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Criterio gerarchico
La Costituzione è la fonte del diritto al più alto livello gerarchico; è l'atto
normativo fondamentale, che definisce la natura, la forma, la struttura e le regole fondamentali
dell’ordinamento giuridico di uno Stato di diritto.
Ogni fonte del diritto deve trovare la propria legittimazione in una disposizione normativa di
grado superiore; qual è allora la fonte della sua produzione che legittima la costituzione italiana
entrata in vigore nel 1948?
All'origine della Costituzione vi è il cd. potere Costituente, cioè quello attribuito ai 556 membri
dell'assemblea costituente eletta dal popolo nel 1946, incaricata di redigere la costituzione della
Repubblica Italiana, vertice del sistema e che abilitava ogni autorità statale.
Formalmente questo potere fu conferito ai costituenti dall’articolo 1 del decreto luogotenenziale numero
151 del 1944, in seguito l'articolo 4 del decreto legislativo 98 del 1946 rimosse questo stesso potere
all'assemblea, sciogliendola di diritto.
Ma da quale sorgente hanno allora attinto questi atti normativi che hanno dato base di legittimazione alla
Costituzione Italiana? La risposta è che il fondamento della Costituzione è di matrice storico-materiale,
ovvero è rintracciabile in quell'accordo tra le forze politiche che al termine della seconda guerra mondiale si
impegnarono nella costruzione di un nuovo ordine democratico.
La nostra Costituzione viene definita rigida per differenziarla dalle costituzioni flessibili tipiche dell'800,
definite tali in quanto modificabili anche da parte di leggi ordinarie. Nel caso della Costituzione Italiana
invece è necessario un procedimento aggravato rispetto a quello che si segue per l'approvazione delle leggi
ordinarie. La superiorità della Costituzione sarebbe illusoria anche se non fosse previsto un rimedio alla
violazione da parte del legislatore ordinario delle norme costituzionali, cioè il controllo della Corte
costituzionale.
Particolarmente importante è la sua prima pronuncia (Corte Cost., sentenza n° 1 del 1956), da cui si evince
che le norme precedenti alla Costituzione non sono state automaticamente abrogate (come taluno
riteneva), ma devono comunque essere rispettose della Costituzione e il controllo deve essere fatto dalla
Corte e non dai giudici ordinari per evitare una molteplicità di interpretazioni.
Le leggi di revisione costituzionale e le altre leggi costituzionali
Articolo138:Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con
due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei
componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione.
Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano
domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta
a referendum non è promulgata se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi. Non si fa luogo a referendum se la
legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi
componenti.
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LE SINGOLE FONTI DEL DIRITTO (Cap.3)
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LE SINGOLE FONTI DEL DIRITTO (Cap.3)
Il primo limite è stato ritrovato nell'articolo 2 della Costituzione, disposizione che riconosce i
diritti inviolabili dell'uomo. Secondo questa interpretazione quindi sarebbero da considerarsi
sottratti alla revisione costituzionale tutti quei diritti che nella costituzione vengono proclamati
inviolabili e dunque irrivedibiili.
Un secondo limite invece è stato ritrovato nell'articolo 1 della Costituzione, che qualifica la
Repubblica Italiana come democratica. Sfuggono ad interventi di revisione quindi anche quei
principi e diritti costituzionali che conferiscono al nostro sistema repubblicano quella connotazione
democratica di cui ragiona l’articolo 1 della Costituzione (ad es. diritti di voto, manifestazione del
pensiero, associazione).
La Corte Costituzionale italiana inoltre è intervenuta affermando che la costituzione italiana
contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto
essenziale. Tra questi sono avverati il principio di laicità dello Stato la tutela della vita, la libertà
personale, la salvaguardia dell'integrità costituzionale delle istituzioni della Repubblica, il principio
di legalità in materia penale.
Tra le fonti del diritto di rango super primario sono da annoverarsi anche gli Statuti delle regioni
speciali, trattandosi di atti che vengono approvati mediante leggi costituzionali del Parlamento.
Il nostro ordinamento è articolato territorialmente e istituzionalmente in più regioni: di queste 15
sono regioni ordinarie, le altre cinque (Valle d'Aosta, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia,
Sardegna e Sicilia) sono invece regioni speciali. La Costituzione, per ragioni di ordine storico, ha
ritenuto necessario garantire forme particolari e più accentuate di autonomia a queste regioni.
Proprio per questo, mentre le competenze delle regioni ordinarie si trovano direttamente
disciplinate nel testo della Costituzione dagli artt. 114 a 117, per le regioni speciali l'articolo 116
della Costituzione ha prospettato un regime ad hoc.
Vi sono però alcune differenze rispetto alle regole di approvazione di una legge costituzionale
adottata ai sensi dell'articolo 138: in primo luogo quando il potere di iniziativa di modifica degli
Statuti non è esercitato dal Consiglio Regionale interessato e la proposta di legge costituzionale
provenga invece dal governo o dal Parlamento, il consiglio regionale deve esserne comunque
informato; lo stesso potrà entro due mesi esprimere un proprio parere sul testo, anche se non
vincolante. Inoltre a differenza di quanto previsto dall'articolo 138 della Costituzione le leggi
costituzionali di modifica degli Statuti non possono essere sottoposte a referendum nazionale.
Da notare che gli Statuti speciali possono derogare alla disciplina generale delle Regioni ordinarie,
ma devono comunque rispettare i principi supremi dell’ordinamento, come ha ben evidenziato la
Corte Cost. (sent. 6 del 1970).
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LE SINGOLE FONTI DEL DIRITTO (Cap.3)
a) iniziativa del governo (art. 71 Cost.): i progetti di legge presentati dal Governo prendono il
nome di disegni di legge. E’ l’iniziativa legislativa di maggior rilievo: il Governo può proporre
disegni di legge in qualsiasi materia; il Governo si compone delle forze politiche che in Parlamento
hanno la maggioranza e facilmente le sue proposte saranno approvate.
In alcuni casi l’iniziativa legislativa è riservata al governo (bilancio art. 81 Cost.).
Lo schema del disegno di legge è predisposto dal ministro o dai ministri competenti per materia ed
è in seguito sottoposto alla delibera del Consiglio dei Ministri. Terminata questa fase la
presentazione del disegno di legge ad una delle due camere è autorizzata dal Presidente della
Repubblica mediante decreto (art. 87 Cost.)
b) l'iniziativa parlamentare (art. 71 Cost.): ogni deputato e ogni senatore può presentare progetti
di legge
c) l'iniziativa popolare (art. 71 Cost.): la Costituzione prevede che cinquantamila elettori possano
presentare un progetto di legge redatto in articoli. Tale potere di iniziativa non è stato
concretamente esercitato fino all'entrata in vigore della legge numero 352 del 1970. La legge
disciplina le modalità di raccolta delle firme e richiede che il progetto ne illustri anche le finalità e le
norme. Questo strumento di democrazia diretta ha tuttavia nella prassi trovato scarsissima
applicazione (in Senato è prevista una modifica al regolamento che quando sarà operativa vi darà
maggior peso).
d) l’iniziativa delle Regioni (art. 121 Cost.): i Consigli regionali hanno facoltà di presentare
progetti di legge senza alcuna espressa delimitazione dell'oggetto. Anche in questo caso nella
prassi tale strumento è stato poco utilizzato dalle regioni
e) l’iniziativa del Consiglio Nazionale dell'Economia e del lavoro (art. 99 Cost.): anche in
questo caso iniziativa del C.n.e.l. (organo di ausilio al Parlamento composto da esperti delle
categorie produttive) non ha di fatto mai assunto un rilievo sostanziale.
La fase dell'approvazione
L'approvazione della legge richiede che entrambe le camere, essendo il nostro un bicameralismo
paritario perfetto, si esprimano favorevolmente sul medesimo testo. Se dopo l’approvazione di
una Camera l’altra Camera approva degli emendamenti, il testo deve tornare all’altra Camera per
una nuova approvazione (cd. Navetta).
L'iter di approvazione da seguire in ciascuna camera trova la sua disciplina dell'articolo 72 della
Costituzione e nelle norme dei regolamenti parlamentari.
Il procedimento legislativo vede sempre coinvolte le Commissioni parlamentari permanenti: la
Costituzione richiede quale fase inderogabile dell'iter legis il passaggio in una commissione al fine
di svolgere l'istruttoria sul testo normativo proposto. Con le istruttorie le commissioni acquisiscono
tutti gli elementi utili ad una consapevole deliberazione da parte del Parlamento (come ad esempio
un esame sulla necessità dell'intervento legislativo, sui suoi eventuali costi, sugli obiettivi e sulla
coerenza degli strumenti predisposti allo scopo).
A seconda del ruolo che la commissione permanente è chiamata a svolgere nell'ambito dell’iter di
approvazione della legge si possono distinguere tre diverse modalità di approvazione delle leggi:
a) procedimento ordinario. Questo procedimento prevede che la proposta di legge sia esaminata
articolo per articolo e approvata dalla Commissione competente per materia e successivamente
venga esaminata articolo per articolo è approvata dall'Assemblea nella sua composizione plenaria.
Il progetto di legge viene affidato a un relatore, che riferirà all’Assemblea.
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LE SINGOLE FONTI DEL DIRITTO (Cap.3)
In Assemblea saranno esaminati gli emendamenti (prima i soppressivi, poi i modificativi, infine gli
aggiuntivi).
Votati i singoli articoli del progetto, l'assemblea procede alla votazione dell'intero testo legislativo
così come risultante dalle modifiche eventualmente apportate alla versione originale.
Il voto è di regola palese e la maggioranza richiesta è semplice.
b) procedimento decentrato. L'articolo 72 comma 3 della Costituzione consente al regolamento
parlamentare di stabilire che in alcuni casi la commissione possa approvare definitivamente la
legge senza bisogno di una votazione dell'assemblea. In tali casi quindi la commissione non si
limita a svolgere una funzione istruttoria, ma ad essa è affidato il compito di giungere anche alla
deliberazione conclusiva dell'iter parlamentare. Fino al momento della sua approvazione definitiva
Il progetto di legge affidato alla procedura decentrata può essere rimesso all'assemblea laddove
ne facciano richiesta il governo o un decimo dei componenti della camera o un quinto della
commissione. (art 72 comma 3 Cost).
c) Procedimento misto. Questo procedimento non è disciplinato direttamente in costituzione ma
trova il suo ancoraggio normativo nei regolamenti parlamentari. In questo caso alla commissione è
rimesso l'esame del progetto e il voto sugli eventuali emendamenti, mentre all'assemblea spetta
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LE SINGOLE FONTI DEL DIRITTO (Cap.3)
unicamente la votazione sui singoli articoli e sul testo finale, senza possibilità di riprovare di
approvare emendamenti.
Infine l'articolo 72 comma 2 della Costituzione stabilisce che i regolamenti parlamentari possano
prevedere procedimenti abbreviati (riducendo i tempi delle varie fasi) per i progetti di legge di cui
sia dichiarata l'urgenza.
E’ il Presidente a decidere (al Senato), o a proporre all’Assemblea (alla Camera) quale
procedimento seguire.
Ora al Senato la regola è il procedimento decentrato o quello misto.
Leggi atipiche
Sono atipiche le leggi che sono dotate di una peculiare forza ovvero una particolare capacità di
innovare l'ordinamento attraverso l'abrogazione, la modifica e la deroga di disposizioni normative
vigenti (forza attiva) o di particolari capacità di resistenza rispetto alla programmazione, alla
modifica e alla deroga operato da altre fonti del diritto (forza passiva).
Rientrano nella categoria delle leggi atipiche anche le leggi rinforzate per la cui adozione è
richiesto un procedimento diverso rispetto a quello disciplinato dall'articolo 72; le leggi rinforzate
sono dotate di peculiare forza: non possono essere modificate o abrogate da una legge ordinaria,
ma solo attraverso il procedimento prescritto per la loro approvazione.
Un esempio sono le leggi di amnistia e indulto (art. 79 Cost) per le quali è richiesta la
maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera.
Essi possono essere abrogati, modificati o derogati da leggi successive, ma non da fonti inferiori
come i regolamenti; possono essi stessi abrogare o modificare una legge precedente, ma con
un’eccezione: il governo non può approvare un decreto legislativo che contenga disposizione in
contrasto con la legge del Parlamento che ha provveduto a conferire la relativa delega.
La previsione di atti governativi aventi forza di legge costituisce una deroga - costituzionalmente
ammessa dagli artt. 76e 77 Cost, - al principio di separazione dei poteri.
Il Parlamento non è però estromesso dall’iter che conduce all'entrata in vigore della legge: nel
caso dei decreti legislativi le camere sono infatti chiamate ad intervenire prima della loro
emanazione attraverso l'attribuzione con legge una delega al governo.
Nel caso dei decreti legge il Parlamento interviene invece successivamente attraverso la
necessaria conversione in legge del decreto governativo.
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LE SINGOLE FONTI DEL DIRITTO (Cap.3)
La legge di delega individua i principi e criteri direttivi cui governo si deve attenere.
Il Parlamento, dunque, fissa le norme fondamentali della materia e gli obiettivi da perseguire.
Per la Corte Cost. sono in contrasto con l’art. 76 Cost. solo le leggi di delega del tutto prive
dell’indicazione dei principi e criteri direttivi.
Le camere talvolta inseriscono nella legge di delega anche prescrizioni di carattere
procedimentale, come ad es. la necessità che il Governo senta il parere di alcune Commissioni
parlamentari o di altri organi consultivi, come il Consiglio di Stato.
Infine, la delega è conferita al governo per un tempo limitato; il termine può essere fissato
facendo riferimento ad un lasso di tempo o ad un evento futuro purché certo.
Se il termine previsto per l'esercizio della delega eccede i due anni il Governo è tenuto a richiedere
il parere delle camere sugli schemi dei decreti legislativi.
Il termine è rispettato se entro la scadenza il D.l. sia emanati dal Presidente della Repubblica
E’ convinzione diffusa che governo passa adempiere la delega legislativa con un solo atto
indipendentemente dal tempo a disposizione; l’esercizio del potere delegato sembrerebbe
necessariamente istantaneo, consumandosi per effetto e l'approvazione del primo atto legislativo.
Negli ultimi anni avrò invalsa la prassi di adottare decreti legislativi correttivi ed integrativi su
espressa autorizzazione del Parlamento; il Parlamento con la legge di delega autorizza il governo
ad intervenire in più tempi: in un primo momento adempiendo la delega principale, in un secondo
adottando le correzioni che si siano rivelate necessarie.
Quanto al procedimento per l'approvazione del decreto legislativo, esso è adottato su
deliberazione del Consiglio dei Ministri ed emanato dal Presidente della Repubblica.
Il decreto legislativo che non si attenga alle prescrizioni delle leggi di delega incorre in un’indiretta
violazione dell'articolo 76 della Costituzione e può pertanto essere dichiarato illegittimo dalla
Corte Costituzionale per vizio di eccesso di delega. Si dice in questi casi che la norma della
legge di delega costituisce una norma interposta tra il decreto legislativo è l'articolo 76 della
Costituzione.
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LE SINGOLE FONTI DEL DIRITTO (Cap.3)
Il decreto legge
L'istituto del decreto-legge risponde alla necessità del sistema di affrontare un tempestivo
intervento normativo nei casi che - per l’eccezionalità, l’imprevedibilità e l'urgenza coi quali si
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LE SINGOLE FONTI DEL DIRITTO (Cap.3)
presentano - non possono attendere i tempi richiesti dall'ordinario iter legislativo. La disciplina si
trova nell’art. 77 della Costituzione e nella legge 400 del 1988.
L’art. 77 Cost. premette che il Governo non può di norma emanare senza delega delle Camere
decreti con valore di legge ordinaria, ma aggiunge che è tutttavia abilitato ad adottare in casi
straordinari di necessità e d’urgenza, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori
con forza di legge.
Trattandosi, come nel caso del decreto legislativo di una deroga al principio monista in base al
quale la funzione legislativa spetta al solo Parlamento, il decreto legge è soggetto ad una serie di
restrizioni (riguardanti l'efficacia del provvedimento): innanzitutto il decreto legge ha natura
provvisoria: se non convertito in legge dal Parlamento entro 60 giorni dalla sua
pubblicazione perde efficacia sin dall'inizio (se convertito ha efficaca ex tunc).
Inoltre il decreto legge è assunto sotto la responsabilità non solo politica, ma anche giuridica del
governo che potrebbe essere chiamato a risponderne in sede civile penale o amministrativa delle
conseguenze prodotte dal decreto.
comma 3 ha previsto che il Parlamento possa approvare una legge di sanatoria finalizzata a
regolare i rapporti sorti durante la vigenza del decreto legge.
Nella terza ipotesi gli effetti vengono stabilizzati dall'ordinamento.
In sede di conversione le camere possono anche apportare delle modifiche alla disciplina
originaria del decreto legge, che di norma hanno efficacia ex nunc; ma se trattasi di emendamento
soppressivo essendo di fatto una mancata conversione avrà efficacia ex tunc.
Si tratta di un istituto di democrazia diretta: la decisione di indirizzo politico viene presa dal corpo
elettorale e non dai suoi rappresentanti; per questo motivo il referendum abrogativo può essere
ritenuto uno strumento eccezionale rispetto alla connotazione rappresentativa della nostra
democrazia, in virtù della quale le scelte di indirizzo politico sono prese dagli eletti e non dai suoi
rappresentanti; perciò le forze politiche hanno sempre guardato con un certo timore agli esiti del
referendum, come dimostra il ritardo con cui è stata approvata la legge numero 352 del 1970, che
ha reso possibile l’operatività dell’istituto referendario.
Il procedimento di indizione del referendum si articola in più fasi: 1) la fase dell'iniziativa
referendaria. Il referendum può essere chiesto da cinquecentomila elettori o da 5 consigli
regionali e può avere ad oggetto un intero testo di legge (referendum totale) o una o più norme
della legge (referendum parziale).
Se l'iniziativa proviene dagli elettori, essa è scandita a sua volta nelle seguenti fasi: i promotori del
referendum (cioè almeno 10 cittadini che godono del diritto di voto) devono presentarsi presso la
Corte di cassazione, indicando la legge o gli articoli e i commi di essa che intendono abrogare;
dopo di che, possono iniziare la raccolta delle 500.000 firme degli elettori, che devono essere
autenticate nei modi previsti dalla legge, su fogli in cui è indicato il quesito referendario. Il quesito è
così formulato: «Volete che sia abrogata...?». Ai cittadini è così richiesto di esprimersi con un sì o
con un no rispetto all'abrogazione delle norme elencate.
Il deposito delle firme raccolte e della richiesta referendaria presso la Corte di Cassazione deve
avvenire entro 3 mesi dall'inizio della raccolta.
Se l'iniziativa proviene dai Consigli regionali è sufficiente che vengano presentate presso la Corte
di cassazione le delibere dei Consigli regionali, contenenti l'indicazione dell'oggetto del quesito. Le
delibere debbono essere approvate a maggioranza semplice e presentate entro 3 mesi dalla loro
approvazione.
Il deposito delle richieste referendarie deve avvenire presso la cancelleria della Corte di
cassazione tra il 1° gennaio ed il 30 settembre.
Per evitare sovrapposizioni tra l'iniziativa e le elezioni politiche delle Camere si è previsto che non
possa essere depositata richiesta di referendum nell'anno precedente alla scadenza delle Camere
e nei 6 mesi successivi alla convocazione dei comizi elettorali.
b) Fase dei controlli preventivi all'indizione del referendum. I controlli preventivi sono due: 1)
Vaglio sulla legittimità del referendum della Corte di cassazione. L’Ufficio centrale istituito
presso la Cassazione, che ha il compito di verificare il rispetto della legge nella fase dell'iniziativa;
ad esempio, se l'iniziativa è richiesta da 500.000 cittadini dovrà verificare la regolarità della
raccolta delle firme. La decisione definitiva dell'Ufficio, che ha la forma di una ordinanza, deve
essere resa entro il 15 dicembre.
Qualora vengano presentati contestualmente più quesiti referendari, e questi, o taluni di questi,
abbiano ad oggetto materie uniformi o analoghe, l'Ufficio ha inoltre il compito di concentrare i
quesiti stessi.
Infine, procede a stabilire il titolo del referendum, ovvero la sua denominazione, perché possa
essere identificato e compreso dagli elettori. Terminato il proprio vaglio, l'ordinanza dell'Ufficio
centrale viene notificata alla Corte costituzionale affinché possa procedere al secondo tipo di
controllo previsto (quello di ammissibilità).
b2) Giudizio di ammissibilità del referendum della Corte costituzionale. Il giudizio
sull'ammissibilità del referendum abrogativo di cui all'art. 75 Cost. è stato devoluto alla competenza
della Corte costituzionale non direttamente dalla Costituzione, ma dall'art. 2 della legge
costituzionale n. 1 del 1953 (che va integrata con la legge n. 352 del 1970 per la disciplina del procedimento ).
Questa è chiamata a decidere con sentenza da depositarsi entro il 10 febbraio. Termini così stretti
sono necessari per consentire lo svolgimento della votazione popolare nel periodo che va tra il 15
aprile e il 15 giugno.
Subito dopo aver ricevuto comunicazione della legittimità del quesito referendario da parte dell'Ufficio
centrale della Corte di cassazione, il Presidente della Corte costituzionale fissa la data della deliberazione in
Camera di consiglio, che deve tenersi entro il 20 gennaio, e nomina il relatore. Di ciò vengono informati i
promotori del referendum e il Presidente del Consiglio dei ministri, che hanno la possibilità - fino a 3 giorni
prima della data fissata per la deliberazione - di depositare memorie in cui portare argomenti a favore o
contro l'ammissibilità del referendum.
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LE SINGOLE FONTI DEL DIRITTO (Cap.3)
La Corte ha aperto all'intervento nel giudizio di ammissibilità di soggetti diversi dal Governo e dai promotori:
tuttavia, mentre a questi ultimi è riconosciuto il diritto non solo di depositare memorie ma anche di illustrarne
il contenuto in Camera di consiglio, i soggetti terzi possono solo depositare memorie scritte (la Corte si
riserva comunque la facoltà di ammetterne anche l'illustrazione: cfr. ordinanza del 10 gennaio 2005).
Con il giudizio di ammissibilità la Corte verifica in primo luogo che il quesito referendario non
riguardi leggi che l'art. 75, comma 2, Cost. esplicitamente esclude dalla sottoponibilità a
referendum: leggi tributarie e di bilancio, leggi di amnistia e di indulto e leggi di autorizzazione alla
ratifica dei trattati internazionali (oltre alle leggi di rango costituzionale).
La ratio dell'esclusione di tali tipologie di leggi sta nel fatto che a) l'abrogazione tramite referendum di leggi tributarie
incontrerebbe, presumibilmente, sempre il consenso degli elettori, a discapito del principio costituzionale che individua
nell'assolvimento degli obblighi tributari un dovere inderogabile del cittadino; b) l'abrogazione delle leggi di bilancio
comporterebbe il venir meno dell'equilibrio finanziario dello Stato; c) l'abrogazione di leggi di amnistia e indulto sarebbe
inutiliter data, vista la necessaria applicazione delle leggi penali in bonam partem; inoltre apparve ai Costituenti
inopportuno attribuire la decisione su una materia così delicata a scelte popolari, che potrebbero risultare poco
ponderate; d) l'abrogazione di leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali esporrebbe lo Stato a
responsabilità internazionale.
Anche se l'art. 75 Cost. non lo prevede espressamente, è implicito nell'art. 123 Cost. che il referendum abrogativo di cui
all'art. 75 Cost. non possa svolgersi su leggi regionali.
La Corte costituzionale ha tratto dall'art. 75 Cost. limiti ulteriori : con la sentenza n. 16 del 1978
essa ha o che per leggi tributarie si devono intendere tutte quelle norme che disciplinano il
rapporto tributario, non solo quelle che impongono tributi; alle leggi di bilancio, poi, sono state
assimilate le leggi finanziarie e tutte le norme che su di esse possano incidere; infine, alle leggi di
autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali si sono aggiunte le leggi di esecuzione dei
trattati stessi e tutte quelle norme la cui emanazione viene imposta dagli impegni internazionali,
nonché tutte le leggi che danno attuazione alle fonti comunitarie (ad esempio ad una direttiva
dell'Unione europea).
In secondo luogo, sempre nella stessa decisione, la Corte ha affermato che non sono ammissibili
referendum abrogativi sulla Costituzione, su leggi costituzionali e su tutti gli atti legislativi dotati di
una forza passiva peculiare
La Corte ha inoltre escluso che possano svolgersi referendum aventi per oggetto leggi a
contenuto costituzionalmente vincolato, ovvero quelle leggi «il cui nucleo normativo non possa
venire alterato o privato di efficacia, senza che ne risultino lesi i corrispondenti specifici disposti
della Costituzione stessa». In altre parole, si tratta delle leggi che attuano la Costituzione nel solo
modo possibile.
È ritenuta a contenuto costituzionalmente vincolato, ad esempio, la legge n. 194 del 1978, recante
la disciplina sull'interruzione volontaria di gravidanza. Secondo la Corte costituzionale, talune
disposizioni di detta legge, essendo rivolte alla tutela di interessi costituzionalmente rilevanti - in
particolare quello alla salute della donna, nonché quello alla protezione della vita del nascituro -
apprestano una tutela minima per situazioni giuridiche che la Costituzione (cfr. in particolare gli
artt. 31 e 32 Cost.) impone di tutelare. Per tale ragione, l'abrogazione di tale legge determi-
nerebbe il venir meno di quel regime minimo di tutela che il legislatore è tenuto invece a garantire.
Occorre dire che quella delle leggi a contenuto costituzionalmente vincolato è una delle
elaborazioni più discusse e controverse della giurisprudenza costituzionale in tema di referendum,
risultando difficoltoso delinearne con precisione le caratteristiche.
Con alcune sentenze del 1987 la Corte ha poi introdotto un'altra categoria discussa di leggi
sottratte a referendum abrogativo: quella delle leggi costituzionalmente necessarie (od
obbligatorie), vale a dire quelle leggi che, pur non avendo un solo contenuto costituzionalmente
vincolato, non possono non essere presenti nell'ordinamento, e quindi essere abrogate. È il caso,
ad esempio, delle leggi che disciplinano il funzionamento degli organi costituzionali: non vi è una
sola modalità con cui tali organi possano essere formati, ma è comunque necessario che essi
funzionino.
Le leggi che meglio di tutte esemplificano tale categoria sono le leggi elettorali: diversi sono i contenuti
che possono darsi alla legge elettorale del Parlamento (essa può recare un sistema proporzionale o maggioritario, può
prevedere una soglia di sbarramento o un premio di maggioranza, ecc.), ma è comunque essenziale che essa ci sia,
posto che, diversamente, il Parlamento non potrebbe essere rinnovato alle scadenze.
Tali leggi che regolano il funzionamento degli organi costituzionali) - dovendo necessariamente
essere in vigore - non possono essere sottoposte ad un referendum totale, ma possono essere
sottoposte ad un referendum parziale, ma alla sola condizione che la normativa risultante
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LE SINGOLE FONTI DEL DIRITTO (Cap.3)
dall'eventuale esito positivo della — - consultazione referendaria sia autosufficiente, cioè idonea a
consentire la formazione degli organi in questione e che essi possano pertanto svolgere le proprie
attribuzioni.
Proprio in relazione alle leggi elettorali la Corte costituzionale ha affermato che «esse sono
assoggettabili a referendum purché ne risulti una coerente normativa residua, immediatamente
applicabile, in guisa da garantire, pur nell'eventualità di inerzia legislativa, la costante operatività
dell'organo».
I cosiddetti referendum "manipolativi", ovverossia quei referendum che colpiscono singole
parole o parti di frasi prive di significato autonomo.
La Corte costituzionale ha cercato di tracciare un confine tra manipolazione inammissibile e
manipolazione ammissibile. La differenza tra le due ipotesi va ricercata sul piano della innovatività
della disciplina di risulta. Sono infatti inammissibili quei quesiti referendari parziali che,
nell'abrogare frammenti di una disposizione (ad es. parole o persino segni di interpunzione),
mirano ad introdurre norme del tutto estranee al contesto normativo previgente.
Quesiti del genere, definiti anche «propositivi» (Corte cost., sent. n. 26 del 2017), finiscono, cioè,
sotto le mentite spoglie dell'abrogazione, per creare nuovo diritto attraverso uno strumento che ha
istituzionalmente un altro fine (l'abrogazione, appunto).
In definitiva, il criterio elaborato dalla Corte sembra volto ad escludere l'ammissibilità dei
referendum manipolativi che diano luogo alla creazione di norme nuove, prima sconosciute
all'ordinamento.
E’ stata ad esempio dichiarata inammissibile la richiesta di abrogazione parziale della legge sulla
disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato (n. 223 del 1990).
Di contro, la Corte ritiene ammissibili i referendum manipolativi che, pur incidendo inevitabilmente,
modificandolo, sull'ordinamento, mirano (solo) ad espandere principi e regole già incorporati nella
legislazione vigente.
Così, è stato ammesso (con sentenza n. 32 del 1993) il referendum parzia-le sul sistema elettorale
del Senato vigente nel 1992.
I referendum manipolativi ritenuti ammissibili dalla Corte costituzionale generalmente investono le
leggi costituzionalmente necessarie. La necessità di lasciare in vita una normativa di risulta che
assicuri il funzionamento e la continuità degli organi costituzionali di fatto rende quasi obbligata la
strada della manipolazione.
Altri limiti introdotti dalla Corte costituzionale riguardano il quesito, che deve essere omogeneo,
univoco, non essendo ammissibili quesiti che contengano più domande prive di «matrice
razionalmente unitaria». È infatti indispensabile che l'e-lettore possa esprimersi singolarmente su
ciascuna questione, po-sto che, diversamente, verrebbe meno la libertà di voto di cui all'art. 48
Cost: l'elettore sarebbe diversamente costretto ad esprimersi con un «voto bloccato» (—ovverosia
con unico "sì" o con un unico "no" — su tematiche diverse, senza avere la possibilità di
differenziare le proprie scelte.
Un esempio: con la sent. n. 28 del 1981 la Corte ha dichiarato inammissibile la proposta di
abrogazione di 31 articoli diversi del Codice penale. Gli elettori avrebbero potuto volere
l'abrogazione solo di alcune norme sottoposte al voto, e non di altre: la formulazione del quesito
referendario precludeva, però, questa possibilità.
Con la giurisprudenza successiva, la Corte si è spinta anche oltre, pretendendo che il quesito
rispettasse i requisiti di chiarezza, coerenza, completezza ed esaustività, e verificando persino che
il risultato finale del referendum coincidesse con gli intenti dei promotori.
Con la sentenza n. 35 del 2000, ad esempio, la Corte costituzionale ha di-chiarato inammissibile un quesito referendario
il cui obiettivo, nell'intendimento dei promotori, era la "smilitarizzazione" della Guardia di Finanza, che è un corpo
appartenente alle Forze armate. La Corte era infatti della convinzione che il carattere militare caratterizzasse l'intera
disciplina del Corpo, talché «anche in caso di esito positivo della consultazione referendaria, permarrebbero i modelli
militari ai quali si è storicamente uniformata - e continua ad uniformarsi - la Guardia di finanza; modelli non suscettibili di
essere modificati mediante mere abrogazioni». In definitiva, dunque, «lo strumento referendario si presenta inidoneo a
raggiungere l'obiettivo della sua 'smilitarizzazione'».
c) Fase dell'indizione. L'indizione del referendum avviene con decreto del Presidente della
Repubblica previa delibera del Consiglio dei ministri. La data del referendum deve essere fissata in
una domenica compresa fra il 15 aprile ed il 15 giugno.
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LE SINGOLE FONTI DEL DIRITTO (Cap.3)
Se, una volta indetto il referendum, accade che le Camere siano sciolte anticipatamente ai sensi
dell'art. 88 Cost., il referendum viene sospeso ed i termini ricominciano a decorrere alla scadenza
di un anno dallo svolgimento delle elezioni.
Posto che il termine del 15 giugno per l'indizione del referendum è indefettibile, se le elezioni si
svolgono dopo il 15 giugno può avvenire che il referendum "slitti" anche di due anni (art. 34 della
legge n. 352 del 1970).
L'art. 39 della legge n. 352 del 1970 regola il caso in cui, prima dello svolgimento della
consultazione referendaria, il Parlamento intervenga ad abrogare o modificare con una propria
legge, quella oggetto di referendum. Si tratta di una disciplina molto importante. Stabilendo quali
effetti produce sulla richiesta di referendum il sopravvenire di una nuova decisione parlamentare in
materia, la norma tocca uno degli aspetti più delicati del rapporto tra democrazia diretta e
democrazia rappresentativa. In questi casi, dunque, spetta all'Ufficio centrale per il referendum
dichiarare che le operazioni relative non hanno più corso. Sul punto, la Corte costituzionale ha
però chiarito che «se l'abrogazione degli atti o delle singole disposizioni cui si riferisce il
referendum venga accompagnata da altra disciplina della stessa materia, senza modificare né i
principi ispiratori della complessiva disciplina preesistente né i contenuti normativi essenziali dei
singoli precetti», il referendum deve comunque svolgersi sulle nuove disposizioni legislative (Corte
cost., sent. n. 68 del 1978).
d) Fase della votazione degli elettori. II doppio quorum
Perché il referendum sia valido occorre che partecipino al voto la metà più uno degli aventi diritto,
e perché il quesito sia approvato che si pronunci in senso positivo la metà più uno dei votanti (cfr.
art. 75, penultimo corn ma, Cost).
La previsione del quorum di validità ha la funzione d’impedire che una minoranza possa decidere
di abrogare le leggi votate dal Parlamento.
II graduate abbassamento del livello di partecipazione del popolo alla vita politica del Paese si e
pere nel tempo trasformato in un forte ostacolo all’efficacia dell'istituto referendario. Facendo leva
su questa disaffezione del corpo elettorale e sulla regola del quorum, le forze politiche contrarie
alla richiesta referendaria hanno avuto peraltro buon gioco di esortare all'astensione, piuttosto che
a votare "no". Da molto tempo, quindi, con grande difficolta si riesce a raggiungere la soglia
minima di validità richiesta dall'art. 75 Cost.
e) Fase della proclamazione del risultato del referendum. Se l'esito del referendum è positivo,
il Presidente della Repubblica lo dichiara con decreto pubblicato sulla Gazzetta.
Tale decreto costituisce un atto dovuto del Capo dello Stato; il Presidente mantiene infatti un
margine di discrezionalità solo sul momento di entrata in vigore dell'abrogazione, che può essere
posticipato, su proposta del Ministro competente per materia e previa delibera del Consiglio dei
ministri, di massimo 60 giorni dalla data di pubblicazione del decreto (cfr. l'art. 37 della legge n.
352 del 1970). La ratio è quella di permettere al Parlamento, se ritiene, di intervenire per evitare il
determinarsi di un vuoto normativo per effetto dell'esito referendario.
L'esito positivo del referendum produce significative ripercussioni sui poteri del Parlamento.
Dall'abrogazione referendaria di una legge discende infatti il divieto per il legislatore di approvare
una legge analoga a quella abrogata.
La Corte costituzionale ha affermato che non è ammissibile porre nel nulla l'esito della
consultazione popolare referendaria; ha però precisato che il limite che grava sul Parlamento non
è assoluto: esso potrebbe venire meno in presenza di mutamenti del quadro politico o di
circostanze di fatto che giustifichino Ia riadozione della disciplina abrogata, sebbene si tratti di
condizioni non facili da riscontrare.
In ogni caso, rimane ad oggi indefinita Ia durata di siffatto vincolo. Per quanto tempo, cioè, il
legislatore risulta obbligato a non ripristinare le norme abrogate dal popolo? Le posizioni della
dottrina non sono univoche e neppure il Giudice costituzionale ha fornito elementi certi, essendosi
limitato in una occasione a dichiarare illegittima una disciplina legislativa analoga a quella abrogata
nelle forme dell'art. 75 Cost. «tenuto conto del brevissimo lasso di tempo intercorso fra la
pubblicazione dell'esito della consultazione referendaria e l'adozione della nuova normativa (23
giorni)» (ancora sent. n. 199 del 2012).
Se invece l'esito è negativo it Ministro della Giustizia ne dà notizia sulla Gazzetta Ufficiale; inoltre,
ai sensi dell'art. 38 della Iegge n. 352 del 1970, non è più possibile effettuare richiesta di identico
referendum per cinque anni.
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LE SINGOLE FONTI DEL DIRITTO (Cap.3)
I regolamenti parlamentari
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LE SINGOLE FONTI DEL DIRITTO (Cap.3)
I regolamenti parlamentari sono gli atti che dettano, per ciascuna delle Camere di cui si compone il
Parlamento (Ia Camera dei deputati e il Senato della Repubblica), Ia disciplina di organizzazione
e funnzionamento delle attività che esse sono chiamate a svolgere.
Si tratta, quindi, PIO precisamente, delle regole di comportamento di deputati e senatori, di
organizzazione degli organi interni a ciascuna Camera (i gruppi parlamentari, le Commissioni,
I'ufficio di presidenza, ecc.), le regole con cui detti organi operano (nell'ambito, ad esempio, del
procedimento legislativo, solo in esigua parte disciplinato direttamente dalla Costituzione), le
regole che riguardano i rapporti di ciascuna Camera con il proprio personale dipendente ma anche
con soggetti esterni, ad esempio il Governo. L'art. 64 Cost. stabilisce che «Ciascuna Camera
adotta il proprio regolamento a maggioranza assoluta dei suoi componenti».
Sono le stesse istituzioni parlamentari, dunque, a fissare le regole necessarie alla loro
organizzazione e al loro funzionamento. Questo potere di autoregolamentazione, è ritenuto la
massima espressione dell'autonomia delle Camere rispetto agli altri poteri dello Stato
(autonomia che l’una vanta anche nei confronti dell'altra).
La richiesta della maggioranza assoluta per approvarli costituisce una garanzia per le
minoranze politiche.
I regolamenti parlamentari sono qualificabili come fonti del diritto e, specificamente, come fonti
primarie.
Si tratta di fonti a competenza riservata: infatti, nelle materie che la Costituzione ad essi riserva (si
parla di «riserva di regolamento parlamentare») è precluso alla legge e a qualsiasi altra fonte di
intervenire.
I regola-menti parlamentari e le leggi (e gli atti aventi forza di legge) sono pertanto allineati sullo
stesso piano gerarchico, e i loro rapporti si dispiegano in forza del criterio di competenza (cfr.
cap. II, § 12).
II regolamento parlamentare nel giudizio costituzionale
Secondo una risalente dottrina, i regolamenti parlamentari non sarebbero dotati di forza giuridica
vera e propria, in quanto atti puramente interni incapaci di innovare il sistema normativo.
La Corte costituzionale ha invece parlato di «fonti dell'ordinamento generale della Repubblica,
produttive di norme sottoposte agli ordinari canoni interpretativi» (Corte cost., sent. n. 120 del
2014). Altra questione dibattuta concerne l'impossibilità per i regolamenti parlamentari di essere
sindacati dalla Corte costituzionale per eventuali violazioni della Costituzione: la Corte
costituzionale ha infatti escluso che i regolamenti possano costituire, al pari delle altre leggi,
oggetto del giudizio di costituzionalità sulle leggi. Ciò per 2 motivi: 1) perché non si tratta di fonti
formalmente annoverabili nella categoria degli «atti aventi forza di legge», che l’art. 134 Cost.
indica tra gli atti sottoponibili al controllo di costituzionalità; 2) perché una diversa interpretazione
«urterebbe contro il sistema», che vede in posizione centrale proprio le Camere, cui spetta «una
indipendenza guarentigiata nei confronti di qualsiasi altro potere» (sent. Corte cost., sent. n. 154
del 1985).
Questa impostazione è stata da taluni criticata, lamentandosi in particolare come tale impunità
riguardi anche norme dei regolamenti parlamentari che incidono su posizioni giuridiche soggettive;
iI riferimento è all’autodichia: le norme dei regolamenti parlamentari riservano ad organi interni la
decisione sulle controversie tra ciascuna camera e i propri dipendenti, cosi frustrando il diritto a un
giudice terzo e imparziale.
Si è pertanto ipotizzato di poter giungere ad una censura di tali norme da parte della Corte
costituzionale per altra via, ovverosia nell'ambito di un conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato
in cui si lamenti la fuoriuscita della disciplina regolamentare dalla sfera di competenza
costituzionalmente riconosciuta a tali fonti. La Corte costituzionale, in un primo momento apparsa
possibilista sul punto (Corte cost., sent. n. 120 del 2014), ha però da ultimo negato anche questa
prospettiva, sulla base di argomentazioni questa volta unicamente sostanziali intese a riconoscere
il fondamento costituzionale dell'autodichia (Corte cost., sent. n. 262 del 2018).
Da ultimo, va segnalato che laddove una legge sia stata adottata senza rispettare una o piu norme
previste dai regolamenti parlamentari, non sarà possibile far valere tale vizio in un giudizio di
costituzionalità; pertanto il mancato rispetto del regolamento parlamentare non può essere
invocato di fronte alla Corte costituzionale, poiché il regolamento parlamentare stesso non può
fungere da parametro.
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LE SINGOLE FONTI DEL DIRITTO (Cap.3)
diverse sensibilità politiche presenti nella comunità regionale al momento dell'approvazione dello
Statuto».
Le leggi regionali
La potestà legislativa delle Regioni Indipendentemente dalla natura speciale o ordinaria dello
Sta-tuto, tutte le Regioni hanno competenza ad adottare leggi (ovviamente efficaci soltanto nel
territorio della singola Regione), dotate, nella gerarchia delle fonti, di rango primario.
L'organo competente ad approvare le leggi regionali è il Consiglio regionale (art. 121 Cost.), che
segue il procedimento delineato nello Statuti.
Le Regioni non possono approvare leggi in ogni materia. L'art. 117 Cost. per le Regioni a Statuto
ordinarie e gli Statuti speciali per le cinque Regioni ad autonomia differenzia individuano le materie
che possono essere disciplinate della regionale.
La legge regionale si colloca sullo stesso livello gerarchico della legge ordinaria dello Stato.
Dunque, in caso di antinomia tra Ia legge statale e quella regionale, è al criterio di competenza
(cfr. cap. II, § 12) che occorre ricorrere per verificare a quale ente —lo Stato o Ia Regione — la
fonte superprimaria attribuisca la facoltà di legiferare.
Di conseguenza, se lo Stato, attraverso una propria disciplina legislativa, intervenisse su una
materia che la Costituzione o lo Statuto speciale affida alla Regione, la norma statale sarebbe
passibile di censura da parte della Corte costituzionale.
La stessa sorte toccherà alla legge regionale che invada l'ambito di competenza statale.
Occorre allora verificare in quali materie Ia Regione è abilitata ad approvare una legge.
Per le Regioni ordinarie le regole che definiscono it riparto di competenze sono fissate dall'art. 117
Cost., così come modificato della riforma costituzionale intervenuta nel 2001 (legge costituzionale
n. 3 del 2001).
L'art. 117 Cost. prevede tre forme di competenza legislativa: 1) La competenza legislativa
esclusiva dello Stato. Il secondo comma dell'art. 117 Cost. elenca le materie in cui solo lo Stato è
autorizzato ad intervenire. Si tratta di materie che richiedono una disciplina unitaria su tutto il
territorio nazionale (es. difesa e forze armate, immigrazione, moneta, ecc.) e che dunque in
nessun modo possono essere oggetto di discipline differenziate poste dalle Regioni.
2.) La competenza legislativa concorrente. II terzo comma dell'art. 117 Cost. elenca invece una
serie di materie sulle quali sia lo Stato che le Regioni hanno titolo ad intervenire. La Costituzione
pretende che sia lo Stato, in tali ambiti, a dettare i principi fondamentali, mentre spetta alle
Regioni il compito di regolamentare tali materie nella parte di dettaglio.
Si tratta di settori in cui è importante assicurare una disciplina di base generale e omogenea su
tutto il territorio nazionale, mentre per Ia parte di dettaglio e ritenuto più utile che la disciplina sia
adeguata da ciascuna Regione alle proprie specificità territoriali, organizzative, sociali (tra queste
materie rientrano, ad esempio, la tutela della salute, la tutela e sicurezza del lavoro, la disciplina di
porti e aeroporti civil', ecc.).
3) La competenza legislativa residuale regionale. II quarto comma dell'art. 117 Cost. attribuisce
infine esclusivamente alle Regioni il compito di disciplinare le materie che non sono elencate nei
due commi precedenti.
Non si rinviene dunque in questo caso un elenco espresso di materie; si tratta insomma di una
clausola residuale, come si deduce dal tenore testuale della norma secondo cui «Spetta alle
Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla
legislazione dello Stato».
Tra le materie considerate di competenza residuale regionale vi sono anche materie importanti,
come, ad esempio, l'organizzazione dei servizi sociali e il turismo.
La riforma del 2001 aveva I'obiettivo di ampliare gli spazi della potestà legislativa regionale; nel
testo originario, infatti, l'art. 117 Cost. assegnava allo Stato il potere di intervenire in ogni ambito
non ricompreso nell'elenco di materie intitolate alla competenza concorrente, nella nuova
configurazione dell'art. 117 Cost. è la potestà legislativa statale esclusiva ad essere circoscritta
entro un elenco chiuso di materie, che si accosta ad un secondo elenco da riferirsi alla
competenza concorrente e ad una clausola residuale che, come visto, abilita le Regioni a
legiferare in autonomia in ogni altro ambito.
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LE SINGOLE FONTI DEL DIRITTO (Cap.3)
1) Regolamenti di esecuzione delle leggi, dei decreti legislativi e dei regolamenti comunitari.
Sono adottati quando si renda necessario specificare il contenuto delle disposizioni di una legge, di
un decreto legislativo o di un regolamento comunitario.
Essi non hanno, dunque, una vera e propria portata innovativa.
In dottrina si ritiene che tali regolamenti attengano alla funzione istituzionale del Governo; di
conseguenza, non occorrerebbero, per la loro adozione, specifiche autorizzazioni legislative.
Si tratta di atti che si pongono dunque rispetto alla legge in posizione accessoria, strumentale e
servente: il regolamento esecutivo non aggiunge nulla alla disciplina di legge per quanto attiene al
suo oggetto, ma e funzionale soltanto a consentirne e migliorarne l'esecuzione.
I regolamenti di esecuzione non possono intervenire in materie coperte da riserva di legge
assoluta. Questa regola subisce una deroga solo nella eccezionale ipotesi che si sia in presenza di
regolamenti di c.d. «stretta esecuzione» (di cui gia si e detto ragionando delle riserve di legge nel
cap. II, § 11).
2) Regolamenti di attuazione e di integrazione delle leggi e dei decreti legislativi recanti norme
di principio. I regolamenti di attuazione e integrazione, pur se non sempre facilmente distinguibili
da quelli di esecuzione, hanno portata normativa innovativa.
Essi non possono intervenire, questa volta senza eccezioni, nelle materie coperte da riserva
assoluta di legge.
Inoltre, perché il Governo possa adottarne, è necessario che Ia legge detti i principi cui l'attività
regolamentare deve attenersi.
Rentra in questa categoria, ad esempio, il regolamento n. 75 del 2005: "Regolamento di attuazione della legge 9 gennaio 2004, n. 4 per
favorire l'accesso dei soggetti disabili agli strumenti informatici". E I'art. 10 del-la legge citata a richiedere che sia un regolamento
governativo, sulla base dei principi da essa stabiliti, a specificare alcuni aspetti della disciplina. Ad esempio, i1 regolamento chiarisce
quali siano gli organi e quali le modalità attraverso cui deve essere effettuata Ia valutazione sulla accessibilità dei servizi informatici per
coloro che a causa di disabilità necessitano di tecnologie particolari.
3) Regolamenti indipendenti. Sono i regolamenti che intervengono nei settori in cui manchi una
disciplina legislativa, purché la materia in questione non sia coperta da una riserva di legge: in
quest'ultimo caso anche qualora il Parlamento non intervenga a regolare la materia, la lacuna non
potrà essere colmata da un regolamento.
Si tratta della categoria più controversa dei regolamenti governativi: il principio di legalità potrebbe,
infatti, ritenersi violato, perché manca (per definizione, trattandosi di regolamenti "indipendenti")
una base legislativa sulla quale poggiare Ia disciplina regolamentare. Ciò a meno di ritenere che
sia lo stesso art. 17 della legge n. 400 del 1988 a consentire, con una sorta di autorizzazione
generale, l'adozione di regolamenti in assenza di legge.
Questa ricostruzione, secondo taluni, non eliminerebbe pero il problema, perché il principio di
legalità, per dirsi soddisfatto, pretenderebbe qualcosa di più di una mera autorizzazione in bianco,
essendo necessario, quantomeno, che la legge individui le materie nelle quali i regolamenti
indipendenti potrebbero intervenire.
Altra parte della dottrina, con il conforto di alcune decisioni della giurisprudenza amministrativa,
non rinviene nei regolamenti indipendenti alcuna insuperabile criticità; ed ammette per essi una
deroga alle regole di stretta tipicità cui è normalmente soggetto il potere regolamentare.
Peraltro il problema teorico è ridimensionato per la scarsissima presenza di materie sulle quali non
sia intervenuta una legge; di fatto gli spazi lasciati ai regolamenti indipendenti, nel nostro
ordinamento, sono praticamente inesistenti.
4) Regolamenti di organizzazione. Essi intervengono a disciplinare tutto ciò che riguarda it
personale, le strutture, il funzionamento dei pubblici uffici, nel rispetto di quanto disposto dalla
legge. In materia esiste, infatti, una riserva di legge relativa (artt. 95, comma 3, e 97, comma 1,
Cost), per soddisfare la quale occorre che la legge determini i principi fondamentali del-la materia.
5) Regolamenti autorizzati (detti anche regolamenti delegati o di delegificazione). L'art. 17,
commi 2 e 4 bis, della legge n. 400 del 1988 istituisce una particolare categoria di regolamenti.
Essi sono adottati sulla base di leggi che delegano un successivo regolamento ad intervenire in
materie che non siano coperte da riserva di legge assoluta.
La legge che autorizza l'adozione di tali regolamenti deve fissare i principi generali della materia e
dispone che l'entrata in vigore delle norme regolamentari comporta I'abrogazione delle norme di
legge vigenti.
Di conseguenza, la materia in questione non sarà più disciplinata da una fonte di rango legislativo,
ma da una fonte di grado regolamentare.
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LE SINGOLE FONTI DEL DIRITTO (Cap.3)
Sebbene possa sembrare che siano i regolamenti autorizzati a determinare I'abrogazione della legislazione
precedente, deve invece ritenersi che tale abrogazione sia disposta dalla legge che autorizza I'adozione del
regolamento. Infatti, se la abrogazione dipendesse dal regolamento, verrebbe violata Ia regola secondo cui
la fonte abrogante non può essere di rango superiore a quella che si pretende di abrogare (e verrebbe
violato lo stesso principio di leqalità, cui i regolamenti sono soggetti).
I regolamenti autorizzati sono noti anche con il nome di "regolamenti di delegificazione". Attraverso
il loro utilizzo si cerca di porre un rimedio al fatto che nel nostro ordinamento Ia maggior parte delle
regole giuridiche è contenuta in leggi. La sostituzione di leggi con regolamenti consente di
semplificare it procedimento necessario ad aggiornare le discipline normative, non occorrendo più
l'approvazione di un atto legislativo, ma l'approvazione, meno complessa, di un atto
regolamentare.
Sono regolamenti autorizzati, ad esempio, quelli abilitati dalla legge n. 27 de! 1997 ad introdurre misure per
la semplificazione delle regole sulla documentazione amministrativa.
La legge citata ha previsto, infatti, che alla data di entrata in vigore di tali regolamenti governativi — da
adottarsi nel rispetto di principi dalla stessa indicati (come ad esempio Ia riduzione delle certificazioni
richieste e I'ampliamento delle possibilità di dichiarazioni sostitutive di certificazioni) — si sarebbero ritenute
abrogate le disposizioni vigenti, «anche di legge», con esse incompatibili.
Passando poi ai regolamenti ministeriali ed interministeriali, essi sono adottati, rispettivamente,
dal singolo Ministro o dai Ministri che si occupano delle materie oggetto del regolamento, ed
assumono Ia forma di Decreto ministeriale o di Decreto interministeriale. Anche in questo caso,
come per i regolamenti governativi, occorre il parere del Consiglio di Stato e it controllo di
legittimita della Corte dei conti. Di tali atti, inoltre, si deve dare comunicazione prima della loro
emanazione al Presidente del Consiglio, che potrebbe decidere di sospenderne l'adozione per
rimetterla alla decisione del Consiglio dei ministri (art. 5, Iett. c, legge n. 400 del 1988).
Oltre ai regolamenti dell'esecutivo, che si sono appena illustrati, l'ordinamento conosce altre
tipologie di regolamenti, che vengono adottati da altri organi della Pubblica amministrazione. Si
tratta di quelli che l'art. 4 delle Preleggi chiama i "regolamenti di altre autorità": atti espressivi di
un potere esercitabile dalle singole pubbliche amministrazioni nelle rispettive competenze. Tali
regolamenti non possono comunque dettare norme contrarie a quelle dei regolamenti emanati dal
Governo.
Gli atti normativi degli enti locali (statuti e regolamenti di Città metropolitane, Province e Comuni)
L'art. 114, comma 2, Cost. stabilisce che i Comuni, le Province e le Città metropolitane sono «enti
autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo I principi fissati dalla Costituzione».
L'art. 117, comma 6, Cost. aggiunge che questi stessi enti «hanno potestà regolamentare in ordine
alla disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuire».
Dal combinarsi di queste disposizioni si deduce che anche gli enti locali hanno potestà
normativa. Hanno il potere di adottare statuti e regolamenti, i secondi gerarchicamente subordinati
ai primi. Per individuare i rispettivi ambiti di competenza e la procedura di adozione è necessario
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LE SINGOLE FONTI DEL DIRITTO (Cap.3)
riferirsi a quanto prescritto nell'art. 4 della legge n. 131 del 2003 e negli articoli 6 e 7 del Testo
unico delle leggi degli enti locali (dlgs. n. 267 del 2000).
Per gli statuti, si stabilisce che, nel rispetto dei principi fissati dalla Costituzione, questi hanno Ia
competenza a fissare le norme fondamentali dell'organizzazione dell'ente, nonché ad intervenire
su altri profili di ordine istituzionale (ad esempio definendo le attribuzioni degli organi) o a garantire
it rispetto di alcuni diritti e principi cardine (la tutela e la partecipazione delle minoranze, le pari
opportunità nella composizione negli organi di governo ecc.). Per l'approvazione dello statuto e
richiesto al Consiglio dell'ente locale di seguire un procedimento speciale, volto a un consenso
ampio. I regolamenti hanno invece competenza a disciplinare I'organizzazione dell'ente locale,
nonché a dare regole sullo svolgimento e la gestione delle funzioni ad esso conferite.
Altre fonti (consuetudini- contratti collettivi di lavoro- ordinanze di necessità ed urgenza)
Le consuetudini
Le consuetudini sono fonti-fatto, non scritte: non corrispondono ad una manifestazione di volontà
normativa proveniente da un organo.
Per aversi una consuetudine occorre la sussistenza di due elementi: 1) la diuturnitas, di natura
oggettiva, è il costante ripetersi nel tempo di un comportamento tenuto dai membri di una
comunità; 2) opinio iuris ac necessitatis, di natura soggettiva, cioè la convinzione che quel
comportamento sia giuridicamente obbligatorio.
Non sono, quindi, consuetudini le regole di correttezza o di buona educazione, in quanto manca il
convincimento collettivo della loro rilevanza giuridica.
Nel nostro ordinamento, la consuetudine ha un rango variabile. Esistono infatti consuetudini di
rango superprimario, quali le consuetudini internazionali e le consuetudini costituzionali; e
consuetudini che si collocano invece al fondo della gerarchia delle fonti, quali gli «usi» di cui agli
artt. 1 e 8 delle Preleggi.
Per le consuetudini internazionali l'art. 10 Cost prevede espressamente che «l'ordinamento
giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute».
Sono regole di comportamento osservate, perché ritenute obbligatorie, non da soggetti qualsiasi,
ma dalla generalità degli Stati, e che entrano nel nostro sistema normativo con lo stesso rango
dell'art. 10 Cost., quindi di fonte costituzionale.
Le c.d. consuetudini costituzionali, prive di una propria espressa fonte sulla produzione, sono i
comportamenti tenuti da organi costituzionali in ambiti in cui non esiste una disciplina
costituzionale puntuale, cosicché le consuetudini costituzionali ne integrano il contenuto.
Per la Corte costituzionale (Corte cost., sent. n. 7 del 1996), sono «principi e regole non scritti,
manifestatisi e consolidatisi attraverso la ripetizione costante di comportamenti uniformi (o
comunque retti da comuni criteri, in situazioni identiche o analoghe)».
Ad esempio, sul procedimento di formazione del Governo l'art. 92, comma 2, Cost. si limita ad affermare che
«Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i
ministri». Tale generica disposizione ha trovato puntualizzazione proprio nella consuetudine costituzionale.
Cosi, il Presidente della Repubblica, prima di nominare il Presidente del Consiglio, procede alle consultazioni
delle cariche politiche di maggior rilievo (in particolare i Presidenti delle Camere e le forze politiche
rappresentate in Parlamento), per verificare quale sia Ia persona in grado di ottenere, insieme al suo
Governo, Ia fiducia delle Camere.
Diverse dalle consuetudini costituzionali sono le convenzioni costituzionali. In presenza di una
lacuna nella Costituzione può accadere che gli organi costituzionali raggiungano semplicemente
un "accordo", per lo più tacito, su come operare, senza ritenersi, tuttavia, giuridicamente vincolati.
Se ii comportamento tenuto sulla base di tale accordo si consolidasse, e, contestualmente, subentrasse Ia
convinzione di osservare una regola vincolante, Ia convenzione s trasformerebbe in consuetudine
costituzionale.
II rango costituzionale che assumono talune consuetudini dovrebbe, a rigore, condurre a ritenere
che leggi ordinarie approvate in violazione delle stesse siano affette da un vizio di costituzionalità
censurabile. E’ una tesi non pacificamente condivisa, ancora oggi molto discussa, perché taluni
ritengono che le consuetudini costituzionali intervengano negli spazi che Ia Costituzione lascia
aperti, e che possono essere liberamente riempiti dagli attori istituzionali.
Per gli «usi» previsti dalle Preleggi (ultimo livello nella erachia delle fonti) l’art. 8 prevede che
«nelle materie regolate dalle leggi e dai regolamenti gli usi hanno efficacia solo in quanto sono da
essi richiamati». Non sono, dunque, ammesse consuetudini contra legem, che dispongano, cioè, in
23
LE SINGOLE FONTI DEL DIRITTO (Cap.3)
difformità rispetto a quanto stabilito dalle leggi e dai regolamenti. Sono invece configurabili
consuetudini secundum legem, cui rinviano di volta in volta specifiche norme di legge o di
regolamento.
Ad es. l'art. 1326 c.c., nel disciplinare entro quale termine l'accettazione del contratto deve essere resa nota alla parte
che lo ha proposto, lo fa coincidere con il termine da questa stessa fissato o in quello ordinariamente necessario
secondo Ia natura dell'affare o secondo gli usi.
Sono inoltre ammesse consuetudini praeter legem, che possono intervenire nei settori che non
siano stati già regolati dal diritto scritto.
I contratti collettivi di lavoro L'art. 39 Cost., nel riconoscere Ia libertà di organizzarsi in sindacati,
prevede Ia possibilità - non l'obbligo - che essi si registrino presso degli uffici pubblici, alla
condizione che i propri statuti configurino un ordinamento interno a base democratica. La
conseguenza della registrazione, per esplicito dettato costituzionale, consiste nell'acquisizione da
parte dei sindacati di personalità giuri-dica e nella facoltà di stipulare con le rappresentanze delle
imprese contratti collettivi di lavoro «con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle
categorie alle quali il contratto si riferisce».
L'obiettivo del Costituente era di lasciare almeno in parte Ia regolazione dei rapporti di lavoro
all'autonomia negoziale delle categorie direttamente interessate, ritenuta più confacente di quanto
potesse essere una disciplina statale del tutto etero-imposta.
Va precisato che l'art. 39 Cost. non impedisce di certo at legisla-tore di disciplinare iI settore, ma
rispetto a questo possibile concorso tra legge e contratti collettivi, Ia Corte costituzionale ha
chiarito che l'autonomia collettiva non può dal legislatore essere annullata o compressa nei suoi
esiti concreti», a meno che Ia legge non intervenga per prevedere un trattamento più favorevole
per i lavoratori oppure a salvaguardia di superiori interessi generali (Corte cost., sent. n. 143 del
1998).
I contratti collettivi sono riconducibili alla dimensione privatistico-negoziale, ma alto stesso tempo,
per la capacità di estendere Ia propria portata precettiva oltre le parti contraenti, vincolando tutti
coloro che rientrano nella categoria lavorativa coinvolta, fa di esse delle vere e proprie fonti del
diritto (conferma in Cass. n. 3876 del 1978, riguardante i lavoratori non iscritti a sindacato).
Lo schema "ideale" descritto nella disposizione costituzionale è tuttavia rimasto inattuato, in
quaanto le organizzazioni sindacali esistenti sono sempre state contrarie all'ipotesi di procedere ad
una registrazione, probabilmente perché temevano intrusioni statali al proprio interno.
Onde superare l'inattuazione del dettato costituzionale, la legge n. 751 del 1959 (c.d. legge
Vigorelli) delegava il Governo ad emanare decreti legislativi che — nell'individuare i minimi
inderogabili di trattamento economico e normativo validi per tutti gli appartenenti ad una medesima
categoria — di fatto recepivano gli accordi collettivi stipulati. Tale legislazione, ritenuta inizialmente
legittima perche eccezionale, e stata poi dichiarata incostituzionale in sede di reiterazione (cosi
Corte Cost. sent. n 106 del 1962). Ad oggi, pertanto, i contratti collettivi sottoscritti tra le
organizzazioni sindacali dei lavoratori e le rappresentanze dei datori di lavoro sono riconducibili a
contratti di diritto comune, che dovrebbe vincolare solo gli iscritti ai sindacati dei lavoratori. Ma i
datori di lavoro si attengono alle regole stabilite nei contratti collettivi, che stabiliscono i livelli
minimi di tutela, potendo solo derogarvi in melius.
Ciò a seguito di soluzioni giurisprudenziali, basate su una lettura dell'art. 36 Cost. come norma
precettiva (Corte cost., sent. n. 156 del 1971).
Tale norma stabilisce che «iI lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e
qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza
libera e dignitosa. II giudice, allora, laddove debba individuare il livello retributivo
costituzionalmente garantito (art. 2099 cod. civ.), non vi provvede a propria discrezione, ma fa
riferimento alle norme contenute nei contratti collettivi, cosi estendendone, di fatto, la
vincolatività a tutti.
Recentemente, si sono avuti degli accordi negoziali che hanno introdotto una sorta di efficacia
erga omnes dei CCNL
Nel settore pubblico, invece, il tema della vincolatività erga omnes del contratto collettivo nazionale
non si pone avendosi un solo interlocutore per le pubbliche amministrazioni (l'ARAN : Agenzia per la
rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni, istituita nel 1993, è un'agenzia italiana che
rappresenta legalmente le pubbliche amministrazioni italiane nella contrattazione collettiva nazionale )
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LE SINGOLE FONTI DEL DIRITTO (Cap.3)
Le fonti internazionali
Introduzione
L'Italia fa parte di una comunità di Stati sovrani, che intrattengono tra loro rapporti giuridicamente regolati.
Questi rapporti sono infatti retti da un sistema di fonti normative che, pur risultando "esterne" al nostro
ordinamento, vi dispiegano effetti in quanto dallo stesso recepite: o mediante un adattamento automatico (è
il caso delle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, che entrano una volta per tutte nel
nostro ordinamento grazie al disposto dell'art. 10 Cost.) o mediante specifici atti normativi interni di volta in
volta appositamente adottati (è il caso delle norme del diritto internazionale pattizio, alle quali l'Italia si ade-
gua tramite una ratifica e un ordine di esecuzione).
Si tratta quindi di fonti-fatto, che vengono dall'Italia riconosciute come produttive di effetti giuridici e alle quali
l'Italia si adatta secondo regole proprie.
Il rango che le fonti dell'ordinamento internazionale assumono quando abbiano fatto ingresso nel nostro
ordinamento è variabile.
La regola generale è che abbiano lo stesso rango della fonte del diritto interno responsabile del loro
recepimento.
Modalità di recepimento Si è soliti distinguere il c.d. rinvio fisso dal c.d. rinvio mobile. Il primo richiama una
specifica "disposizione" straniera senza attribuire rilievo alcuno ad eventuali sue modifiche; il rinvio mobile,
invece, richiama una determinata "fonte" del diritto straniero, comportando in questo modo un adattamento
automatico del nostro sistema alle eventuali correzioni che siano apportate nel tempo a quella disciplina.
Lo statuto giuridico delle fonti internazionali è una questione di grande importanza, se solo si considerano le
implicazioni che ne derivano sul piano dei rapporti con le fonti interne. I giuristi — i giudici in primo luogo —
devono quindi essere adeguatamente attrezzati per affrontare e risolvere i casi, non infrequenti, in cui la
medesima materia si trovi ad essere disciplinata in modo discorde da una norma sovranazionale e da una
norma di origine nazionale. Come comportarsi in questa evenienza? A quale fonte riconoscere prevalenza?
E cosa accade della norma giuridica che abbia trovato soccombenza?
E’ stata riscontrata una inaccettabile violazione del fondamentale diritto di difesa (art. 24 Cost.) nella
consuetudine che sottrae gli Stati dalla possibilità di essere convenuti in giudizio davanti ad autorità di Paesi
stranieri, anche quando abbiano provocato danni ai diritti inviolabili e alla dignità della persona.
Perciò la Corte costituzionale ha negato che quella consuetudine avesse titolo per entrare nell'ordinamento
italiano. Si è cioè affermato che nelle ipotesi in cui una consuetudine internazionale contraddica principi e
diritti inviolabili del sistema costituzionale «non opera il rinvio di cui al primo comma dell'art. 10 Cost.».
Nel caso che aveva dato origine a questa pronuncia della Corte costituzionale, i familiari di alcuni italiani
deportati in campi di concentramento tedeschi e lì uccisi o comunque sottoposti a lavori forzati, avevano
tentato di far valere le passate responsabilità della Germania richiedendo in giudizio un risarcimento per i
danni subiti dai propri ascendenti. I giudici italiani avevano però dovuto negare la propria giurisdizione in
forza della consuetudine internazionale richiamata. Interpellato sulla questione, il Giudice costituzionale
italiano, con la predetta sent. n. 238 del 2014, ha però visto opposto un freno a questa regola proprio perché
ritenuta lesiva del fondamentale diritto di difesa.
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LE SINGOLE FONTI DEL DIRITTO (Cap.3)
subordinate alla Costituzione italiana, si collocano in una posizione intermedia tra questa e le fonti primarie.
Con la conseguenza che il giudice che si trovi di fronte ad un conflitto tra una legge statale e una norma
internazionale convenzionale, dovrà sollevare questione di legittimità costituzionale, affinché, valutata la
fondatezza del dubbio, essa possa dichiarare l'illegittimità della norma legislativa interna.
Il giudice interno - a differenza di quanto avviene con riferimento alle norme direttamente applicabili
dell'Unione europea - non può quindi in alcun modo procedere alla disapplicazione della norma interna,
essendo indispensabile l'intervento della Corte costituzionale.
Allo stesso tempo, poiché la norma di un trattato internazionale rimane pur sempre fonte sub-costituzionale,
la Corte costituzionale ha anche doverosamente chiarito che nell'ipotesi in cui la stessa dovesse collidere
con precetti della Costituzione, ad essa spetterebbe il computo di «espungerla dall'ordinamento giuridico
italiano» (Corte cost., sent. n. 348 del 2007).
La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali
Le pronunce appena richiamate riguardavano specificamente i rapporti tra leggi italiane e un trattato
internazionale che negli ul-timi anni ha assunto un particolare rilievo: la Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (detta anche CEDU). La CEDU è un atto di
diritto internazionale pattizio recepito in Italia tramite legge (legge n. 848 del 1955) che presenta delle
innegabili peculiarità. Ciò sia perché essa ha consacrato in un catalogo, pretendendone il rispetto da parte
degli Stati aderenti, i diritti fondamentali della persona, sia perché ha istituito un organo giurisdizionale (la
Corte europea dei diritti dell'uomo) a cui è appositamente demandato il compito, ai sensi dell'art. 32 della
Convenzione stessa, di interpretarne e applicarne le disposizioni.
La Corte costituzionale ha precisato che il giudice italiano, che riscontri una antinomia tra una disciplina
interna e una norma della CEDU, prima di sollevare questione di legittimità costituzionale dovrà tentare di
interpretare la disciplina nazionale conformemente alla CEDU (ancora Corte cost., sent. n. 347 e n. 348 del
2007).
È necessario soffermarsi ancora sulla circostanza che le sentenze nn. 347 e 348 del 2007 riguardavano la
CEDU, ovverosia un trattato internazionale ratificato sulla base di una legge ordinaria e avente ad oggetto un
catalogo di diritti. Rimane oggetto di discussione in dottrina se sia possibile che le affermazioni contenute in
queste pronunce possano essere estese ai casi di contrasto tra norme interne e qualsivoglia trattato
internazionale. Il punto: alcuni affermano che il dato letterale dell'art. 117, comma 1, Cost. sia chiaro nel
riferirsi a tutti gli «obblighi internazionali», senza dunque distinguere. Altri, invece, ritengono necessario
differenziare quantomeno la posizione dei trattati internazionali ratificati sulla base di una autorizzazione
legislativa e quelli ratificati attraverso fonti subordinate o addirittura in via semplificata. Secondo quest'ultima
preferibile tesi, solo per i trattati ratificati in seguito ad una approvazione con legge si applicherebbe il
principio di cui alle sentt. n. 348 e n. 349 del 2007. Gli altri trattati, invece, non potrebbero in alcun modo
fungere da norma interposta, perché ciò significherebbe imporre al Parlamento limiti rispetto ai quali questo
non abbia avuto modo di esprimersi.
La Carta sociale europea
Con la sent. n. 120 del 2018 la Corte costituzionale ha per la prima volta esteso il meccanismo appena
descritto anche ai rapporti tra le leggi italiane e la Carta sociale europea. Si tratta di un catalogo di diritti
sociali che si affianca alla CEDU e ai diritti da questa protetti e che ha trovato ingresso nel nostro
ordinamento per il tramite di una legge. Tuttavia, per la Carta sociale europea, non vale quanto la Corte
costituzionale aveva affermato riferendosi ai vincoli che discendono dall'interpretazione della Corte europea
dei diritti dell'uomo. Anche la Carta sociale europea, in realtà, prevede un organismo - il Comitato europeo
dei diritti sociali - deputato ad accertare violazioni da parte degli Stati delle disposizioni della Carta sociale
europea. Ma la Corte costituzionale ha ritenuto che «le pronunce del Comitato, pur nella loro autorevolezza,
non vincolano i giudici nazionali nella interpretazione della Carta».
L'ultimo importante atto del processo di costruzione di questa "comunità" di Stati europei si è avuto con la
sottoscrizione, il 13 dicembre 2007, del Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel dicembre del 2009. Questo
accordo ha allargato gli ambiti entro i quali gli Stati si assoggettano a regole comuni e ha incrementato il
tasso di democraticità dei processi decisionali che conducono alla loro adozione.
Il Trattato di Lisbona è a questo scopo sensibilmente intervenuto, riformulandoli, sui Trattati istitutivi, che
oggi sono quindi due: 1. Il Trattato sull'Unione europea (TUE); 2. Il Trattato sul funzionamento dell'Unione
europea (TFUE). Inoltre, esso ha finalmente dato valenza giuridica alla Carta dei diritti fondamentali
approvata a Nizza. Allo stesso tempo, siamo comunque lontani dal poter parlare di una vera e propria
«costituzione europea», e anzi le istituzioni europee vivono oggi un momento di forte crisi e delegittimazione,
come la recente vicenda della c.d. Brexit ha chiaramente testimoniato.
Attualmente l'Unione europea, alla quale aderiscono 28 Stati membri, si presenta sotto forma di un articolato
assetto istituzionale, con organi dotati, ciascuno, di ruolo e competenze specifiche. Nella sua struttura
essenziale, ne fanno parte: il Parlamento europeo (eletto direttamente dai cittadini dei diversi Stati membri),
il Consiglio dell'Unione europea (di cui fanno parte rappresentanti dei Governi degli Stati-membri), la
Commissione europea (nel quale siede un componente per ogni Stato membro), la Corte di Giustizia
dell'Unione europea (che si compone di un giudice per ogni Stato membro). Mentre il Parlamento europeo e
il Consiglio dell'Unione europea detengono il potere legislativo, la Commissione europea è l'organo che più
assomiglia a un esecutivo, spettandole il potere di proporre l'adozione degli atti normativi e di attuare le
politiche dell'Unione europea. La Corte di Giustizia, infine, ha il compito di garantire il rispetto da parte degli
Stati membri e delle stesse istituzioni comunitarie del diritto dell'Unione europea.
Le fonti dell'Unione europea: diritto primario, diritto derivato, fonti immediatamente applicabili e
norme ad effetto diretto
L’Unione europea è un’organizzazione abilitata a produrre, negli ambiti indicati dai Trattati istitutivi, norme
giuridiche vincolanti per gli Stati membri.
Più precisamente, il TFUE cataloga materie di competenza c.d. "esclusiva" dell'Ue, come la concorrenza o la
politica monetaria (art. 3); altre di competenza c.d. "concorrente" dell'Ue rispetto a quella degli Stati membri,
come l'ambiente o i trasporti (art. 4); altre ancora di solo "sostegno" dell'Ue all'azione degli Stati membri,
come il turismo o l'istruzione (art. 6).
L'altro connesso aspetto di grande rilievo è che, insieme ai Trattati istitutivi (c.d. diritto primario), le norme
successivamente prodotte dall'Unione europea (c.d. diritto derivato o secondario) godono del nostro
ordinamento di un vero e proprio "primato", reso possibile dalla scelta dell'Italia di cedere all'UE parte della
propria sovranità.
La prima rilevante catalogazione è quella che porta a distinguere le fonti di diritto primario dalle fonti di diritto
derivato, le prime gerarchicamente sovraordinate alle seconde.
Un secondo criterio di classificazione molto importante è quello che guarda agli effetti prodotti dalla fonte. In
questo senso si devono tenere distinte le fonti immediatamente applicabili e le fonti non immediatamente
applicabili. Le prime non necessitano di una attuazione sul piano normativo nazionale e sono pertanto capaci
di vincolare immediatamente i loro destinatari. Le seconde, invece, in ragione del fatto che si limitano a
indicare gli obiettivi da raggiungere, richiedono, al fine di poter esplicare i loro effetti negli Stati membri, che
questi ultimi provvedano a dettagliarne i contenuti.
La teoria degli effetti diretti In realtà, nella propria giurisprudenza, la Corte di Giustizia dell'Unione
europea ha sovrapposto a questa classificazione formale un ragionamento sostanziale. Ciò in alcuni casi ha
consentito
di riconoscere "effetti diretti" ad alcune fonti comunitarie indipendentemente dal fatto che, in ragione della
loro natura, tali fonti non sarebbero immediatamente applicabili. Di conseguenza, quando una fonte di diritto
dell'Unione europea presenta una formulazione completa, chiara e puntuale, essa ha effetti diretti e laddove
ne derivi un diritto in capo a un cittadino dell'UE questi potrà invocarne il rispetto dinanzi a un giudice anche
in assenza di una norma nazionale di recepimento.
Il diritto primario: i Trattati istitutivi Appartengono alla categoria delle fonti di diritto primario tutti i Trattati
istitutivi dell'Unione europea, con le modifiche intervenute nel corso del tempo. Sono al vertice del sistema
normativo comunitario. I Trattati, infatti, contengono le norme che si occupano di delineare la struttura e
l'articolazione istituzionale dell'Unione, di fissare le principali regole della convivenza comunitaria, di
individuare gli ambiti entro i quali hanno competenza a produrre diritto le istituzioni comunitarie, nonché le
procedure attraverso le quali ciò avviene.
Ne deriva che nell'emanazione del diritto dell'Unione europea c.d. derivato le competenti istituzioni
comunitarie vi si dovranno attenere, pena il possibile intervento della Corte di Giustizia dell'Unione europea,
che ha il compito di garantire la supremazia dei Trattati. Le norme dei Trattati, ancorché per la maggior parte
di carattere generale, talvolta sono capaci di produrre "effetti diretti", secondo quanto si è già detto. Dunque,
se in base «allo spirito, alla struttura ed al tenore» della norma si può dire che esso sia capace di incidere
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LE SINGOLE FONTI DEL DIRITTO (Cap.3)
direttamente sulla posizione dei singoli, i singoli potranno pretenderne il rispetto davanti ai propri giudici
nazionali.
Il diritto derivato o secondario: i regolamenti I regolamenti, le direttive, le decisioni, le raccomandazioni, i
pareri fanno parte del diritto derivato, ovverosia del diritto prodotto dalle istituzioni comunitarie secondo i
dettami de Trattati istitutivi.
La loro caratteristica principale è che si tratta di fonti che recano norme generali dotate di diretta
applicabilità. I regolamenti dell'UE sono pertanto subito capaci, per espressa previsione del Trattato, di
vincolare al rispetto di ogni parte della loro disciplina i cittadini dell'Unione europea. In altre parole, perché un
regolamento dell'UE produca effetti giuridici nel nostro ordinamento, obbligando tutti a rispettarne i precetti,
non è richiesto alcun ulteriore atto di trasposizione interno.
Le direttive «La direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere,
salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi». Anche le direttive fanno
parte del diritto derivato, ma a differenza dei regolamenti non hanno applicazione diretta nel nostro
ordinamento. I destinatari di una direttiva non sono infatti i cittadini comunitari, ma gli Stati dell'UE, che
vengono impegnati a conformarsi entro un termine stabilito ad un obiettivo di carattere generale, attraverso
l'adozione di proprie discipline normative.
Ne consegue che, una volta entrate in vigore, le direttive producono effetti nel senso che esse obbligano i
Paesi dell'Unione europea ad adoperarsi per raggiungere il risultato in esse fissato, ma gli effetti giuridici
interni si producono solo in un momento successivo, una volta che un atto legislativo nazionale abbia
provveduto a dare attuazione alla direttiva con una disciplina puntuale capace di applicarsi ai casi concreti.
Tuttavia, anche le direttive, al di là del nomen, vanno valutate alla stregua dei loro effettivi contenuti
normativi. E se si tratta di disciplina sufficientemente chiara, precisa e incondizionata (nel senso di
autosufficiente), saremo in presenza di una direttiva ad "effetti diretti". Con la conseguenza già vista: il
cittadino europeo potrà rivendicare nei confronti del proprio Stato — in ipotesi inadempiente nel dare
attuazione alla direttiva nei termini da essa indicati — il rispetto dei diritti che la direttiva stessa ha previsto a
proprio favore.
Peraltro, anche laddove la direttiva sia priva di effetti diretti perché non incondizionata, al cittadino che stia
subendo un danno a causa dell'inerzia del proprio ordinamento potrà essere riconosciuto un risarcimento.
Le decisioni «La decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi. Se designa i destinatari è obbligatoria
soltanto nei confronti di questi». Le decisioni, anch'esse fonti UE di diritto derivato, sono atti normativi
immediatamente applicabili ma indirizzate solo a specifici destinatari (uno o più Stati o talune persone
giuridiche o fisiche)
Le raccomanda-zioni e i pareri «Le raccomandazioni e i pareri non sono vincolanti».
Le raccomandazioni sollecitano gli Stati ad orientare le proprie politiche e il proprio diritto verso un obiettivo. i
pareri esprimono la posizione degli organi comunitari in merito ad una materia o una questione. In entrambi i
casi, si tratta di atti incapaci di produrre vincoli giuridici, il cui richiamo può essere semmai utile a fini
interpretativi.
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LE SINGOLE FONTI DEL DIRITTO (Cap.3)
comunitario», oltre che agli obblighi internazionali (a conferma peraltro che si tratta di due ordinamenti non
sovrapponibili).
La cessione di sovranità disposta dagli artt. 11 e 117 Cost., alla quale corrisponde il primato del diritto
dell'UE, si esplica in modi del tutto peculiari. Non si tratta infatti solo di riconoscere al diritto comunitario
prevalenza rispetto alle fonti del diritto nazionale (sia pur nel rispetto, anche in questo caso, dei principi
supremi dell'ordinamento italiano).
Il meccanismo della disapplicazione Infatti il primato del diritto comunitario - a certe condizioni - si esplica
con immediatezza: qualora vi sia un contrasto tra una legge italiana e una norma del diritto UE direttamente
applicabile, il giudice dovrà procedere esso stesso alla disapplicazione della norma interna a vantaggio di
quella comunitaria.
È evidente la differenza rispetto a quanto accade in caso di contrasto tra una legge italiana e gli altri trattati
internazionali, di fronte ai quali il giudice deve sospendere il giudizio e sollevare questione di legittimità
costituzionale (con possibile annullamento da parte del Giudice costituzionale della legge italiana).
Il meccanismo di risoluzione delle antinomie utilizzato per la generalità dei trattati internazionali si applica nei
confronti del diritto dell'Unione europea soltanto quando l'antinomia si produca rispetto ad una norma del
diritto UE non direttamente applicabile. In questi casi, dunque, il giudice interno non potrà procedere alla
disapplicazione della legge nazionale, ma dovrà sollevare questione di legittimità costituzionale per
chiederne l'annullamento.
È stata la Corte costituzionale, all'esito di un "braccio di ferro" con la Corte di Giustizia dell'Unione europea — la quale premeva affinché
al diritto comunitario fosse garantita immediata priorità rispetto alle confliggenti norme nazionali — a ricostruire in questi termini il
primato dell'ordinamento comunitario. Nella sent. n. 170 del 1984 il Giudice costituzionale italiano è partito dall'assunto teorico per cui ii
sistema nazionale e il sistema comunitario sono due sistemi «autonomi e distinti». Se un atto del diritto comunitario interviene in un
ambito di propria competenza, allora, la sua prevalenza nell'ordinamento italiano non produce l'effetto «di caducare... la norma interna
incompatibile, bensì di impedire che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale». La
fonte statale, in altre parole, non 6 invalids e non deve essere annul-lata dalla Corte costituzionale. II giudice dovra disapplicarla e
risolvere it caso secondo Ia normativa riprodotta nell'atto comunitario; con Ia con-seguenza che Ia fonte interna rimarra vigente nel
nostro ordinamento, e sara potenzialmente in grado di applicarsi a fattispecie diverse o a trova-re 'riespansione' nel caso in cui I'Unione
europea decidesse di ritirarsi dalla materia o di disciplinarla in altro modo.
La prevalenza delle fonti del diritto dell'Ue non è però illimitata, incontrando il limite dei principi
fondamentali dell'ordinamento costituzionale italiano (i c.d. «controlimiti», che, come si è visto, pongono un
ostacolo anche all'ingresso nel nostro sistema delle consuetudini internazionali).
Laddove un simile contrasto si verifichi, la Corte costituzionale sarebbe chiamata a imporne it rispetto. In che
modo? Si è gia detto che dal punto di vista dell'ordinamento nazionale, le fonti comunitarie sono fonti-fatto.
Non è pertanto possibile che il Giudice costituzionale italiano le sottoponga a diretto scrutinio ed
eventualmente le annulli, non avendo Ia competenza a conoscere fonti esterne all'ordinamento italiano. La
sola via percorribile è allora l'esperimento di un sindacato di legittimità costituzionale sulla legge italiana che
ha dato ordine di esecuzione ai Trattati UE, nella parte in cui essa ha consentito I'ingresso nell'ordinamento
della norma UE lesiva di un principio supremo.
II caso Taricco
Una tale pronuncia della Corte costituzionale potrebbe ripercuotersi seriamente sui rapporti tra Italia e Unione europea.
Con questa consapevolezza il Giudice costituzionale ha preferito tentare prima un'altra strada, sollecitando, attraverso
un rinvio pregiudiziale, Ia Corte di Giustizia dell'Unione europea ad adottare un'interpretazione diversa della disposizione
UE sospetta di ledere il principio supremo della determinatezza in materia penale. (Corte cost., sent. n. 24 del 2017, sul
noto caso Taricco sulla prescrizione penale). A seguito del rinvio Ia Corte di Giustizia ha precisato che l'obbligo per il
giudice di disapplicare una norma interna in contrasto con la stessa viene meno quando ciò metta in discussione un
principio espressivo dell'identità costituzionale dello Stato.
La pronuncia ha fatto allora venire meno le ragioni del contrasto tra I'ordinamento interno e quello comunitario,
convincendo la Corte costituzionale a dichiarare non fondata Ia questione di legittimità sollevata sulla legge di
esecuzione e ratifica dei Trattati UE (Corte cost., sent. n. 115 del 2018).
Secondo la prima sent. Taricco il giudice italiano doveva non dichiarare prescritti i reati di frode in danno dell'Unione europea e
procedere nel giudizio penale, disapplicando gli artt. 160 e 161 cp sulla prescrizione.
Corta d’Appello di Milano e Cassazione hanno sollevato questione di legittimità costituzionale per violazione del principio di legalità e di
retroaattività della legge penale.
La Corte Cost. non decide e dispone un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE
La Corte di Giustizia riconosce che l'obbligo per il giudice nazionale di disapplicare, in base alla"regola Taricco", la disciplina penale
interna in materia di prescrizione, viene meno se determina la violazione del principio di legalità dei reati e delle pene, per l'insufficiente
determinatezza della legge applicabile o dell'applicazione retroattiva di una normativa che prevede un regime di punibilità più severo
rispetto a quello vigente al tempo della commissione del reato.
Per cui la "regola Taricco", in virtù del diritto dell'Unione Europea, è inapplicabile ai fatti commessi prima della pubblicazione
della sentenza che l'ha sancita, ossia l'8/09/2015. I giudici nazionali sono tenuti inoltre a verificare la compatibilità della "regola
Taricco" con il principio di determinatezza penale, in quanto principio dell'ordine costituzionale italiano e del diritto europeo
In merito ai doveri che gravano sul giudice comune in caso di dubbi circa la compatibilità di una disposizione
interna rispetto al diritto dell'Unione europea occorre un'ulteriore precisazione.
Nel caso della "doppia pregiudizialità" - che si verifica quando si prospetta una violazione di un diritto
previsto tanto nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea quanto nella Costituzione italiana - con
Ia sentenza n. 269 del 2017 Ia Corte costituzionale ha affermato un principio chiaramente orientato ad
affermare la centralità del proprio ruolo nell'accertamento della violazione dei diritti: in questo caso non si
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LE SINGOLE FONTI DEL DIRITTO (Cap.3)
ritiene possibile la disapplicazione da parte del giudice, essendo invece necessaria una decisione della
Corte costituzionale, valida erga omnes; il giudice non potrà procedere autonomamente alla disapplicazione
della disposizione interna, ma dovrà sollevare una questione di legittimità di fronte alla Corte costituzionale.
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