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Il Carcere tra Memorie e Speranze

— Tristano Ajmone —

Intervento di Tristano Ajmone presso il Primo Liceo Artistico Statale di Torino, 9 marzo 2007, in
occasione del progetto “LiberAzione – Trapassato prossimo”1, mostra d’arte contemporanea alle ex
carceri “Le Nuove” di Torino.
Il seguente testo non è assoggettato a copyright e può pertanto essere liberamente distribuito,
riprodotto e citato, senza richiedere ulteriore autorizzazione da parte dell’autore, a patto che ne
venga citata la fonte.

Ciao a tutti. Mi chiamo Tristano Ajmone,2 sono stato invitato a questo ciclo di conferenze al fine di
condividere con voi la mia esperienza carceraria, e di questo vi voglio ringraziare poiché ritengo
che iniziative come questa — volte a scoprire la vita negli istituti di segregazione — siano indice
del fatto che tra i nostri giovani è ancora vivo il desiderio di non fermarsi a ciò che la società espone
nelle proprie vetrine della quotidianità, di voler scoprire cosa succede negli scantinati di questa
nostra società che — aimè, con estrema facilità — si sbarazza dei suoi membri, gettandoli in luoghi
adibiti alla marginalizzazione, come le carceri — ma non solo.
La mia esperienza carceraria è durata cinque anni e mezzo, un percorso che mi ha visto entrare ed
uscire da istituti penitenziari, case di cure, ospedali psichiatrici giudiziari, arresti domiciliari, e altre
forme di regime detentivo.
Ho avuto modo di cogliere che la domanda alla quale vi aspettate che queste conferenze offrano
risposta è “Che cos’è il carcere?”. A mio avviso, non è possibile rispondere a questa domanda se
non ci si focalizza prima sulla domanda “Che cos’è un carcerato?”. Questa mia riflessione prende le
mosse da una semplice constatazione: le prigioni vengono costruite attorno al carcerato.
Il detenuto è sempre al centro del carcere in cui si trova: ogni cella è il cuore dell’universo carcere
poiché è nella cella che si esaurisce la funzione dell’istituto penitenziario. Il carcere può essere
immaginato come una struttura concentrica: le celle sono raccolte in sezioni (o bracci), le sezioni in
blocchi (o padiglioni) e attorno ai blocchi si ergono le prime mura di cinta, oltre le quali vi sono i
vari uffici, parcheggi interni, magazzini, eccettera, e infine vi è il perimetro ultimo delle mura di
cinta che separano il carcere dalla libertà — intesa come zona sociale liberamente fruibile.
A conferma di quanto ho appena detto, va ricordato infatti che le prigioni sono denominate Case
Circondariali, in quanto sono state concepite come luoghi abitativi i cui inquilini sono circondati da
mura, sbarre, e misure di sicurezza atte a impedirne la possibilità di uscita verso il territorio in cui
vive il resto della società.
Il detenuto, rinchiuso nella propria cella, è prigioniero di un labirinto concentrico dal quale non può
evadere nonostante ne conosca la forma. Vorrei quindi iniziare a descrivervi la vita quotidiana del
detenuto a partire dalla cella in cui viene rinchiuso. Siccome sono stato in diversi carceri, e non tutti

1
http://www.primoart.it/web_liceo_2004/lavori/sitocarceri-23-01-07/index.html
2
Sito personale: http://www.tristano-ajmone.oism.info

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i carceri sono uguali, vi racconterò del carcere Le Vallete, di Torino, in cui sono stato rinchiuso tre
volte.
Le celle sono concepite per ospitare due persone in uno spazio molto ristretto, nel carcere de Le
Vallette la cella è di 9 metri quadrati, in questo spazio vi sono le brande montate a castello, due
tavolini infissi al muro, degli armadietti ed il televisore. Le finestre hanno le sbarre, al posto dei
vetri vi è il plexiglass nella maggiorparte dei casi (che non può essere infranto per procurarsi
schegge taglienti, ma isola molto meno dal freddo). Non vi sono persiane, tapparelle o tende, per cui
se si desidera un po’ di oscurità durante il giorno bisogna attaccare ai vetri dei sacchi della
spazzatura, o della carta di giornale.
La sensazione è quella di trovarsi all’interno di una scatola per sardine, se uno dei due concellini
(così si chiamano i compagni di cella) vuole sgranchirsi le gambe e camminare su e giù per la cella,
l’altro deve restare sdraiato nella branda.
Le brande sono in ferro, al posto della rete a molle vi è una lastra di ferro forato. Sopra la lastra si
poggia il materasso in spugna, attorno al quale si avvolge un lenzuolo annodandone le estremità, a
mò di coprimaterasso. Ogni detenuto ha diritto a due lenzuola e una coperta, in teoria si avrebbe
anche diritto ad un cuscino in spugna, ma spesso questo diritto veniva meno. Comunque, la federa
veniva consegnata lo stesso, in occasione del cambio delle lenzuola, ogni due settimane.
Nella cella non vi erano prese elettriche, che in ogni caso non servirebbero a nulla siccome il
regolamento non prevede la possibilità di possedere materiale elettrico che funzioni a 220 volt. Il
cavo del televisore, se non ricordo male, entrava direttamente nel muro; comunque il televisore
poteva essere scollegato da un interrutore esterno alla cella, controllato dagli agenti di custodia.
Il gabinetto ed il lavandino si trovavano in un secondo vano, separato da una parete dotata di porta
in ferro (nessuna maniglia, nessun sistema di chiusura). Nel bagno vi erano solo il lavandino e il
gabinetto, e un’altra finestra con le sbarre — nessun gabinetto aveva la ciambella o il coperchio, ci
si appoggiava direttamente alla tazza di ceramica. All’epoca in cui ero incarcerato io non vi erano
né doccia né acqua calda in cella. Nella parete del bagno che dava sul corridoio vi era uno spioncino
dentro il muro che consentiva agli agenti di vedere all’interno del bagno (lo chiamavamo «il
cannocchiale» poiché era un tubo abbastanza lungo, munito di vetri a entrambe le estremità).
L’illuminazione della cella consiste in una plafoneria con dei neon, la luce è o intensamente accesa
o spenta. Non vi sono frigoriferi in cella, per cui d’inverno, al fine di conservare i cibi più a lungo, li
si lasciava sul davanzalino esterno, o lo si appendeva alle sbarre. Se avanzava del latte, lo si poteva
versare in una bottiglia di plastica e metterla fuori (assicurandola alle sbarre). D’estate non era
possibile conservare cibi. Per appendere o legare oggetti non si avevano corde poiché erano
proibite. Magari si poteva sacrificare i lacci della scarpe o delle tute, ma l’usanza era strappare delle
striscioline di lenzuolo e farne delle fettucce da usare come legacci. Questa pratica era contro il
regolamento e la direzione lamentava la presenza di troppe lenzuola inutilizzabili poiché oltremodo
accorciate.
Il pavimento era di cemento nudo, niente piastrelle, linoleum o vernice, per cui quando si lavava in
terra si pregnava d’acqua e tratteneva molta umidità. Le pareti erano pitturate di bianco, piene di
scritte, incisioni e rimasugli di colla di farina e acqua (o dentifricio) usata per appendere poster
strappati dalle riviste (perlopiù donne nude selezionate da giornaletti pornografici) o disegni. Nel
bagno la presenza di pagine raffiguranti donne nude o scene di sesso era maggiore, poiché nel
bagno veniva consumata l’unica pratica eterosessuale possibile in carcere.
Questo, in sintesi è l’habitat del detenuto: la cella che egli spartisce col suo compagno 24 ore al
giorno. La convivenza a due — che, sia ben inteso, avviene perlopiù con persone sconosciute —
richiede sempre uno sforzo di adattamento e compromesso; ogni concellino ha le sue abitudini, i

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suoi pregi ed i suoi difetti. Essendo la porta della cella chiusa a chiave, non vi è modo di sfuggire
alla relazione ed al confronto, per cui vi è una costante tensione di sottofondo.
In uno spazio così ristretto la qualità del quotidiano è determinata molto dagli oggetti di cui si
dispone. Una radiolina o un walkman (per chi può permettersi il costo delle batterie) possono
cambiare il corso delle giornate, dei mesi, degli anni. A chi piace leggere, le giornate possono essere
spese sdraiati in branda, a leggere libri o compilare parole crociate; a chi piace scrivere o disegnare
può raggiungere un’intesa col suo concellino circa l’uso dell’unico tavolino in cella. Per il resto, vi
è il televisore.
Gli oggetti consentiti in cella sono limitati da un regolamento molto rigido: niente denaro, niente
oggetti di elevato valore (che potrebbero diventare oggetto di rapina, o commercio interno), niente
inchiostri o pennarelli (che potrebbero essere usati per tatuare); nulla che sia di vetro, o utilizzabile
come arma; niente corde, piante, apparecchiature elettriche a 220v, o che possano registrare, ritrarre
o trasmettere. In realtà la lista delle cose che non si possono introdurre in carcere è così lunga che
farei prima a elencare gli oggetti consentiti.
Le celle sono disposte sui due lati di un lungo corridoio, così che è possibile vedere le celle di
fronte. La cella è chiusa dal «gabbio», che è una porta a sbarre con una finestrella per far passare il
cibo, la posta, ecc. Oltre al gabbio vi è il «blindo», che è una spessa porta di ferra riempita di
cemento, con una finestrella che può essere chiusa dall’esterno, lo spioncino. Di giorno — e, nella
stagione estiva, anche di notte — il blindo rimane aperto, così è possibile vedere ciò che avviene in
corridoio e nelle celle limitrofe, sul lato opposto del corridoio. Quando il blindo viene chiuso è
possibile solo sbirciare attraverso lo spioncino, ma la visuale è ridotta, e anche i suoni passano con
più difficoltà, per cui chiacchierare con le altre celle risulta un po’ più difficile. Durante il giorno la
sezione del carcere è piena di gente che urla a gran voce, per comunicare con le celle distanti, o con
le celle del piano di sopra o di sotto.
Per passarsi gli oggetti — per esempio, una sigaretta, una presa di tabacco, o una carica di caffè —
li si lancia alla cella di fronte, e il dirimpettaio si darà da fare con la scopa per trascinare quanto
lanciato verso il proprio gabbio. Provvederà poi a passarlo alla cella affianco tramite le sbarre della
finestra del bagno, perché tutti i bagni delle celle sono adiacenti per via dell’impianto idraulico
condiviso. E così avviene che un pacchetto con del caffè passa di cella in cella fino a raggiungere
un amico che sta 8 o 9 celle più in là. È un’operazione che richiede parecchio tempo ed impegno,
ma tanto nessuno ha fretta in gattabuia. Quando la sera chiudono i blindi è un problema passarsi gli
oggetti, per cui se sei rimasto senza sigarette rischi di non riuscire a procurartele, a meno che nella
cella sopra o sotto non siano disposti a metterti le sigarette in un cestino improvvisato che calerai
giù con della corda di lenzuola (o che la calerà quella del piano di sopra se ti trovi al di sotto).
Purtroppo in molte sezioni vanno installando le reti oltre le sbarre, per evitare questi passaggi di
cestini, che spesso venivano impiegati per spostare la droga in caso di rischio di perquisizioni. Le
Vallette è uno di quei carceri in cui le droghe illegali girano in quantità per via del grosso flusso di
nuovi detenuti che ogni giorno varcano la soglia del carcere con svariati ovuli nello stomaco —
quindi, alla prima evacuazione, la droga entra nei circuiti dello spaccio interno (spesso regolato dai
clan di riferimento del nuovo arrivato).
Ma torniamo alla sezione ed al suo corridoio … Nel corridoio si muovono gli agenti, intenti ad
aprire e chiudere le celle per le persone che devono recarsi ai colloqui con i famigliari, l’avvocato, il
medico, o quant’altro. Vi è anche lo «scopino», ossia il detenuto assunto per pulire la sezione, che
viene fatto uscire dalla cella alcune ore, durante il giorno, al fine di scopare e lavare i pavimenti del
corridoio e le docce. Lo scopino, quando è in corridoio, viene costantemente chiamato dagli altri
detenuti per passare oggetti da una cella ad un’altra. Ovviamente non ci si rivolge a lui con il titolo
di «scopino» ma chiamandolo «lavorante».

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Questi strani termini sono i termini standard del carcere, condivisi sia dai detenuti che dagli agenti
di custodia. In carcere non esistono lavoratori, ma solo «lavoranti», è una forma di gergo impiegato
per ricordarti che sei in una condizione precaria. Non si ricorre certo ad eufemismi come «operatore
ecologico», lì se lavori di ramazza sei uno «scopino» e basta. I lavori svolti dai detenuti sono
svariati, ci sono i porta-vitto, gli spesini, i giardinieri, i barbieri, i cucinieri, i magazzinieri, gli
elettricisti, i manutentori, i lavandieri, e così via — forse ne ho tralasciato qualcuno, ma pochi.
Il vitto (così viene chiamato il mangiare) viene consegnato in cella dai portavitto che salgono in
sezione con i carrelli, scortati dagli agenti, e passando di cella in cella versano il cibo nelle gavette e
nei piatti di plastica. Quando è l’ora del vitto la sezione si fa tumultuosa: i portavitto entrano in
sezione urlando “Vitto! Si mangia … pasta poca e sugo assai!” e tutti si inizia a raccogliere le
gavette e apparecchiare il tavolino, quasi tutti ci si attacca al gabbio e si inizia a urlare cazzate per
animare l’attesa. Se la sezione pompa i portavitto, gridando a gran voce la propria fame, loro
rispondono urlando slogan in risposta, perlopiù canzonature sulla bassa qualità del cibo.
In carcere è possibile acquistare tante cose tramite il servizio di spesa interna, si ha una tabella dei
prodotti e dei prezzi e si ordina due volte la settimana la scorta di sigarette, caffè, vino (mezzo litro
a testa al giorno), pasta, ecc. Lo spesino è un detenuto che passa di cella in cella a segnare gli ordini,
e ha con sé una tabella con il resoconto dei risparmi disponibili presso l’ufficio conti correnti.
Nessun detenuto maneggia denaro, avviene tutto sulla carta. La spesa viene poi consegnata due
giorni la settimana dagli spesini che girano per le varie sezioni con i carrelli colmi dei prodotti da
consegnare.
Poi c’è la «fornitura», ossia la consegna delle saponette, dei detersivi, della carta igienica e le altre
cose che spettano di diritto. Anche questa consegna è periodica ed effettuata da detenuti. Ogni cosa
ha il suo giorno ed il suo orario, tutto è scandito da rituali e tabelle di marcia predefinite.
All’alba viene consegnato il latte caldo ed il caffè dai portavitto, ma non è necessario svegliarsi,
basta lasciare la caraffa ed il bicchiere (entrambi di plastica) sullo spioncino, e te li ritroverai pieni
di latte e caffè al risveglio, assieme alla scorta giornaliera di pane che ti vien gettato in cella.
Al mattino e nel primo pomeriggio vi sono le due ore d’aria, ossia la possibilità di scendere in
cortile e incontrare gli altri detenuti, giocare a pallone, o a carte, o al calcetto, o passeggiare, o
oziare. La chiamata per l’aria avviene rapida, gli agenti passano per la sezione urlando “Aria, Aria!”
e tu devi farti trovare pronto dietro il gabbio perché gli agenti non tornano indietro a darti una
seconda possibilità. Man mano che passano aprono le celle e radunano i detenuti in corridoio, devi
solo urlare “Agente … Aria!” e lui ti apre. Allora ci si raduna tutti attorno alla porta a sbarre che
dalla sezione dà sulle scale, e quando l’agente ha finito di aprire tutte le celle viene ed apre la porta
e si va tutti giù dalle scale, dove ad attenderti c’è un’altra porta a sbarre chiusa a chiave, e un altro
agente che ti aprirà.
L’immissione dei detenuti dalle scale all’aria avviene in modo graduale, tre a tre in genere, e ci
sono le perquisizioni. Questo avviene perché all’aria convergono diverse sezioni, per cui vi è un
margine di tensione elevato. L’aria è un’enorme cortile in cemento con mura altissime ed una porta
a sbarre. Nelle arie grandi ci stanno oltre 100 detenuti, in quelle più piccole una cinquantina;
dipende dai blocchi e dalle sezioni a quale aria avrai accesso.
Non è facile immaginare cosa sia l’aria per chi non è stato in carcere: questo enorme cortile pieno di
detenuti che camminano su e giù in piccoli gruppetti, sgranchendosi le gambe, e tutt’attorno persone
sedute sul largo bordo di cemento che è come una panchina lunga l’intero perimetro. All’aria basta
un attimo e scoppiano risse che possono coinvolgere decine di persone. Tensioni cumulate,
regolamenti di conti … scatta la scintilla e da sotto la lingua vengono estratte le lamette da barba
sfilate dai rasoi bilama, brillano gli affilatissimi coperchi delle lattine di pomodoro e tonno

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accuratamente nascosti nelle mutande — in carcere la ragione è una questione strettamente
pragmatica, e risiede nella forza e sta sempre dalla parte del vincitore.
In caso di rissa gli agenti si mobilitano a chiamare la «squadretta», mentre sul muro di cinta si
raggruppano attorno all’aria impugnando le mitragliette senza più sicura — gli agenti sul muro di
cinta sono gli unici ad avere le armi. La squadretta non entra all’aria durante una rissa, poiché i
detenuti sono troppo numerosi e rischierebbero molto, si limitano a mediare la situazione con
minacce e attendendo che la rissa si sedi spontaneamente. In genere i pestaggi non durano molto a
lungo, o si tratta di scaramucce da poco oppure il sangue che sgorga ha la meglio in tempi
brevissimi. A quel punto gli agenti invitano i contendendi ad avvicinarsi alla porta e li fanno uscire
per riaccompagnarli in sezione. Se la rissa coinvolge troppe persone la squadretta è costretta ad
intervenire invadendo l’aria. In quel caso si muniscono di caschi, scudi e pompe d’acqua per
abbattere le persone durante l’incursione.
La violenza nella vita del carcere è uno dei temi centrali: il carcere è di per sé una violenza contro
l’Uomo, e la violenza genera solo violenza.
Comunque, se devi fare la doccia devi rinunciare all’ora d’aria, e stare pronto in accappatoio e
ciabatte dietro al gabbio, chiamando “Agente, doccia” seguito dal numero della tua cella, fino a che
l’agente verrà ad aprirti. La doccia è una specie di cella che ospita 3 o 4 docce separate da muretti,
vi è acqua calda in abbondanza (ma non sempre) e un lavabo per lavare i panni. Si viene chiusi
dentro a chiave, massimo 4 o 5 detenuti per volta. La doccia è il luogo d’elezione per gli
appuntamenti o gli agguati in cui regolare i conti — per “dare il bollito”, come si usa dire.
L’ambiente ben si presta: la porta è chiusa e lo stanzone è in fondo al corridoio, dal lato opposto del
gabbiotto degli agenti, il rumore delle docce copre ogni altro suono. I muretti in cemento si prestano
ad accogliere e fracassare la testa del malcapitato, l’acqua calda che scorre a getto aiuta la
fuoriuscita delle ferite procurate con i coperchi dello scatolame. Sovente dalle tasche degli
accappatoi fanno capolino le caffettierine moka, impugnate per colpire ripetutamente con il fondo.
Se ti trovi in doccia e due persone bisticciano, non ti è dato di intervenire a meno che non sei
pienamente addentro alla situazione e non li conosci bene, ma davvero bene.
La vita del carcerato è costruita attorno all’impossibilità di fuga: dalla cella alla sezione, dalle
relazioni con gli altri detenuti e con gli agenti, dal proprio destino nefasto all’inesorabile scorrere
del tempo … tutto deve essere affrontanto, senza fine, nella sua schiacciante monotonia rituale.
Ogni giorno è meramente una beffarda variante di tutti quelli che hanno preceduto. L’attimo,
l’istante, è vissuto in modo schiacciante: ti ritrovi assorbito dal lento scorrere del tempo,
imprigionato nelle sue spire che ti trascinano verso un’abisso di presenza che è dilaniante. I galeotti
hanno uno sguardo caratteristico: gli occhi sono fissi, le palpebre sbattono lentamente. Questo
avviene perché il paesaggio è limitato, i colori grigi, la vita monotona e scandita da rituali ripetitivi,
per cui la capacità di osservare senza distrarsi è accresciuta. In carcere, gli occhi sono rivelatori: è
facile distinguere chi è appena arrivato da chi vi si trova da tempo immemore.
I nuovi arrivati sono ancora legati alla vita che si sono lasciati dietro, e i loro pensieri sono occupati
dalle memorie esterne, per cui lanciano occhiate fugaci, come se la realtà che li circonda fosse
un’interferenza con la vita cui sono stati strappati e cui dedicano i loro pensieri. Ma, col passare del
tempo, la consapevolezza della realtà prende il sopravvento, e i pensieri si fanno più miti e rivolti
alla vita carceraria, e tutto ciò che è fuori sembra un sogno distante. Chi non si adegua a questo, chi
sceglie di essere altrove con la testa, non è in grado di resistere a lungo: o impazzirà o commetterà
qualche sciocchezza.
La galera, alla fine, si rivela una modalità d’essere: uno stile di vita improntato sull’esclusione, che
ti plasma, battendoti in forma con l’irregimentazione istituzionale. Alla lunga, il detenuto assume la
forma generale del carcere che lo contiene e lo livella, una menomazione dell’anima destinata a
perdurare anche dopo la scarcerazione.

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La serata in sezione finisce con l’ultimo giro dello scopino, il quale raccoglie la posta da spedire, le
cartoline e le lettere che si appendono alle sbarre, assieme alle «domandine». Ogni cella ha due
sbarre cui sono legati con il nastro adesivo due coltelli di plastica in modo da potervi incastrare le
buste e le «domandine». Le domandine sono dei moduli carcerari da compilare per le varie
richieste: per poter cambiare cella, per ottenere udienza con il comandante, per chiedere di lavorare,
per segnarsi alla visita medica, o quant’altro, tutto passa attraverso i moduli delle domandine: “Il
sottoscritto, Tristano Ajmone, chiede alla SV (Signoria Vostra) di poter ….”. Questo è il regime
delle istituzioni totali — chi non si piega si spezza.
Quali sono il senso e la morale di quanto vi ho raccontato? Vi ho offerto una panoramica sintetica di
quella che è la vita carceraria, tralasciando molti noiosi dettagli, tuttavia mostrandovi come le
prigioni siano un mondo a parte, regimentato da regole altre che non quelle cui siamo abituati.
Tuttavia, queste considerazioni non spiegano perché la società si affanna così tanto a costruire
edifici così imponenti al fine di rinchiudere alcuni suoi membri, investendo ingenti risorse
economiche per il loro mantinimento. La risposta però la conosciamo tutti: si tratta di individui
accusati (o sospettati) di aver commesso atti che la società giudica inacettabili, per cui le autorità al
potere decidono che essi devono essere allontanati dalla società per un lasso temporale stabilito in
base al codice delle pene che regola il nostro sistema giudiziario.
Quindi, il carcerato è un uomo che è stato giudicato da altri uomini come indegno di restare nella
società; la conseguenza di questo giudizio sull’altro è che per escluderlo dalla società contro la
propria volonta è necessario escluderlo fisicamente, rinchiudendolo in luoghi da cui non potrà
tornare di propria iniziativa. A questo servono le mura carcerarie, ma il carcere fondamentalmente è
un criterio di esclusione arbitrario.
Siccome le pene sono delle condanne da espiare, come punizione per aver oltraggiato le normative
della società, la costruzione dei carceri è studiata per offrire gli standard di vivibilità minimi
possibili, affinchè chi vi viene recluso non nutra dubbi circa il fatto che è stato mandato lì a soffrire
ed espiare. Il concetto odierno di espiazione affonda le proprie radici nel pensiero teologico secondo
cui vi sono atti puri ed altri impuri, infatti il verbo espiare deriva dal latino ĕxpĭāre, “rendere puro”.
Se consideriamo che buona parte delle persone rinchiuse in carcere vi si trova condannata per
detenzione o spaccio di droga, ci rendiamo conto di come il pensiero religioso che in passato
regolava la purità legale dei cibi e delle bevande sia oggi stata rimpiazzata da un codice penale
basato sulla scienza. Un tempo era considerato un peccato grave cibarsi della carne suina, poiché
classificata come sostanza legalmente impura; parimenti oggi è considerato un reato grave ingerire
o vendere quelle sostanze psicoattive che sono classificate come legalmente proibite. In passato si
trattava di Stato teocratico, oggi di Stato proibizionista. Quello che viene chiamato spaccio di droga
è, in ultima analisi, una transazione commerciale consenziente tra due persone responsabili e, nella
maggior parte dei casi, adulte; non è infatti palese chi sia la vittima diretta di questo presunto
crimine di accondiscendenza. Il consumo di qualsivoglia sostanza è un’atto di scelta individuale che
non intacca la libertà altrui, così come la transanzione dello spaccio non intacca la libertà di chi non
vi è coinvolto. Ovviamente il proibizionismo crea un clima in cui il commercio di tali sostanze
agevola il proliferare di organizzazioni criminali, ma non è questo il punto che sto cercando di
sviluppare. Non voglio entrare, in questa sede, nel merito del proibizionismo o dell’anti-
proibizionismo.
Quel che voglio portare alla vostra attenzione è il grado di impreparazione intellettuale con cui la
nostra società accetta le leggi vigenti, poiché la prolungata privazione della libertà di persone
coinvolte nello spaccio di droga viene oggi giustificato con la presunta nocività delle sostanze
proibite, e non per via di una qualche forma di violenza o coercizione esercitata nei confronti
dell’altro. Eppure, nei manicomi criminali — in cui sono stato! — le persone vengono drogate a
forza con droghe molto più potenti e dannose dell’hashish, solo che queste sostanze sono

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classificate come farmaci, per cui sono considerate legali, così come è considerato legale iniettarle
coattamente alle persone che non le vogliono prendere, legandole ai letti con le cinghie. Questo non
è considerato spaccio ma cura.
Come ho detto poc’anzi non voglio entrare nel merito dell’argomento droga, così come non voglio
entrare nel merito se le carceri abbiano o meno ragione d’esistere, e quali possano essere le possibili
alternative. La questione carceraria è una questione complessa, poiché riguarda la libertà in
relazione alla «natura» umana (per usare un termine inflazionato). Io ho le mie idee in proposito, ma
preferisco lasciarvi con questa mia testimonianza, invitandovi a riflettere. Il carcere è sofferenza
poiché è privazione di libertà. Ma se ci soffermiamo a riflettere sugli ultimi esempi che vi ho
proposto, possiamo renderci conto di come molti reati e pene siano legati a fattori culturali.
L’hashish — così come altre droghe da noi considerate “pesanti” — è una sostanza proibita in
Europa ma considerata sacra in altre culture, così come l’alcol è legato alla sacralità cattolica in
Europa ma è proibito e punibile in altre culture, nella fattispecie nei paesi islamici. Quando i criteri
con cui si priva della libertà altre persone sono basati su fattori culturali, ne consegue che la cella
chiusa del carcere diviene il riflesso della nostra chiusura culturale verso gli altri popoli, e non
credo sia un caso che le nostre carceri, così come i nostri CPT, siano ricolmi di persone provenienti
da altri continenti e altre culture. Sociologicamente parlando, lo spaccio di droghe può essere
considerato un’esportazione di cultura.
La libertà è il dono più prezioso di cui disponiamo, ma non lo comprendiamo finchè non la
perdiamo. Lancio a voi la sfida di approfondire il tema della privazione della libertà di persone
considerate colpevoli di reati, di capire se i metodi carcerari sono una soluzione idonea o meno, se il
carcere sia — per principio — un’istituzione rispettosa dell’Uomo o meno, se l’ideologia che
sostiene il nostro sistema giuridico sia o meno promotrice di ideali di libertà rispettosi della varietà
del pensiero umano.
Vi son grato di avermi ascoltato e concesso di condividere con voi questa mia triste esperienza.

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