non rispondi? chè
cosa potrai dire in tua discolpa?

-E chè cosa vuole che io dica? Quando si ha bisogno si pro-


metterebbe anche il battesimo. Non son io che ho mancato di
parola, fu la maledetta malaria, che mi tenne a letto tre mesi. In
simili circostanze anche i Santi del paradiso mancherebbero alla
promessa.

-Zitto, lingua sacrilega!... È una vergogna che sia abolito il


collare!' Come staresti bene aggavignato per collo!

-Io son cristiano, e Vossignoria m'ingiuria senza ragione. Che


cosa ho detto? Che anche i santi mancarono alle promesse; ed
è vero. Una volta Sant'Antonino che era un gran Santo, e nacque
da un pomo di paradiso,' trovandosi infermo, e, vistosi a mal
partito, baciò i piedi del Crocifisso, e, piangendo amaramente, gli
disse:

-O Signor mio benedetto, che patiste tanto per noi, se fate la


grazia di risanarmi, vi prometto sulle vostre cinque piaghe santis-

sime di andare a piedi in Turchia, per convertire quei perfidi


miscredenti.

E il Crocifisso del capezzale gli rispose con amorevole voce:

-Vèstiti, e ti affretta a partire, perchè ti ho fatta la grazia.

Santo Antonino, posto fra l'uscio e il muro, non potea più trarsi
indietro, sicchè prese il bastone, i sandali nuovi, una gerletta col
pane, e via lentamente. Fatti appena tre o quattro miglia, e
sentendosi stanco, s'inginocchiò, baciò il Crocifisso del suo
rosario, e lo pregò con molte lagrime agli occhi:

— O Signore Iddio Crocifisso, voi che foste sempre l'esempio


dell'indulgenza, chè cosa fa a voi che in Turchia ci vada a piedi o
a cavallo?

E il Crocifissino gli rispose:

— Sia come vuoi tu. Ti dispenso dal voto di andarci a piedi.


— Sia benedetto cinquanta mila volte, o Signore, il vostro glo-
riosissimo nome! Ma in chè modo potrò andarci a cavallo, se
non ho cavallo nè sella?

I Uno dei personaggi delle marionette in Sicilia. Gli altri sono


Pulcinella, Colombina e Nòfriu Taddarita.

2 Infisso in luogo pubblico c'era un cerchio di ferro, che aprivasi


con una chiavetta, e in cui si mettea il collo del bestemmiatore unto di
miele, ed esposto agli urli della plebe. Si chiamava cudddru.

8 E credenza generale nel volgo nostro che S. Antonino sia rinato da un pomo,
mangiato da una vergine. Si vedano su ciò varii articoli nell'Arc hivio di tradizioni

siciliane.
— Uomo di poca fede, replicò il Crocifisso, vòlgiti indietro.
Non vedi che ti ho preparato e arnesato il più bel cavallo del mondo?
Cavalca presto, e va via.
Santo Antonino, preso tra le proprie reti, chinò la testa, e
salì sopra un muro per inforcare il cavallo. Camminò altri tre o
quattro miglia, ma sentendosi tutto pesto, e tenendosi
aggrappato alla criniera pel maledetto timore di un capitombolo,
s'inginocchiò altra volta, e, traendo il Crocifisso, proruppe fra i
singhiozzi:
—O Gesù Crocifisso, pei dolori della vostra santissima Madre,
ascoltate la mia preghiera: Chè cosa andrò a fare in Turchia, se
non conosco una sola parola di quella lingua, e se i maledetti turchi
non capiscono una parola di quella che parlo io? Chè cosa fa a
Voi, o Signore benignissimo, che converta i turchi, o converta questi
nostri cristiani, che son peggiori dei turchi?
E Gesù Cristo, che è sempre padre di misericordia, rispose:
— Fa a modo tuo: converti gli eretici, e i cattivi cristiani di
questa città.
E Santo Antonino, ballando per l'allegrezza, predicò nel suo
stesso convento, e sfuggì all'obbligo di mantener la promessa.
— Or dunque, gnor Massaro, se potevo pagare avrei pagato.
Tutta Malta non potè far bevere un asino, che non avea sete. Non
pertanto, col suo consenso, vengo a proporle un negozio. Laceri il
brevetto, mi restituisca l'asino, ed io invece di pagarla col danaro,
la pagherò col lavoro. Vossignoria in quest'anno ha venticinque o
trenta salme di seminato; ed io le prometto che lavorerò gratis
durante la messe. Col pane e col vino, s'intende,' e col dritto della
spigolatrice, s'intende benissimo; e vedrà se questa volta Matteo
mancherà alla promessa.
Il massaro se ne contentò, e lo zio Matteo questa volta non
ismentì la parola.

i In Ragusa, Chiaramonte, Monterosso, e altri comuni del Circondario di Modica si


dà pane, vino, e companatico ai mietitori; in Modica ed altri comuni si dà il solo vino.
:

XI

La solidarietà tra i villani se è in certo modo la resistenza, non è


però l'aggressione, cioè, lo sciorinare la lingua senza proprio pe -
ricolo, per dire il fatto proprio ai cappelli. Specularono dunque i
mezzi dell'aggressione e li trovarono nel poeta.
Noi che siamo avvezzi a leggere le sozze e stomachevoli ingiurie, con
chè i poeti si cavan gli occhi fra loro; e come non abbian ver gogna
di accusarsi scambievolmente di ladri, di svergognati, d'igno ranti, di
manigoldi per un vocabolo non adoperato dai classici, o per una
grama frase non registrata nella Crusca; noi che abbiam veduto
come il Moliere e il Goldoni, e tutti quanti i comici, e i satirici, e i
bernieschi di questo mondo han fatto del poeta il quissimile della
fame, della vuota boria, e della adulazione bassissima; noi che tutto
il giorno gli diamo del pazzo, del bugiardo, del cervello balzano, noi
non possiamo concepire la stima, il rispetto, la venerazione che il
volgo ha pel poeta del ceto suo. Il poeta! Ah, il poeta è una specie di
oracolo, uno dei
1 sette savi, un essere privilegiato, e se ne chie dono
Le parti di carnevale son satire popolane vivide e sanguinose. In Chiara-
monte soleano recitarsi dai villani nella domenica, e dagli operai nel lunedì
grasso. Fra i poeti vulgari di Chiaramonte si distinsero Giovanni Pavone, pe-
coraio, Natale Lo Gatto, scarpaio, Croce Molè, agricoltore, Mariano lacono,
Ricordo che nel 1861 un poeta vulgare di Chiaramonte volea
recitare nel lunedì grasso, come è costume contadinesco, una satira
sanguinosissima contro il Sindaco di quel tempo; e siccome un giorno
innanzi era venuto a recitarmela per udirne il parer mio, gli
dissi reciso:
— Se intendi recitarla, ti avverto che non isfuggirai a un pro -
cesso di diffamazione, o, se non altro, ad aver rotte le schiene.
Abbi dieci volte ragione, ricordati che i cenci vanno per l'aria, come
dice il proverbio.
Il poeta mi guardò maravigliato, come se avesse vista la donna
a tre gambe, e per tutta risposta mi disse:
— In questa poesia dico o non dico la verità? Or se dico la
verità, neanco il diavolo avrà a ridirci. Mi farà romper le
schiene? Le mani, primaddio, non l'ha lui solamente. Mi farà
tassare indebitamente nei dazii del Municipio? Me ne rido. Cento
ladri non possono spogliare un nudo. Mi farà querela? Ed io
innanzi i tribunali proverò quel che ho detto. Codesta legge di non
potere aprire la bocca, la è venuta forse coi maledetti piemontesi,
che Dio li sperda tutti? Neanco il Re porco' osò molestare i poeti
del nostro ceto: E ora che c'è Garibaldi, vorrebbero proibircelo?
Noi villani ci si pesta e ripesta come sull'aia; e a mostrarvi
caritatevoli con noi, voi altri cappelli l'avete a scrupolo di
coscienza. Noi non abbiamo terre, o ne teniamo a censo qualche
striscia: ed ecco che voi altri ve l'acchiappate mediante le
angherie, le minacce, e gli atti falsi, che Dio subissi i notari! Le
nostre case son nude come una palma di mano, ma i primi a
pagare i dazi siam noi. E Dio ce ne scampi se ritardiamo di un
giorno, perchè, ecco lì una faccia di Giuda, gridarvi all'orecchio :
Olà, pagate il Cassiere, o pagherete col pignoramento. E
quando avrete impegnati anche i capelli, ecco lì un altro Caino
che vi dice: Olà, pagate il percettore per la casuccia, o ve la
svenderà all'asta pubblica. E quando, a via di sudar sangue e
d'inghiottire veleno avrete fatto il possibile e l'impossibile per
pagare anche il percettore, misericordia! ecco lì un altro Filisteo,
che v'intima di botto: Olà, pagate il domino diretto per quella
strisciolina di terra, o vi farà causa di devoluzione. Non avendo più
nè da impegnar nulla, nè da svendere
agricoltore, Paolo Spada, agricoltore, Benedetto Cutello, barbiere, Giuseppe
Cutello, tintore, Luciano Iannizzotto, agricoltore, Paolo Molè, agricoltore.
1 È il soprannome che avean dato i nostri villani a Ferdinando II: Il volgo

di Palermo con più cruda sconcezza l'avea intitolato: fletta secunni.

105
nulla, costretto dall'amara necessità, risolvete di pignorare il
terreno. Chi lo prenda a pegno è presto trovato: sicchè, senza
perder tempo, si va dal notaro, e questi, se non è ladro del tutto,
se ne acciuffa la metà; se è ladro dalle cime dei capelli all'unghie
dei piedi, se ne avvinghia due terzi. Ed ecco che un bel mattino,
dopo che avrete racimolato a soldo a soldo il danaro che vi si
sborsò per il pegno, andate dal notaro per riscattare il camperello:
ma, senza sapere il come e il perchè, trovate che il camperello
non era stato pignorato, ma venduto a dirittura. E dicono che c'è
la libertà? C'è la libertà di assassinare il povero. Dicono che son
cessati gli abusi? Gli abusi son cresciuti cento volte di più. E ora,
per coronamento dell'opera, si pretenderebbe che il poeta non
potesse parlare?... Mi manderanno in galera, ma, come è vero
Dio!... parlerò quanto San Paolo. Il poeta è sacro: lo ha detto Gesù
Cristo medesimo.
-Chè diavolo dici? Gesù Cristo ci entra qui come Pilato nel credo.
-Ci entra come il sale nei cibi. Quando Gesù andava pel mondo,
una sera seguito dai dodici apostoli, magri come lanterne, vide
una casuccia in campagna, e innanzi l'uscio di quella casuccia un
villano occupato a cuòcere la minestra, Gesù Cristo gli si accostò,
lo benedisse, e poi:
-Potresti darci ricovero per questa notte?
-Padronissimi, rispose il villano. Qui ci è paglia; starete è vero,
un po' stretti, ma meglio stretti che esposti all'umidità della
notte. Il guaio è pel mangiare, perchè non ho che un solo pane,
e questo po' di minestra.
Gesù Cristo rispose:
-Non dubitare, figliuol mio, che ce ne sarà di avanzo.
E fece la benedizione sopra il pane, sopra la pentola, e sopra il
bariletto del vino. E difatti il cibo non solo bastò, ma soverchiò,
come avea predetto il Signore. Il villano, vedendo quel gran
miracolo, sciamò maravigliato:
-Sareste voi il Figliuolo di Dio, di cui si fa un gran narrare? Ah, se
la è così, benedetta sia la vostra venuta, o Signore! Gesù Cristo
gli rispose soavemente:
-Nàrrami i tuoi guai, che provvederò pel tuo meglio. E il
villano, che non avea pelo alla lingua, gli palesò tutto di un fiato
i cancri, che gli rodevano il cuore.
-Vedete, Maestro: ora son solo come un romito. A spazzare la casa, a
impastare il pane, a lavare i quattro cenci, a governar le galline
devo pensarci io, perchè avevo la moglie, ed ora è andata ad
amoreggiare con altri. Ho questa casetta, questi quattro filari di vigna,
quest'orticello che circonda la casa; ho la salute, ho la gioventù,
ho la voglia di lavorare, eppure non son padrone di nulla. Lì in
quel castello abita un cavaliere creato da Satanasso per flagello dei
poveri, e principalmente per la mia dannazione. Ora il maledetto
da Dio si era intestato a volere questo poderetto, o con le buone
o con le cattive; e vedendo che ero più incaponito di lui a non
volerglielo vendere, ricorse alle vessazioni, e alle angherie di
ogni guisa. Io seminava; e quei che mietevano erano i suoi polli,
i suoi porci, gli asini e i bovi suoi. Io zappava la vigna; ed erano i
cani suoi, e i servi suoi che la vendemmiavano. Io ponevo ogni
cura negli alberi, e quei che ne mangiavano i frutti erano i suoi
campieri. E guai a lamentarmene, perchè prima mi prendeva a
calci, e poi mi ripeteva: Vèndimi il campo. Un giorno racchiusi nella
mia stalluccia uno dei suoi bovi, il quale mi avea ridotto l'orticello
liscio come un ginocchio; e, lo crede? fui accusato di furto, e mi
convenne pagare il ranno e il sapone. Un'altra volta cacciai a sassate
un suo mulo, che pascolava n e l l a m i a v i g n a ; e f u i a c c o n c i a t o
i n g u i s a c h e d i v e n n i u n E c c e h o m o . E sempre il suo
ritornello era questo: Vèndimi il campo. Finalmente, volendo
ridurmi alla disperazione, comincia a far le moine a mia moglie, a
farle dei regaletti, a prometterle mari e monti. La donna è canna, lo
dice il proverbio, e i proverbi non fallano. E io son rimas t o s o l o e
col veleno nel cuore. Nè valse il querelarmene coi
m a g i strati, perchè l'unzione,' piace anche al papa. Ecco, o
Maestro, la storia : cornuto e bastonato, come diciamo alla rozza.
Ed ora, o Maestro, vorrei una sola grazia da voi, e ve la domando dal
profondo del cuore, ed è di poter proclamare senza pericolo mio ai
quattro angoli della terra le infamità di quel tristo, e renderlo
vituperato innanzi le genti.
— Se vuoi far questo, rispose nostro Signore, ei conviene che tu
divenga poeta, dacchè al solo poeta sia lecito dir la verità a tutti
ed in tutto. Inginòcchiati, chè ti darò il dono della poesia.
E Gesù Cristo gli pose le mani sul capo, gl'impartì la bene -
dizione divina, lo baciò sulle labbra e gli disse:
, Or che sei divenuto poeta va, tuona, grida contro la prepotenza,
e ti sarà resa giustizia.

i Il danaro.
Il villano da quel giorno in poi compose così terribili satire contro
quel sozzo ribaldo, che lo costrinse a tapparsi in casa per la rabbia e
per la vergogna. E quando andò dai magistrati per richiamarsene,i
magistrati si strinsero nelle spalle, dicendo: È un poeta, e dice
il vero; non abbiamo da farci. E quando ordinò ai suoi manigoldi
che bastonassero a morte il villano, i manigoldi risposero a coro: È
impossibile: il poeta è sacro, e non possiamo torcergli un pelo. E
allora,per non morir di rabbia, gli restituì la moglie, e gli lasciò godere
in pace quel poderetto.

1narrato da Mariano Marletta ,contadino di Chiaromonte.Vedi in fine nota AA


XII
Se i nostri villani sapessero leggere, e leggessero le sentenze del
Leopardi là dove parla della vecchiaia, credete, lettori miei, che
direbbero: Il poeta esagera stranamente, il poeta era ammalato di
fantasia, il poeta accenna ai mali, ma non ai beni della senilità,
come su per giù diciam noi? Neanco per sogno! essi direbbero
invece: Puh! costui crede dirci tutto il vero, ma ne dice a stento
una parte. Si vede bene che era un cappello. Oh se fosse stato
un berretto!... E difatti non c'è condizione più misera di quella
di un agricoltore invecchiato. Stremato di forze, nè più potendo
addirsi a quei ferrei lavori campestri dai quali trae una
sussistenza meschina, si dà per necessaria condizione di cose a
lavori più riposati, ma pei quali la mercede è magrissima. Allora
tralascia la zappa, la falce e l'aratro,
e tira innanzi custodendo gli asini della ciurma, o i polli del podere,
o raccogliendo magliuoli, o intrecciando corbe e panieri. Ma i bisogni
crescono con gli anni, e più che s'invecchia più si stremano i
mezzi di vivere; e coi bisogni e gli anni cresciuti grandinano a
dirotta anche i mali... Dopo la cinquantina, un male ogni mattina,
dice il proverbio: l'asma, i dolori, la sordità, lo svigorimento del
corpo, i denti caduti, la mezza luce degli occhi, e tutto lo
scelerato corredo della vecchiaia. E allora il povero vecchio, giallo
come una cartapecora, ramminchionito, smemorato, duro di orecchie,
mezzo cieco, inetto a masticare, curvo come un liuto, posto in beffa
dagli stessi parenti, non si muove più dalla casetta, dove per carità è
sopportato da una figlia o da un figlio.
Oh se in illo tempore conoscevate lo zio Clemente! Con quel
berretto di cotone, che gli pendeva alla sgherra sino alle reni;
con quella cacciatora verde bottiglia, con quel corpetto a tre fila di
bottoni, che lucevano come specchi; con quei paracalci' mafiosi;
con quella fascia rossa, che, recingendogli i fianchi, terminava
in un fiocco... oh se lo vedevate! Biondo, alto, sereno, forte come
un toro. dritto come un fuso, zazzaruto come un Re carolingio!
Beati quei giorni! Le donne se lo mangiavan con gli occhi, e
avrebber voluto rubarselo; ed ei, per farle tutte contente, a quale
dava una manata sulla parte più soda, a quale dava un pizzicotto
che la rendeva beata;
e chi tirava pel ganascino, e chi rallietava con un parola, o con
un sorriso in cui si erano accovacciati tutti i diavoli della carne. Ed
esse, ed esse allora!...
Oh se io vedevate con quella lettiga verniciata a ceruleo, con
quei tre muli come tre montagne, con quella filza di sonagli, che
si sentivano un miglio lontano, arrampicarsi sui picchi dove
stavano a disagio le capre, scendere in quei valloni, lubrici di
acqua e di ghiaia, internarsi in quei boschi, paurosi pei ricordi di
Salta le viti,
e di Testalonga!' Ed era sempre in continuo moto, perchè la sua
lettiga era la più bella della Contea: da Modica a Palermo, da
Modica a Trapani, da Modica a Castrogiovanni, da Modica a
Messina. E sempre contento, e sempre spendereccio, e sempre
col fiasco alla bocca, e sempre con la barzelletta sul labbro, e con
la lussuria negli occhi, e con l'aria di me ne impipo!..,. E chè festa
quando giungeva in qualche fondaco!' Chè affacendarsi di quelle
fondacaie, e di quelle servotte! Chè allegre sbevazzate!... perchè
lo zio Clemente era un vero Pascià; un maomettano sino al midollo
dell'osso.
Ma il tempo non volge sempre sereno. Il nostro lettighiero avea la
smania di conoscere... gli altrui godimenti: ma ci sono mariti e
mariti; e ce ne fu uno che gli avvelenò i tre muli con vendetta
selvaggia, ma non già rara in Sicilia. Il colpo fu terribile: era la
povertà per lo zio Clemente, perchè non possono prendersi a
credito tre muli da lettiga; ed altronde le vie a ruota
cominciavano a rendere meno frequente il viaggiare in quel modo.
I paracalci erano stivali senza suola, infilati sui gambali degli
stivaloni, tal che il tomaio, il quale corrispondeva sulla noce del
piede, rimaneva eretto,
e all'uopo attutìa i calci dei muli. Uso proprio dei lettighieri.
2 Famosi banditi. Salta le viti era di Mazzara, e aveva nome Antonio
Catinella. L'egregio amico Salomone Marino ha pubblicato su quel
bandito un canto popolano. Testalonga si chiamava Antonio Di
Blasi, ed era di Pietraperzia. Avvi un racconto su lui di Vincenzo
Linares.
3 11 fondaco è uno stallaggio.
Povero zio Clemente! Depose la verga di lettighiero, e si allogò per
arare, per zappare, per mietere, per batacchiare le ulive. Poi venne
una lunga malattia; poi vennero gli anni... Ed ora, vedetelo lì,
seduto sul gradino dell'uscio, a riscalducciarsi come i gatti al sole di
maggio; vedetelo lì, occupato da mane a sera a snocciolare
rosarii, e intrecciare corda di palma nana; ma quel lavoro gli apre
a stento la bocca, sicchè ben tosto riesce di fastidio al figlio che lo
ricovera, e principalmente alla nuora. Il figlio sulle prime
sopporta, poi brontola, poi gli fa gli occhi da basilisco. I nipotini
gli fan le boccacce, e lo chiamano il nonno pidocchio, il nonno
lanterna,' il nonno chitarrone, il nonno porco, e altri nonni su
questo vezzo. Ma codesti dispetti son ben poca cosa, in confronto
a quei della nuora. L'amare una persona come il fumo negli
occhi, come un cane in chiesa, come l'incontro di un jettatore o
di un usuraio cui dovete danaro, son paragoni usati da mi-
gliaia, e a rigore dovrei scartarli per non ripeter vecchiumi; ma
li adopero perchè non saprei trovarne di più efficaci per
significare il dispetto, il fastidio, l'umor nero della gnora Rosa
di avere in casa quel povero zio Clemente, che pure era il padre di
suo marito.
Quando allo scocco di mezzogiorno, e dell'avemaria della sera
ella gli dava una crosta, o una cucchiaiata di fave, con quel
garbo come si gitterebbero a un cane, non cessava mai dal ripetergli:
— Colpa vostra! Non meritate rimpianti. Quando avevate la
lettiga perchè vi lasciaste raggirare dalle male cristiane, che vi
spolparono sino all'osso? Se aveste avuto timore di Dio, i tre
muli non ve li avrebbero avvelenati. Non ci credevate che la
vecchiaia arriva per tutti? Ed ora vorreste vivere a spese del
figlio? Vi pare forse che il pane ci caschi dal cielo? E il povero
vecchio, che in gioventù avea avuta una forza di toro, e che
tuttora con quel rimasuglio che gliene restava nei polsi, avrebbe
potuto schiacciare la nuora, schizzava fiamme dagli occhi; ma
poi il senso religioso, e il ricordo dell'avvilimento presente
prendevano il sopravento: baciava la medaglietta del rosario,
chinava il capo, e la raccomandava al Signore.
Ogni menomo fatto, ogni inezia divenivan pretesto per la gnora
Rosa di fieri rimproveri al vecchio. Se ella nel ravviarsi i capelli
neri e cresputi rompea un dente del pettine; se la minestra sapea di
bru-
1Lanterna, come aggettivo appropriato a individuo, ha significato di magrissimo, anzi
diafano per magrezza; chitarrone, uomo che si gratti sconciamente o per rogna o per
pidocchi.
ciato: se crepava al fuoco una pentola; se qualcuno dei suoi
bimbi era ammalato, borbottava da mane a sera:
— Ma già!... Ma non poteva fallire!. È venuto quel vecchio,
ed è entrata la scomunica in casa mia. Ma già!... Un peccatore
di quella fatta!... Un giorno o l'altro dovremo aspettarci che ci
crolli il tetto sul capo!
Un giorno le morì una gallina. Ira di Dio! Se le fosse morta
una figlia non avrebbe fatto di peggio. Per una settimana intera
non cessò dal gridare:
— Ecco quì: muoiono quelli che sono utili, quelli che recano
pane alla casa; e quei che son la ruina delle famiglie, quelli non
muoiono mai! quelli fan le corna alla morte!...
E il povero vecchio rispondea pietosamente:
— Ma che volete che faccia? Posso buttarmi vivo nella sepol-
tura? Posso scannarmi con le mie mani?
Un altro giorno l'infelice schiacciò per inavvertenza un
pulcino. La nuora, divenuta una furia, si slanciò per cavargli gli
occhi con le unghie; ma si trattenne a tempo, dicendogli:
— Puh! Sputato per cent'anni!... Se non vi cavo gli occhi, non
è per voi, vecchio infame... è per l'occhio del mondo. Ma che?
Questo vecchio infernale ha dunque messe le radici in mia casa?
E chè? non c'è nessuno che me lo tolga d'innanzi?
E gli diede un tal urto, che lo fe' vacillare.
Il vecchio, cui ardea l'inferno negli occhi, brandì la forcella,
ma ne ebbe spavento, e la gittò via con violenza. Poi si buttò in
ginocchio innanzi il Crocifisso del capezzale, e pregò a voce rauca, e
quasi fischiante:
— Signore, liberatemi dalle tentazioni!... Signore, trattenete la
vostra santa mano su me!... Signore, Signore! chiamatemi a voi,
o datemi maggiore pazienza. Io bastonato? Io sputato? Ma anche
voi, Gesù mio, foste flagellato e sputato! O Signore, o Signore
Dio! vi offro questa umiliazione in penitenza dei miei peccati.
Era così terribile l'aspetto di lui, che la nuora ne ebbe
timore, e per parecchi giorni non ardì molestarlo; ma instigava
notte e giorno il marito a cacciarlo di casa. Picchia oggi, picchia
domani, il figlio finalmente gli disse:
— Padre mio, la febbre continua ammazza il malato. Se l'uomo
mangiasse una volta la settimana, pazienza!, ma io non posso darvi
Il pane ogni giorno, e levarlo di bocca ai miei figli. Cercate di
industriarvi alla meglio.
E la nuora, riprendendo coraggio, replicò bruscamente:
— Che ci fate quì in casa nostra? Si ha da dirvelo con le
mazze, che non vogliamo saperne di voi? Andate, andate da
quell'ubbriaca di vostra figlia.
Lo zio Clemente divenne di un rosso apoplettico, poi chinò do-
lorosamente la testa, dicendo: Sia fatta la volontà di Dio! E
senza dir motto, prende la giucca vecchia, la vecchia bisaccia, che
gli serve di coltre, la vecchia scodella in cui mangia, la forcella su
cui si appoggia, e va in casa della figliuola. E la figlia, vedendolo
venire con armi e bagaglio gli grida:
— E che? La svergognata di vostra nuora vi ha forse
cacciato di casa? Quando le regalevate ad una ad una tutte le
coltri della sant'anima di mia madre, le quali spettavano a me,
allora sì che vi facea le moine! Ed ora che siete come il finocchio
di S. Giovanni, la trista femmina vi caccia a colpi di scopa? Io posso
darvi il luogo per ricoverarvi: un angolo della grotta, ma pel
mangiare dovete pensarci voi stesso. Se avessi quel tanto che i
protettori pelosi... regalano a quella zingara di vostra nuora,
vorrei nutrirvi a galletti e a piccioni... ma io non ho protettori... nè
posso nè so far miracoli. Ho cinque figli, e il marito che sei mesi
l'anno è malato. Bella scelta che avete fatto! Mi mancavan forse
partiti?
La casuccia della figliuola, come la maggior parte delle
case contadinesche nei nostri paesi montuosi, consisteva in un'ampia
stanza, alla quale facea appendice una grotta buia, umida,
angusta, e nondimeno caldissima. Era quella dalla sera del sabato
all'alba del lunedì l'abitazione temporanea del cane e dell'asino; ma
era nel tempo istesso l'abitazione permanente e legale di quattro
galline, di un gallo, di una troia, di una tartaruga, e di una coppia
di conigli domestici che facean figli ogni mese. E quasi ciò fosse
poco, a non parlare dei milioni di mosche, di zanzare, di pollini e
di altri insetti più sozzi, parecchie nidiate di topi uscivano a
processione ogni notte dai buchi e dal pattume del pavimento.
Il povero zio Clemente si corea sopra una specie di canapè
di pietra, che in dialetto denominiamo ticcèna, e ha la bisaccia per
materassa, e la giucca per coltre. Egli, a dir vero, si cura
pochissimo dei caldi diluvi tramandati da tanta varietà di
escrementi, da tanta miscela di calori, e da tanto lezzo d'insetti: che
diavolo! sarebbe bella che i villani si curasser di siffatte bazzecole!
ma la vita che vi mena è vita d'inferno. Per quanta è lunga la notte
lo sventurato non fa che battere e ribattere la forcella sulla
ticcèna per iscacciare i sorci che gli mordon le gambe: ed è scena
tristissima udire quella sua tosse catarrosa e quel continuo battere
di forcella. Non pertanto la prima
e la seconda settimana passarono come Dio volle, con un po' di
mala cera da parte del genero, con un po' di brontolio da parte
della figlia, ma via, non l'andava proprio maluccio. Al finire del
mese la faccenda per altro non andò così schietta, perchè la figlia,
che avea il pensiero sul labbro non potè ristarsi dal dirgli:
— Ma insomma, padre mio, proprio non volete metterci un dito?
Ho la figlia grandetta, ed è tutta stracci ed untume; ho il
figliolino che oramai ha dodici anni, ed è senza scarpe. Non è
possibile che mantenga anche voi. Perchè non fate come gli altri a
buscarvi il pane con l'elemosina?
Lo zio Clemente si fa scuro in volto, ma la figlia rincalza:
— Avreste forse vergogna? Eh via! siete il papa o il principe
di Butera? Quando non si può lavorare, è Gesù Cristo che
comanda di chieder l'elemosina. Sentite, che vi conto una storia.
Una volta un poverello, che era stato ricco come voi, e che
poi era diventato vecchio e ammalato e pieno di piaghe come un
asino di mugnaio, andava ogni giorno alla chiesa dei
Cappuccini, ove ci era un Cristo miracoloso; e, giunto lì,
s'inginocchiava, si battea il petto, e dicea lagrimando: Voi sapete,
o Signore, che non posso più lavorare, e che non possiedo manco
un filo di paglia. O mandatemi una santa morte, o datemi i mezzi
per vivere.
Prega oggi, prega domani, una volta il Crocifisso gli
rispose: Va, figliuol mio, va da Santo Còccio,' ed egli t'insegnerà
il modo di tirare innanzi la vita. Dice il poverello: E chi è codesto
Santo Còccio,
e dove potrei trovarlo? Dice il Crocifisso: Non dartene
pensiero, che lo troverai in questa stessa giornata. Il poverello
esce da chiesa reggendosi sulle grucce, e piglia la via della
campagna. Cammina, cammina. Incontra un ladro. Dice il
poverello: Siete voi Santo Còccio? Sarei Santo Còccio se non
avessi la carabina e il pugnale. Cammina, cammina. Incontra un
Principe a cavallo, seguito da staffieri
e campieri, che erano proprio un subisso. Dice il poverello:
Siete voi Santo Còccio? Bestione! Se non fosse per me, Santo Còccio
mo-

Fari l'arti di Santu Còcciu vale far l'accattone. In Catania dicono esser divoto della Madonna del
Còccio.
rirebbe di farne. Cammina, cammina. Incontra un eremita,
che tira l'asino per la cavezza, e l'asino nelle bisacce porta ogni
ben di Dio. Siete voi Santo Còccio? Sì, figliuol mio, son io per
l'appunto. Dice il villano: Il santissimo Crocifisso dei Cappuccini mi
manda
da voi, perchè mi ammaestriate nell'arte di viver senza lavoro.
Risponde l'eremita: Prendi una bisaccia, e va nei trappeti, nei
palmenti,
nelle aie, nelle mandre, nei maceratoi di canape; chiedi la
carità per le anime sante del purgatorio, e pochi, ma pochi
davvero ti daranno un rifiuto. Ciascuno dei benefattori ti darà,
a dir vero, pochino; ma pensa che le tante grana forman le onze.1
Il povero lettighiero, che ha capito l'antifona, cangia a via
di sforzi il bel timbro della sua voce in un altro orribilmente
nasale; solfeggia le note più stridule, più monotone, più stizzose,
che possano uscire da trachea di uomo; atteggia la faccia a un
misto di compunzione sfacciata, e d'ipocrisia collerica, e
appoggiato alla porta di una chiesa, di un caffè, di una bettola, di
una rivendita di tabacchi, da mane a sera, al vento, al sole, alla
nebbia, alla pioggia, con la mano perpetuamente distesa, non cessa
dal declamare con orribile cantilena:
— Questa è la vera carità! Questa è la vera limosina! O
buoni cristiani, date aiuto a un poverello che da tre giorni non
apre la bocca! Fatelo pei vostri morti! Fatelo per le anime
sante! Oggi è primo Lunedì, oggi è Venerdì, oggi è Sabato di
Maria! Il Signore saprà ricompensarvelo e nel corpo e nell'anima.
Fatelo per le cinque piaghe di Gesù Cristo! Fatelo per le sette
spade di Maria Addolorata! Questa è la vera carità! Questa è la vera
limosina!
Nei primi giorni la faccenda va un po' zoppa, perchè il
mestiere è tuttora grezzo, e ci è un residuo di vergogna, e gli altri
poveri gli fanno guerra ostinata; ma a poco a poco lo zio Clemente
raffina un po' meglio la voce, gli atti, la cantilena, le formu le: e ci
è da contentarsene... parola di onore!
La figlia, che se ne accorge, comincia a fargli carezze, gli
prepara il pan bollito, e glielo condisce con la maggiorana; gli
lava la camicia, gli dà il miglior posto innanzi il braciere;
stende un lenzuolo sulla paglia infradiciata sulla quale ci si
corea, e vi stende anche una frazzata di cenci.' I nipotini non lo
chiaman più nonno lan-

Narrato da Pasquale Bellio, contadino di Chiaramonte. Vedi in fine la nota BB.


i
2La frazzata è una coltre di lana tessuta; ma i veramente poveri mettono in serbo i cenci di
mussolino a colore, li attortigliono, li tessono, e ne formano una frazzata.
terna, o nonno chitarrone; ma papà grande e papà core,' e gli
bacian le mani ogni mattina; il genero gli porta il vino rimastogli
dalla settimana: ma nel tempo stesso gli fan costar salate codeste
carezze, perchè stan sempre a tempestarlo e a spolparlo. Si presenta
il genero:
— Suocero mio, ho avuto l'avvertimento pel maledetto affogato,'
che li affoghino tutti quanti! nè so dove darmi di verso.
Prestatemele voi quelle tre lire.
Viene la figlia:
— Padre mio, l'avete visto il porcello della gnora Catena? Voi,
che siete pratico, quanto potreste prezzarlo?
— Privo della vista degli occhi! quel porcello a regalarlo val
sette lire bollate.
— E a me lo darebbe per cinque lire, ma non ho manco un
centesimo. Padre mio, datemele voi quelle cinque lire; non
mi fate perdere quel negozio.
— E dove vuoi che le prenda?
— Non mi fate l'avaro, perchè la lìmosina per voi corre larga,
e nei funerali dei ricchi siete sempre il primo a cui danno la torcia.
— Ti dico che non son la botte di San Gerlando.
— Via, padre mio, che vi farò un bel pastiere di spinaci, na-
tanti nell'olio... e con le ulive passe... e col pepe... e col tonno salato.
E lo zio Clemente che pel pastiere degli spinacci
rinnegherebbe anche il battesimo, snocciola a soldo a soldo le cinque
lire.
Vengono i nipotini:
— Papà grande, vedete... ho i piedi scalzi, e ci ho i geloni...
Perchè non mi fate le scarpe?... Mi chiamo Clemente come voi,
e voi non volete farmi le scarpe!
— Papà core, io sono Giovannella, quella cui volete tanto bene
perchè somiglio alla nonna. Vedete qui; il fazzoletto è tutto stracciato.
E il nonno Clemente snocciola i soldi per le scarpe e pel
fazzoletto.
Nè si creda che faccian riposare il povero vecchio quando
si riduce a casa stanco dall'andare accattando, ma sempre son
pronti a dirgli:
— Padre mio, vado a far visita alla vicina: accendete il fuoco
i Papà core, e mamma core son denominazioni colle quali i bimbi nostri denominano i nonni, o gli
zii.
2 11 dazio sul focatico dai popolani è chiamato l'affogato.
3 Pastiere, val lo stesso che pasticcio.

116
per me; padre mio, intrecciatemi una scopa; padre mio,
raccontate qualche fiaba a Grazietto che è ammalato; padre mio,
portate attorno la bimba, che vorrebbe star sempre al capezzolo;
padre mio, suocero mio, nonno mio, fate questo, fate quell'altro.
E lo zio Clemente, che vorrebbe e non può riposare un momento,
per disperazione esce da casa; e al sollione e alla neve, quando
nelle vie non ci è anima viva, si rannicchia come i cani sotto un
arco di porta, o sotto l'olmo dei Cappuccini.
Un giorno — cosa insolita in lui — si sveglia senza appetito, e
rifiuta, chi avrebbe potuto crederlo? un piattello di quelle lumache
condite con pomidoro e cipolla, di quelle lumachette sì belle, sì
appetitose, ch'erano state la sua passione. Il tempio sta per
crollare, dice fra se l'accattone. Bisogna mettermi in pace con Dio.
E quella mattina invece di stender la mano va difilato alla chiesa
dei Cappuccini in cerca del padre Giambattista.
— Ho la morte sul collo, Padre Giammattì, e son venuto a sal-
dare il mio conto.
Il padre Giambattista lo confessa, l'assolve, e poi gli dice:
— E per l'anima non ci pensate? Voi dovreste avere un bel
gruzzolo...
— Io, padre Giammattì? Io sono spolpato come un osso in
bocca dei cani. Io l'olio, io il sapone, io le scarpe, io le gonnelle, io
le tasse, io persino le fasce del neonato. Lasciatemi stare, Padre
Giammattì. Vi dico che ho desiderato la morte cento volte il
momento. Non mi restano che ventisette tarì, e ve li lascio per
messe; ma vorrei ben anco che mi si sonasse l'agonia.
— Non datevene briga, che ve la farò sonare al Convento.
L'indomani lo zio Clemente restò a letto, travagliato da un'asma,
che gli facea sobbalzare il petto come mantice di fucina. La
figlia vedendolo infocato e affannato gli disse:
— Chè cosa avete? La febre?... Via, fate uno sforzo, pensate
che oggi è primo venerdì... e la limosina corre larga.
— Non posso, figliola mia, non posso. Forse non vedrò il sole
di domattina.
— Non v'impaurite. Chiameremo la zia Margherita, che ne sa
più dei dottori... Datemi però i quattrini per le medicine e pel brodo.
— I quattrini, figliuola mia? Gli ultimi che mi restavano li ho
dati jeri al Padre Giammattì per dirmene messe.

' Metafora, con cui il nostro popolino denomina il ventre.

117
— Dite da senno?... Ah, vecchio stolito!... E chi comprerà
le medicine? Chi la carne pel brodo? Avean ragion gli antichi: Chi
toccava i cinquant'anni gli si tagliava la testa. Per me me ne
lavo le mani.
— E volevi dunque che all'anima non ci avessi pensato?...
Volevi che fossi morto come un cane?
— Per l'anima vostra ci avrei pensato io, io che vi avrei
ogni sera recitato il rosario, io che vi avrei raccomandato nella santa
messa. Ma ora me ne lavo le mani: carne non ne posso comprare,
medicine non ne posso comprare...
— Non importa, figliuola mia: morrò come vorrà il Signore.
— Ah, non importa? E le vicine chè cosa direbber di me?
Chè direbbe di me quella svergognata di vostra nuora? Direbbero
che vi ho fatto morir di fame; direbbero che non vi ho dati i
rimedii per togliervi dagli occhi miei. E poi... e poi... se la
malattia si aggrava, se ci sarà bisogno del santo viatico,
dovrebber forse portarvelo nella stalla fra la troia, le galline ed i
sorci?
— non potresti per quell'occasione mettermi nel letto tuo?
— Mio marito mi ammazzerebbe. Se aveste i quattrini, via,
gli si potrebbe tappar la bocca; ma giacchè deste i soldi al padre

118
Giammattì,
piangetene le conseguenze. Andrete allo spedale.

Il vecchio si alzò a mezzo letto, gridando come un pazzo.

— All'ospedale? mai. mai! Nessuno della mia razza ci è


andato, e non ci anderò neppur io. No; non voglio morire come i
sorci, no, non voglio veder le anime condannate. Prima mi spezzerei
la testa su questa ticcèna.
— Eh via, se anche vedrete le anime condannate, forse vi
mangeranno? E poi c'è lì come serva dell'ospedale la nostra
parente, la zia Maddalena. Starete come in casa vostra. Per me
non voglio impicci, nè voglio essere ammazzata da mio marito.

Per capire quello sgomento, anzi quel terrore dello Zio


Clementeper lo spedale è uopo far noto al lettore che nei Comuni
dellaContea di Modica non c'è pitocco, il quale non senta
vergogna di non mo-
rire nella propria casuccia e in mezzo ai parenti. Codesto
sentimento di orgoglio è così indomabile nei contadini, così
radicato, così ritroso
ad ogni ragionamento, che sarebbe fatica sciupata il
combatterlo.E a questa si aggiunge un'altra falsa opinione,
tenuta in conto
di dogana, che i direttori, cioè, e i medici dell'ospedale
ammazzino gli ammalati nei cibi o nei farmaci, quando la malattia
duri a lungo.
Sicchè per l'uno e per l'altro motivo non si dà il caso che un
contadino si rechi volontariamente allo spedale, ma è uopo che lo
si conduca riluttante, o quando per delirio o per prostrazione di
forze non possa opporre menoma resistenza.
L'indomani un po' prima di mezzogiorno un uomo addetto al -
l'ospedale, e due facchini con una barella entran di botto nella
stalla dello zio Clemente.
Lo zio Clemente capì, fece uno sforzo poderoso, tentò sorgere in
piedi, urlò come un toro, fu squassato da fieri tremiti in tutta la
persona, ma lo tradiron le forze e cadde disteso sul letto. Era il
momento opportuno. I facchini lo rinchiusero nella bare lla e
s'incamminarono per uscire; ma sull'uscio ci era la figlia. E allora
lo zio Clemente sbarrò gli occhi con terribile fissità, e riacquistando la
loquela, perduta sino a quel punto per la rabbia selvaggia che
l'invadea, apostrofò la figliuola:
— Senti, non ti maledico... perchè mi pare che... che tua madre...
sorga dalla sepoltura per chiudermi la bocca con la sua mano...
Ma ciò che hai fatto a me... un giorno lo faranno a te i tuoi figliuoli.
L'accattone da lì a poco coricato sul letto dell'ospedale non aprì
più bocca, nè per parlare, nè per mangiare; non cacciò neanco
le mosche che gli mangiavano il volto, e gli si assiepavano come
una maschera. A la sera si bendò gli occhi col fazzoletto perchè
non vedesse le anime condannate; ma sia per la febbre, sia per lo
spavento, sia per la mente sconvolta gli sembrava che attraverso
il fazzoletto scorgesse le anime di tutti i pitocchi che eran morti
lì dentro; e allora dirugginava i denti per terrore, o pregava con viva
fede:
— Gesù mio! Gesù benedetto! Gesù che patiste tanto per noi...
Gesù mio, non voglio di siffatti spaventi!... Gesù mio, fatemi
morire! Gesù mio, abbiate pietà di me peccatore!
L'indomani il medico lo trovò moribondo e ordinò apprestarglisi i
Sacramenti. Oh quelli, quelli furono istanti fe lici per lui. Era la
visita del solo amico, del solo conforto, della sola speranza che
abbia l'uomo abbandonato da tutti.
Accanto al letto stava una donna in cui la vecchiaia avea guasta
orridamente la giovanile bellezza, che non dovea esser poca a
dedurla dai lineamenti; ma ormai la pelle del volto, di un giallo
screpolato e bilioso, avea preso colore e consistenza di carta
pecora; gli occhi grandi e nerissimi parean vetrificati entro una
cornice rossa e cisposa, e il labbro inferiore rovesciato sconciamente
dava il varco a un sozzo fluire di bave filamentose, e lasciava
apparire cinque o sei radici molari.
Il vecchio, che sino a quel punto sembrava non averla
veduta, or la guardò a lungo, e poscia le si rivolse con
espressione di angosciosa premura: ...
— Comar Maddalena... Vi ricordate che un giorno vostro
marito volea tagliarvi il collo con la falce?...
— Oh se me ne ricordo, compar Clemente!... ma io era
innocente come Maria Immacolata...
— E vi ricordate che se non ero io a salvarvi, e a metter pace
fra voi...
— Dio ve ne renda merito: non passa giorno che io non vi rac-
comandi nella santa messa.
— Or bene: Nol vedete? ormai sono agli sgoccioli, ma muoio
con terrore grandissimo. Comar Maddalena, voi siete l'unica mia
parente. Giuratemi sul Crocifisso, di chiamar l'anima mia della
strada.'
La vecchia si pose a piangere:
— Ve lo giuro, compare mio, ve lo giuro sul Crocifisso e
sull'Ostia consacrata.
— Voi mi levate una spina dal cuore; ma questo solo non basta.
Guardatemi, comar Maddalena: vedete come è ridott o lo zio
Clemente?... sfuggito dagli amici, scacciato dai figli... costretto a
morire nello Spedale... Chi nei tre primi giorni della mia morte
metterà il pane e l'acqua innanzi all'uscio dello ospedale?'
La vecchia raddoppiò i singhiozzi...
— Io, io, compar Clemente, io che sono parente vostra.
Credete forse che io non ci abbia pensato? A bella posta invece del
sabato
vegnente ho fatto il pane sta notte. Ho detto: il povero
Clemente è come me, è senza denti... conviene che gli si faccia
un po' di pane fresco: Nei tre giorni dopo la sua morte lo masticherà
senza sforzo.
— Comar Maddalena, io sono un misero peccatore, ma vi
benedico con tutta l'anima mia. Io non ho altro che questa
corona: accettatela per mio ricordo. Ed ora un'altra preghiera: Vorrei
il Pa-
1È credenza di Modica, che l'anima non possa uscire dalla stanza mortuaria, ove
non sia richiamata con urli e stridi dalla via: costume, che tuttora è vivissimo, ed io
stesso ne sono stato testimone parecchie volte.
2 Costume vivissimo nella plebe di Modica. Si crede che il morto nei primi tre
giorni venga in sua casa a sfamarsi di un po' di pane, e a spegner la sete in un catino
di acqua. I parenti del morto lascian di notte per quei tre giorni l'uscio di casa socchiuso,
e dietro l'uscio collocano l'acqua ed il pane.
dre Giammattì per raccomandarmi l'anima, e compar
Diomede il becchino...
— Il becchino è quì. Nol vedete? È innanzi alla porta.
— Accostatevi un poco più, compar Diomede. Ci pensate? Un
giorno vi ho fatto una grave ingiuria, dandovi del ladro e
battendovi, perchè... perchè dopo un mese che era morta la mia
compagna, vidi la gonnella con che era stata seppellita... addosso
a vostra moglie. Or ve ne domando perdono... perdono con tutto
il cuore... perdono con tutta l'anima mia. All'uomo che sta per
morire non si ricusa nulla. Oh compar Diomede mio, vi scongiuro
per le anime sante del Purgatorio, che non vogliate vendicarvi,
legandomi i piedi!
— Morirete in pace, che vi ho perdonato da un pezzo. Non solo
non commetterò l'iniquità di legarvi i piedi, ma invece di buttarvi
a capo in giù nella fossa, farò scivolarvi sul cuoio dalla parte dei piedi.
— Lasciate che vi dia un bacio, e accettate questa tabacchiera
come ricordo di un uomo che non possiede più nulla.
Passaron . quasi due ore. Il moribondo si era trasfigurato
terribilmente nel volto; parea decomporsi ancor vivo. Non sentìa
più, nè vedea, nè potea movere un dito, ma agitava le labbra come se
un'idea insistente volesse tradursi a parole. E quell'idea ci era
davvero, perchè il misero aspettava il suono dell'agonia,
promessagli dal cappuccino... ma l'agonia non suonò.
Da lì a poco viene nuovamente il becchino, poi quattro
Con-frati della Carità che portano il cataletto, poi il cappellano che
porta l'asperges, e il sagrestano che porta la croce di argento. Il
morto viene rannicchiato entro la bara, e si dà principio al
trasporto. Non appena però si oltrepassa l'ultima casa dell'abitato,
il cappellano, che sente sonar mezzogiorno, e che pranza a
mezzogiorno preciso, si ferma di botto, asperge di acqua benedetta
il cadavere, e invece di accompagnarlo sino al camposanto si fa
accompagnare dal sagrestano e ritorna a casa di furia. I quattro
confrati lasciano anch'essi la bara, la danno a due manovali, e via
a casa loro: sicchè il resto del viaggio si fa in quattro: il morto, il
becchino e i due trasportatori.
— Cristo! quanto pesa! dice l'uno di loro. Lo zio Clemente
dovea esser pieno di peccati sino all'ugne dei piedi.

È credenza che San Giacomo Maggiore prenda l'anima del morto, e prima la
trasporti in Galizia, poscia la conduca per la via lattea. Se al morto però si allaccino i piedi,
o i ginocchi, l'anima non potrà fare il viaggio, e re sterà vagante per l'aria.
— Io sono in una saponata, risponde l'altro... e ne berrei
volentieri uno o due litri.
— Anch'io lo berrei. Vogliamo giocare al tocco lo zio Clemente?
— Chè diavolo dici?
— Intendo dire, di giocare quei pochi che ci dà la
Congregazione pel trasporto del morto. Volete esser della partita
anche voi, compar Diomede?
— No: mi piacerebbe meglio di giocarcelo a briscola.
— E il quarto?
— Puh! il quarto! C'è il custode del camposanto, che si
giocherebbe il battesimo. Le carte le ho in tasca. Ci state?
— Bestia chi se ne pente!... Puh! come pute!... Avete
tabacco, compar Diomede? Parmi di essere nella tana di una volpe
figliata.
— Se S. Pietro non è raffreddato, lo caccia a calci dalla
porta del paradiso.
Intanto l'un passo dopo l'altro son giunti al cimitero. Il
becchino fruga il morto per vedere se ci sia da rubacchiargli o
la camicia, o i calzoni, ma non trovando che cenci ed insetti,
sclama indispettito: Maledetti taccagni! l'han mandato via come
Giobbe. Non c'è da spigolare un centesimo.
E lo butta con istizza entro una delle fosse pei poveri.
Da lì a poco i manovali, il becchino e il custode sbevazzono, e
giocano a briscola il morto.

Fine
NOTE
A. Rici c' 'a ttiemp' antichi cc'era na pirsicuzioni ranniusa
contra i cristiani; e a cu"mpinnièunu a cu' squartariàunu. I
spiuna, e i sbirrazzi, ca ssa rrazza 'nfami ci ha statu sempri n' 6
munnu, passiàunu notti e ggiuornu pp' aggranfari 'e' (ai) cristiani:
ma c' 'u purtàunu scrittu n' 'a frunti ch'èrunu cristiani? Ora 'na
vota un capu sbirru ri chissi s' apprisenta 'o Re di Roma, e cci rici:
Sària Curuna, 'i voli canùssciri 'e' cristiani? I cristiani su' chiddi ca
pòrtanu 'a varva cussì e accussì. E dduocu ci vuòmmica comu
l'avianu 'a varva. Lu Re subbitu: Bannu e cumannamientu!... Tutti
chiddi c'hannu 'a varva cussì e accussì fùssiru purtati priciùni, e
ppui marturiati e ddecapitati ri vita! Ora dduocu echi bulìstivu
vìdiri? Tàggia ch'è rrussu!... e 'u sangu scurrìa comu l'acqua. Ni
ssu gran parapiggia rici ca ru' cristiani, c' àvana statu assicutati, si
nni jieru n' 'a casa ri Sam Paulu, e tutti scantati cci rìssiru: Viri ca
a Roma cc' è chissu e chissu. Piggiati 'u rrasolu e rrarìtini 'a varva;
ca vui, ppi donu ri Diu, 'un cc' è cosa ca 'un zapìti fari. Sam Paulu
pìggia 'u rrasolu, fa 'a sapunata, e ppui si minti ravant"o spècciu
ppi ffàrisi a varva iddu stissu. I ru' povri cristiani ficiru 'a morti c'
àppiru a ffari: Comu! ci rìssiru, e bbui siti Santu?... E si i sbirri ni
tròvanu c' 'a (con la) varvazza, echi è ca ni fannu ri nui? E si
tròvanu a mmia? cci rissi Sam Paulu. Pri bbui prìculu 'unn aviti.
'Ui siti amicu r' ò Re. É bberu ca sugnu amicu r' 6 Re, cci
arrispunni Sam Paulu, ma, 'e' vòti, cu' sa?... I Re su' comu i
piruòcci, ca 'un canùsscinu a nuddu. Quannu mi finìssciu ri
fàrimi a varva mia, tannu, si arrèsta tiempu, fazzu chiddu ri vu'
àutri... E di dduocu nassciu 'u muttu anticu ca Sam Paulu si fici
prima 'a varva so, e ppui fici chidda ri l'autri.
Narrato da Salvatore Gatto, villico da Chiaramonte.

B. Rìcinu ca quannu Dòmmini Ddiu fici 'u munnu, ava fattu ru'
formi, e 'un zapìa ri chissi mi 'u sciatu a cu' cci 1' av' a ddari. Una
ri ssi formi era ri crita finissima, di chidda ca fannu i cicri
(chicchere), e l'autra forma ri crita r' ó Còmmisu, ri chidda ca
fannu i pignati; ma n' 'a (nella) forma ri crita bbona 'u Signuri,
scànciu r' 'a mirudda cci ava misu un ddiamanti, e scànciu r' 'o
cori un piezzu ri cacazza ri fierru; e n' 'a forma ri crita pignatara
scànciu ri mirudda cc' era sùvru, e scànciu ri cori 'na badda r' oru
zicchina. Pui 'u Signuri cci pinzau mièggiu, e potti riri -ntra r'
iddu: te' echi cazzata ca stava fannu! e detti l'arma 'a' forma brutta,
e all' àutra 'a lassau n' 6 parariso tirrestri.riti ca 'na vota 'u Cifru
'nfirnali si trovau a pass ri ddi talài, e ppi ffari 'na nichèa a
Dommini Ddiu, echi è ca fa? Si cala e cci runa 'u sciàtu a ddu
pupu ri crita bbona. Ora rìcinu l'antichi ca n' àtri burritti
siemu i figgi r' 'o pupu 'i Ddiu, e bb' àtri (voi altri) cappedda siti
i figgi r' o' riàulu: e ppi cchissu siti dotti, ma 'unn (non) aviti nè
càrità, nè ttimuri ri Ddiu.

Narrato da Salvatore Ventura inteso Libbroniu villico da


Chiaramonte.
C. Vuonu riri c' a ttemp' antichi i viddani 'n facièunu àutru
ca lamintàrisi e siddiari 'o (al) Signuri, riciènnuci: Ma echi nu'
suli àppim' a ssiri i bastardi? L' àutri strangùggianu comu
puorci, e nnui cc' un pani senza ru' mienzi. 'Nca echi fuommu
nu' suli ca vi 'ncarcàmmu i ciova, o Signuri? Ora 'u Signuri ppi
livàrisi stu sustu ri 'nquoddu, jittàu 'nu bannu ca a lu tali
jiornu e a lu tali luocu, currìssiru tutti, ca 'ulia fari 'a
ddistribuzzioni r' 'e (dei) mali e r' 'e bbeni. I primi a cùrriri
fuoru i cavalieri, e, siennu suli, — ch' èrunu mincciùna? s'
aggranfaru 'u mièggiu mièggiu: i tirrìna, i ricchizzi, i diver -
timenti, 1' impièi (impieghi): ma pp' 'a saluti ci appir' a ffari na
truci longa ru' canni: e ppi cchissu su' sempri malatizzi e ri
mal acculuri. Pui vinniru i mònici e i parrìni, e cci rissiru 'o
Signuri ca si cuntintàunu r' 'o sulu pararisu; ma pui criu ca
pòttiru riri: Talè chi sièmu mincciuna!... e scuparu tuttu chiddu
c' àvana lassatu i cavalieri. Ma pp' 'i fimmini, Nibba Catabba! cci
àppir' a ffari 'u scòrdiu; anzi Domeneddiu ci rissi tunnu ri
palla, ca s' àvan' a bbéstri (vestire) eh' 'i (con le) 'unniddazzi
ppi fàricci a sapìri, eh' 'e' fimmini l'àvan' a rrivardari comu
suruzzi. L' ùrtim"i tutti capitaru i viddani, e ttruàru a Geru -
salemi ristrutta. Si misiru a ttriuliari e ppilari: E ora com'
hàmm' a ffari, o Signuri? I cavalieri e i parrìni 'un lassaru
mancu l'ossa. Erumu tinti, e ora sièmu cciù tinti. Cchi è c'
hàmm' a piggiari? Cchi è c' hàmm' a llassari? 'U tirrìnu par'
alliccàtu c' 'a lingua. Cca 'n cc' è àutru ca u bbarduinu
(ciuco). E bb' àtri picchì 'un currièvu? cci arrispusi 'u Signuri:
'Un lu sapiti ca cu 'n z' arrimìna (s'industria) nun mància? Ora
ppi bbui 'u piattu ri forti è 'u sciccarieddu. E i nnuòssci mali,
Signuri, quali su? Sunn' assai? cci rìssiru cianciennu i vid-
dani. Bih! bih! bih!... cci rispusi 'u Signuri, i vuòssci mali su'
quant' i pùlici n' 'o misi r' austu: ma r' unu sulu v' 'M' a
bbardàri cciù assai; e cchissu è 'u sbirro, picchì è 'u cciù
priculùsu ri tutti.

Narrato da Vincenzo Gulino, detto Sirènu, massaro di Chiaramonte.

D . 'Na 'ota mentri u mmiddànu (villano) stava zappannu, vitti


un zurciddu 'mmienzu i granfi r' o gnattu. Sintiènnulu grirari ci
parsi piatusu: afferra 'ncuticciuni, e ttrùppiti n' 'o schinu r'
'o jattu sarvaggiu. 'U nnumàni 'mmeri (verso) mancciàta 'i
matìna, èccuti ca 'u viddanu si viri accumpàriri a 'na Signura
vistuta comu 'na Rriggina. U viddanu amminccialìu (stupì) e
mancu appi testa 'i luvàrissi 'a bburriòla; ma 'a Signura 'u
piggiàu p' 'a manu e cci rissi: Mi canussci, o bbon giùvini? Iu
sugnu 'dda surcidda ca tu ajeri libbrasti r' 'o jattu. Ora h' a
sapiri ca sugnu 'a Fata Muriana, e 'na 'ota 'a simana ppi 'na
jiastìma r' 'e me' nnimìci aiu 'u malu ristìnu ri stracanciàrimi 'n
zurci. Sugnu vinuta ccà ppi rringrazziàriti, e ppi cuncèriti dda
'ràzzia ca tu disidri. 'U viddanu, mineciuni mincciuni cci rissi:
Quann' è 'na cosa ri chissi, 'a ràzzia ca m' avissivu a fari è chidda r'
avìri ppi mùggeri 'a ronna cciù bbedda ca cci po' ssìri n' 'o munnu.
Penzici bbeni, ci arrispusi la Fata. 'Un lu sai 'u muttu anticu?
Penza la cosa prima ca la fai,
Ca la cosa pinzata è bedda assai.

'Unn aiu cchi pinzari, rispusi 'u viddanu, ca 'u sangu cci friia
comu l'uòggiu. Si bossìa m'h"a vo' ffari ssa 'ràzzia, e bossìa m' a'
fa; s' 'un m'h"a vo ffari, àutra 'n cci nni dumannu. 'A Fata,
viriennu eh' er' attistàtu, nessci un ritrattieddu, e cci 'u
'mmùsscia, riciènnuci: Chista chi ti piacissi? 'U viddanu cumu
vitti dda facci rara, ca, luvànnici i piccati, paria 'na Maronna
'Mmaculata, si 'etta facci ppi tterra, vaca li pieri a la Fata, e cci
rici: Si mmi rati a chissa, mi sientu cciu rriccu r' 'o papa. 'A Fata
nèssci 'n àutru ritrattieddu, e cci rici: E cchista ccà ti piacissi? A
cu'? a chissa? Puh! a cchissa manc"a tuccassi c' 'a scupa. Babbu!
cci rissi 'a Fata Muriana, sti ru' ritratti su' ttutti rui ri 'na sula
pirsuna. 'A picciotta ca 'urrìssitu, ora ha sìrici anni, e ppari 'na
rraia ri suli; ma lassa passari n' àutri vinticincu, trent'anni, e addi-
venta, nè llivàti nè mintìti, com' a cchista ca nu 'mmuoi (non vuoi)
tuccari c' 'a scupa. Pènzici bbeni, figgiu miu, picchì 'na sula ràzzia
ti puozzu cuncèriri. 'A rrobba arresta e 'a bbiddizza è ssciùsscia ca
vola. 'U viddanu cci fici suppa, e ffci comu cci rissi 'a Fata Muriana.

Narrato da Francesco Scopo, villico di Chiaramonte.

E. Mi riesce impossibile trascrivere in dialetto, e nel modo come


l'ebbi narrata la leggenda di San Silvestro, tanto è piena di sudicerie
stomachevoli.
F. Quann"u Signuri scacciau Aramu er Eva r' 'o pararisu
tirrestri, a povra Eva 'n facia àutru ca ciànciri e mazziàrisi 'u
piettu; e 'ntr'o rispiaciri, 'ntr"o travàggiu, 'ntr"o pitittu (ca 'u
pitittu 'u tastava) 'na 'ota cariu malata, e paria ca rava l'urtim'
assacchi (aneliti). 'U Signuri, ch' è sempri patri ri misiricordia, n' appi
rulùri, e bbiriennu ca (Eva) nunn avia nè mmièrici nè mmiricini cci
mannau a I'aràncilu Raffieli ppi bbisitarla. 'A povra Eva era ni 'na
'urutta, (grotta) curcata sopr' un ffàssciu 'i puddàri, ca trantuliava
r' 'o friddu, e 'u Sant' arcàncilu cci rissi: Eva, 'n ti scantari, ca mi
cci manna 'u Signuri, e pp' i tuoi bisogna ti manna sta casscittinedda
unni cci su' tutt' i miricini r' 'o munnu. Ora quannu tu, o Aramu, o i
picciriddi aviti bbisuogno 'i cocchi miricamientu, nun è c'h' a gràpiri
'a casscittina, ma t' addinuocci e priei 'o Signuri ca ti mannassi 'u
veru rimèriu: e bbiri c' 'o (che il) rimèriu nessci sulu, senza
sfrìmmalla (disserrare il cassetto). Eva echi ni vosi àutru? Priau 'o
Signuri, e r' 'e filazzi r' 'a casscittina nissciu 'n picciunieddu. Tutta
contenti cci tira 'u quoddu, e ssi fa 'na bbella tazza ri bruoru; e
tannu sulu si 'ntisi turnari ri morti 'm mìta (in vita). Ora gni mmota
ca cc' era malatii n' 'a famìggia, Eva s'addunucciava, e bbota ppi
bbota nisscìa 'n picciùni. 'Na 'ota però ca Cainu e Abbeli jiucànnu
cc' 'a casscittina, ràpisi dda casscittina, e echi bbrìstuu? I miricìni
'ularu com' un sbardu ri linnineddi (rondinelle). Aramu er Eva
cùrsuru p' affirralli, ma cc'àun'affirrari? Dduocu si 'ota Aramu, e cci
rici ar Eva: 'N ciànciri c' 'a curpa nun è tua e mmancu mia; e
fuorsi chistu è ssignali ca ppi ttutt"i malatii 'a vera miricina è 'u
bruoru r' 'o picciuni.

Narrato da Emanuela Santaèra, villica di Modica.

G. 'Ntisi riri ca 'na 'ota tutti l' ervi e i pianti (le piante) ca
cci sunu n' 'o munnu ficiru 'na supprica a Gesù Cristu, e cci
rissiru: O Signuri, vui a nu' àutri macci er irviceddi 'n' àta ratu 'na
virtù ranniusa ri sanari tutt"i I malatii, e mmacari i cciù priculusi.
Ora, o patri amuruso, vi pari cosa ggiusta ch"e cristiani muòrinu
com' i muschi ppi 'mmancanza r' aiutu? Cchi gran cchì forra, si cci
'nzignàssuu i virtù ca n' àta ratu? Chissu 'm po' ssiri, macciteddi e
irvicieddi miei, cci rissi Gesù Cristu, picchì 'un murìssi ciù nuddu,
e i cristiani s' avissur' a mancciari I' unu ccu 11' autru. Parò ammiru
'u vuòssciu bon ccori, e ppi ffàrivi cuntienti vi rugnu palora ca ri
tantu 'ntantu cocchi fimminedda arriva a scròpiri coccheruna ri ss
'iuòssci virtù; ma scàncciu r' avìrinni làusu (lode) 'n zarà critta
mancu r' 'e sdessi so figgi.

Narrata da Serafina Distefano, contadina di Chiaramonte.

128
H Cuntava 'a sant' arma r' 'o ma (mio) pa', ca 'na 'ota 'u
Capu Cifru n' òn fil' 'i nona 'i chissi (criu ca era nell'ura r' 'a
bbistialità) curriennu ni ssi campagni 'i Scappafurnu afferra 'na
crapa sravàggia, e a v' 'a 'mprena (la impregna). 'E' novi misi sta
crapa figgiàu sutta 'na màccia ri nuci; e, scanciu 'i fari 'na
ciauredda (capretta) fici 'na picciridda, ma accussì arrìbili, accussì
sbavintusa, ca' cu' 'a viria assintumava. Basta: 'u capu Cifru cci
attaccau 'u 'uddichieddu (ombellico) iddu stissu, e n' 'o piezzu
taggiatu cci 'nfilau spìgnuli (spilli), aùggi, e ffilu russu. Pu' s' 'a
vasau tutta, e cci rissi: tu si' 'a vera figgia mia, e dd' ora 'urlanti ti
rugnu i ma setti virtù. 'A picciridda, c' accuminzau a parrari ni ddu
stissu mumientu, cci spiau: E cchi sunu sti setti virtù? Vo' sapìri
cchi sunu? Sièntili bbonu:
Lu suli ccu la luna po' aggrissari, Iri ppi
lI'aria comu va lu vientu, 'Mmienzu li porti
ciùsi trapassari, L'uomu cciù fforti
addivintari lientu. Amici stritti falli
cutiddiari,
Mariti e moggi sciarri ogni mumientu;
Uomini e ddonni po' fari ciuncàri, Rulùra
fuorti, e nunn' aviri abbientu.
E ora ricìtimi 'na cosa, cci rissi 'a picciridda, duoppu ca muoru
iu, sta virtù mia a cu' è c' 'a puozzu lassari? 'U sai a cu' 1' h' a
llassàri? A cchiddi c' hannu 'u curaggiu ri fari 'a quatraggèsima 'n
anuri e gloria mia: e sta quatraggesima cunzisti n' 'o fari un piccatu
murtali ppi quaranta jiorna cunzicutivi. E sta virtù ti rugnu palora
che i fimmini 'i Scappafurnu 'n z' 'a fannu scappari.

Narrato da Palma Marino villica di Modica.

1. Quannu Domineddiu fici ad Aràmu, 'a prima cosa ca fici fu ri


fàricci firriari 'u pararisu tirrestri ppi 'nzignàricci tutti l'armali ca cci
purtàunu ùttuli, e chiddi ca purtàunu ddannu. 'U prim'armali ca
vittiru fu 'u Voi: Viri, Aramu, cci rissi 'u Signuri, chistu si ciama 'u
Voi, e tti servi ppi laurariti i terri. Pui vitturu 'u bbarduìnu: Viri,
Aramu, chistu si ciama 'u sceccu, e ti servi ppi purtàriti 'nquoddu;
chistu si ciama u' cani, e ti servi ppi bbardàriti 'a casa r' 'e latri;
chistu si ciama 'u jiattu e t' annetta 'a casa r' 'e surci; chistu si ciama
'ujiaddu, e t' abberti quannu cc' è cocchi mal' attimpata. Ora
mentri ca riscurrièunu, veni e bbeni Eva, ca 'u Signuri ava criatu
caura càura (in quel punto) r' on custicieddu r' Aràmu; e bbinìa
natichiànnusi tutta, e tutt' aroma ri sciùri. E chist' armali comu si
ciàma, Signuri? cci rissi Aràmu. Chistu nun è armali, ma è
cumpagnedda to, chidda ca t'h'a ffari i figgi; ma pensa ca 'u pa-
truni si tu, e idda è 'a to serva, e t' av' a bbidìri (ti ha ad ubbidire)
'n tutto e ppi ttutto. E s' 'un mi voli abbidìri, Signuri? U Signuri
dduocu si vòta, e cci ammùsscia un faiddùni ri terza, e ppu' cci
rici: Chistu cumu si ciama? Si ciàma 'na vìria ri terza. Sgarràsti
Aràmu: chistu quannu servi ppi mèttiri ggiurìziu 'a' muggèri, nun
si ciàma viria (verga), si ciama « raggiuni ». Scarricaccilla 'nquoddu,
e bbiri cà ddiventa 'na piècura.
Narrato da Mariano... inteso Marchisi, villico di
Chiaramonte.

J. Sam Martinu era 'u Mmìspicu (vescovo) ri chiddi ca ora 'un


ni passiànnu cciù: 'U so 'unn era so', e ssi facìa mùnciri comu 'na
piècura ppi ddari aiutu 'o pòuru; non comu l' armi mmarditti r' 'e
parrìni r' ora, ca pp' 'un centèsimu si facìssiru scippari 'u
battisimu. Stu Sam Martinu era bbuonu cumu 'u pani, ma avia 'u
vizziu ca cci piacìa 'u sangu 'i Gesù Cristu (il vino); e a ccomu
sunava menzziornu ciuria (chiudeva) 'a porta c' 'u catinazzu, mittia ru'
timpiratura (grossi boccali) ri vinu, e dduocu: Runa ca ti rugnu! e
ppi stutari lampi (per bever vino) 'n cc' era 'u parìggiu. I parrìni
'mmiriùsi àvana fattu 'na sùpprica 'o Santu Patri, riciènnuci ca 'u
vispicu era tutt' u jiornu lustru comu 'nu spècciu (ubbriaco); e 'u
Santu Patri, chi nni putia sapìri ch' 'e parrìni 'u facièunu ppi
'mmidia? stizzatu cci fici 'na littra 'o (al) santuzzu, e cci mannau a
ddiri ca o lassava 'u vinu, o 'u scuminicava sin' ei (ai) setti rinòccia
(alla settima discendenza).Ora 'na jurnata ri 'mmiernu 'u Santuzzu
luriùsu mentri caminava fora 'a cità scontra, e scontra 'n
puvirieddu, ca facìa viniri 1' affranzu (compassione). S' arrisscèri 'a
sacchetta, e cci runa tutti i rinari c' avia. Fa n' àutri quattru passi,
e ni scontra 'n àutru, ca paria 'a morti a ccavaddu; pìggia, e cci runa
'u ralòggiù. Siècuta a caminari, e scontra 'u mmiècciu, ca parìa 'u
Santu Giobbi: pìggia, e cci runa 1' anieddu. 'Nzumma pp'
abbriviari, a tutti i puviricddi ca scuntrava, a cu' rava i scarpi, cu'
i càusi, a cu' 'a tuònica, a cu' 'a sdessa cammìsa, tantu ca rristau
c' 'a sula cappa ppi cummiggiàrisi. 'Ntra ch' era nuru, ntra ca 'u
friddu cci accuminzava a ggiri 'n purpetta, ntra ch' era stancu, 'u
Santuzzu vutàu ppi turnarasinni; er eccu ca viri sutta 'na màccia n'
àutru puvirieddu, eh' era tuttu 'na ciàia (piaga), e affrìggiu (effigie)
'unn avìa cciù: avia 'a 'ucca aperta e n' 'e massciddi si cci putìa
jiucàri 'a' (alla) fussetta. Ni 'ulìstivu ri Sam Martinu? Si misi a ciànciri
e a 'bbrazzarasìllu, e 'n aviennu echi ddàrici, lèvasi 'a cappa e 'u
cumòggia. Ma ni stu mentri 'u pòviru si stracanciau tuttu, e
ddivintau un zuli, picchì era Gesu Cristu 'm pirsuna. Sam Martinu
si jittau facci ppi tterra, ma Gesu Cristu si l' abbrazzau e cci rissi:
Martinu, iu t' hé cunciessu 'a ràzzia' ri l'arma; ora dumànnimi 1'
àutri grazii ca vuoi. O Signuri, cci rissi Sam Martinu, giacchì è
chissu, cunciritimi 'a ràzzia ca mi putissi 'mbriacari, senza ca 'u
Santu Patri mi scuminicassi. E cchissu è nnenti, cci arrispusi Gesu
Cristu. 'U vinu suvièrciu è piccatu quannu si vivi n' 'a taverna, o n' 'a
casa, ma quannu si vivi pp' allirizza 'un ha statu piccatu mai. Va, r'
ora9 Ornanti fatti cummitari ai tutti i banchetti ri ziti; racci 'a
bbinirizzioni 'n nomu miu, e bbivi quantu cci nni capi n' 'a panza.

Narrato da Vito Migliore, detto Pignato, stalliere di Chiaramonte.

K. Stu San Cirannu era 'un latra ri passa, ma avia 'na


suoru, ca si ciamava Santa Marta, er era 'ria vera fiabe -aia.
Ora pinzati echi ccori pota (poteva) fari sta suoru vincono tutt'
i scialaraggini ri stu frati. A bòg g ia ri priari 'e' Santi e 'o
Signori; a bòggia ri fàrici prièrichi r' 'a matina 'nzina a' sira, a
ccu' ricièvu? 'A so facci (di San Gerlando) era 'u cuozzu. Ora 'na
'ota cci rissi: Fratuzzu miu, si 'u ristìnu ti ciaina, e 'un ti vuoi
cummèrtiri, iu nun aggiu echi ti fari; ma armeno vuòggiu 'na
razzia: ca ti cunfissàssitu, armenu ria 'ota. Un m' 'a' (non me la)
niari, fratuzzu miu, ca fussi mièggiu ca mi ras-situ 'na
cutiddata n' 'o cori. Sventi, cci rissi San Cirrannu, chissu è
piaciri ca t' 'u (te lo) facissi, ma 'un, t' 'u fazzu, picchi. 'u
cunfissuri m' avissi a carri-cari ri pinitienzii. Santa Marta si
nni va n' 'o Patri spirduali, e cci rici: Ma frati si cunfissassi,
ma si scanta r' 'a pinitiènzia. E cchissu è nenti, cci riti 'a
cunfissuri; ricci ca si cunfessa, ca pinitiènzia 'un cci nni
rugnu. Tutta cuntenti Santa Marta ci 'u riti a ssa (suo) frati, e
ssa frati cci arrispunni: Quand' è accussì, mi cunfiessu; ma viri
ca 'un po' èssiri nè oi, nè ddumani, picchi sta -notti hamm' a
rrubbari 'o Principi tali, ca i rin,ari 'i palìa. 'A notti ficiru 'u
cuorpu; 'u nnumani si spartièru i rinari; e 'u jiornu dduoppu
San Cirrannu si fa a quattru bbuotti l' asami, si nni va n' 'o
cunfissuri; e dduocu sbuòmmica 'ti primu latti. 'U cunfissuri cci
resi 'a 'ssuluzioni e cci rissi : Sienti cca; ti prumisi ca pinitienzia
'un tti nni rava, c 'un tti nni rugnu; ma parò h' a ffari 'na cosa.
Quannu coccherunu ti 'ulissi purtari 'o nialu, tu cci h' a ddiri accussì:
Santu Màcàri! Zoccu 'n mo' fatt' a ttia, ar àutru 'un fari.
Puòttiru passari 'na quinnicìna ri jiorna, er eccu ca 'na
siritina i sòliti cumpagni jicru ni San Cirrannu, riciènnuci c'
avìanu pp' 'i mani 'n àutru niuòzziu mièggiu r' 'o primu. San
Cirrannu cci rrispusi:
Santa Ma cari! Zoccu 'n mo' fatt' a ttia, ar àutru 'un fari.
I cumpagni ca 'ntisiru sta sorti ri 'mpanata ccu 1' . aggia, si
taliaru n' 'e facci, e cririènnusi ca si 'Mia manciari 'a cucuzza,
ssenza riri cìu, e mmancu bbau, affirraru 'a' manza, 'a' manza,
e 'u scannaruzzaru. 'A povra suruzza, cianciènnu, cci scavau
'na prupàina n' Ori dammusieddu urini cci tinìanu 'a 'utti cc' 'o
vino; e ccomu 'unn avia ,tutra spiranza ca dda tanticcedda 'i
vinu ppi scampuniarasilla, (vivacchiare) s' 'u jia vinniennu a
quartùcciu e a' mmienzu quartùcciu: ma tantu cci noi luvava,
tanto cci nni crisscìa, e 'a 'utti era sempri 'a stissa. E sparti
(oltre) ri chissu, tutti i malati ca tastàunu ssu vinu tutti stàunu
bbuoni. Fiuràtivi i fiièri ca facìanu i ggcnti! Ora sti nutìzzii
juncjèru all'au-riccia r' 'o Viscu (vescovo); e 'u Viscu si partì 'n
prucissioni cc' 'a croci ravanti, e ssi nni va n' 'a casuzza ri Santa
Marta, e pp' amuri e ppi (forza voli cuntatu 'ti pani pani. 'A povra
Santa Marta nun ssulu cci curata 'u tuttu, ma scummòggia
'a valata r' 'a fossa, e cci mustra 'u catàvuru, ca ancora era 'ntattu.
Si 'ota 'u Viscu, pìggia 'a sbèrgia, e cci riti: 'N nomu ri Ddiu,
rimmi cchi ccosa si'? E 'u catàuru cci rissi: Iu sugnu Girrannu,
ddu latru ch' eru lu spavientu ri menza Sigilia; e fu' ammazzatu r' 'e
cumpagni, picchi mi vulìanu purtari a rrubbari 'n àutra 'ota, e io cci
rissi:
Santu Màcàri! Zoccu '
n mo' fatt' a ttia, ar àutru 'un fari.
Ora Gesu Cristu ppi so misiricordia m'ha mmisu n' 'o nùmiru r' 'e
Santi Martiri, e m' ha cuncirùtu 'a putistà ri fari miraculi.
Allura 'u Viscu 'u fici purtari 'n prucissioni sin' 'a' Matrici, e ppu'
cci fici frabbicari 'na bbillisslina Crièsia.

Narrato da Bartolommea Bonomo, contadina di Modica.


L. 'Na 'ota cc' era 'nu staffieri, eh' era cciù bbiècciu r' 'o
piccatu murtali: nuru e ccruru e mmalatizzu e ccinu ri triuli, ca
paria 'n Zantu Làzzuru. Mischinu! ri tant' anni ava statu a
ssirbizzio r' on patruni; ma stu patruni a ccomu 'u vitti viècciu e
'nnàbbili a tuttu, 'u piggiàu a ccàuci e n' 'u mannau.
Unn' è c' av' a ggiri? 'Unn' avia nè Iluocu nè ffuocu. 'Nca,
mischinu! s' arristau n' 'a campagna r' 'o patruni: e ddà 'u massaru
ppi attu ri carità cci rava cocchi cucciaràta 'i favi, e 'u 'mmassunava
cch"i (con le) jiaddìni. Ora 'na ota ch' era stinnicciàtu supra un
munzieddu 'i fumieri ppi cauriàrisi tanticcèdda, si 'òta c' 'u (col)
Signuri, e cci rici: 'Ui, i cosi 'un li facìti ggiusti, o Signuri! Iu c'hé
sirbutu ppi tant' 'anni a stu patruni, e 'un m' hé 'pprufittatu mancu
ri 'na testa ri spingula, sugnu abbannunatu ri tutti, muortu ri fami,
arsu ri siti, cinu ri ciai, eh' 'e (che i) sdessi cani mi schifianu: e
ttanti ruffiani, e ttanti manciatàrii e ttanti fimminazzi vili ca s' 'u
sprùppunu e cci fannu pèrdiri 1' arma, a chisti cci rassi 'u so
sangu. Cchi bbella ggiustizzia eh' è chista! E 'u Signuri cci
arrispusi: 'Un lui sai 'u muttu anticu: aiùtiti ca Ddiu t' aiuta? E
ccomu m' hé 'jutari, Signuri, si ssugnu tuttu 'na lebbra, e mmancu
aiu àlica ri ràpiri 'a 'ucca? Sienti ccà: chiddu ca ti runa 'u
massaru 'n ti po' sustintari; e tu cerca ri raciuppiari cocc' àutra
cusuzza; bbasta eh' è rrobba r' 'o patruni e fallu senza scrupulu.
'U staffieri 'n zu fici riri ru"oti; e zoccu cci capitavan n' 'e
manu s' 'u mintìa rintr"a panza. Dduoppu na para ri jiorna 'i ssa
sscialibbia avìa 'a peddi lìsscia, com' i cucuzzuna ca vann"a' cerca.
Ora 'na 'ota stu staffieri viri 'na fimmina, ca ppi carità puntava 'n
uovu friscu 'on (a un) zantu rrumitu, c'abbitava
'na 'rutta (grotta) vicina; e echi cci ddici 'a 'ntantazzioni? Ri
jiricci a rrubbari 'dd' uovu. Trasi 'n' 'a' rutta, viri c' 'o rrumitu era
appinniccatu, sùcasi 1' uovu e sta ppi ggirasinni; ma 'n cci
successi accussì, ca 'ntisi 'na 'uci r' 'o cielu, e sta 'uci cci rissi:
Malarittu 'n aternu, eh' ai rubbatu 'e' (ai) puvirieddi! Malarittu 'n
aternu c' ha' luvatu 'u sustintamentu 'e' servi ri Ddiu! E a mma-
lappena 'ntisi sta 'uci, sutta i so' pieri si rapi 'a 'rutta, ca parsi na
carcàra 'i fuocu, e si I' aggiutti comu 'na pàssula.
Ni ssu frattiempu 'u rrumìtu s' ava risbiggiatu, e mentri era 'n
orazzioni sentì 'na 'uci piatusa, ca vinìa ri sutta terra: aiutàtimi,
rrumitu santu ri Ddiu! aiutatimi, ca sugnu addannatu! aiutatimi, ca
nun puozzu règgiri cciù! 'U rrumitu
vitt' allura 'o viecciu staffieri rintra 'na carcàra ri pici, ccu tri
canazzi furiusi ca cci masticàvanu i manu, e 'n diàulu ca cci
ballava r' avanti, e cci ammussciava l'uovu ca s' ava sucatu.
'Nca 'u rrumitu si misi facci ppi tterra a priari 'o Signuri,
ricìènnucci: Io ca sugnu p(ivru piccaturi 1' avissi pirdunatu ri cori, e
bbu' ca siti patri 'i misiricordia 'un l' avìssuu a pirdunari? Tu 'u
puoi pirdunari, ma iu 'n lu puozzu cci arrispunniu 'a 'uci r' 'o
Signuri. Si m' avissi crucifiggiùtu n"àutra 'ota, fuorsi ca pp"i to prieri
'u purdunassi: ma cu' arrobba 'e' povri nun spirassi mai nè
pirdunu nè mmisiricòrdia.
Narrato da Sebastiana Albani, contadina da Chiaramonte.

M. 'Na 'ota rici ca 'a Matri Sant' Anna ava statu malata, e avìa 'a
peddi e 1' ossa, picchì avìa piersu 'u pitittu, e ssi cci ràunu puma ri
pararìsu si 'otava ri dda bbanna. A bòggia c' 'a bbedda Matri ci
facìa i pitittietti (manicaretti) ch"i (con le) so stissi manu: si pp"i
tanti 'nguliùna ni tastava 'u mmuccuni, all' àutru si scrignava
tutta e cci viva 'u sputarizzu. U gnornu parsi eh 'era miggiulìdda, e
cciamau 'o Patriarca San Cisippuzzu, riciènnuci c' avia pitittu ri
ficu. E unn'è ca vi l'hé piggiari? cci rissi 'u Patriarca. Un cci
pinzati cciù ca siemu n' 'eurtimi ri jinnaru? Viri, ca cci nn' è 'na
màccia nell'uortu r'o Tali e Tali cci rissi Sant' Anna: ficu natalìni ca 'o
sulu vidilli 'na prena addisirtassi. E cchista ccu 11' àutri! rissi u
pòuru Patriarca; 'Nca' un lu sapiti ca 'u patruni 'i ssi ficu ppi
sanàri (monetuola di due centesimi) si facissi tòrciri com' i vuoi
(bovi)? E iu, si mi sbutàssuru com' 'i sacchetti, un baioccu un mi
casca? Sienti c' h' a (che hai a) ffari, cci rici Sant'Anna, ti puorti
'o Bamminieddu Gesù: cù sa c' 'a vista r' 'o Bamminieddu 'un cci
arrimuddassi 'u cori! 'U Patriarca si pìggia pp"a manu 'u
Bammìnu, e si nni vannu 'ncampagna. Camìna, camìna, arrìvanu
all' uortu, e bbìrinu dda màccia ri ficu, ca 'unu s' 'i manciàva ccu
Il' uocci. 'U Patriarca si leva 'u taschettu, e cci rici a ddu boia: 'A
Matri Sant'Anna è mmalata, e avissi risìu i •i ru' ficu di chisti. Nu'
Litri siemu puvirieddi, e un bbi putièmu pajiari: ma vui 1' Lit' a fari
ppi stu Bamminieddu, e ppi 1' amuri ri Ddiu! 'A risposta ca cci resi
dd' arma ddannata fu ri fàricci signali ri scilarasilia (sfilarsela),
sannò cci rumpia 'a facci c' 'ufurcidduni. C' av' a ffari ù pòuru
Patriarca? Si nni va ccu anchi stuccati, sì pìggia 'u Bamminieddu
pp"a manu, e s' ammùccia rarrieri r' on muru. Potti stari ddà,
'urrìssimu riri, 'na minzuràta; er eccu ca u Patruni r' 'e ficu filìa
prima a tutti bbanni, e ppu' si nni va vuiazzu vuiazzu (a guisa di
bue stanco). 'U Patriarca a ccom"u vitti cuddàri sàuta 'u muru, s'
appìccica nall' àrvulu e ddà, putenza ri Ddiu! mància ca ti manciu:
primu si fa 'a panza com' un tammurinu, e ppu' si nni ìnci
(riempie) a pittirina e i sacchetti. Ddu scialaratu parò ca era misu a
tracchettu, torna 'm punta 'i peri, afferra 'o Patriarca ca stava
scinniennu, e dduocu 'unni viegnu, viegnu r' 'o mulinu, ca 'u fici
stari unni muoddu e unni ruru. 'U Bamminieddu ca si vitti 'a vista
spincìu 'a crucidda c' ava 'm manu, e dissi ccu 'vuci r' ira:
Vastuniatu in aternu, tu ca vastuniàsti un pòviru vicciarieddu!
Affamatu 'n aternu, tu ca nun 'ulisti aiutari 'na pòvira malata!... R'
ora nnànti sin 'o jiornu r' 'o ggiurìzziu h' a rrucculiari pp"a ffami com'
'e' lupi r' 'e vosca. E ddiciennu ri ssa manèraàrvulu r' 'e ficu siccau.
Narrato da Concetta Corbino, contadina di Vittoria.
N. Rìcinu ca n' 'a Calavria a ttemp' antichi cc' era un
rrimìtu, c' abbitava ni 'na 'rutta sbavintusa, e si ciamàva
Sant'Ermu; e stu sant'Ermu jìa jìennu ccu"a vièrtula nquoddu
ni ddi muntagni muntagni; e nnuddu cci arrifutava 'a
cucciaràta r' 'a minèsscia, o 'u mmuorsu r' 'o pani, o quattru
tistuzzi 'i pissci. Ora jiamu ca a stu Sant'Ermu cci morsi un
frati, c' avia setti figgi fimmini comu 'i jìta r' 'a manu; e stu
p6vru frati era nuru e ccruru e ccaliàtu (affamato) cà 1' àppiru
a burricari c' 'a sula cammisa. Sant'Ermu 'un appi cchi ffari.
S'app' a ppiggiàri, comu vasi Ddiu, i setti picciriddi r' 'o muortu.
Ma jiamu ca i ggenti limuòsina 'un cci nni' uòsiru (vollero) fari
cciù, mancu ppi ddiàulu! e cci ricièunu n' 'a facci ca 'un 'ulìanu
mantèniri 'na sciuccata r' urfanieddi; ca i figgi su r' 'e mammi; a
cu' 'i caca s' 'i nata. Mischinu! cci mancava 'u tirrìnu sutt"e'
pieri, e 'n zapìa cciù unni 'utàrisi e ggiriàrisi. Ni 'na notti ri
chissi, mentr' i niputieddi cci lamiàvunu pp"a fami, si misi a
priari 'o Signuri ppi mannàricci 'a pruviriènzia; er eccu ca senti
'na vintuliaca, e bbiri ca 'a rutta paria jiornu ciàru. Si 'ota
sbavintatu, e s' adduna ca n' 'a rutta cc' era un ggiaianti ca
tinìa 'na lantern' addumata. 'Un ti scantari, cci rissi 'u ggiaianti,
ca sugnu Cristofulu santu; e mmi cci manna 'u Signuri ppi
ddàriti aiutu. E echi è ss' aiutu ca mi purtati? L' aiutu è sta
lanterna ca ti lassu.
Sant'Ermu faci 'a morti c' appi ri fari, 'n miriennu echi
razza r' aiuti cci ava mannatu 'u Signuri. Comu! cci rissi, e
chista m' 'a ciamati pruvirienzia? E echi è ca nn' hé, ffari?
Quannu 'uòggiù pani m' 'u runa 'a lanterna? Quannu 'uòggiu
'na tuònica m' 'a runa 'a lanterna? E quannu hé a bbèstri (ho a
vestire) i niputieddi miei; quandu cci hé a gràpiri 'a 'ucca, echi aiutu
mi runa 'a lanterna?
San Cristoflu, eh' era càuru 'i testa cci accuminzava a
ffumari 'a ciminìa; ma si 'ntrattinni, e cci rissi: Sté (sto)
viriennu ca parri c' 'a sola r' 'e pieri. 'U sai o 'un lu sai eh' 'e
cuntrabbannieri vannu tissiennu stu mari? Ora sienti c' h' a
ffari. Quannu 'a nuttata pari 'na 'ucca i lupu, e i venti s'
arrimàzzanu supra mari, adduma 'a lanterna, appiccica supr'
'unu scuòggiu ri chisti, e fa llustru 'e' pòvri cuntrabbannieri, ca
su capaci di rÌmpri i varcuzzi ni sta sorti ri scuoggi.
Sant'Ermu ri dda nuttata 'm puoi fici comu cci ava rittu
San Cristoflu, e bbota ppi bbota s' arricuggìa eh' 'i vièrtuli ca
ssi cci putìa passari 'a rrasa: maritau i niputieddi, e iddu campau
letu e ccuntenti, e mmorsi ri veru Santu.
Narrato da Salvatore Sallemi, contadino di Vittoria.
P. 'Na 'ota 'u Signuri ciamau a ttutti l'armali ppi ddìricci
quali virtù vulìssiru aviri, ca iddu ci 'a rava. 'A 'urpi c' ha statu
sempri maligna, a bbìa ri muzzicuna e ammuttùna (urti), e a bbìa ri
'nfilàrìsi sutta anchi ri 1' àutri, ava fattu 'i viersu e mmanera ri
piggiàrisi 'u primi puostu. 'U Signuri, c' 'a vitti misa r' avanti, cci
rissi: Cummà Givannedda, accuminzàmu ri 'ui. Qual' è 'a virtù ca
'ulìssuu (vorreste)? Iu urrìa 'a forza, Signuri. Dduocu (In quel
punto) 'u liuni cc' un quorpu 'i cura sbalanza 'a 'urpi 'na ricina 'i
canni luntanu, e ddissi 'o Signuri: 'A forza tocc' a mmia, ca sugnu
'u liuni. E 'u Signuri cci cuncirìu 'a forza. Ni stu frattiempu 'a 'urpi
a bbìa ri strinccìrisi e aggiummariàrisi (raggomitolarsi) com' un
scursuni s' ava misu arrieri (novamente) 'n capufila. A ccomu 'a vitt'
arrièri 'u Signuri cci spiau: E bbu', cummà Givannedda, qual' è 'a
virtù ca 'ulìssuu? 'Nca Signuri, mentre ca macàri 'ui facìti facci farìi,
e 'un pott' aviri 'a forza, ràtim' armenu 'a sfacciatàggini, picchì hè
vistu ca ni stu munnu si curca 'o scuru (muor di fame), cu' nun
scippa facci ri priricaturi (chi non è sfacciato ed insistente). Ni ddu
mumientu 'a musca vola supr"a testa r' 'a 'urpi, e cci rici 'o
Signuri. A' sfacciatàggini tocc' a mmia, ca sugnu 'a musca. E 'u
Signuri cci 1' accurdau. 'A póvra 'urpi si facìa i 'uredda fràrici, ma
cchi è cca cci av' a ffari? Cummà Givannedda, cci rissi 'u Signuri,
È (alle) tri botti canta u jiaddu; dumannàtimi 'nzoccu ùliti, ca ppi sta
'ota vi fazzu stari cuntenti. Signuri, cci rissi 'a urpi, 'n pott' aviri 'a
forza, 'n, pot' aviri 'a sfacciataggini; ràtim' armènu 'a malignitati
(furberia) ppi quantu putissi stimpuniari sti quattro jiòrna 'i vita. E
'u Signuri cci l'accurdau.
Narrato da Giuseppe Terranova, inteso Furticciùni, villico di
Chiaramonte.

Q Hé 'ntisu sempri r' è cciù ranni (dagli anziani), ca 'a


minzogna è piccatu, ma 'a virtà certi voti è ddannusa; e ccu' è
uomu ravèru ha' ddiri 'i cosi a menz' asta (incomplete). Rici ca 'na
'ota S. Franciscu 'i Paula era pirsicutu, picchi 'i 'mmiriùsi e i
scialariati, ca nun ni màncunu mai, cci àvana fattu cririri 'o Rre ca
Ddiu 'un era Ddiu (cioè cose false); e 'u Rre ch' era vàssciu r' avanti
(imbecille), e ppiggiava tutti i palori, jittau 'nu bannu, ca 'a cu' cci
purtaVa 'u Santuzzu vivu o muortu, iddu cci avverra ratu 'nu rrialu
granniusu. Ora n' on mmuoscu 'i chissi u gnuornu 'na picca 'i sbirri
scuntraru a San Franciscu, 'un lu canusscièru, e cci rìssiru:
Munachieddu, ni sapìssivu riri s' ha (se è) passatu ri ccà San
Franciscu? San Franciscu... (ch' era bbabbu ca s' accusava iddu
stissu?) si tuccau 'a mànica r' 'a tuònica, senza faraccìll' addunari,
e ppu' cci ?issi 'e' (ai) sbirri: Di ccà? Di ccà 'un cci ha passatu
mancu 'na musca. E accussì s' 'a scapulau, e i sbirrazzi si uni
jieru ppi àtra strata. N' àutra 'ota, 'n zacciu cciù quali Santu avissi
statu, vitti ammazzari un picciuotto, e ttistimuònii 'un cc' era àutru
ca iddu. 'U jiùrici cci spiau: Ricitimi 'na cosa. 'U canusscistru 1'
assassinu? 'U Santu 1' ava canussciutu, ma ccu ttuttu chissu cci
rrissi a bbuci forti: Nonzignùra, nun lu canusscìi; e ppu' rissi 'ntra
r' iddu: ppi uòminu anestu. E ddìcitimi 'n' àtra cosa: L'assassinu
era luongu o era curtu? L'assassinu era quantu un stinnarcu; ma
'u Santu cci arrispusi: Era curtu; e ppu' 'o sòlitu 'ntra r' iddu: 'u
cutieddu ca cci tirau n' 'o cori. E ac- cussì 'a mità r' 'a tistimunianza
'a sbummicava 'o jiùricci, e l'atra mità s' 'a rìcia n' 'a so menti; e ri
ssu muoru sarvau crapi e ccàuli.
Narrato da Paolo Spada, inteso Capizzuni, villico di
Chiaramente.

R. Stu San Cristoflu era 'na 'ntinna ri bastimientu, e cc' un


pugnu, Matri ri Ddiu! avissi stimpagnatu 'na cantunera. 'U patri
era campagnulieddu, ma 'o cuntrariu ri n' àtri viddani, ca 'e' figgi i
mazzati cci 'i facièmu fétiri, chistu patri 'o so figgiu 'u tinìa n' 'o
cuttuni, e s' avissi fattu pissciari rintra 'a 'ucca. E ri ssu mi nori San
Cristoflu crisscìu veru smannatu, e a ccu' rava, a cu' prumintìa.
Travàggiu, nenti: crièsia, nenti: sempri 'ncilippatu sin' 'e' naschi
(ubbriaco), sempri cc' 'u cutieddu a mmanu, sempri 'n mienzu i
mali fimmini e i mali compagni. Pp' abbriviari, rici c' ava fattu
vintise' pieddi (26 omicidii); e quannu passava r' 'e strati, i ggenti
si ciurìanu i porti. 'U gnuornu so patri, eh' era vicciarieddu, 'u
piggiau cc' 'u bbuonu, e ccì rissi: Cristoflu, figgiu miu, cci vo' vèniri
'o vuoscu ccu mmia, quanto facièmu ru' carrichicedda ri ligna? E
San Cristoflu cci rissi ri sì, si cacciau i muli pp"a cuddana, e ttira
cc' 'u patri a bbota r' 'o vuoscu. San Cristoflu, ca 1' accetta 'a facìa
friscari, 'n quattru bbuotti fici 'na catasta ri ligna; ma taggiannu
taggiannu, s' adduna ca 'na màccia era tutta storta e spinusa, mentri
ca tutti 1' àutri erano 'ritti e ssenza rrizzogni. Cusiritusu cci spiau 'o
so patri picchì dda màccia era storta; e 'u patri cci arrispusi ca dda
màccia era storta picchì quann'era nica 'un n' ava statu addrizzata.
San Cristoflu 'n zintiennu sta paràbbula, calau 'a testa e si misi a
pinzari. Penza, penza, si susi ccu 11' occi comu 'u ru' oru (rossi) e
cci rici a so patri: Patri scialaratu! Picchì 'un m' addrizzavu, mentr'
era picciuottu? Picchì 'un mi stuccavu 1' ossa scàncciu r'
ammizziggiàrimi? Cci curpati 'ui si sugn' addivintatu latru e
micirianti; ma 'ui facistru u ddannu, e 1' 'àt' a cciànciri 'ui. Tieni ccà,
patri 'nfami! Eranu vintisei, e ccu ttia vintisetti!... E dduocu cc' un
quorpu 'i cugnata (scure) cci scippa 'a testa, e si nni va a ccursa.
Sferra ri ccà, sferra ri ddà, pintutu ri chiddu c'ava fattu, e ccu 11'
uocci ca cci facìanu lavini, v'a ttrova un zantu rrumitu; si cci 'etta
facci ppi tterra, e si fa 'a cunfissioni gginirali; e 'u rrumitu cci rici:
Ora 'u sai quannu po' èssiri pirdunatu? Quannu Gesu Cristu veni nni
tia ppi circàriti.
San Cristoflu cci addumannau licenzia e si nni jiu spiersu pp"u
munnu. Camina, camina: si va a tteni a rripa r' 'o sciumi Giurdanu,
(rici ca ssu scìumi è 'na vera lingua ri mari), si fa un paggiaru, e si
minti a ppassari 'nquasedda (cavalcioni) tutt' i passaggieri, c' àvan' a
passari 'u sciumi: e nun sulu 'u mmulìa rinari, ma mancu un
ringràzziu. Ora 'na 'ota senti 'na 'uci 'i picciriddu: Cristoflu, picchì
'un mi passi? 'Ntisi 'a 'uci; ma 'u mmitti (non vide) a nnuddu, e si
fiurau ca 'u picciriddu av' a ssiri a 1' àtra pràia. Passa ccu 'na
santa paciènzia, va ri ccà, va ri ddà, talìa a tutti banni, e 'u mmiri a
nnuddu; cr eccu ca sent' arrieri 'a 'uci r' 'o picciriddu: Cristoflu,
chi si' ssurdu? Picchì 'un mi vien' a passari? San Cristoflu si strica
l'uocci, si fa 'a cruci, talìa e 'u mmiri mancu 'on cani. Senza
spacinziàrisi si mint' a ttèssiri arriere 'u sciumi, er eccu ca senti 'na
'uci 'n luntananza: O Cristoflu, echi ddavèru ravèru 'un mi viri?
San Cristoflu sta 'ota viri ddà vicinu un criaturu (bambino) ccu 'na
tunachedda bbulevi (bleu), e 'na crucidda supra 'na badduzza ri
petra. Accòsscia ddà, e s' 'u càrrica supr' i spaddi. Arrìvatu parò
'mmienzu 'u sciumi, San Cristoflu, 'n potti iri cciù nè ddavanti nè
ddarrieri, ca 'u picciriddu ava ddivintatu cciù gravusu ri 'na
muntagna. 'U pòvru Santu avìa 'a 'ucca e i naschi apierti, com' i muli
quannu s' appàgnanu; ava affunnatu sin' 'e' rinòccia; e 'u vastuni ca
purtava a mmanu ava fattu un fuossu ni ddà rrinatura, e ava
ddivintatu 'n' àrvulu virdi cch' i (con i) rrami e ccu 'i pampini. Nun
putiennu cciù, 'u Santuzu si vota cc' 'u picciriddu, e cci rici:
Figgiu miu, chi ccosa si' (sei)? Pari ca puortu 'u munnu! e 'u
picciriddu, ch' era Gesu Cristu, ci arrispusi:
Giustu ricinti, Cristòfulu Bantu,
Ca puorti a Cristu ccu tuttu lu munnu.
Gesu Cristu spiriu, e San Cristòfulu s' addunau c' ava statu
pirdunatu.

Narrato da Luciano Di Cunta, villico di Chiaramonte.


S. Quannu Gesu Cristu jia caminannu n' 'o munnu, 'na
jurnata si 'utàu ccu San Pietru, e cci rissi: Pietru va a mmari, e
ppìscami un pissci. San Pietru jiu a mmari, e piscau nu pissci
stupennu, ca mancu cci capìa rintra 'a colla. Ora 'u sa' c' h' a ffari?
Stu pissci 1' ha' a ppurtari a ma santissima Matri. San Pietru, 'n
zintiennu' accussì, comu 'na cosa ca si cci sliaru i 'urèdda. Cchi hai
ca ti murmurii? cci rissi Gesu Cristu; chi sta' manciannu
prummùni? E c' hé 'viri, Maistru? Aggiu ca 'a fami mi futti 1' uocci.
Chi bbella vita! Simu rùrici Apuòstuli, ca parìmu rùrici lanterni; e
quannu cc' è 'a pruviriénzia, vi piggiati 'u spassu ri livarannilla r' 'a
'ucca. 'Un fora mièggiu ca 'u pissci n' 'u manciàssumu nu' 'astri, e 'a
'òsscia santissima Matri cci nni purtàssumu 'na bella fedda? Pietru,
cci rissi 'u Maistru, fa chiddu ca t' aggiu rittu (detto), o ti lievu i
ciavi. San Pietru si pìggia 'a coffa, i scarpi n' 'e manu, e ppìggia ppi
Gerusalemi ppi purtari 'u pissci 'a' bbedda Matri; ma tra 'a fami, ca
cci jia cuozzu cuozzu, tra 'a siti ca 'u strafuttìa, tra 'u cauru ca cci
scaurava 'a pirsuna, era 'ntra 'n'acqua, e 'n putìa propa propa.
Arrivannu 'a' porta r' 'a cità, viri e bbiri un tavirnaru ca passiava
avant"a taverna, picchì era jiuornu 'i scàmmaru (magro); aspittava 'u
pissci, e pissci 'un n' ava vinutu. A ccomu parò vitti ddu bbellissimu
pissci, cci vinni 'u cori, e cci spiau (a S. Pietro): Pietru, quantu
ni vuoi? 'Un lu vinnu, rispunn 'u San Pietru, ma appi uòrdini r' 'o
Maistru ri canciallu ppi bbinu. E quann' è chissu, trasi n' 'a
taverna, e bbiri ca n' accumuràmu. Ppi tràsiri trasu, ma 'u primu
pattu è ca 'u vinu m' hav' a pràciri. Tràsinu n' 'a taverna; 'u
tavirnaru spinòccia 'u carratieddu, e cci jinci un bellu guottu ri vinu.
San Pietru 'u talia, 'u sciàura, 'u rrimina, si nni minti 'na stizza
supr"a lingua,
e ppu' cci rici: 'Un facìmu nenti, cumpà Ninu. Iu a ddiùnu vinu 'un ni
canusciu mancu ppi ddiàulu... U tavirnaru pp' un zu lassari
scappari, piggia 'n piattuzzu 'i baccalà, quattru aulivi, e 'na bella
fedda ri pani. 'U San Pietru mancia e bbivi, ma nun pipitìa; ma
quannu u piattu paria alliccatu r' 'e cani, e quannu 'u bicchieri si
l'ava tummàtu sin' all' urtima stizza, finti ri vènicci 'u sputarizzu,
cci rici 'o tavirnaru: Cumpà Ninu, cchi m' ata piggiatu ppi
Giarratanisi? E chistu, aviti 'a facciazza ri passaramìlu ppi bbinu?
Chistu, fratuzzu miu, si ciama sucu ri rriculìzzia. Va, ca si' bberu
ciaccu ri furca! cci rispunni 'u tavirnaru, ccu 'a scuma 'a' 'ucca. E
bbonu! mi n' ha' fattu una! E picchì vi lamintati, cumpa' Ninu
miu?... 'U pattu 'unn era fuorsi ca 'u vinu m' ava a pràciri? Ora 'u
vinu 'un m' ha praciutu, mancu ppi c...! E comu fici ccu ddu
tavirnaru, 'u fici ccu n' àtri tri o n' àtri quattru, sina c' abbuttau 'a
panza, ca parìa ca scattava, e ttannu poi pinzau ri purtari 'u pissci 'a'
Maronna.
Narrato da Giuseppe Cuddèmi, villano di Modica.

T 'Na 'ota un zaurdu (villano) ava fattu un delittu...


Scanzatanninni, Signuri!... accussì sbavintusu, ca 'un cc' era
cunfissuri ca 'u put' assòrviri. N' 'o pàrrucu: nenti! n' 'o vispicu:
nenti! n' 'e cardinala: nenti!. All' urtimata si jittau 'e' pieri r' 'o
Santu Patri, e 'u Santu Patri l'assoluzioni cci 'a (gliela) resi, ma cci
resi 'a pinitienza ri jiri spiersu n' 'o munnu, e ttannu s' av' a
ricòggiri, quann' avissi truvatu un riccu, ca avissi avutu cumpiatati
r' 'o pòvru. 'O (al) viddanu ssa pinitiènzia cci parsi cosa ri nenti, e si
nni jiu munnu munnu; ma a bòggia ri firriari comu 'n anìmulu
(arcolaio), truvava sempri mal' affacciati. Unu, pr' asièmpriu, cci
ricìa: 'Un ti quàggia 'a facciazza!... Un picciuttuni com' a ttia? Picchì
'u ti nni va' a travaggiari? 'N autru cci abbiava i cani pp' assursa-
rasìllu (divorarselo); 'n àutru cci ciurìa 'a porta 'nfacci; e si
coccarunu cci pruìa 'n zanarieddu, nun cci 'u pruìa ppi cumpassioni,
ma ppi luvarasìllu r' avanti. Doppu reci rùrici jorna ri ssa vita, 'u
viddanu rissi ntra r' iddu: Talè, cchi rràrica ri mincciuni ca sugnu!
Picchì nun mi nni vaiu ni ddu cummientu strariccu, unni i mònici
su' tutti santi, e 'gni manziornu rùnunu 'a minèsscia 'e' povri? Avia
ru' jiorna ca 'unn ava tastatu ràzzia 'i Ddiu, e, mischinu! mancu
avìa àlica ri parrari. Va, comu vosi Ddiu, ni ddu cummientu,
tuppulìa, sona 'a campanedda, e affaccia 'u Patri Vardianu: Cchi è
ca 'uoi, figgiu miu? Chi buòggiu? cchi è c' hé buliri? Nun lu viriti
ca mancu tiegnu addritta? 'Un lu ca mi sta piggiannu 'un
zintòmu (svenimento)? Ràtimi un tuozzu, o 'na cucciaràta ri
favi, o zuoccu vi spera 'u cori, ca pròpia pròpia mi sientu mòriri.
Vieni a menziornu, cci riti 'u Vardianu, e hai 'a to scutedda 'i mi -
nèsscia. Chiddu ca m' avìssuu a ddari a manziornu, ratamillu ora,
picchì ri ccà a manziornu 'un cci campu. 'N n' aiu cchi ti fari,
figgiu miu: 'a nòsscia rièula è chissa. 'U puvirieddu si nni va, e
ddici n' 'o so cori: chissa 'un è carità vera, è carità r' intentu (di
apparenza). Avìa ragiuni 'u Santu Patri, addì-rimi c' 'a pinitienzia era
'ravùsa.
Lassa 'u cummientu, e si nni va a dumannàri 'a carità n' on
palazzu, tuttu ri mmàrmura, ca stralucìa come 1' oru. R' 'o
purticatu nisscìa 'a patrunedda cc' 'a cammarèra; ma ni stu 'stanti
si senti u mmuciulizzu ranni: Varda! varda! e ssi viri un mulu, ca
currìa com' un mazzamarieddu (vortice), e stava ppi scarpisari dda
picciridda. 'U viddanu fu prontu a piggiarasilla 'mprazza, e a scan-
ziari u mulu. 'U patri r' 'a picciridda ringrazzia 'o viddanu, 'u fa
manciari e bbiviri, e pui 'u piggia ai sirivìzzi suoi. Ma quannu curri
'a disgrazia, 'un cci è echi ffari! 'U povru viddanu ruoppu rui, tri
simani sciàmpula ri 'na scala, e si fa un paniquottu; e 'u patruni
scurdannusi ddi ddu rran benefizziu c' ava fattu a so figgia, senza
mancu vutàrisi ri dda banna, 'u licienzia, e ppi bbera misiricordia fu
ppurtatu 'o spitali. Raggiuni avia 'u papa! rissi 'u zaurdu; chissa 'un
si ciama carità; ma ne' ma' libbra si ciama tirannìa. E comu 'unn
avìa a nuddu pp' assistillu, fa 'na littra, e mann' a cciama 'a muggeri,
ca era 'na picciuttedda ca si puta viviri n' on bicchieri. Comu i
muschiggiuna (damerini) ri ddu paisi 'ntisiru ca 'a muggeri di ddu
pitarru (villanu) era 'na facci rrara, echi ni 'uòsiru (vollero) àutru?
Cu' ppi 'na scusa, cu' ppi 'n' àutra, cci accuminzaru a ffari
salamalecchi 'o pitarru, a mannàricci pipittedda (intingoletu); e cu' 'u
vulia ppi campieri, cu' ppi cammarieri, cu' ppi mastru ri casa: e
cu' 'u fattu, quannu nisscìu r' 'o spitali, unu ri ddi muschiggiuni si
piggia 'u pitarru ppi cammarieri, e 'a muggeri ppi cammarèra; e cci
rava un zalàriu, ca mancu 1' avia 'u mièggiu figgiu ri mamma. 'Na
'ota parò 'a muggèri si vota cc' 'u maritu e cci rici: Iamuninni ri
ccà, picchi 'u patruni havi mala 'ntinzioni supra ri mia, e iu nun
muòggiu affènniri a Ddiu. Chista nun è carità vera, è carità pilusa,
rici ntra r' iddu 'u zaurdu. Avia raggiuni 'u Santu Patri! Senza mancu
licinziàrisi si nni vannu a Rroma; e 'u viddanu, addunucciànnusi 'e'
pieri r' 'o Papa ci rissi: Canciàtimi 'a pinitiènzia, ca carità vera ni stu
munnu 'un cci nn' è.

Narrato da Giuseppa Bianchetto, serva, da Ragusa inferiore.


U. Quannu Gesu Cristu vinni ni stu munnazzu ri vai si
purtau 'a Giustizzia ppi mintri (mettere) 'u cuncòrdiu e lluvari i
sciarri n' 'è ggenti. Ora sta Giustizzia era 'na Santa, ca 'un facìa
facci facciuzzi, ma tirava 'o rittu, e 'un mardava (guardava) si
chiddu paliava i rinari, e 1' autru i 'urèdda 1' avìa vacanti com"a
sacchetta mia. Ascutava a tutti: 'e' povri ccu aurìccia manca,
ch'è l'auriccia r' 'o cori, e i ricchi ccu l'auriccia ritta, ca è l'auriccia
r' 'a menti. Ora sta Santuzza quann' un nava (dava) auriènzia stava
ni 'na turri ri brunzu, firmata ccu ssetti catinazza; nè cc' era cciavi
ca cci putìa sfirmari. I riàuli, 'n viriennu, ca ri quannu 'a Giustìzzia
ava vinuta n' 'o munnu, armi n' 'o 'nfiernu 'n cci nni carìvanu cciù,
ficiru cunzìggiu 'ntra r' iddi, e cuncignaru 'na ciavi r' oru ppi gràpiri
ddi setti catinazza. Ppu' si nni ièru n' 'e Scribbi e n' 'e Farisei, cci
cunzignaru 'a ciavuzza e cci rìssiru: Ora sta a bbu' àtri si 'a
Giustizzia r' ora 'nn avanti s' hav' a cciamari 'Nciustizzia.I Scribbi e i
Farisei ni dda stissa nuttata sfèrmanu i setti catinazza, tràsinu rintr'
a turri, è tròvanu ca a Giustizzia durmia 'n zuonnu 'n cìnu. Unu r'
iddi, criu eh' era 'u Capu, piggia un ciuòvu ri pisu, e cci 'u 'ncaroa
ni 1' auriccia manca. A póvra Giustizzia addivintau ri dd' aurìccia
surda comu 'na campana, e r' allura 'n poi 'un potti sentiri cciù i
raggiuni r' 'e povri, e 'a retti (diede) sempri vinta 'e' ricchi, picchì
sintìa sulu ri n' aurìccia.

Narrato da Gaetano Roccasalva, ciabattino, di Modica.

V. 'Na 'ota 'u Parrari e 'u Manciari àppiru quistioni 'ntra r'
iddi, e 'un putiènnusi accurdari, si nni jieru n' 'o Rre Salamuni ppi
rùmpicci 'a liti (derimere la questione). 'U Rre cci rissi: Ora
sintièmu echi è sta sciarra ca aviti. Maistà, sta sciarra è cà mentri
'a Vista, 'a 'Ntisa e 'a Fatta (l'olfatto) hannu ru' casuzzi l'unu, iu ca
sugnu 'u Manciari e stu cumpagnu miu, ca è 'u Parrari siemu
cunnannati a stari comu i latri, 'ncatinati pp"i manu e pp"i pieri,
tutti rui ni na casa. Cci nn' è giustìzzia? Ora chiddu ca vulièmu nu'
àtri è ca fussimu spartuti, e ni ràssiru 'na casuzza l'unu; ma 'a
'Ucca tocc' a mmia, picchì iu sugnu 'u Manciari, e s' 'un cci forra iu
ni stu munnu, tutt' i cristiani e tutti 1' armali putissuru cantari 'u
requamaterna. E tu echi ddici? cci spiau Salamuni 'o Parrarí? lu
ricu ca 'a 'Ucca tocc' a mmia, picchì sugnu cciù nnòbbili, e senza 'i
mia 'un cci forra differenza tra l'uomu e u pruòcciu (pidocchio).
Pricciò, Maistà,
s' àmm' a stari tutti rui ni na stessa casuzza 'u Patruni hé ssiri
iu, e iddu ha' ssiri 'u criatu. Sintiti ecà, ca v'aggiustu iu, cci rici 'u
Rre Salamuni. Tu ca si' 'u Parrari puoi papariari n' 'a 'ucca r' 'e
ricchi, picchi chiddi hannu 'u Man-ciari sarvatu, e s' un parràssuru,
'un n' avissiru propria cchi ffari; e tu, o Manciari, po' sguazzariari a
ppiaciri to n' 'a 'Ucca r' 'e pòvri, picchi i puvrieddi cciù picca
pàrranu, mieggiu è. Spartitivi i 'ucchi r' 'e ggenti, e 'n pinzati a sciar-
riàrivi.
Narrato da Vincenzo Gulino, detto Sirenu, massaro di
Chiaramonte.

W. Stu Fra 'Lluminato fici ch' era un mònacu santu, e 'u so


cummientu era n' on muòscu. Un gnuornu mente avìa 'a vièrtula
'nquoddu p' 'a cerca, senti 'uci, accòsscia, e bbiri ca un Cavaleri àv'
ammazzatu 'u cumpagnu. Fra Lluminatu, senza sapiri lèggiri e
scriviri, scàncciu ri jiri p' 'a cerca penza ri jiri n' 'a giustìzzia ppi
cuntàricci 'u fattu. Ava pututu fari 'na curdata ri via,
e scontra un cunìggiu; e stu cunìggiu tuttu fistanti cci rissi:
Unni vai, Fra 'Lluminatu? Unni vaiu? Vaiu n' 'a giustizia. 'N t'
arrisicari: viri ca 'a famìggia ri ddu Cavaleri ha statu sempri 'a
benifattura r' 'o to cummientu; limuòsina 'un vi ni rassi cciù; e 'u
Patri Vardianu ti 'nciurissi n' on dammusièddu, ccu 'na cannata r'
acqua e 'na fidduzza ri pani. O pani er acqua, o pani e bbinu, ri-
spusi 'u monacu, 'u dduvìri miu è chiddu r' accusallu. Va,
spiunazzu 'nfami, cci rissi 'u cunìggiu, e si 'ntanau n' 'o 'uòscu. 'U
povru Fra 'Lluminatu fici 'n' àtra cinquantina ri passi, er eccu ca
un cagnuolu, ca 'na 'ota iddu cci ava sanatu 'a rrugna, cci allicca i
pieri, e cci spia: Unni vai, Fra 'Lluminatu? Unni vaiu? Vaiu n' 'a
ggiustizzia. 'N t' arrisicari, monacu santu, ca chissu sarrà 'a to'
rruina. 'A famìggia ri ddu Cavalieri viri che i rinari 'i jietta a sciurni;
e bbiri c' a bbia 'i rinari i jùrici 'u fannu nèssciri bbiancu com' 'a
carta, e n' 'e vai cci arriesti tu, picchì ni stu munnu su' 'i pezzi
chiddi ca vannu ppi 1' aria. O n' 'e vai, o nei catalai, rissi 'u
mònacu, 'u me dduviri è di jillu accusari. Va, scialaratu, va,
spiuni mmardittu, cci rissi 'u cani e ppi mràculu 'n zi cci lassau
jiri 'e' catinazza r' 'o quoddu. Fra 'Lluminatu ava fattu n' àtru
mienzu miggiu ri via, er èccuti ca ri 'na mànnira nessci 'n agnieddu, e
cci va sautannu r' avanti 'n zignu r' allirizza; e ppu' cci spia, com' autri:
Unni vai, Fra 'Lluminatu? Unni vaiu? Vaiu n' 'a ggiustizia. 'N t'
arrisicari, cci rici agnidduzzu, ca chista è 'ntantazzioni r' 'o
riàulu; viri ca fai 'u to malannu. O malannu, o no, 'u dduviri miu è
d' accusallu. Va, spiuni, va, vinni 'a carni vattiata, cci rissi
l'agnieddu, e turnau a ccursa n' 'a mànnira. Camina, camina, arrivau
lu Fra 'Lluminatu avant"a porta r' 'a cità; e ni ssa porta, rici, ca cc' era
cuncignata 'na statua cc' 'u fataciuni, ca quannu s' accustava cocchi
nnimicu, si mintìa 'mmùcca 'a trumma ca tinia n' 'e manu, e
ssunava a la dispirata. Ora ssa statua 'n midìri accusciari 'o monacu,
sgriddau l' uocci, e stava ppì ssunari;
e Fra 'Lluminatu cci spiau: Picchì ssuoni? cchi ssugnu fuorsi
cocchi nnimìcu? Tu s'i 'u veru 'nnimicu ri sta cità, cci rispusi dda
Statua. E cchi ti pari cosa ri picca, ca vuoi accusari a ddu Cavaleri,
ca sarrà lu benefatturi di sta citati? Or' ha ssapiri ca ssu Cavaleri cc'
'u tiempu h' a ddivintari un gran zantu, e tutti i so bbeni 1' ha lassari
'e' povri e all' urfanieddi. Vota prestu, e bbattìnni 'o Cummientu.
Fra 'Luminatu pinzau eh' era vuluntati ri Ddiu ri nu gniri n' 'a
giustizia;e n' 'u turnari ca fici 'u cunìggiu, 'u cagnuolu e 1' agnieddu
ci ficiru festa ranni.
Narrato da Francesco Amato, inteso Cucuncieddu, villano di
Chiaramonte.

X. Quannu San Paulu era n' 'a ventri r' 'a so matri, u capu
Cifru, sapiennu ca San Paulu àv' a ssiri 'u cciù forti campiuni ri Gesu
Cristu, echi bba spiècula? Cci 'ntroruci rintra 'u quorpu 'i San
Paulu cientu vipri 'nfirnali, e ppu' cci fa 'u 'ncantìsimu, ca ddi vipri
tannu avan' a mòrriri, quannu 'u Santu ammazzava a ccientu
cristiani. E accussì ar ogni cristianu c' ammazzava, 'na vipra ri
chiddi murìa. San Paulu ri ssa manera ava ddivintatu 'u tirruri r'
'e cristiani, e sguazzava notti e ggiornu n' 'o sagnu, come i
papareddi 'mmienzu 1' acqua, e mmancu àvana passatu quattru
cinc' anni, ca tutti i vipri ènmu muorti. Dduoppu ca s' ava
sbarazzatu r' è vipri, parsi ca tanticedda s' accuminzau a ssirinari;

140
ma ccu ttuttu chissu ogni tantazzu ci sfirrava 'a catarina, e bbulia
sicutar' a ffari com' ava fattu. Na 'ota fra 1' àtri, si ssciarrìa c' un
cumpagnu, nessci 'a spatazza, e cci vò' spurtusari i 'urredda,
riciennu: Cientu e cientu er unu! Ma prima ri 'nfilàricci 'a spata,
senti 'na 'uci r' 'o cielu: O Paulu, e ffin a quannu h'a ddurari sta
storia? Nun t' abbasta ca n' ha"mmazzatu cientu? ma ora ti ricu, e
scrivatilla n' 'a menti, ca si bulìssitu scannari 'na musca, ti mannu un
truonu, ca ti 'ntrona 'na 'ota ppi ssempri.

Narrato da Giuseppe Lorefice, ciabattino, di Modica.

Y. Rici c' a ttemp' antichi 'n Zigilia e' eranu i Saracini, e


avianu 'a liggi 'i Maumettu; e i cristiani mancu 'i putianu virriri
'mpicati 'o muru. A ssi tempa cc' era 'na liggi 'nfami, ca 'n
puvrieddu 'n zi putìa fari capitali r' 'o so: picchi tantu pp' 'u Rre,
tantu pp' 'i sbirri, tantu pp' 'u casscieri, tantu pp' i tassci, tantu pp' 'a
puòlisa (macinato), tantu pp' u riàvulu ca s' li piggiava, paria 'a
rrobba r' 'e parrìni: sciùscia, ca vola! propria com' i tempazza
'nfami r' ora, ca ni fannu paiari macari 'u battìsimu. Ora riti ca cc'
era 'nu zòriu (villano), ca 'nn avìa nè pussirìa àutru c"on (che un)
sciccarieddu. Vinni 1' ura 'i paiari: ma com' av' a ppaiari, s' avia i
sacchetti 'mpiancciàti? 'Nnca, mischinu! si nni va n' 'o casscieri ppi
piatà e mmisiricordia, c' armenu cci avissi ratu tanticcedda 'i
ddilazioni; e 'u casscieri, ca sparti r' essiri sbirru era turcu, cci riti:
Si tu mi fai 'a furzata ca mi puorti 'u sceccu supr"a cianta r' 'a
manu, ti rugnu palora, ca 'n ti fazzu paiari. 'U viddanu si nn' jiu
ccu 'a cura 'mmienzu anchi; ma ppu' cci pinzau mièggiu, e ddissi
'ntra r' iddu: O sorti, o morti! O mi strafutti, o 'un paiu nenti; e n' 'a
stissa jiurnata si vinni 'u barduìnu, si metti i rinari n' 'o pugnu, e si
nni va n' 'o casscieri. 'U sceccu unn'è? cci riti 'u casscieri. 'U
sceccu è supr'a cianta r' 'a manu. Chisti sù ddinari. E bberu ca
su' ddinari, ma sti rinari sù 'u sceccu. Abbattarìa ri ccà,
abbattarìa ri ddà, si cci ammiscau u Rre, e 'u Rre jittau stu bannu:
Bannu e cummannamientu! 'U viddanu havi raggiuni, e dd' ora
'nnanti i sbirri 'un putissiru mintri manu n' 'e sacchetti r' 'e dibbituri.
Narrato da Raimondo Vivera, villico di Chiaramonte.

Z 'A matri ri Sant' Antuninu riti ca era 'na Virgini 'n capilli, e
nisscìu ràvita picchì si manciau un pumu 'i pararisu. Mancu avia
ancora cincu se' anni, ca 'u Santuzzu si 'osi véstri munachieddu, e
cc' 'u tiempu arrinessciu 'u mièggiu priricaturi ca cci ha statu n' 'o
munnu. 'Na 'ota cascau malatu, e 'a malatìa era priculusa. Ora iddu
echi ffa? Si 'ota 'o Crucifissieddu, ca tinia appisu 'o capizzu, e si
mett' a priallu, riciennuci ca ssi cci facìa 'a ràzzia, iddu facia 'u
'utu ri jiri 'n Turchia ppi cummèrtiri i Turchi. Si 'ota 'u
Crucifissieddu, e cci riti: Vièstiti, bbattinni 'n Turchia, ca 'a ràzzia ti
l'hé fattu. Sant' Antunínu si piggia 'a tuònica nova, i sànnuli nuovi,
'a furcidduzza e 'a truscitedda cc' u pani, e ttira pp"a Turchia.
Duoppu cincu se' miggia, viriennu ca 'u sururi cci canaliava, e i
pieri 1' avia vussìchi vussìchi, s' addinoccia, vasa 'u Crucifissu r' 'a
china e cci rici: 'Ui, ca siti Patri 'i misiricordia, àt' a pinzari ca 'u
viaggiu è Iluognu, e i forzi 'un m' abbastanu. Cchi è ca vi 'mporta,
si cci vaiu a pperi o a cavaddu? Vacci a cavaddu, cci rici 'u
Crucifissùlu, ca 'u 'utu ri jirici a pperi ti 1' assurvu. E com' è ca
cci hé ggiri, o Signuri, s' 'un àggiù nè ccavaddu, nè sedda? Vòtiti
rarrieri, arrispunni 'u Crucifissulu, ca t' hé fattu truvari un cavaddu
'nziddatu. Sant' Antuninu accravacca, ma dduoppu 'n' urata 'i
caminu, si senti tuttu rruttu e ammaccatu, vasa 'u Crucifissu, e cci
rici: E cchi è cc' hé ggir' a ffari 'n Turchia, s' un sacciu 'na palora ri
dda ligna, e si i Turchi 'un zannu 'na palora r' 'a ligna mia? 'Ui, ca
siti Signuri bbinignu, cchi è ca vi 'porta si cummiertu i turchi,e puru
cummiertu 1' ariètici ri sta cità? Fa comu vuoi, cci rispunni 'u
Crucifissulu: prièrica n' 'o tuu cummientu, e cummierti 1' arietici ri
sti paisi. E accussì Sant' Antuninu si scapulau ri fari 'u 'utu.
Narrato da Grazia Cicero, villana di Modica.

AA. 'Na 'ota Gesu Cristu ccu' i rùrici Apuòstuli, siennu 'n
campagna,e ccurtu 'i scurari, vittiru 'na casuzza, e 'u mmiddanieddu,
ca stava cuciènnu 'a minèsscia. 'Nncùgnanu a bbotta 'i ddà, e Gesu
Cristu cci rici: Ni putissutu arrizzittari ppi sta nuttata? 'Nca, picchì
no? cci rispunni 'u viddanu. Paggia cci n' è, e bbi cci putiti stirari;
ma 'u busilli è pp"a manciòbbia, pirchì 'unn aiu àutru ca sti quattru
favi n' 'a tacinedda (pentolino), stu mienzu pani, e sta menza
quartucciata 'i vinu. Nun dubbitari, cci rici Gesù Cristu, ca ssu
manciari nun zulu n' abbasta, ma n' assuruvèccia. E ccu 'u fattu
cci fa 'a bbinirizzioni, e 'u manciarizzu s' 'u putìanu jittari facci facci.
'U viddanieddu viriennu ssu rran mràculu dissi a Gesu Cristu: Cchi
siti fuorsi 'u figgiu ri Ddiu, di cui pàrranu tutti a bucca cina ppi li
rran mràculi ca va faciennu? E quann' è cchissu sia bbiniritta la
vostra vinuta ni la me' casa, ca 'ui sulu, Signuri, putit' addrizzari ssa
varca. Iu aiu sta casuzza, sti quattru filara ri vigna, st'urticieddu ca
stati viriennu,ddu' tumminiedda ri terra; e ccu ttuttu chissu 'n
zugnu patruni ri nenti. Ni ddu castieddu 'nfaccifrunti cci sta un
Cavaleri, ca mi porta 'e' strapunti: iu simìnu, e 'u siminatu s' 'u
mancia 'a so puddami e i so vacchi; iu zappu 'a vigna,'a ràcina s' 'a
manciunu i so jiarzuna; iu travaggiu nell'uortu, e i so vardii ri muli
m' 'u fannu stari comu 'na cianta ri manu. E tuttu cchistu pp"u
'mpegnu ca 'ulissi vinnutu stu luchicieddu. Viriennu ca 'n cci puta
vèniri vincituri, arm' addannata si fici 'a passulìna ccu 'a me'
muggèri... 'A fimmina è ccanna! si sa; si lassau livari r' 'e so palori,
er eccu ca u gnuornu mi lassa, e si nni va a stari cur iddu. Cchi è c'
aiu a ffari? Si ricurru, i jùrici m' 'a rùninu persa; si mmi lamientu,
i so campieri mi fannu stari comu n' Eccehomu. Curnutu e bbastu-
niatu, comu rici 'u muttu anticu. Or iu, Maistru, 'urna, ca senza
prìculu miu, 'u putissi sbriugnari 'n facci a tutti, e cuntari a tutti li
'nfamitati ca va faciennu.
Ppi ffari chissu, cci rici 'u Signuri, avìssut' a ssiri pueta;
picchì ni stu munnu 'u pueta sulu pò ddiri 'a virtati, e 'unn avìri
scantu ri nuddu. Veni ccà, figgiu miu, addinòcciti, cu ti 'uòggiu rari 'u
donu r' 'a puisia.
Gesu Cristu 'u fa addinucciari, 'u vasa n' 'a 'ucca e cci rici:
Va, ora si' ppueta, e ppo' tiri 'a virità avant' a tutti, macàri avant' i
stissi Rignanti. D' allura 'nnanti 'u vìddanu accuminzau a (fari puisii
tirribbulì contra 'u Cavaleri; e 'u Cavaleri si muzzicava tuttu, ma
'un n' avia echi cci fari; picchi 'u pueta, quannu riti 'a virità, 'un si
scanta ri nuddu; e cci appi a rristituiri 'a muggeri, e adumannàricci
pirdunu.

142
Narrato da Mariano Marletta, villico di Chiaramonte.

BB. Cc'era 'n puvrieddu siccu e mmuortu ri fami, ca paria 'a


mort' a ccavaddu. I figgi l'avana cacciatu r' 'a casa; travaggiari 'n
putia; e mischinu! tutta 'a jiurnata si nni jia n' 'a crièsia r' 'e
Scappuccìni, s' addunucciava ravanti 1' autaru r' 'o Crucifissu, e
ccianciènnu a llavìna, si sdivacava 'a mirudda riciennu r' 'a matìna
sin' 'a sira: Gesu miu prizziusu! Gesu miu, patri r' 'e pòviri!... O
mannàtimi 'a pruviriènzia, o puramenti 'na santa morti! Ora 'na 'ota
'u Crucifissu cci arrispusi: Va, figgiu miu, va, cerca a Santu Cuòcciu,
e bbiri c' 'a pruvirìènzia 'un ti manca. E unn' è ca 1' H ggir' a
ccircari, Sìgnuri? Unni 1' ha circari? sferra ppi ssi campagni,
campagni. 'U puvrieddu, un piezzu carninannu, un piezzu
arripusànnusi, sfirrau campagni campagni, e 'u primu ca scuntrau
fu un latru ri passu, c' 'a carrabbìna 'ngriddata, e 'na pàmpina ri cu-
tieddu, ca, Matri ri Ddiu! facìa scantari a taliàllu. Siti 'ui Santu
Cuòcciu? cci rici 'u puvirieddu. Sarrìa Santu Cuòcciu, cci ricì 'u
latru, s' 'un n' avissì sta carrabbìna, e sta pàmpina ri cutieddu.
Camina, camìna: e scontra un Principi ccu ttanti campierí e staffieri,
ca parìanu 'na nùula. Siti 'ui Santu Cuòcciu? Bestia! cci rissi 'u
Principi, s' un fussi ppi mmia, Santu Cuòcciu putissi jiri a
bburricàrisi vivu. Camina, camina: e scontra nnu rrumitu, cc' 'un
bellu ssceccu e i vièrtuli cini a tappu. Patri 'ranni, siti 'uì Santu
Cuòccìu? Si, figgìu
rrispusi 'u rrumitu. 'At' a ssapiri, Santu Cuòcciu, ca mi cci
manna 'u Crucifissu r' 'e scappuccini, ca m' àt 'a 'nzignarí 'u
muoru e 'a manera, com' aiu ccampari senza travaggiu. E chissu
è unenti: càrpiti 'a vièrtula; va nni ssi trappita, ni ss' arii (aie), ni
ssi palimmenta, ni ssi casulara (magazzini di cacio), ni ssi munàchi, e
ddumanna 'a carità ppi 11' armi santi r' 'o Priatòriu. t bberu, ca
rognunu unni vai ti runa picca; ma penza ca unii si fannu ecu i
sanàra, e i 'utti si ìncinu a bbia ddi stizzi ri vinu.

Narrato da Pasquale Bellìo, contadino di Chiaramonte.

S-ar putea să vă placă și