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Psicologia dei processi cognitivi – John G. Benjafield

• Capitolo 1: Che cosa sono i processi cognitivi?


Tra i vari significati che l’Oxford English Dictionary attribuisce al termine di cognizione vi è
“l’atto di conoscere”. In questo senso, lo studio della cognizione costituisce lo studio di un
processo, del modo in cui noi acquisiamo conoscenze a proposito delle cose. Dall’altro lato, il
fatto che la cognizione può essere considerata come una facoltà. Tra i concetti che il dizionario
associa al concetto di cognizione sono compresi quelli di:
1. consapevolezza, per cui ci si domanda se il processo di acquisizione delle informazioni
richieda che noi prestiamo attenzione in maniera consapevole o se i processi cognitivi
possano essere influenzati anche dalle informazioni cui siamo sottoposti
inconsapevolmente;
2. comprensione, più semplicemente descritta come l’abilità di prendere decisioni
appropriate;
3. intelligenza, da sempre oggetto di dibattito sulla possibilità o meno di misurarla;
4. intuizione, che fa riferimento prevalentemente al concetto di insight: ci si interroga se
sia possibile considerarlo come qualcosa di estemporaneo, o invece come il culmine di
un lungo processo di elaborazione di informazioni;
5. conoscenza personale, specialmente sul terreno –discusso- delle emozioni e sul loro
rapporto con i processi cognitivi;
6. riconoscimento, inteso come la categorizzazione di qualcosa già conosciuto in
precedenza;
7. abilità (skill), quale approccio ragionato alla soluzione di un problema.
In passato, gli psicologi credevano che fosse possibile classificare le attività mentali in tre
diverse facoltà: la facoltà cognitiva, quella affettiva e quella volitiva. La cognizione è la facoltà
connessa alle attività di memoria, immaginazione, giudizio e ragione. L’emozione è la facoltà
volta alla valutazione degli eventi nei termini del loro contenuto di piacere o dolore. La
volizione è a facoltà che sovrintende l’attività della decisione. Le decisioni possono essere
razionali o meno. Tale approccio è stato definito psicologia delle facoltà [Hilgard] ed è
basato sull’idea che la mente imponga le sue strutture nei confronti dell’esperienza. Secondo la
psicologia delle facoltà il significato degli eventi viene creato dagli individui. Essi riorganizzano
infatti gli eventi in modo tale da renderli coerenti con la loro stessa struttura. Il tema generale
proprio della psicologia delle facoltà è che la struttura dell’esperienza debba essere considerata
come il prodotto della struttura della mente piuttosto che come la struttura del mondo esterno
impressa nella mente. Questa è la ragione per cui ci sembra necessari che tutte le nostre
esperienze siano dotate di alcune caratteristiche: la mente non può cioè fare a meno di avere
dei pensieri, fare delle scelte, e provare emozioni. Al giorno d’oggi, la psicologia si è comunque
concentrata sugli aspetti riguardanti la cognizione, tralasciando invece la sfera emotiva e
quella volitiva.
Anche la popolazione non specializzata ha un’idea dell’organizzazione delle attività mentali,
quella che va racchiusa sotto il nome di psicologia del senso comune (folk psychology), e
studiata da Rips e Conrad. Secondo questi ricercatori, gli individui fanno uso –nelle loro
classificazioni- di due relazioni diverse. La prima è la relazione è-una-specie-di (is-a-kind-of),
ad esempio “il cuore è una specie di organo”. La seconda è la relazione è-una-parte-di (is-a-

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part-of), come “la ruota è una parte della bicicletta”. Utilizzando queste due relazioni, i
ricercatori hanno sottoposto a studenti universitari (non facenti parte del corso di psicologia)
delle frasi che esprimevano la connessione tra diverse attività mentali, come “la pianificazione
è una specie di pensiero” o “il pensiero è parte della pianificazione”. Rips e Conrad hanno
osservato che spesso i soggetti manifestavano l’opinione che, se una prima attività mentale è
una specie di seconda attività mentale, allora la seconda attività mentale è anche una parte
della prima. Ad esempio, ragionare veniva considerato come una specie di pensare, e pensare
come una parte del ragionare. Questa reciprocità non è presente, invece, nella classificazione
degli eventi non mentali: anche se tutti direbbero che “il cuore è una specie di organo”,
nessuno affermerebbe che “un organo è una parte del cuore”. Esiste nel senso comune una
carenza di meta cognizione, di conoscenze riguardanti il funzionamento dei processi cognitivi.

• Capitolo 2: Lo studio dei processi cognitivi, una panoramica dei vari


orientamenti

Associazionismo e comportamentismo
La teoria associazionista è vecchia di migliaia di anni: gli associazionisti credono che, alla
nascita, gli individui non posseggano pressoché alcuna conoscenza e che le strutture mentali
emergano passivamente a causa delle influenze esercitate dall’ambiente. Essi credono che
l’ambiente possa imprimere nella mente del bambino qualsiasi cosa e che, nello stato terminale
dello sviluppo, la struttura mentale adulta sia costituita da un reticolo di associazioni tra gli
eventi che sono stati esperiti. Ad esempio, se si vedono spesso due amici assieme, allora
l’immagine di uno richiama subito alla mente l’altro: i due amici sono cioè divenuti associati.
Benché l’associazionismo sia antico, lo studio scientifico delle associazioni è recente ed uno dei
suoi pionieri è stato Thorndike – che eseguì alcuni famosi esperimenti sui gatti. Se un viene
rinchiuso in una gabbia con una leva che ne facilita l’apertura, dopo un certo numero di volte
che –pestando casualmente la leva- il gatto riesce ad uscire, apprenderà di conseguenza a
pestarla volontariamente per lasciare la gabbia. Questo tipo di apprendimento è detto per
prove ed errori. Il gatto ha, secondo Thorndike, appreso un’associazione, formando una
connessione. Gli individui sono però in grado di eseguire sequenze molto rapide di risposte, ad
esempio sono in grado di suonare un pianoforte. Secondo uno psicologo associazionista, un
individuo impara a suonare il pianoforte perché è in grado di associare le note sullo spartito ai
movimenti necessari per premere i tasti opportuni sul piano. D’altra parte è possibile che, una
volta familiarizzato col brano, il pianista non abbia più bisogno di leggere le note sullo spartito.
Questo comportamento viene spiegato da uno psicologo associazionista affermando che
ciascuna risposta è diventata a sua volta lo stimolo per quella successiva (teoria della catena
associativa). Più di quaranta anni fa, però, Lashley ha messo in luce il fatto che ci sono alcuni
fenomeni che non possono essere spiegati dalla suddetta teoria: ad esempio quello della
preattivazione (priming) di una risposta. Può accadere infatti che una risposta si verifichi in
una posizione della sequenza precedente a quella prevista in base all’attivazione da parte dello
stimolo immediatamente precedente – come accada ai dattilografi esperti, che spesso
compiono errori anticipatori (ad esempio, “pesame esante” anziché “esame pesante”).
Una versione più attuale dell’associazionismo può essere il comportamentismo, di cui uno dei
capostipiti è Skinner. Egli credeva che la caratterizzazione delle attività del pensiero nei termini

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delle associazioni tra stimolo e risposta (S – R) fosse preferibile alla concezione comune e non
scientifica secondo la quale l’attività del pensiero costituisce un’attività mentale; questo perché
il comportamento –in quanto visibili- è più facilmente studiabile rispetto alla mente. Skinner ha
però ricevuto numerose critiche, in particolar modo sulla sua concezione di linguaggio, da
Chomsky. Lo psicologo comportamentista sosteneva infatti che anche il linguaggio può essere
compreso per mezzo dei principi S – R, mentre Chomsky riteneva che quei principi non
potessero spiegare numerosi fenomeni linguistici, come l’uso creativo del linguaggio. Secondo
Chomsky, il linguaggio dovrebbe essere considerato come un fenomeno controllato da un
insieme di processi centrali, piuttosto che come un processo periferico che tratta le parole
come stimoli e risposte. Per mezzo del linguaggio gli individui esprimono le loro idee. Il
processo per mezzo del quale le idee vengono trasformate nel linguaggio è un esempio di
processo cognitivo.

Psicologia della Gestalt


La psicologia della Gestalt si sviluppò in Germania all’inizio del 1900. Il termine Gestalt
significa forma o configurazione e gli psicologi della Gestalt hanno studiato le forme assunte
dall’esperienza in circostanze diverse. Secondo questi psicologi, l’aspetto più importante
dell’esperienza è costituito dalla tendenza ad avere un carattere unitario e coerente, per cui
–differentemente dagli associazionisti- non pensavano che fosse possibile comprendere
l’esperienza scomponendola in un insieme di unità più semplici (“il tutto è diverso dalla somma
delle parti”). Per gli psicologi della Gestalt, una riprova del fatto che gli individui tendono a
percepire gli oggetti in maniera olistica è data dal fenomeno del movimento apparente (o phi)
di Wertheimer: un esempio è costituito dall’impressione di movimento suscitata dalle luci di
un’insegna luminosa che si accendono e spengono in rapida sequenza. In poche parole, invece
di due eventi separati, si percepisce un solo evento di carattere, appunto, unitario. Gli psicologi
della Gestalt hanno anche individuato quattro principi fondamentali, organizzatori
dell’esperienza:
1. la vicinanza: elementi vicini tendono ad essere considerati facenti parte di una stessa
configurazione;
2. la somiglianza: elementi simili vengono raggruppati assieme;
3. la continuità: le immagini tendono ad essere viste come continue, e non “spezzate”;
4. la chiusura: le configurazioni tendono ad essere percepite, per quanto possibile, nella
loro interezza.
Dal momento che per gli psicologi della Gestalt il processo di apprendimento non ha nulla a
che vedere con la formazione di associazioni, ma dipenda dalla percezione del carattere
unitario degli avvenimenti, Ash si è occupato di questo tipo di problemi, estendendo il lavoro
degli psicologi gestaltisti precedenti, studiando il concetto di formazione delle unità
percettive. Ai soggetti venivano presentati pattern che erano unità oppure aggregati
(elementi che non presentano relazioni reciproche). Ogni pattern era presentato per quattro
secondi. In entrambe le condizioni sperimentali, il compito dei soggetti era di rievocare i
pattern che erano stati mostrati in precedenza, riproducendoli per mezzo di un disegno. I
soggetti cui erano state presentate le unità erano in grado di ricordare un numero molto
maggiore di pattern rispetto ai soggetti cui erano stati presentati gli aggregati. Questo risultato
è dovuto al fatto che le unità costituiscono delle configurazioni percettivamente coerenti, le
quali possono essere ricordate in quanto tali. Gli aggregati, al contrario, non costituiscono

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unità percettivamente coerenti e, per questa ragione, le associazioni tra gli elementi che le
compongono vengono ricordate con maggiore difficoltà.
Un altro contributo alla psicologia della Gestalt venne apportato da Kohler, che –in uno dei suoi
più famosi esperimenti- osservò il comportamento di uno scimpanzé che non poteva
raggiungere una banana appesa al soffitto senza servirsi di un bastone. Nell’esperienza
dell’animale si formava una lacuna nel momento in cui non poteva raggiungere ciò che voleva.
In questo caso, la lacuna era lo spazio tra la posizione della banana e la massima estensione
delle braccia dello scimpanzé. Lo scimpanzé aveva bisogno di qualcosa per riempire questa
lacuna: capendo che cosa la situazione richiedesse si rendeva anche conto di cosa dovesse
essere fatto. A questo punto, animale era in grado di utilizzare il bastone in maniera
intelligente per colmare la lacuna. L’insight rappresenta la consapevolezza di ciò che deve
essere fatto per risolvere un problema.
I contributi della psicologia della Gestalt si fanno sentire ancora oggi: un teoria recente è il
principio del minimo, secondo cui la nostra esperienza tende naturalmente ad assumere
l’organizzazione più semplice possibile. Oggetto di studio recente è stato anche il problema
della semplicità percettiva, analizzato nel confronto tra principio di semplicità (la mante
umana tende a percepire la figura più semplice tra tutte le possibili interpretazioni) e principio
di verosimiglianza (la percezione tende verso l’organizzazione che rappresenta l’evento più
probabile). Risulta probabile che ci sia una stretta relazione tra verosimiglianza e semplicità, in
modo tale che quello che viene percepito costituisca nel contempo l’alternativa più semplice e
più verosimile. Le leggi della Gestalt, come la somiglianza e la continuità, attribuiscono
pertanto allo stimolo l’interpretazione più semplice possibile. Senza queste interpretazioni
l’esperienza non sarebbe coerente ma caotica.

Teoria dell’elaborazione dell’informazione


Secondo Garner, “l’informazione è ciò che viene trasmesso quando una persona oppure una
macchina ci dicono qualcosa che non sapevamo in precedenza”. Le prime ricerche
dell’approccio informazionale hanno cercato di determinare la quantità di informazione che può
essere trasmessa. In una serie di articoli che hanno esercitato una grande influenza, Miller ha
dimostrato che la nozione di capacità del canale può essere usata in psicologia; in un individuo,
questa capacità è limitata, e dipende dalle circostanze. Se, ad esempio, una persona fosse in
grado di distinguere quattro diversi tipi di vino, ma non fosse in grado di distinguerne le
diverse “sfumature” si potrebbe dire che la capacità del canale per questo tipo di compito sia
limitata a 2 bits di informazione.
Miller ha studiato anche la relazione tra conoscenza e comportamento, cercando di discernere
in che modo la prima controlli il secondo. Miller ed i suoi colleghi credevano che il
comportamento fosse configurazionale, cioè un comportamento strutturato in un modello top
– down. Un modello top – down si sviluppa a partire dalla distinzione tra unità di
comportamento molari e molecolari. Le unità molari del comportamento possono essere
descritte nei termini dei loro scopi. Esempi di unità molari sono: imbucare una lettera, ottenere
una laurea, ecc… una loro caratteristica è che possono essere portate a termine in molti modi
diversi. La stessa unità molare può essere costituita da una grande varietà di unità molecolari
diverse. Il comportamento deve perciò essere descritto a vari livelli ed organizzato
gerarchicamente. I processi che regolano il comportamento “dall’alto” sono chiamati piani. Un
piano consiste in una serie di istruzioni per l’esecuzione di un’azione. Il comportamento non

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può essere compreso senza che vengano compresi tutti i piani che lo regolano. Gli individui
posseggono piani per tutte le loro attività –percepire, prestare attenzione, parlare…- e lo studio
dei processi cognitivi è costituito in gran parte dallo studio di questi piani. Per quanto riguarda
la struttura dei piani stessi, Miller, Galanter e Pribram hanno proposto un’unità di monitoraggio
chiamata TOTE (Test-Operate-Test-Exit). In una semplice unità TOTE, un’azione viene
suscitata dall’incongruità tra la situazione presente e lo stato di cose desiderato: l’individuo
continua ad “operare” finché l’incongruità viene rimossa. L’individuo verifica se l’incongruità
esiste (test); se questo accade, allora un’azione viene intrapresa per eliminare l’incongruità
(operate), a questo punto, la fase di controllo viene ripetuta (test). Se l’incongruità viene
eliminata, l’individuo termina il programma (exit), altrimenti si passa ad una nuova fase
“operate”. Le unità TOTE possono essere organizzate gerarchicamente, cioè delle unità TOTE
possono essere contenute all’interno di altre unità TOTE. Per intuire quali sono i piani di un
individuo vi sono due possibilità: si può utilizzare la tecnica del thinking aloud (“pensare ad
alta voce”), oppure, per ottenere un resoconto più preciso delle modalità di esecuzione di un
piano è necessario formulare una teoria del comportamento per quanto possibile esplicita e
precisa. I protocolli che descrivono l’attività di pensiero forniscono informazioni preliminari che
consentono la scrittura di un programma per calcolatore in grado di simulare le operazioni
eseguite dai soggetti. Se i risultati generati dal programma concordassero con quelli prodotti
dai soggetti, allora potremmo dire che il programma rappresenta una teoria adeguata del
comportamento dei soggetti. Invece, se i risultati del programma fossero significativamente
diversi da quelli dei soggetti, questo significherebbe che la teoria è insufficiente (es: test di
Turing).
L’approccio informazionale nello studio dei processi cognitivi, dunque, intende studiare il “modo
in cu siamo programmati”: la psicologia cognitiva è lo studio dei programmi mentali.
L’approccio di Neisser allo studio dei processi cognitivi si propone di seguire il corso
dell’elaborazione umana dell’informazione a partire dalla presentazione iniziale dello stimolo.
Nel caso della cognizione visiva, lo studio dell’elaborazione dell’informazione inizia con l’icona.
Il riconoscimento dell’importanza potenziale dell’icona è emerso in seguito alle ricerche di
Sperling sugli effetti di stimoli presentati al tachistoscopio a tempi di presentazione molto
bassi. Al soggetto sperimentale viene presentata per un periodo breve, ad esempio 50
millisecondi, una matrice con tre stringhe di lettere: quando scompare, viene prodotto un
suono acuto (ad indicare la riga in alto), mediamente acuto (ad indicare la riga in mezzo) o
grave (ad indicare la riga in basso): il soggetto deve ricordare la riga indicata. Sperling ha
trovato che i soggetti sperimentali sono in grado di ricordare le lettere in qualsiasi posizione,
una volta scomparsa la matrice. Ciò significa che vi è una copia dello stimolo visivo –un’icona
appunto- che persiste nella mente umana anche quando lo stimolo non è più visibile. Partendo
dal concetto di icona, Neisser si era occupato del riconoscimento di pattern, un processo che
implica una relazione tra percezione e memoria. Diverse teorie hanno cercato di spiegare il
processo di riconoscimento: Neisser ha posto l’accento su due, quella del confronto tra sagome
e quella dell’analisi delle caratteristiche. Il riconoscimento dovuto al confronto tra sagome è
basato sul confronto tra il pattern da riconoscere e la sagoma prototipica immagazzinata in
memoria: se la sagoma percepita si distacca troppo dal modello, essa non viene riconosciuta.
L’analisi delle caratteristiche (attributi come grandezza, colore, forma e così via) confronta
le caratteristiche possedute dall’oggetto percepito con quelle richieste dalla configurazione
mentale (ad esempio: mela = rotonda, liscia, rossa; non rotonda, ruvida, arancione). Una delle

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teorie più influenti a fare uso dell’approccio dell’analisi delle caratteristiche per il
riconoscimento è quella proposta da Selfridge, chiamata pandemonium idealizzato. Questo
modello è costituito da tre livelli: il livello inferiore contiene i dati, ovvero l’immagine all’interno
della quale un insieme di attributi viene rappresentato. Il livello successivo contiene i demoni
cognitivi, concepiti come piccoli folletti che esaminano gli attributi dell’immagine. Vi è un
demone per la rilevazione delle mele, un per la rilevazione delle arance e così via. Se un
demone pensa di aver rilevato il pattern appropriato, allora comincia a strillare. Tanto più il
pattern nell’immagine assomiglia a quello che il demone sta cercando, tanto più il demone
strilla. Tutti i demoni possono strillare a tempo, con intensità diversa, a seconda della
somiglianza tra il pattern che stanno cercando e quello presente nell’immagine. In cima a tutti
questi demoni vi è il demone della decisione che ascolta il pandemonio e seleziona il demone
che strilla più forte.
Un altro modello relativo all’approccio informazionale è quello proposto da Norman e Bobrow, e
descrive il flusso di informazioni nel tempo. Inizialmente, i segnali fisici come il suono o
l’energia luminosa, vengono trasformati in una forma che può essere usata dal sistema
cognitivo (trasduzione). Lo stadio successivo è quello dell’immagazzinamento iconico, il quale
ha luogo nel registro sensoriale. Lo stadio di elaborazione successivo a quello del
riconoscimento è quello della memoria a breve termine o memoria di lavoro. Essa contiene
tutto ciò di cui siamo consapevoli in un dato momento dato che l’informazione entra ed esce da
essa piuttosto velocemente: lo stadio finale dell’informazione è rappresentato dalla memoria a
lungo termine, in cui sono depositati i ricordi permanenti. Il riconoscimento di pattern ha luogo
se un item recuperato dalla memoria a lungo termine viene accoppiato con un item nel registro
sensoriale. Prendendo ad esempio l’esperimento di Sperling, quando i soggetti devono
nominare le lettere, l’informazione nella memoria a lungo termine deve essere recuperata ed
usata per il riconoscimento. Successivamente, i soggetti possono mantenere le lettere nella
memoria a breve termine per mezzo della reiterazione sub vocalica (reharsal). Quest’attività è
indicata nella figura dal loop della reiterazione di mantenimento.
Broadbrent ha però messo in luce molti limiti dei modelli propri degli stadi dell’elaborazione. Un
primo problema concerne l’eccessiva linearità di questi modelli: il flusso dell’informazione viene
concepito in un’unica direzione, dallo stimolo in avanti. Questa concezione costituisce una
semplificazione eccessiva. Un secondo problema ha a che fare con il fenomeno delle differenze
individuali: le stesse informazioni possono essere elaborate in modi diversi da persone diverse,
o anche da una singola persona in occasioni differenti. Un terzo problema riguarda la
definizione di stadio, dove si possa considerare che uno finisca per fare posto ad un altro.
Broadbrent ha proposto un modello chiamato croce maltese, in cui il registro sensoriale è
concepito come negli altri modelli e le informazioni vi vengono trattenute finché non vengono
rimpiazzate da altre. La memoria di lavoro astratta e il magazzino associativo a lungo termine
sono rispettivamente simili a memoria a breve e lungo termine, mente il magazzino delle
risposte motorie contiene i programmi di azione motoria. Questi programmi riguardano le
azioni che sono state pianificate ma non ancora eseguite. Le quattro braccia della croce sono
collegate da un sistema di elaborazione centrale, che ha la funzione di trasformare
l’informazione proveniente da un braccio della croce in una forma utilizzabile da un altro
braccio della croce stessa.

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J.J. Gibson e l’adattamento della teoria gibsoniana proposto da Neisser


Secondo Gibson il termine informazione possiede due diversi significati. Da una parte, gli
psicologi appartenenti all’approccio informazionale usano questo termine con il significato di
segnale che viene sottoposto a varie forme di elaborazione, dall’altra, Gibson attribuisce alla
nozione di informazione un significato del tutto diverso: qualcosa che è disponibile
nell’ambiente e, in quanto tale, può essere raccolta dall’organismo (teoria della percezione
visiva diretta). Gibson ha avanzato l’ipotesi che gli osservatori scandaglino l’ambiente per
raccogliere le informazioni disponibili, la cui percezione è diretta: egli non fa cioè riferimento a
ciò che accade all’interno dell’organismo dopo che è stato stimolato, ma si limita a mettere in
evidenza l’informazione che l’ambiente rende disponibile all’organismo. Il suo approccio è
ecologico.
Neisser ha cercato di integrare l’approccio di Gibson con il tradizionale approccio
informazionale – di per sé poco realistico. Secondo Neisser i processi cognitivi devono essere
studiati in laboratorio sperimentale, solo se questo studio avviene in contesti ecologicamente
validi. Un approccio ecologicamente valido è quello che si dedica allo studio dei processi
cognitivi all’interno di ambienti relativamente realistici e che fa riferimento alle opportunità che
essi offrono agli individui. Invece di caratterizzare i processi cognitivi nei termini di un modello
sequenziale, Neisser ha ipotizzato un modello circolare, con riferimento a concetti quali la
mappa cognitiva. Essa contiene le nostre conoscenze enciclopediche, che rappresentano il
nostro schema dell’ambiente circostante – dove per schema si intende una struttura simile al
“piano” di Miller e Pribram. Nella teoria proposta da Neisser, le mappe cognitive contengono
numerosi schemi che possono essere usati per affrontare le molteplici situazioni con cui ci
confrontiamo. Le aspettative che derivano da queste conoscenze guidano la nostra attività di
esplorazione del mondo.
Un altro concetto importante all’interno dell’approccio informazionale e che ha a che vedere
con il modello circolare di Neisser è quello di attenzione selettiva, studiata per mezzo del
paradigma dell’ascolto dicotico. In questi esperimenti, a ciascun orecchio del soggetto viene
presentato un messaggio diverso (ad esempio una sequenza di lettere ed una di numeri) per
mezzo dei due auricolari di una cuffia. Ai soggetti viene chiesto di prestare attenzione al
messaggio presentato ad un orecchio e di ripeterlo ad alta voce nel momento in cui viene udito
(shadowing). I soggetti sono in grado di eseguire questo compito facilmente e questo
fenomeno è detto fenomeno del cocktail party. Le prime teorie informazionali avanzarono
l’ipotesi che gli individui debbano filtrare l’informazione alla quale non vogliono prestare
attenzione. In questo modo, uno degli stadi di elaborazione potrebbe essere concepito come
una specie di porta o filtro che permette il passaggio ad alcuni messaggi, ma lo impedisce ad
altri. Neisser ha criticato il modello del filtro, in quanto è concepito per spiegare cosa succede
quando l’ascoltatore è passivo, non considerando il modo in cui gli individui acquisiscono
attivamente le informazioni nell’ambiente. Con un semplice esperimento di sovrapposizione di
due video, Neisser osservò che gli individui ne recepiscono spontaneamente uno soltanto: sulla
base di questo ed altri studi simili, egli ha concluso che percepire significa non tanto “filtrare
l’informazione irrilevante”, quanto “selezionare l’informazione disponibile”.

Il connessionismo
L’approccio connessionista somiglia per certi versi a quello associazionista, ma ne costituisce
un’alternativa più potente. Le due idee fondamentali di questo approccio sono che l’azione è

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costituita da elementi, e da connessioni tra questi elementi. Le connessioni possono avere


valori diversi, ed il sistema può essere addestrato a modificare la forza delle connessioni in
modo tale da produrre l’output desiderato in corrispondenza di ciascun input particolare. I
modelli connessionisti consentono l’elaborazione in parallelo dell’informazione –in quanto molte
connessioni possono essere attive nello stesso momento- anziché soltanto l’elaborazione
seriale dell’informazione. Esistono inoltre unità nascoste che mediano il collegamento tra input
ed output.

• Capitolo 3: Attenzione
Secondo la definizione di William James, l’attenzione è “l’atto per cui la mente prende possesso
in forma limpida di uno tra tanti oggetti e tra diverse correnti di pensieri che si presentano
come simultaneamente possibili”.

Effetto Stroop: attenzione ed elaborazione automatica


L’effetto Stroop (dal nome del suo scopritore) si verifica quando i soggetti sperimentali devono
nominare il colore in cui è scritta una parola –anch’essa relativa ad un colore- incontrano
difficoltà a non nominare la stessa parola scritta. Leggere i nomi di colore e denominare il
colore delle parole sono due esperienze molto diverse. È come se i soggetti che cercano di
denominare il colore delle parole venissero continuamente distratti dalla tendenza a leggere i
nomi dei colori. Si potrebbe dire che la tendenza a leggere i nomi dei colori interferisca con il
tentativo di denominare il colore delle parole.
Un processo automatico è altamente autonomo; è possibile eseguirlo senza prestarvi
attenzione. Invece, vi sono attività cui è necessario prestare attenzione affinché vengano
eseguite propriamente. Tali processi sono chiamati controllati. Nell’effetto Stroop, la tendenza
a leggere i nomi dei colori deve essere deliberatamente inibita se vogliamo denominare il
colore dell’inchiostro con cui le parole sono stampate. Si potrebbe in questo caso dire che la
lettura è divenuta un processo automatico.
Anne Treisman ha elaborato una teoria riguardante l’integrazione di caratteristiche.
Secondo la studiosa, prima di essere in grado di prestare attenzione agli oggetti nell’ambiente,
è necessario estrarre le loro caratteristiche costituenti. Il processo di estrazione delle
caratteristiche sembra operare al di fuori della consapevolezza e –per questa ragione- è
chiamato elaborazione preattentiva. I processi preattentivi estraggono le caratteristiche come
la forma, il colore, la profondità e il movimento degli eventi del mondo esterno. Secondo la
Treisman, le proprietà di base per mezzo delle quali noi costruiamo gli oggetti percepiti
corrispondono alle caratteristiche che emergono spontaneamente da una configurazione: gli
effetti emergenti possono avere luogo anche in bambini molto piccoli. Già a tre mesi, infatti, un
bambino può imparare a far muovere un mobile –un oggetto appeso a fili- per mezzo di un
nastro legato alla sua gamba. Quando lo stesso mobile viene mostrato al bambino, questi
cerca di farlo muovere scalciando con la stessa gambe, comportamento che non si ripete se il
mobile non è lo stesso. Infatti, se il blocco che emerge è del tipo cui i bambini hanno imparato
a rispondere, essi lo fanno di nuovo, e viceversa non rispondono se non hanno imparato a
riconoscere il blocco.

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Attenzione selettiva e attenzione divisa


Secondo alcune teorie, come quella della croce maltese di Broadbent, l’attenzione costituisce
un processo che dipende da un elaboratore centrale. Da questo punto di vista, dovrebbe
essere possibile prestare attenzione soltanto ad una cosa per volta: il processore centrale può
infatti dedicarsi ad un unico compito per volta e, nel caso sia necessario svolgerne due, dovrà
dedicarsi in maniera alternata a ciascuno di essi. Per eseguire simultaneamente due compiti,
dunque, gli individui dovrebbero alternare rapidamente la loro attenzione nei loro confronti e
prestare attenzione in maniera selettiva soltanto ad uno di essi per volta. Questo punto di vista
si contrappone all’ipotesi secondo cui è possibile prestare attenzione contemporaneamente a
più cose: questa capacità viene chiamata attenzione divisa. Uno studio interessante, a questo
proposito, è stato condotto da Spelke, Hirst e Neisser. Due soggetti venivano addestrati a
leggere dei brevi racconti e a eseguire allo stesso tempo un compito di dettato. Gli
sperimentatori misuravano la comprensione del materiale che i soggetti leggevano eseguendo
il dettato. Inizialmente, il compito risultava difficile, ma, dopo sei settimane, erano in grado di
comprendere il materiale che leggevano eseguendo il dettato altrettanto bene. A questo punto,
i due soggetti non erano in grado di acquisire alcuna informazione a proposito delle parole
impiegate nel dettato. Nel compito di dettato venivano usate parole appartenenti a categorie
specifiche, ad esempio nomi di animali. Dopo essere stati istruiti a notare qualsiasi
caratteristica peculiare delle parole usate nel compito di dettato, però, i soggetti si
dimostrarono in grado di capire a quale categoria appartenevano le parole usate nel dettato
senza pregiudicare il livello di comprensione nella lettura.

Attenzione come risorsa


L’attenzione è talvolta caratterizzata come una risorsa limitata, qualcosa di simile ad una
riserva di carburante: questo modello è chiamato modello della capacità. Un’altra possibilità
è che l’attenzione sia dotata di limiti di carattere strutturale. Se due compiti diversi richiedono
lo stesso tipo di attività, allora essi potrebbero interferire gli uni con gli altri in misura
maggiore che nel caso in cui ciascuno di essi richieda un tipo diverso di attività. Un terza
possibilità, prediletta da Hirst e Kalmar, è che l’attenzione sia costituita da un insieme di abilità
diverse: un compito viene eseguito per mezzo delle abilità che gli competono, per cui, i compiti
che richiedono le medesime abilità dovrebbero interferire gli uni con gli altri in misura
maggiore rispetto a quelli che invece richiedono abilità differenti. I due autori hanno studiato le
strategie per mezzo delle quali l’attenzione viene distribuita a diverse attività mentali. Nel
paradigma sperimentale utilizzato vi erano due compiti differenti (A e B). Alcuni soggetti
dovevano eseguire simultaneamente un compito di tipo A ed uno di tipo B, atri due di tipo A ed
altri ancora due di tipo B. Se i compiti A e B avessero richiesto l’uso di risorse diverse, allora
avrebbe dovuto essere più facile eseguire simultaneamente due compiti di tipo diverso
piuttosto che due compiti dello stesso tipo. In uno dei loro esperimenti, Hirst e Kalamar hanno
chiesto ai soggetti di rilevare errori grammaticali ed errori aritmetici. I soggetti indossavano
delle cuffie e udivano due messaggi diversi: una sequenza di lettere ed una sequenza di
numeri. Le lettere che venivano presentate in sequenza formavano una parola che conteneva
una lettera sbagliata, come per esempio “cognitiBo”. D’altra parte, le sequenze di numeri
venivano generate in base alla regola per cui ciascun numero era più grande di due unità
rispetto a quello precedente. Anche le sequenze di numeri contenevano un errore. Una
sequenza di numeri poteva essere, per esempio, 12 – 14 – 16 – 18 – 20 – 22 – 24 – 28 – 30.

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All’inizio dell’esperimento, ai soggetti veniva presentata la parola targhet ad un orecchio (ad


esempio, “cognitivo”), ed il numero iniziale della sequenza di numeri (ad esempio, 12). Dopo di
che venivano presentate le due sequenze. Il compito dei soggetti era di premere un tasto
quando si verificava un errore grammaticale ed un altro tasto quando si verificava un errore
aritmetico. I soggetti ascoltavano dieci coppie di sequenze. In alcune prove, gli errori
grammaticali ed aritmetici si verificavano nella stessa posizione della sequenza, mentre in altre
prove si verificavano in posizioni diverse. Nella condizione sfalsata, i soggetti potevano
alternare rapidamente l’attenzione tra le sequenze più facilmente rispetto alla condizione
simultanea, nella quale, invece, gli errori in entrambe le sequenze si verificavano nello stesso
momento (compito di attenzione divisa). Per questo motivo, nella condizione sfalsata i soggetti
rilevavano gli errori in entrambe le sequenza con più facilità rispetto alla condizione
simultanea. Anche processi differenti possono interferire gli uni con gli altri a causa di ciò che
Hirst e Kalmar hanno chiamato cross-talk (comunicazione incrociata). Se due processi sono
costituiti da due sequenze di eventi, può succedere che gli eventi appartenenti ad un processo
possano interferire con quelli appartenenti all’altro processo. Per poter eseguire due compiti
allo stesso tempo è necessario tenere separate le differenti sequenze, ma questo non accade
sempre e può essere finte di confusione.

Errori di attenzione
Talvolta è possibile eseguire le azioni in modo non pianificato. Gli errori di attenzione (laspese
of attention) spesso sono stati spiegati nei termini della activation-trigger-schema theory di
Norman. Ci possono essere schemi differenti per differenti forme d’azione e più di uno schema
può essere attivato in un dato momento. L’esempio fornito da Norman è quello di una
sequenza di azioni prolungata (ad esempio la guida da casa al lavoro) all’interno della quale ci
sono molteplici azioni specifiche che vengono iniziate in momenti diversi della sequenza. In
una circostanza del genere, è sufficiente pensare a ciò che si sta facendo soltanto nei momenti
critici, senza mantenere sempre l’attenzione focalizzata. Se però la routine cambiasse,
insorgerebbero dei problemi, ad esempio se si dovesse andare a comprare il pane. Tuttavia, è
possibile –non tenendo attivo lo schema “comprare il pane”, finire per raggiungere ugualmente
casa senza averlo fatto. Norman e Reason hanno studiato gli errori di attenzione di questo
tipo. Un primo tipo di errore considerato da Norman ha luogo quando noi formuliamo in
maniera inadeguata quello che è nostra intenzione realizzare. Gli errori dovuti alla
formulazione erronea delle intenzioni possono essere suddivisi in due sottoclassi: la prima è
costituita dagli errori di modalità (mode errors). Essi si verificano quando eseguiamo un’azione
che sarebbe opportuna in una situazione o modalità diversa da quella in cui l’azione viene
effettivamente eseguita (ad esempio: un individuo che tenta di togliersi gli occhiali anche se in
quel momento non li sta portando). Gli errori dovuti alla formulazione inadeguata delle
intenzioni si verificano anche quando non abbiamo una comprensione adeguata della
situazione in cui ci troviamo. Questi sono chiamati errori di descrizione (description errors): un
esempio è dato da un individuo che vorrebbe versare dell’aranciata in un bicchiere e la versa
invece in una tazzina da caffè. Un secondo tipo di errore può essere dovuto all’attivazione
erronea di uno schema, come nel caso degli errori di cattura (capture errors). Tali errori si
verificano quando uno schema familiare cattura il comportamento sostituendosi ad uno schema
non familiare. Questo si verifica, ad esempio, quando –pur volendo fare qualcosa di diverso
all’interno di una situazione a cui è associata una sequenza abituale di azioni- ci si trova ad

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eseguire invece il comportamento abituale. Un buon esempio di questo tipo di errore è lo


stesso effetto Stroop. Un terzo tipo di errore si verifica quando lo schema appropriato viene
eseguito nel modo sbagliato, come nel caso degli errori di anticipazione – come quelli dei
dattilografi esperti. L’esistenza di questi errori mette in evidenza l’importanza del monitoraggio
del comportamento. Spesso, gli individui si rendono conto di aver compiuto un errore. Per
rendersi conto di aver fatto un errore, però, essi devono prestare attenzione a quello che
stanno facendo al giusto livello. L’intenzione di guidare fino a casa, ad esempio, costituisce
un’unità molare di comportamento. Una tale intenzione non richiede il monitoraggio del
comportamento a livello molecolare, ma è proprio all’interno dei livelli del comportamento non
soggetti al monitoraggio che più di frequente si verificano gli errori discussi precedentemente.

Attenzione, consapevolezza ed elaborazione inconscia


James ha osservato che gli individui non sono consapevoli di tutto ciò di cui potrebbero essere
consapevoli. Essi codificano gli eventi in modi differenti. Un codice è un insieme di regole di
operazioni in base alle quali è possibile trasformare in modo sistematico elementi, oggetti, o
dati da una forma ad un’altra forma. La codifica si riferisce al processo per mezzo del quale
l’informazione viene trasformata in una o più forme di rappresentazione. L’informazione può
essere codificata in modi diversi. Secondo Wickens, il processo di codifica è largamente
automatico. Il mondo è troppo ricco perché noi possiamo essere consapevoli di tutte le
dimensioni in base alle quali esso viene codificato. Wickens fa l’esempio di un giocatore di
baseball capace di correre e di afferrare una palla al volo senza prestare attenzione a quello
che sta facendo: se lo facesse, il compito sarebbe molto più difficile. Allo stesso modo, noi
siamo capaci di codificare un evento senza esserne consapevoli. Se fossimo consapevoli di ciò
che facciamo non saremmo capaci di farlo a causa delle sua eccessiva complessità. Secondo
Wickens, il processo di codifica non è soltanto inconscio, ma molto rapido; inoltre, un evento
può essere codificato simultaneamente in modi diversi (codifica multidimensionale)
Il punto di vista di Wickens ben si accorda con l’esistenza del fenomeno della percezione
subliminale, che si riferisce a quella classe di fenomeni in cui lo stimolo è in grado di
influenzare il comportamento anche se è stato presentato troppo velocemente perché il
soggetto sia in grado di identificarlo (per esempio, attraverso il tachistoscopio). Uno stimolo
siffatto è detto subliminale e può avere un effetto anche se il soggetto non è in grado di
coglierlo. Wickens ha fornito una rassegna di una serie di esperimenti nei quali i soggetti erano
in grado di dire se lo stimolo fosse o meno una parola piacevole, anche se non era in grado di
identificarlo. La percezione subliminale ha spesso ha a che fare con la semantica: in alcuni
esperimenti sulla percezione subliminale, i soggetti riferiscono di aver visto una parola
collegata semanticamente alla parla stimolo, senza riferire di aver visto la parola che era stata
effettivamente presentata. La percezione subliminale ha, potenzialmente, un grande valore
commerciale, sfruttato nei cosiddetti subliminal self-help audiotapes, sorta di audiocassette ad
azione subliminale.
Un fenomeno simile alla percezione subliminale può essere descritto per mezzo della
distinzione tra figura e sfondo proposta dagli psicologi gestaltisti. Se ai soggetti sperimentali
viene presentata –al tachistoscopio- una figura rappresentante un albero e viene
successivamente chiesto loro di disegnare una scena naturale, è probabile che essa includa un
albero Ma se la figura è ambigua –ad esempio, a seconda dell’alternanza figura/sfondo, può
somigliare sia ad un albero, sia ad un’anatra- a dispetto del fatto che nessun soggetto riporti

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spontaneamente di aver visto la forma di un’anatra nel disegno usato come stimolo, accade
che nei disegni si rinvengano molti più elementi ad essa collegati (acqua, piume, nido, uccelli).
Ai risultati di questo esperimento è possibile fornire la stessa interpretazione attribuita agli
esperimenti sulla percezione subliminale. Infatti, è possibile che il materiale mantenuto sullo
sfondo venga codificato senza che i soggetti ne siano consapevoli, e ne influenzi il
comportamento successivo.
Recentemente sono stati eseguito nuovi esperimenti che hanno fornito nuovo vigore all’idea
che l’informazione può essere codificata al di fuori della consapevolezza, come quelli di Marcel
sul mascheramento retroattivo. La tecnica del mascheramento retroattivo consiste nella
presentazione di uno stimolo target e nel mascheramento di questo stimolo per mezzo di un
altro stimolo. La differenza temporale che intercorre tra la presentazione del primo stimolo e la
presentazione dello stimolo di mascheramento è chiamata stimulus onset asynchrony. In uno
dei primi esperimenti ai soggetti veniva brevemente presentata una singola parola che veniva
poi mascherata da un pattern. I soggetti dovevano cercare di identificare la parola stimolo.
Talvolta i soggetti riportavano parole diverse da quelle effettivamente presentate, ma
semanticamente collegate alle parole stimolo. Tuttavia, è possibile che queste risposte fossero
state prodotte in maniera casuale, il che rendeva necessari ulteriori controlli sperimentali. In
questi esperimenti si differenzia tra soglia oggettiva e soglia soggettiva: la prima si riferisce
alla soglia in cui i soggetti identificano uno stimolo con un’accuratezza superiore al caso,
mentre la seconda a quella in cui i soggetti asseriscono di poter identificare uno stimolo con
un’accuratezza superiore al caso, cioè si riferisce alla personale soglia in corrispondenza della
quale i soggetti si sentono consapevoli dello stimolo. In altri esperimenti, vi era una differenza
temporale tra lo stimolo target e lo stimolo di mascheramento apparentemente tropo breve per
consentire il rilevamento dello stimolo – vagamente simile all’effetto Stroop. Una superficie
colorata veniva mostrata dopo la presentazione e il mascheramento della parola target. La
parola target poteva essere “blu”, per esempio, e la superficie essere di colore rosso. In alcune
prove, le parole target ed i colori erano congruenti, in altre no. I soggetti dovevano riportare il
nome della superficie colorata: anche se essi non erano in grado di dire nulla a proposito della
parola target, rispondevano più velocemente alle prove congruenti. Tutti questi, sono esempi
di misure indirette dei processi cognitivi, che si differenziano da quelle dirette, come i
protocolli verbali in cui i soggetti devono indicare se abbiano o meno visto lo stimolo.

• Capitolo 4: tracce e schemi di memoria

Teorie basate sulla nozione di schema


Le tracce di memoria sono simili a repliche di esperienze precedenti, immagazzinate come
copie fedeli per un tempo indefinitamente lungo. In questo modo è possibile rivedere la
registrazione di ciascun evento, all’inizio un numero illimitato di volte senza che esso muti le
sue caratteristiche, con il tempo però il ricordo può deteriorarsi. Freud ha paragonato la
memoria al notes magico, un giocattolo per bambini. Un foglio di plastica trasparente copre un
foglio di carta cerata, posto sopra uno strato di cera. Se si scrive sul foglio di plastica è
possibile leggere ciò che è stato scritto, ma se si solleva il foglio, ciò che è stato scritto
scompare. Il foglio di plastica rappresenta la percezione di un evento. Le nostre percezioni
sono transitorie, noi passiamo velocemente da un’esperienza a quella successiva. La memoria

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è ciò che rimane impresso sulla cera dopo che il foglio di plastica è stato sollevato, i ricordi
sono confusi gli uni con gli altri. Se la memoria funzionasse così, allora la rievocazione
raramente sarebbe l’esatta ripetizione dell’esperienza originale. In realtà, è poco probabile che
la memoria abbia una struttura così poco organizzata come quella del notes magico, ma esso
aiuta a chiarire la distinzione tra tracce di memorie e schemi di memoria. Se le tracce di
memoria esistessero veramente, allora sarebbero depositate in memoria come copie ben
definite dell’esperienze precedenti. Da questo punto di vista ricordare significa di nuovo fare
esperienza di ciò che è successo in passato. Questa ipotesi è stata chiamata da Neisser
l’ipotesi della riapparizione.
Talvolta accade che i nostri ricordi siano particolarmente chiari e vividi: questo tipo di ricordi
sono stati studiati da Brown e Kulik: essi chiesero ad ottanta studenti universitari di ricordare
in che circostanze fossero venuti a conoscenza dell’assassinio di Kennedy, avvenuto dieci anni
prima. Quasi tutti i soggetti possedevano un ricordo vivido e dettagliato dell’assassinio e,
tipicamente, rammentavano informazioni riguardo: il luogo in cui si trovavano alla scoperta
dell’assassinio, ciò che stavano facendo, chi ha dato loro la notizia, il loro stato d’animo in quel
momento e ciò che accadde in seguito. I due ricercatori hanno chiamato flash di memoria i
ricordi di questo tipo e hanno proposto un modello per spiegarne la formazione. La loro teoria
è chiamata Now Print e ipotizza che l’informazione venga elaborata secondo una sequenza
predefinita. In primo luogo, è necessario giudicare il valore di sorpresa di un evento, tanto
maggiore quanto più l’evento è inconsueto. In seguito si valuta quanto un evento sia
importante: se esso viene considerato sorprendente e importante, allora il terzo stadio è quello
della formazione del flash. Il quarto stadio è quello della reiterazione: gli individui tendono a
pensare ai flash di memoria più spesso che agli altri ricordi e questo conduce al quinto stadio,
quello dei resoconti dei flash di memoria che vengono raccontati ad altre persone. La teoria
Now Print si concentra sul terzo stadio: è così chiamata perché si suppone che gli individui
creano una copia di certe esperienze, proprio come una fotocopiatrice. Si tratterebbe di un
meccanismo primitivo, risalente a quando ancora gli eventi straordinari non potevano essere
documentati con ausili artificiali (ad esempio i libri). Non per tutti i ricercatori questa ricerca è
convincente. Cohen e colleghi hanno raccolto informazioni sull’esplosione della navetta spaziale
Challenger da quarantacinque soggetti per mezzo di questionari soltanto tre giorni dopo il
disastro. Nove mesi più tardi, ventisette di questi soggetti riempirono dei questionari di follow-
up. Tutti i soggetti ricordavano qualcosa delle circostanze in cui erano venuti a sapere del
disastro, ma i resoconti forniti nove mesi dopo risultavano molto più generici dei primi, ad
esempio, alcuni soggetti dimenticavano o sbagliavano il nome della persona che li aveva
informati riguardo il disastro. Addirittura sette soggetti fornirono racconti incoerenti. Cohen e
colleghi hanno concluso che i flash di memoria non sono necessariamente più accurati dei
ricordi normali, ma vengono ricordati perché rappresentano i collegamenti tra la nostra storia
personale e la storia vera e propria. Questo approccio, sostenuto da Neisser, è stato chiamato
Reconstructive-Script e contrasta la teoria del Now Print.
Weaver ha esaminato le differenze tra i flash di memoria e i ricordi ordinari. Ai suoi soggetti
venne chiesto di ricordare tutte le circostanze che accompagnavano il loro primo incontro con
un amico. Per puro caso, quella sera stessa il presidente Bush ordinò che venisse dato inizio al
bombardamento dell’Iraq. Due giorni dopo si chiese ai soggetti di rispondere a dei questionari
che riguardavano sia l’incontro con l’amico sia la notizia del bombardamento. Vennero
effettuati due controlli a tre e dodici mesi di distanza. Confrontando i ricordi registrati in

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seguito con quelli originali, Weaver trovò che i due eventi venivano ricordati con pari
accuratezza, tuttavia, i soggetti si sentivano molto più sicuri riguardo il bombardamento
rispetto all’altra circostanza.

La teoria di Bartlett
La rilevanza che la nozione di schema ha assunto all’interno della psicologia della memoria si
deve a Bartlett. Nei suoi esperimenti, egli ha fatto uso di una tecnica chiamata metodo delle
riproduzioni in serie. Ad un primo soggetto viene dato qualcosa da ricordare: egli mette per
iscritto tutti i particolari che è in grado di rievocare. La versione così ottenuta viene fatta
leggere ad un secondo soggetto, il quale svolge lo stesso compito. La sua versione viene
fornita ad un terzo soggetto e così via. Dai riassunti si osservò che gli individui tendono a
selezionare una parte del materiale che deve essere ricordato e ad ometterne un’altra parte.
Queste omissioni riflettono un processo di razionalizzazione: ciò che è inusuale viene
trasformato, nel corso del tempo, in un contenuto sempre più familiare. Sulla base di
esperimenti di questo tipo Bartlett ha concluso che: il ricordo non è una rieccitazione di tracce
isolate, ma una costruzione immaginativa costruita dalla relazione del nostro atteggiamento
verso dettagli di rilievo che emergono dal testo. Questa massa attiva di reazioni è ciò che
Bartlett intendeva con la nozione di schema. Uno schema costituisce una struttura organizzata
che guida il nostro comportamento, un modello che può essere modificato per adattarsi a
circostanze diverse.

Ricerche basate sulle teoria degli schemi mnestici


Alba e Hasher hanno suggerito che le teoria basate sulla nozione di schema solitamente
descrivono la memoria nei termini di quattro processi: selezione, astrazione, interpretazione,
integrazione. Lo schema seleziona le informazioni che sono coerenti con gli interessi coerenti,
in seguito, l’informazione selezionata viene convertita in forma più astratta. Le informazioni
sono poi interpretate facendo riferimento ad altre informazioni ritenute in memoria. Un quesito
frequente è se il processo di selezione abbia luogo quando le informazioni vengono ricevute
oppure quando esse vengono rievocate. Bransford e Johnson hanno presentato evidenze a
sostegno della prima ipotesi, mentre Anderson e Pichert a sostegno della seconda.
Nell’esperimento dei primi i soggetti dovevano leggere e rievocare un brano particolarmente
originale. I soggetti erano in grado di ricordare solo poche informazioni al riguardo, poiché lo
ritenevano incomprensibile. Se ai soggetti veniva tuttavia mostrato un disegno chiarificatore,
la situazione diveniva immediatamente più comprensibile e ricordabile. Questa è una
dimostrazione dell’effetto del contesto sulla comprensione iniziale e sulla successiva
rievocazione. Nell’esperimento di Anderson e Pichert, i soggetti dovevano leggere un brano, la
descrizione di una casa, alcuni dal punto di vista di un topo, mentre altri dal punto di vista di
un compratore. Anche in questo caso erano poi rievocati a richiamare la storia. Entrambi i
gruppi rievocavano informazioni “di parte” ma, quando veniva loro chiesto di cambiare punto di
vista, erano in grado di recuperare informazioni prima dimenticate. I risultati ottenuti da
Anderson e Pichert suggeriscono che gli individui acquisiscono informazioni irrilevanti dal punto
di vista a partire dal quale la storia viene codificata, ma che poi è più probabile che vengano
recuperate solo le informazioni necessarie al momento della rievocazione.
Bower e Mann hanno dato un’illustrazione di come gli eventi successivi all’apprendimento

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possano influenzare la capacità di rievocazione. In altre parole è possibile che la rievocazione


di un certo materiale possa essere più difficile se, prima o dopo l’apprendimento, viene
appreso del materiale simile. L’idea è che uno degli insieme interferisca con la rievocazione
dell’altro tanto più quanto più i due insiemi sono simili. L’interferenza proattiva ha luogo
quando si apprende A, poi B, e dopo un certo periodo di tempo si prova a rievocare B. In
generale, risulta più difficile rievocare B se in precedenza si è appreso A di quanto non sarebbe
accaduto se non si fosse affatto appreso A. L’interferenza retroattiva ha luogo quando si
apprende A, poi B, e dopo un certo periodo di tempo si prova a rievocare A. In generale, risulta
più difficile rievocare A se in precedenza si è appreso B di quanto non sarebbe accaduto se non
si fosse affatto appreso B. Fenomeni come questi hanno indotto alcuni studiosi a proporre una
teoria dell’oblio basata sull’interferenza. Secondo questa teoria, non accade semplicemente che
i ricordi decadano col tempo, ma accade che essi interferiscano l’uno con l’altro, come
comproverebbero gli esperimenti di Wickens, in cui i soggetti – dovendo apprendere e
rievocare delle liste di item di tre consonanti – peggiorano progressivamente la propria
prestazione. Se però i soggetti apprendono una quarta lista, stavolta di numeri, la loro
rievocazione è migliore, in quanto questa lista non interferisce con le precedenti.
Un altro punto interrogativo riguarda la rappresentazione astratta delle esperienze, di cui gli
individui sembrerebbero ricordare solo l’essenza ma non i dettagli. In uno studio Sachs, i
soggetti sperimentali dovevano ascoltare la registrazione di una storia a proposito
dell’invenzione del microscopio. La frase seguente (frase originale) poteva essere inserita in
posizioni diverse della storia: “A questo proposito mandò una lettera a Galileo, il grande
scienziato italiano”. Dopo aver ascoltato la storia, ai soggetti veniva presentata un’altra frase
(frase di controllo) che doveva essere giudicata come uguale o meno all’originale. Due erano i
tipi di mutamento riscontrabili nella seconda frase: i termini usati (mutamento lessicale),
oppure il significato (mutamento semantico). I soggetti ricordavano piuttosto bene la frase,
anche linguisticamente, se essa si trovava alla fine del testo, mentre negli altri due casi
notavano solamente il mutamento ortografico, ma non quello semantico. Ne consegue che,
quando un processo di astrazione ha luogo, è possibile ricordare il significato complessivo, ma
difficilmente gli elementi individuali.
Alba e Hasher hanno ipotizzato che gli individui interpretino l’informazione che hanno a
disposizione facendo delle inferenze, per poi ricordarle come parte del materiale originario
(interpretazione). Ad esempio, se si sapesse che una data persona, in un certo momento, è
a New York e, poco dopo, che la stessa persona è a Toronto, si inferirebbe che quella persona
si sia spostata da un luogo all’altro. In seguito, si potrebbe ricordare che quella persona si è
recata da New York a Toronto, senza che ci sia stato effettivamente detto: il problema è quello
di stabilire se il fatto è semplicemente inferito oppure è stato raccontato da qualcuno. Gli stessi
autori hanno inoltre anche discusso il processo di integrazione, che costituirebbe “l’elemento
centrale delle teorie basate sulla nozione di schema”. Un esperimento spesso citato in questo
frangente prevede la lettura di frasi brevi (frasi di acquisizione), sulle quali –una volta coperte-
il soggetto deve rispondere ad una domanda, ad esempio: “La ragazza ruppe la finestra del
portico” “Cosa è stato rotto?”. Successivamente, ai soggetti viene sottoposto un lungo elenco
di frasi (frasi test), tra cui essi devono riconoscere quali abbiano letto precedentemente e quali
no. Le frasi test sono tutte diverse da quelle di acquisizione (sebbene alcune siano similari),
eppure i soggetti credono che almeno alcune sino uguali. Dal punto di vista di una teoria
basata sulla nozione di schema, l’impressione di familiarità dipende dal fatto che il lettore ha

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astratto ed integrato le idee espresse dalle frasi di acquisizione. Maggiore è la semplicità di una
frase test, tanto più grande è la possibilità che essa venga riconosciuta erroneamente come
una frase di acquisizione. Un secondo esperimento è stato condotto in base ad un famoso
studio sulla testimonianza oculare. Ai soggetti veniva mostrato il filmato di un incidente
automobilistico, quindi veniva chiesto loro a che velocità andavano gli automobilisti al
momento dell’urto. I verbi utilizzati nella domanda potevano essere “urtare”, “scontrare”,
“entrare in collisione”, ecc… Le stime della velocità fornite dai soggetti erano di gran lunga
superiori quando veniva utilizzato il verbo “scontrare”, anziché “urtare”. Passata una
settimana, i soggetti venivano nuovamente interrogati sull’incidente del filmato, e veniva
chiesto loro se avessero visto o meno vetri rotti. Anche in questo caso, coloro che erano stati
sottoposti alla domanda contenente il verbo “scontrare” rammentavano in maggior numero i
vetri rotti. La spiegazione fornita per questi risultati sostiene che i due tipi diversi di
informazioni (il filmato e la domanda) si siano integrati nel corso del tempo, in modo tale che
non fosse più possibile decidere a quale delle due font appartenessero i singoli dettagli. Le
informazioni fuorvianti acquisite successivamente all’evento si erano cioè integrate con le
informazioni originarie. A partire da questi esperimenti, è stata anche studiata la possibilità che
gli individui non discriminino nel migliore dei modi tra ricordi reali e ricordi di eventi
immaginati. Se un evento viene immaginato in maniera particolarmente vivida, infatti, in
seguito può essere difficile ricordare se quell’evento sia effettivamente accaduto oppure no. Il
processo per mezzo del quale gli individui distinguono tra eventi immaginari e reali è definito
prova di realtà. In un esperimento, ai soggetti veniva mostrata la fotografia di un ufficio, in cui
c’erano quattro persone e molti oggetti diversi. In seguito, veniva fatto leggere loro un brano
contenete la descrizione dell’ufficio che conteneva dei particolari inesatti. I soggetti venivano
poi sottoposti ad una prova di riconoscimento. I soggetti dovevano leggere una lista di parole
ed indicare se ciascun item della lista era presente o meno nella fotografia. In un’altra
condizione sperimentale i soggetti venivano sottoposti ad un test di monitoraggio delle fonti,
per decidere se gli item della lista erano presenti nella foto, nel testo, oppure in entrambi. In
generale, i soggetti avevano la tendenza a considerare come appartenenti alla fotografia alcuni
item che invece erano stati soltanto suggeriti dal brano: un numero significativamente minori
di errori di questo tipo avveniva tuttavia nella condizione di monitoraggio delle fonti. Gli errori
compiuti durante la rievocazione sono dunque dovuti più ad un’imperfezione di recupero che
ad un’inesattezza del ricordo.

Script
Il concetto di script (copione) può essere usato per dar conto degli stessi fatti spiegati
mediante il concetto di schema. Schank e Abelson sono stati i primi a far uso della nozione di
script nella ricerca sulla memoria, mentre Neisser ha usato la teoria reconstructive-script per
spiegare il fenomeno dei flash di memoria. Schank e Abelson hanno definito uno script come
“una struttura che descrive una sequenza appropriata di eventi in un contesto particolare”,
oppure come “una sequenza predeterminata e stereotipica di azioni che definisce una
situazione ben conosciuta”. Inizialmente, questi ricercatori hanno rivolto la loro attenzione nei
confronti di script particolari, come quello del ristorante. Tutti ci aspettiamo, in n ristorante, di
ordinare il cibo, di mangiare, di pagare il conto e così via. Nei loro esperimenti, ai soggetti
veniva chiesto di elencare tutte le attività abituali che vengono comunemente svolte in alcune
situazioni tipiche (ristorante, supermercato, dottore, università…). I ricordi più concreti sono

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quelli che riguardano le esperienze specifiche. Secondo Schank, questi ricordi costituiscono la
memoria di eventi (ad esempio, una visita ad uno studio dentistico). Le normali visite
dentistiche dovrebbero svanire piuttosto rapidamente in memoria. Al livello seguente vi è la
memoria di eventi generalizzati. Come indicato dal nome, questo livello di memoria contiene le
informazioni che sono state astratte a partire da eventi particolari. Qui è immagazzinato ciò
che è comune alle varie memorie di eventi. Il genere di cose che caratterizza le normali visite
dentistiche fa parte della memoria di eventi generalizzati. A questo livello vengono
immagazzinate soltanto le informazioni relative ad uno script particolare, e non le informazioni
comuni a script diversi (ad esempio, sedersi nella sala d’aspetto). Le informazioni comuni a
script diversi fanno parte del successivo livello di memoria, quella situazionale. Una visita
medica descrive una situazione generale all’interno della quale si possono verificare le
esperienze più specifiche della visita dentistica, ortopedica, pediatrica, ecc… Ciò che gli eventi
generalizzati hanno in comune –ad esempio il dover aspettare prima di vedere il medico- va a
confluire nella memoria situazionale. Il livello di memoria ancora più generale è quello della
memoria intenzionale. La visita ad un dottore rappresenta infatti un esempio specifico del
“recarsi ad un ufficio”. L’idea di Schank di caratterizzare la memoria nei termini di diversi livelli
è molto simile ad altri approcci influenti all’interno della psicologia cognitiva.

Livelli di elaborazione
Un modello come quello di Schank si preoccupa maggiormente degli aspetti strutturali
piuttosto che di quelli procedurali dell’attività cognitiva. Al contrario, l’approccio di Craik e
Lockhart pone l’accento sui processi che influenzano la memoria. Costoro distinguono una
modalità superficiale ed una profonda di elaborazione. Considerando, ad esempio, la parola
TRENO, un’elaborazione superficiale (che considera solo le caratteristiche fisiche) ci porterebbe
ad osservare che la parola è scritta in maiuscole, ma, se la stessa parola viene elaborata in
maniera più profonda, si nota che essa si riferisce ad un mezzo di trasporto: in questo caso la
parola è stata elaborata nei termini del suo significato. Maggiore è il significato che viene
estratto da un evento, tanto più profondo è il livello di elaborazione.
Nella teoria dei livelli di elaborazione, sono possibili due differenti tipi di reiterazione. La
reiterazione di mantenimento che viene usata, ad esempio, ogni qual volta un individuo
continua a ripetersi un numero per non dimenticarlo. La reiterazione integrativa, invece,
sottopone un evento ad un’elaborazione più profonda. Numerose ricerche hanno studiato la
relazione che intercorre tra queste due forme di reiterazione. Alcune di queste ricerche hanno
fatto uso del compito di Brown-Peterson. Nel tipico paradigma sperimentale del compito di
Brown-Peterson, ai soggetti vengono presentati una serie di item e un numero. Dopo aver
sentito l numero, i soggetti iniziano a contare a ritroso dal numero indicato; dopo uno specifico
intervallo, il soggetto deve rievocare gli item. La numerazione a ritroso però, probabilmente,
ha bloccato qualsiasi tipo di reiterazione: infatti, tipicamente, la rievocazione è più accurata se
l’intervallo non è occupato dalla numerazione a ritroso.
Le critiche rivolte al modello di Craik e Lockhart, come quella di non specificare in maniera
sufficiente i meccanismi soggiacenti alla memoria, hanno portato i ricercatori a svilppare dei
novi concetti, come quello di complessità di rielaborazione e di distintività. La complessità di
rielaborazione si riferisce alla “quantità di elaborazione ulteriore effettuata dall’individuo che
produce materiali addizionali”. La distintività si riferisce invece alla precisione con cui un
elemento è codificato. Gli eventi dotati di un carattere distintivo sono più facili da ricordare.

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Stein e colleghi hanno studiato le forme di rielaborazione usate dagli studenti ad alto e basso
rendimento scolastico. Nell’esperimento, agli studenti venivano fornite frasi come “L’uomo
affamato salì sulla propria automobile” da completare. Mentre gli studenti ad alto rendimento
tendevano a completare le frasi in modo pertinente (ad esempio, “L’uomo affamato salì sulla
propria automobile, per andare al ristorante”), quelli a basso rendimento producevano
rielaborazioni del tipo “L’uomo affamato salì sulla propria automobile e partì”. Da questo
esperimento, Stein e colleghi dedussero che gli studenti a basso rendimento scolastico spesso
non rielaborano in maniera appropriata il materiale da apprendere, riscontrando così difficoltà.
I concetti di complessità di rielaborazione e distintività costituiscono delle alternative meno
vaghe alla nozione di profondità di elaborazione.
Craik e Lochart hanno messo la loro teoria in relazione con il concetto di memoria di lavoro,
cioè “il sistema di memoria a cui è affidato il compito di manipolare temporaneamente
l’informazione” – nozione di memoria primaria attiva è anche simile alla nozione di memoria di
lavoro proposta da Baddeley, anche se la seconda ha carattere più strutturale. La memoria
primaria, come viene concepita da Craik e Lockhart, invece, costituisce un’attività di
elaborazione e non una struttura.

Approcci ecologici alla memoria


La ricerca sulla memoria svolta nel corso degli ultimi decenni è stata condotta per mezzo di
esperimenti di laboratorio volti a scoprire i principi generali che regolano il funzionamento della
memoria (ricerca sulla memoria improntata a principi generali). Ebbinghaus fu il primo a
cimentarsi in questo studio: egli studiava liste di sillabe senza senso e le ripeteva finché non
era in grado di recitarle per due volte senza commettere errori. Dopo vari intervalli, egli
valutava di quanto tempo avesse bisogno per riapprendere una lista: in generale, l’oblio era
maggiore immediatamente dopo l’apprendimento, ed era seguito da un declino più graduale;
tali risultati sono riassumibili nella cosiddetta curva dell’oblio. Le ricerche di Ebbinghaus
miravano a scoprire i principi generali della memoria. Questo orientamento può essere
contrapposto all’approccio ecologico allo studio della memoria di Bahrick. Egli ha sottolineato
che lo studio della memoria a lungo termine del materiale scolastico rende necessaria la
risoluzione di molti problemi di tipo metodologico. Bahrick ha tentato di superare questi
problemi in uno studio naturalistico del ricordo a lungo termine della lingua spagnola appresa a
scuola. Bahrick si è servito di un campione di più di 700 individui, alcuni frequentanti corsi di
spagnolo, altri che li avevano frequentati da uno a cinquant’anni prima. Avendoli interrogati
sulle valutazioni conseguite e sull’uso successivo della lingua, ha conseguito che la prestazione
dei soggetti variava a seconda del numero di corsi seguiti e dei voti ottenuti. I punteggi
conseguiti dai soggetti nel test erano tanto più grandi quanto maggiore era in il numero di
corsi seguiti e la valutazione riportata. Bahrick è arrivato quindi alla conclusione che nei primi
3 – 6 anni dopo l’interruzione dello studio della lingua spagnola le conoscenze diminuiscono in
maniera progressiva. Dopo quel periodo, vi è un periodo di circa 25 anni durante i quali non si
riscontra alcun ulteriore degrado delle conoscenze: l’autore ha così ipotizzato l’esistenza di uno
stato di memoria relativamente permanente chiamato permastore. Esempi di ricordi
immagazzinati nel permastore sono, secondo Bahrick, le regole aritmetiche, le capacità
motorie, ecc… Il fatto che le informazioni finiscano o meno con l’essere immagazzinate nel
permastore viene determinato al momento dell’apprendimento, anche se il meccanismo preciso
per mezzo del quale l’informazione vi viene trasferita non è ancora chiaro. L’approccio

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ecologico è stato criticato perché sembra incapace di condurre a principi generalizzabili intorno
alla memoria.

• Capitolo 5: Sistemi di memoria

Tulving e i sistemi di memoria


La distinzione tra memoria episodica e memoria semantica ha esercitato una grande influenza
sin da quando è stata inizialmente proposta da Tulving. La memoria episodica si riferisce a
“l’immagazzinamento ed il recupero di eventi ed episodi temporalmente databili, localizzabili
spazialmente ed esperiti personalmente”, mentre la memoria semantica si riferisce a
“l’immagazzinamento e l’utilizzazione di conoscenze che riguardano le parole ed i concetti, le
loro proprietà e relazioni reciproche”. Un esempio di ricordo episodico potrebbe essere “Ricordo
di avere un appuntamento”, un evento puramente autobiografico; mentre un esempio di
ricordo semantico “La formula del sale è NaCl”.
La ricerca sperimentale di Tulving si è occupata in gran parte del modo in cui il principio della
specificità di codifica regola la memoria episodica. Questo principio sostiene che “soltanto ciò
che è stato immagazzinato può essere recuperato, e il modo in cui qualcosa può essere
recuperato dipende dal modo in cui è stato immagazzinato”. Gli item possono essere
immagazzinati in modi diversi, ad esempio, la parola green può essere codificata sia come il
nome di un colore, sia come il cognome di qualcuno. La modalità di codifica di una parola
determina il modo in cui essa sarà ricordata. Nel classico esperimento di Tulving e Thompson,
ai soggetti veniva chiesto di memorizzare un elenco di 24 coppie di parole debolmente
associate –una scritta in maiuscolo ed una in minuscolo- ad esempio: plant e BUG. La seconda
parola di ogni coppia era la parola target, la prima era invece un suggerimento debole per il
recupero. In seguito, ai soggetti venivano mostrate altre 12 parole, fortemente associate con
quelle target (suggerimenti forti per il recupero). Ai soggetti veniva detto di scrivere accanto a
ciascuna delle nuove parole la parola appropriata della lista precedente: il recupero era molto
difficile, mediamente di 2 parole su 12. A questo punto, i soggetti dovevano fare delle
associazioni libere sulla base di tutti e 24 i suggerimenti forti per il recupero. Le parole
generate dai soggetti erano le stesse che essi avevano imparato in risposta ai suggerimenti
deboli. Spesso, però, i soggetti non erano in grado di riconoscere le parole che avevano
generato. Questo fenomeno costituisce un fallimento del riconoscimento di parole che
potenzialmente possono essere rievocate. Infine, agli stessi soggetti venivano forniti gli
originali suggerimenti deboli per il recupero e veniva loro chiesto di rievocare le parole critiche;
i soggetti riuscivano a ricordarne 15. I suggerimenti forti, infatti, non fanno parte della
memoria episodica formata nel corso dell’apprendimento della lista di coppie di parole.
Soltanto i suggerimenti deboli ne fanno parte.
Tulving ha ipotizzato l’esistenza di almeno tre sistemi di memoria volti all’elaborazione di
differenti tipi di informazione: episodico, semantico e procedurale. La memoria procedurale
è quel sistema di memoria soggiacente alle esecuzioni che richiedono destrezza, quella che
usiamo –ad esempio- quando andiamo in bicicletta. La memoria procedurale è una forma di
conoscenza tacita: riguarda ciò che conosciamo senza necessariamente essere consapevoli di
cosa sappiamo. Noi siamo in grado di andare in bicicletta anche se non siamo in grado di
spiegare come ne siamo capaci. Al contrario, la memoria semantica contiene le conoscenze

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esplicite a proposito di come andare in bicicletta. La memoria episodica, infine, contiene


informazioni che rimandano a particolari esperienze nel corso delle quali ci è capitato di andare
in bicicletta. Secondo Tulving, la memoria episodica è un sottosistema della memoria
semantica la quale, a sua volta, è un sottosistema specializzato della memoria procedurale. Ciò
significa che la memoria episodica non può sussistere senza che vi sia una sottostante
memoria semantica, la quale a sua volta richiede la memoria procedurale. Tulving ha inoltre
suggerito che a ciascuno dei tre sistemi di memoria sia associata una diversa forma di
coscienza. La memoria procedurale è anoetica, cioè priva di consapevolezza, nel senso che
quando la adoperiamo siamo consapevoli soltanto di ciò che caratterizza la situazione
immediata in cui ci troviamo. La memoria procedurale non va al di là di sé stessa; essa
riguarda soltanto le risposte possibili qui e ora. La memoria semantica è invece noetica (cioè
caratterizzata da consapevolezza), in quanto, quando ne facciamo uso, siamo consapevoli non
soltanto della situazione immediata nella quale ci troviamo ma anche di cose che possono
essere assenti in quella situazione specifica. Il termine autonoetico si riferisce alla
consapevolezza di sé. La memoria episodica è autonoetica, dal momento che riguarda il ricordo
di esperienze personali. Secondo Tulving, la memoria episodica si sviluppa relativamente tardi
se paragonata agli altri sistemi di memoria; infatti i bambini in tenera età non hanno
esperienza di ciò che gli adulti chiamerebbero memoria episodica. L’ipotesi è che essa si
sviluppi a partire da quella semantica.
Tulving ha molto insistito anche sulla distinzione tra ricordare e sapere. Il termine ricordare è
stato da lui riservato alle esperienze autonoetiche: questa distinzione ha stimolato molte
ingegnose ricerche nel corso degli ultimi anni, come quella sulla memoria senza
consapevolezza o quella sulla memoria implicita. Jacoby e Witherspoon si sono occupati della
prima, osservando come nella maggior parte degli esperimenti sulla memoria venga chiesto ai
soggetti di rievocare qualcosa in maniera esplicita (memoria episodica). D’altra parte, invece,
ci sono situazioni sperimentali all’interno delle quali i soggetti non si rendono conto del fatto
che “il ricordo di un evento precedente può influenzare l’interpretazione e la codifica di un
evento successivo senza che l’individuo sia consapevole di ricordare l’evento precedente”, ad
esempio la metodologia del priming. Un esperimento notevole a questo riguardo fa uso della
tecnica di shadowing: ai soggetti veniva fatto ascoltare un brano in un orecchio, dicendo loro
che sarebbero poi stati chiamati a riassumerlo, mentre nell’altro orecchio venivano fatte
sentire loro delle coppie di omofoni (ad esempio, sun/son). Ciascun omofono era presentato
accompagnato da un aggettivo, che favoriva in un termine o nel’altro l’interpretazione del
lemma. Successivamente, ai soggetti venivano lette delle parole, tra cui 8 dei 16 omofoni
presentati, che difficilmente venivano riconosciuti. Quando però ai soggetti veniva chiesto di
compitare le parole essi fornivano la grafia coerente con l’interpretazione che era stata favorita
nella fase precedente dell’esperimento. Questo esperimento può dunque essere considerato
come una dimostrazione dell’esistenza di una forma di memoria senza consapevolezza o
memoria implicita.
Nello studio della memoria hanno molta rilevanza anche le malattie, come la piscosi di
Korsakoff, una forma di amnesia che si verifuca come conseguenza dell’alcolismo cronico. Nei
pazienti affetti da questa sindrome, i vecchi ricordi rimangono intatti, ma costoro sono incapaci
di ricordare gli eventi accaduti successivamente all’insorgere del disturbo, dimenticando anche
da un minuto all’altro le cose ascoltate e gli eventi accaduti. Anche nei pazienti di questo tipo,
però, si riscontrano gli effetti della memoria implicita: infatti, in alcuni esperimenti, pur

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fallendo nei compiti di rievocazione, i pazienti affetti da amnesia hanno evidenziato il


medesimo effetto priming del gruppo di controllo composto da soggetti sani. Si può pertanto
concludere che i soggetti affetti da amnesia sono in grado di formare nuove associazioni e di
apprendere nuovo materiale. Il prodotto di questo apprendimento, tuttavia, non è disponibile
ai soggetti malati in forma esplicita, ma solo implicitamente.

Memoria semantica
La memoria semantica si riferisce alle informazioni di carattere generale che possediamo a
proposito del mondo. Tulving l’ha paragonata ad un dizionario che contiene parole, concetti e
le loro relazioni. L’uso della memoria semantica può essere esemplificato facendo riferimento,
ad esempio, ai tentativi di ricordare il nome di una persona, cosa che spesso risulta alquanto
difficile. James ha chiamato questo fenomeno tip-of-the-tongue (“sulla punta della lingua”). In
n famoso studio su questo fenomeno, sono stati presentate ai soggetti le definizioni di 49
parole a bassa frequenza, come abside, cloaca e così via. Nei casi in cui si produceva il
fenomeno “sulla punta della lingua”, spesso, i soggetti erano in grado di identificare alcuni
aspetti della parola critica come la lettera iniziale o il numero di sillabe (rievocazione generica).
In un altro esperimento, i soggetti, divisi in varie fasce d’età, dovevano tenere un diario per
annotarvi tutti i casi di parole “sulla punta della lingua”, specificando quando e come si fossero
risolti: strategie di ricerca, consultazione di libri, oppure se semplicemente la parola spuntava
fuori all’improvviso – pop up. I pop – up erano la soluzione più frequente per tutti i gruppi di
età, ma specialmente per gli anziani. I dati sottolinaevano inoltre come sia più difficile
recuperare la parola quando vi sono alternative persistenti, cioè “parole scorrette che si
affacciano più volte alla mente”.
Uno dei primi veri e propri modelli di memoria semantica è stato proposto da Quillian, nei
termini di una rete gerarchica. La rete è costituita da tre tipi di elementi: unità, proprietà e
puntatori. Le unità tipicamente si riferiscono ad insiemi di oggetti e costituiscono i nodi della
rete. I nodi sono etichettati per mezzo di sostantivi, le proprietà per mezzo di aggettivi o verbi.
I puntatori specificano le relazioni fra unità diverse, e le relazioni fra le unità e le proprietà. I
puntatori possono essere descritti per mezzo di verbi come essere, avere o potere. Un modo d
esplorazione della memoria semantica è la cosiddetta “illusione di Mosè”. Essa si riferisce al
fatto che molte persone rispondono alla domanda: “Quanti animali di ciascuna specie portò
Mosè con sé sull’arca?” con “Due”. Naturalmente, nessun animale venne portato sull’arca di
Mosè, era Noè. Ciò indica che le persone non ricercano una corrispondenza esatta tra
l’informazione contenuta nella memoria semantica e quella contenuta nella domanda, ma si
accontentano di una corrispondenza approssimata. Così, quando devono rispondere ad una
domanda, le persone spesso ricorrono all’informazione che più si avvicina a quella richiesta.
Una nozione emersa dallo studio della memoria semantica è quella della propagazione
dell’attivazione proposta da Quillian. Secondo tale nozione, nel corso di una ricerca
all’interno di una rete gerarchica vengono attivati tutti i percorsi della rete lungo i quali la
ricerca ha luogo. L’attivazione si propaga dal nodo dove inizia la ricerca. Tanto maggiore è
l’attivazione di un nodo, tanto più facilmente la sua informazione può essere elaborata. Molti
esperimenti sono stati condotti a proposito del fenomeno della facilitazione. In uno di questi, ai
soggetti venivano mostrate due parole che potevano essere veri e propri termini della lingua
inglese, oppure “non parole”. I soggetti dovevano semplicemente dire sì o no a seconda che il
termine fosse o meno esistente. Talvolta, il secondo termine era semanticamente associato al

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primo: in questo caso, il riconoscimento di quest’ultimo richiedeva un tempo inferiore a quello


nel caso in cui le due parole fossero indipendenti. Il modello dell’attivazione consente di
spiegare questo risultato in quanto, immaginando una rete in cui i concetti sono tanto più vicini
quanto più hanno in comune (ad esempio ciliegia e rosso), nel momento in cui uno è attivato
(ciliegia), la sua attivazione si propaga anche all’altro velocemente (rosso), permettendo un
successivo riconoscimento più rapido.
La teoria della propagazione dell’attivazione è stata incorporata all’interno di una teoria di
Anderson, chiamata ACT (Adaptive Control of Thought), che prevede un’importante distinzione
tra memoria dichiarativa e procedurale. La memoria dichiarativa contiene le conoscenze
immagazzinate nelle reti semantiche, o meglio, secondo la definizione di Anderson, reti
proposizionali. “Una proposizione è l’unità di analisi più piccola che può essere giudicata in
termini di vero o falso”. Secondo questo modello, l maggior parte dell’attività del sistema
avviene all’interno della memoria di lavoro. Gli eventi del mondo esterno sono cioè codificati e
collocati all’interno della memoria di lavoro, mentre le informazioni rilevanti vengono
recuperate dalla memoria dichiarativa. Se ci viene chiesto: “Il canarino è un uccello?”, per
rispondere, è necessario che recuperiamo le informazioni appropriate dalla memoria
dichiarativa e le “trasportiamo” in memoria di lavoro. A questo punto, se l’informazione
contenuta nella memoria di lavoro è coerente con la condizione della regola di produzione,
allora quella regola viene eseguita.
La ricerca di Anderson ha portato anche alla scoperta del cosiddetto effetto ventaglio,
verificata per mezzo di un esperimento. Ai soggetti venivano fatte apprendere frasi che
vedevano una serie di soggetti standard (dottore, avvocato…), ed una serie di luoghi standard
(parco, studio…) in una serie di combinazioni, ad esempio: “Il dottore è nel parco”, “L’avvocato
è nello studio” e così via. In seguito, ai soggetti veniva chiesto di riconoscere le frasi a cui
erano stati esposti in un pull: è stato notato che, tanto più un personaggio o un luogo era stato
nominato, tanto più tempo i soggetti impiegavano per decidersi riguardo la frase che lo vedeva
protagonista. Per esempio, se erano stati appresi tre fatti riguardo l’avvocato e uno riguardo il
dottore, il tempo impiegato a riconoscere le frasi che vedevano protagonista l’avvocato era più
lungo rispetto a quello impiegato per riconoscere la frase del dottore.

Modelli connessionistici della memoria


I modelli connessionisti assumono che l’informazione venga elaborata per mezzo delle
interazioni tra un ampio numero di unità elementari di elaborazione, ciascuna delle quali invia
segnali di tipo eccitatorio o inibitorio ad altre unità. I modelli connessionisti tentano di spiegare
la microstruttura dei processi cognitivi e le modalità di funzionamento di processi come la
memoria. Nella parte inferiore del modello sono rappresentate le unità corrispondenti alle
caratteristiche di base delle lettere. Un’unità viene attivata se la caratteristica che essa rileva è
presente all’interno dello stimolo. Nel caso del riconoscimento della parola trap, la prima unità,
che rappresenta la linea orizzontale nella parte superiore della lettere, è coerente con l’ipotesi
che la prima lettera sia una t. Quest’ipotesi è coerente con la possibilità che la parola sia trap,
ma non, ad esempio, able. L’ipotesi che la parola sia trap, a sua volta, accrescerà la possibilità
che la seconda lettera sia percepita come una r e così via. Le connessioni eccitatorie ed
inibitorie tra le unità determinano quello che risulta essere il risultato percettivo finale.
Secondo l’approccio connessionista, inoltre, le copie di particolari esperienze non vengono
“salvate” sotto forma di tracce di memoria, ma viene ipotizzata l’esistenza di unità per le

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esperienze individuali connesse ad altre unità che rappresentano le varie proprietà di


un’esperienza. L’informazione viene recuperata in memoria secondo il processo di attivazione.
Se in una conversazione viene fatto il nome di n certo Marco, l’unità corrispondente a “nome
Marco” si eccita, eccitando a sua volta quella relativa a “persona Marco” e a sua volta quelle
relative a tutte le caratteristiche di Marco.

Memoria autobiografica
La memoria autobiografica è una forma di memoria episodica nella quale gli eventi vengono
rievocati insieme all’indicazione del momento della vita dell’individuo in cui si sono verificati. In
genere le persone sono in grado di ricordare circa 220 racconti autobiografici relativi agli ultimi
vent’anni (numero di Galton), anche se vi sono discriminazioni tra diversi gruppi d’età. Ad
esempio, il fenomeno della reminescenza, riscontrato nei soggetti over 50, comporta un
ricordo più vivido dei primi anni di vita; mentre la cosiddetta amnesia infantile riguarda il
ricordo molto incerto e nebbioso dei primi cinque anni di vita. Secondo Erikson, la
reminescenza si spiega con il fatto che è proprio a fine adolescenza – prima età adulta che gli
individui compiono le scelte più importanti della vita (la scelta del lavoro, il matrimonio…), per
cui è naturale che tali ricordi siano più vividi. Un altro processo di offuscamento dei ricordi è
rappresentato, naturalmente, dal graduale declino della memoria con il passare del tempo.
Oltre ai ricordi personali, la memoria autobiografica contiene i ricordi dei principali fatti storici
che hanno influenzato e dato un significato agli eventi della nostra vita (memoria storica). Gli
eventi pubblici che vengono mediamente meglio ricordati sono quelli di cui si sono occupati i
media, e vengono in genere raggruppati in periodi (ad esempio, la presidenza Kennedy).

Invecchiamento e morbo di Alzheimer


Che la memoria peggiori con l’età è opinione comune, anche se vi sono differenze nel declino
della memoria semantica e di quella episodica: nei compiti di memoria episodica, infatti, gli
anziani risultano decisamente inferiori ai giovani, ma in quelli di memoria semantica, le parti si
invertono.
Uno dei peggiori disturbi della memoria è legato al morbo di Alzheimer, che danneggia la
conoscenza, vale a dire la memoria semantica. Infatti, i pazienti affetti da questa sindrome
hanno prestazioni peggiori rispetto ai soggetti di controllo in test quali: denominare il maggior
numero di membri di una categoria (ad esempio, animali), denominare l’oggetto rappresentato
da un disegno, generare definizioni di parole, … Ciò suggerisce che il morbo di Alzheimer
comporti tanto l’incapacità di recuperare conoscenze esistenti quanto il deterioramento di
conoscenze pre-esistenti.

• Capitolo 6: immagini visive e mappe cognitive

Immagini mentali e memoria


L’interesse per la produzione e l’uso di immagini mentali è iniziato a emergere nel corso degli
anni Sessanta. La ricerca contemporanea al riguardo è stata fortemente influenzata dal lavoro
di Paivio. Secondo la teoria di Paivio, il termine imagery viene definito come la facilità con cui
qualcosa suscita immagini mentali, le quali si riferiscono a esperienze come quelle di una figura

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o suono che si producono con la mente. L’approccio proposto da Paivio è chiamato teoria
della doppia codifica, poiché postula l’esistenza di due sistemi di coficia indipendenti: quello
verbale e quello non verbale. Un evento può essere descritto per mezzo di parole usando il
sistema verbale, oppure può essere immaginato usando il sistema non verbale. Le unità di cui
è composto il sistema verbale sono chiamate logogens, e contengono le informazioni di cui ci
serviamo quando usiamo le parole; le unità del sistema non verbale sono chiamate imagens, e
contengono le informazioni necessarie per generare immagini mentali. Gli imagens
corrispondono ad oggetti naturali e possono generare varie immagini mentali associate tra
loro. Al contrario degli imagens, i logogens operano in maniera sequenziale: in una frase le
parole vengono una dopo l’altra. La teoria di Paivio sostiene che le parole che suscitano con
facilità un’immagine mentale tendono ad essere concrete (ad esempio tavolo), al contrario di
quelle astratte (ad esempio intenzione). La concretezza misura il grado in cui una parola si
riferisce a qualcosa che può essere esperito per mezzo dei sensi. L’immaginabilità e la
concretezza possono essere misurate e risultano direttamente proporzionali: concetti ad alta
concretezza sono anche più facilmente immaginabili. Una delle prime ricerche condotte da
Paivio ha esaminato il ruolo dell’immaginabilità nell’apprendimento. I soggetti dovevano
apprendere sedici coppie di parole ciascuno: le coppie potevano essere del tipo concreto-
concreto, concreto-astratto, astratto-concreto, astratto-astratto. L’apprendimento è migliore
quando entrambe le parole sono concrete, peggiore quando entrambe sono astratte. La
rievocazione del secondo termine di ciascuna coppia è migliore se il primo termine è concreto.
Per queste ragioni, il collegamento tra termini astratti e correlativi concreti è frequentemente
utilizzato come mnemotecnica.
Una caratteristica delle immagini è la distintività: le immagini bizzarre possono infatti facilitare
il ricordo. In un esperimento di apprendimento di coppie di parole, ai soggetti venivano
presentati, insieme con i lemmi, dei disegni rappresentanti o un’immagine ordinaria o
un’immagine bizzarra (ad esempio, nel caso della coppia ciotola-dottore, l’immagine ordinaria
poteva essere di un dottore con una ciotola in mano, quella bizzarra di un dottore con una
ciotola in testa). I risultati dei test a cui i soggetti venivano sottoposti immediatamente dopo la
presentazione degli stimoli indicavano che la rievocazione era più accurata nel caso delle
immagini ordinarie; ma con l’aumentare dell’intervallo tra apprendimento e test le immagini
bizzarre si dimostravano più efficaci. Una delle possibili interpretazioni di questo fatto è che le
immagini bizzarre producano tracce di memoria dotate di distintività maggiore rispetto a quelle
ordinarie. La distintività è percepita anche nella vita comune: ad esempio nascondere oggetti
in luoghi particolari significa farvi affidamento per aiutare la rievocazione di luogo/oggetto. La
strategia che ci porta a nascondere gli oggetti in luoghi particolari costituisce un esempio di
falsa credenza a proposito del funzionamento della memoria, un fallimento della meta
memoria.
Un altro aspetto della nostra meta memoria è costituito dalla credenza che la memoria peggiori
col passare del tempo. In alcune circostanze, tentativi ripetuti di rievocazione possono portare
ad un miglioramento della rievocazione stessa. Questo fenomeno è chiamato ipermnesia: “il
miglioramento nel livello complessivo di rievocazione associato a intervalli di ritenzione
crescenti”. In un tipico esperimento tre gruppi di soggetti erano istruiti a tentare di ricordare
almeno quaranta parole tra le sessanta di una lista (rievocazione forzata). Al primo gruppo
venivano fornite semplicemente le parole, al secondo i disegni degli oggetti e al terzo le parole,
ma si chiedeva loro di formare delle immagini mentali. Dopo tre tentativi di rievocazione,

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solamente i gruppi 2 e 3 riuscivano a migliorare la prestazione. Talvolta l’ipermnesia può


essere più apparente che reale: in un esperimento, dopo una settimana di rievocazioni forzate,
i soggetti avevano migliorato la loro prestazione di circa dieci item. I soggetti erano poi stati
divisi in due gruppi ed i membri di uno dei due ipnotizzati. Ai soggetti venne chiesto di ripetere
l’esperimento ed i membri del gruppo sottoposto ad ipnosi riportarono un numero maggiore di
item addizionali, la maggiore parte dei quali però, sbagliati. L’avere falsi ricordi è definito
paramnesia.
Un altro stato psicologico interessante è la sinestesia, che sia ha quando uno stimolo proprio
di un senso (ad esempio un suono) suscita un’esperienza propria di un altro senso ad esempio,
un colore.

Rotazione mentale
Le immagini mentali possono avere un carattere dinamico, come dimostrano gli esperimento di
Shepard: ai soggetti venivano presentate coppie di disegni, in cui, in alcuni casi, i due disegni
rappresentavano lo stesso oggetto ruotato, in altri casi rappresentavano oggetti diversi. La
consegna sperimentale era quella di decidere se i disegni rappresentavano o meno lo stesso
oggetto, rispondendo mediante la pressione di una leva con la mano destra o sinistra. La
latenza della risposta veniva misurata. I tempi di reazione sono tanti più grandi quanto
maggiore è la rotazione angolare necessaria per allineare gli oggetti rappresentati: i soggetti
realizzano un vero e proprio lavoro di rotazione mentale.
Kosslyn ha realizzato una serie di esperimenti volti ad esplorare la relazione tra percezione ed
immaginazione. In uno di questi, i soggetti dovevano memorizzare la mappa di un’isola, in cui
vi erano differenti luoghi a distanze diverse gli uni dagli altri. Ai soggetti veniva poi chiesto di
formare un’immagine mentale della mappa e perlustrare i vari luoghi immaginando “un
puntino nero che si muoveva velocemente lungo il percorso più breve”. I soggetti dovevano
premere un bottone una volta giunti a destinazione: il tempo necessario per passare da un
luogo all’altro era proporzionale alla distanza tra questi luoghi nella mappa.

Immagini mentali e figure reali


L’esperienza che proviamo quando immaginiamo una scena è simile a quella che proviamo
quando guardiamo una figura: le immagini sono così considerate come figure nella mente.
Tra le immagini si possono distinguere le icone, istantanee delle informazioni contenute nello
stimolo visivo e le immagini eiedetiche che, a differenza delle icone che decadono
velocemente, possono resistere per un minuto o più. Le immagini eiedetiche sono situate nel
mondo esterno, non nella testa della persona, e le due descrizioni sono più rapide e più
affidabili dei resoconti basati sulla memoria; esse sono particolarmente frequenti tra i bambini.
Le immagini mentali possono servire da previsioni. Ai soggetti veniva chiesto di immaginare
una lettera sovrapposta ad un reticolo e su di esso veniva presentato, per un brevissimo
intervallo, un probe, un pallino nero usato come sonda. Il compito dei soggetti era quello di
decidere che il probe era stato o meno presentato. La presenza del probe veniva rilevata molto
più spesso se esso cadeva nella parte di reticolo coperta dalla lettera immaginaria. La presenza
di un’immagine mentale non migliora la sensibilità nella detezione, ma rende i soggetti meglio
preparati ad identificare la presenza di uno stimolo.
La lettura di una storia suscita un’enorme quantità di immagini mentali. Quando si legge una

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storia, tipicamente, si costruisce una rappresentazione immaginaria dell’ambiente descritto nel


testo: alcune cose sono di fronte, altre dietro, alcuno sopra, altre sotto. È stato dimostrato che
ci vuole poco tempo per situare qualcosa sopra o sotto di noi, e meno tempo per situare
qualcosa davanti piuttosto che dietro – probabilmente perché bisogna immaginare di girarsi.
Invece, situare qualcosa a destra o sinistra è un’operazione relativamente lenta, si pensa
perché normalmente immaginiamo di trovarci in posizione eretta, per cui è più semplice fare
distinzioni nelle due dimensioni asimmetriche (davanti-dietro, sopra-sotto) piuttosto che in
quella simmetrica (sinistra-destra).

Mappe cognitive e modelli mentali


Il primo a parlare di mappe cognitive fu Tolman, che credeva che l’informazione proveniente
dall’ambiente venisse elaborata in modo tale da produrre una mappa che determina il nostro
comportamento. Le differenze di età nell’uso delle mappe cognitive sono state studiate nel
confronto tra un gruppo di donne giovani e un gruppo di donne anziane riguardo la loro
conoscenza della collocazione della merce al supermercato. Ai soggetti veniva data una lista
della spesa e veniva chiesto loro di farla in due supermercati, uno familiare e uno no. Mentre le
donne anziane erano più rapide nel supermercato familiare, le giovani impiegavano all’incirca
lo stesso tempo in entrambi i supermercati: questo indica che le persone giovani si orientano
più rapidamente in un nuovo ambiente.

• Capitolo 7: Concetti

Approccio classico
Alcuni concetti possono essere costituiti semplicemente da una congiunzione di attributi. Altri
concetti sono più complessi. Per appartenere ad un concetto disgiuntivo, per esempio,
l’oggetto deve possedere una qualsiasi delle due classi di attributi. Per capire perché un
oggetto costituisce un caso positivo di concetto disgiuntivo è necessario sapere quali sono gli
attributi rilevanti in base ai quali il concetto è stato definito e quali sono invece gli attributi
irrilevanti. Se un attributo fosse presente in tutti i casi positivi del concetto, allora si potrebbe
concludere che questo è un attributo rilevante – la sua presenza è necessaria affinché qualcosa
possa essere considerato come un membro del concetto. Il processo di inclusione degli attributi
ricorrenti e di esclusione degli attributi non ricorrenti è detto di astrazione. Gli attributi
ricorrenti, o caratteristiche dei singoli membri di una famiglia, andrebbero a definire il concetto
di somiglianza della famiglia. Nello studio della formazione dei concetti, Bruner ha usato
compiti sia di selezione sia di ricezione. Prendendo ad esempio un semplice concetto
congiuntivo come un quadrato nero, lo sperimentatore presenta ai soggetti un caso positivo
del concetto, ad esempio, una carta con un quadrato nero e un bordo. I soggetti devono
scegliere una qualsiasi delle altre carte per scoprire il concetto usato dallo sperimentatore che
dovrebbe confermare o smentire le scelte dei soggetti. Questo è un compito di selezione,
perché sono i soggetti a scegliere gli stimoli. Per scoprire il concetto, i soggetti utilizzano infatti
una strategia di focalizzazione conservativa, perché si focalizzano su un attributo e scelgono gli
stimoli che variano solo sulla dimensione rappresentata da questo attributo. Al contrario, nel
caso di una strategia di tipo olistico, i soggetti inizialmente assumono che il concetto sia
definito in base a tutti gli attributi presenti nel caso positivo del concetto. Se lo stimolo

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successivo è coerente con questa ipotesi, l’ipotesi viene conservata, altrimenti ne viene
formata una nuova. Nel caso di una strategia di tipo elementaristico, la prima ipotesi è
formulata nei termini di un sottoinsieme degli attributi del caso positivo del concetto, che viene
mantenuta finché non si trovano evidenze contrastanti.

Apprendere regole complesse


Reber e collaboratori hanno studiato il processo di apprendimento di grammatiche artificiali.
Reber ha distinto tra apprendimento implicito ed esplicito. Ai soggetti di un primo gruppo
sperimentale venivano presentate delle sequenze di lettere con la consegna di memorizzarne il
più possibile. A questi soggetti non era stato spiegato che le sequenze di lettere erano state
generate in base ad un serie di regole (condizione di apprendimento implicito). Al secondo
gruppo sperimentale invece veniva detto che le lettere erano generate in base a delle regole e
che il loro compito era scoprirle (condizione di apprendimento esplicito). Reber ha scoperto che
anche nella condizione implicita i soggetti erano in grado di apprendere una notevole quantità
di regole, senza fare ricorso ad alcun processo di formulazione e verifica. Questa conoscenza
viene definita tacita: i soggetti sapevano qualcosa senza essere in grado di dire esattamente
cosa sapessero. Questo stesso principio avviene nell’apprendimento della grammatica da parte
dei bambini, che formulano delle frasi grammaticalmente corrette pur non avendo mai studiato
grammatica italiana.

La natura dei concetti secondo Wittgenstein


Wittgenstein ha paragonato i membri una categoria alle singole fibre che costituiscono un filo o
una corda. Nessuna singola fibra percorre il filo dall’inizio alla fine. Le singole fibre, piuttosto, si
sovrappongono le une alle altre. I membri di una categoria possono non avere in comune le
stesse caratteristiche. Gli attributi posseduti dai membri di una categoria costituiscono invece
una complicata rete di caratteristiche che si sovrappongono le une alle altre. Questo aspetto
rappresenta una parte di quello che si intende quando si fa riferimento alla nozione di
somiglianza di famiglia tra membri di un concetto. I membri individuali di un concetto possono
sfumare gli uni negli altri senza che il concetto medesimo abbia confini precisi.

Rosch e il carattere prototipico dei concetti


In alcuni dei suoi primi lavori, Rosch ha studiato la struttura delle categorie dei colori. Alcuni
colori costituiscono un esempio migliore di un dato colore di altri. Alcuni dei colori che noi
descriviamo usando la parola “rosso” sono più “rossi” di altri. Alcuni hanno un carattere
maggiormente prototipico di altri. Alcune razze di cani (per esempio i cani da riporto) sono più
rappresentativi della categoria “cane” di altre razze di cani (per esempio i pechinesi). A questo
riguardo, i concetti naturali sono differenti dai concetti artificiali. La Rosch ha proposto
un’interpretazione molto influente della natura dei concetti. Rosch ha individuato due principi
che regolano l’so che gli individui fanno dei concetti: il principio dell’economia cognitiva e
quello della struttura del mondo percepito. Il primo si riferisce al tentativo di bilanciare due
tendenze contrapposte: la prima tendenza è quella di usare le categorie in modo tale da
massimizzare la quantità di informazioni che esse ci forniscono (questo scopo può essere
raggiunto usando quante più categorie è possibile). Il principio della struttura del mondo
percepito si riferisce al fatto che particolari combinazioni di attributi ricorrono nel mondo più

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frequentemente di altre (per esempio, se un animale è alato esso tende anche ad avere
piume): attributi correlati.
Secondo Rosch, a causa di questi principi, i concetti finiscono per essere organizzati all’interno
di un sistema caratterizzato da dimensioni verticali e orizzontali. La dimensione verticale si
riferisce all’inclusività di una categoria. La categoria “mobile” per esempio, è più inclusiva della
categoria “sedia” la quale, a sua volta, è più inclusiva della categoria “sedia da cucina”. La
dimensione verticale, in questo modo, fa riferimento alla generalità di un concetto. I tre livelli
sono chiamati sovraordinato, base e subordinato. Le categorie a livello base avevano un
numero maggiore di attributi in comune di quanti ne avessero le categorie a livello
sovraordinato. Rosch ha scoperto che i bambini sono in grado di usare in maniera accurata le
categorie a livello base prima delle categorie a livello sovraordinato. “Sedia” viene acquisito
prima di “mobile”. Il livello base è generalmente quello più utile per la classificazione degli
oggetti.
La dimensione orizzontale, d’altro canto, distingue fra differenti concetti allo stesso livello di
inclusività. “Cane” e “gatto”, per esempio, sono concetti dotati approssimativamente dello
stesso livello di generalità. All’interno di ciascun livello della gerarchia categoriale alcuni
esemplari sono più proto tipici di altri. Rosch ha chiesto ai soggetti di valutare in che misura gli
esemplari di una categoria rappresentino la categoria nel suo insieme. Gli esemplari proto tipici
di una categoria condividono molti attributi con gli altri membri della medesima categoria e
pochi attributi con i membri di altre categorie. La dimensione orizzontale della struttura
categoriale è chiarita dagli esperimenti precedenti nel senso che i concetti hanno una struttura
graduata se alcuni membri della categoria sono miglior esempio della categoria stessa che non
altri e, inoltre, i confini della categoria non sono rigidamente definiti.

Il modello delle tracce di memoria di Hintzman


Il modello delle tracce di memoria multiple proposto da Hintzman è basato sull’assunzione che
la traccia di ciascuna esperienza individuale venga registrata in memoria. Per quanto spesso un
evento si ripeta, ogni qual volta se ne ha esperienza viene registrata una traccia di memoria.
Le tracce di memoria sono dotate di proprietà corrispondenti a quelle dell’esperienza. Hintzman
distingue fra memoria primaria e secondaria. La memoria primaria si riferisce a tutto ciò di cui
gli individui hanno esperienza in un dato momento, mentre la memoria secondaria si riferisce
alle tracce di memoria che sono state create dalle esperienze avute dagli individui. La memoria
secondaria può essere attivata per mezzo di un probe (sonda) a partire dalla memoria
primaria. Le tracce di memoria vengono attivate nella misura in cui essere sono simili al probe.
Si ritiene che le tracce di memoria attivate restituiscano un’eco alla memoria primaria. L’eco è
costituito dai contributi di tutte le tracce di memoria che sono state attivate. Se vi sono molte
tracce di memoria simili all’esperienza corrente, allora in risposta ad un probe di memoria, un
individuo può sentire un intero coro di voci anziché una voce sola. Hintzman è stato in grado di
spiegare i risultati di esperimenti classici, come per esempio quelli di Posner e Keele. In questi
esperimenti, ai soggetti venivano mostrate delle distorsioni di prototipi costituiti da
configurazioni di punti. Nella prima fase dell’esperimento i soggetti imparavano a classificare le
distorsioni, senza mai vedere i prototipi. Nella seconda fase dell’esperimento, i soggetti
dovevano classificare una nuova seria di configurazioni fra cui vi erano i prototipi, le
configurazioni originali e alcune nuove distorsioni delle configurazioni prototipiche. I soggetti
erano in grado di classificare accuratamente le configurazioni prototipiche anche se essere non

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erano mai state viste in precedenza.


Una interessante conseguenza dell’approccio di Hintzman è rappresentata dal fatto che una
volta che se ne ha esperienza nella memoria primaria, un’eco può lasciare una traccia di sé
nella memoria secondaria. In questo modo, anche esperienze relativamente astratte possono
essere rievocate direttamente. Se ciò è vero, allora la rievocazione di materiale astratto può
essere basata unicamente sulle tracce di memoria, e non vi è alcun bisogno di postulare
l’esistenza di concetti al di là delle tracce stesse.

Barsalou e le categoria “ad hoc”


Le categoria ad hoc possono essere composte da membri che non hanno nessun attributo in
comune e possono non essere mai state concepite in precedenza. Barsalou ha mostrato che le
categorie ad hoc hanno una struttura graduata. In un esperimento, i soggetti dovevano
valutare il grado di appartenenza categoriale di un serie di item. Barsalou ha suggerito che un
importante fattore a questo proposito è la rilevanza dell’esemplare per la realizzazione dello
scopo che definisce la categoria. Si supponga di creare la categoria ah hoc di quello che non si
deve mangiare durante una dieta. L’attributo “con molte calorie” è rilevante per questa
categoria, mentre non lo sono molti altri attributi a cui solitamente si presta attenzione quando
si ha a che fare con il cibo.
La capacità di classificare gli oggetti in più modi, nei termini delle categorie base e nei termini
delle categorie ad hoc, potrebbe rappresentare un aspetto importante del pensiero creativo.
“La capacità di percepire queste nuove organizzazioni può essere necessaria per risolvere
nuovi problemi o per affrontare vecchi problemi in modo diverso”.

Lakoff e i modelli cognitivi idealizzati


Secondo Lakoff, il principio più generale è il principio del dominio dell’esperienza: se alcune
esperienze sono associate con A allora è normale che esse vengano classificate insieme ad A.
Il principio del dominio dell’esperienza consente l’associazione fra oggetti o eventi che sono in
rapporto gli uni con gli altri in una particolare cultura. Se ad essere impegnati nell’attività della
caccia e della pesca sono soprattutto gli uomini, allora gli uomini e la maggior parte degli
animali tenderanno ad essere classificati nella medesima categoria. Lakoff ha proposto due
altri principi più specifici, ovvero il principio mito-e-credenza e il principio della proprietà
importante. Il primo consente l’associazione tra oggetti che si trovano in relazione gli uni con
gli altri per effetto di miti o credenze; il secondo afferma che, se un oggetto possiede una
proprietà particolarmente importante, questo oggetto può entrare a far parte di una classe
diversa da quella a cui sarebbe normalmente assegnato
Gli individui dispongono di modelli cognitivi idealizzati che vengono modificati per far fronte a
circostanza particolari. I modelli cognitivi idealizzati non sono del tutto adeguati per descrivere
il mondo reale e, per questa ragione, i sistemi concettuali vengono modificati per meglio
adattarsi alle condizioni nelle quali gli individui vengono a trovarsi.

Capitolo 8: Linguaggio

Il primo a svolgere importanti ricerche sl linguaggio è stato Wundt, specialmente per quanto
riguarda la relazione tra l’esperienza e le parole che vengono usate per descriverla. Le relazioni

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tra le singole componenti che costituiscono un’esperienza sono state da lui descritte tramite
diagrammi ad albero.

Chomsky e la grammatica trasformazionale


Chomsky è uno dei più importanti ricercatori di questo secolo per ciò che concerne lo studio del
linguaggio. Considerando il problema della produzione di frasi, egli ha notato che, in qualunque
lingua, non vi è limite al numero di nuove frasi potenzialmente generabili. Per far si che tali
frasi vengano create è però necessaria una grammatica, in grado di generare un insieme
infinito di frasi a partire da un numero finito di regole. Per comprendere la struttura della
lingua è dunque necessario comprendere quella della grammatica. Tuttavia, una frase
grammaticalmente corretta non è necessariamente dotata di senso, in quanto i processi che
rendono grammaticale una frase sono molto diversi da quelli che le assegnano un significato.
Chomsky ha studiato la natura della grammatica nel caso di una lingua naturale (quella
inglese) e ha fatto notare che una grammatica a stati finiti –in cui le parole vengono generate
sequenzialmente- non può generare tutte le frasi di una lingua. Le grammatiche a stati finiti
sono infatti troppo semplici per rendere conto della complessità di una lingua naturale. Questa
può essere illustrata facendo riferimento alle frasi che contengono al loro interno delle
proposizioni subordinate. L’alternativa di Chomsky alle grammatiche a stati finiti è quella di un
processo top-down che faccia uso di regole di struttura sintagmatica e di trasformazioni
grammaticali. Per mezzo di queste regole possono essere costruite molte frasi diverse, la cui
generazione è rappresentabile mediante un diagramma ad albero in cui ciascuno stadio del
processo costituisce una stringa e la sequenza finale delle parole generate è chiamata stringa
finale. Secondo l’autore, occorre anche postulare trasformazioni grammaticali che operano su
intere stringhe e le trasformano in altre stringhe, come accade per esempio con la
trasformazione passiva. La trasformazione passiva è un esempio di trasformazione facoltativa,
non necessaria cioè affinché la frase sia grammaticale. Le frasi prodotte senza l’ausilio di
trasformazioni facoltative sono state definite nucleari. Altri concetti fondamentali introdotti da
Chomsky sono quelli di competenza ed esecuzione e la distinzione tra struttura profonda e
struttura superficiale.
La competenza linguistica consiste nell’interiorizzazione di una serie di regole che mettono in
relazione suoni e significati, per mezzo delle quali un individuo è in grado di comprendere ed
usare il linguaggio. L’esecuzione linguistica non è tuttavia determinata unicamente dalla
competenza, ma, secondo Chomsky, anche da fattori cognitivi come la memoria e la
comprensione che un individuo possiede della situazione in cui si trova.
Per quanto riguarda la struttura della competenza linguistica, essa è, secondo Chomsky, in
larga parte innata: la Grammatica Universale (GU). Una parte della GU è la sintassi
universale, che fornisce le regole per mezzo delle quali i significati possono essere trasformati
in parole. Il significato è collocato a livello della struttura profonda, mentre le parole a livello
della struttura superficiale. La distinzione tra questi due livelli consente di spiegare molti
fenomeni, tra cui quello delle frasi ambigue (ad esempio “Fruit flies like a banana” = “Alle
mosche della frutta piace una banana” o “Il frutto vola come una banana”).

L’ipotesi innatista
Chomsky credeva che la competenza linguistica fosse innata, ipotesi che viene avvalorata dal

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fatto che l’insieme di enunciati cui è sottoposto il bambino in età evolutiva costituisce un
campione inadeguato delle strutture della lingua, insufficiente per mettere in grado i bambini
a usare il linguaggio in maniera efficace (povertà dello stimolo). Di conseguenza, si ritiene che
i bambini abbiamo un dispositivo per l’acquisizione del linguaggio, il LAD (Language Acquisition
Device) che contiene i principi della GU.
L’ipotesi innatista ha suscitato parecchie critiche: di non essere stata formulata in maniera
sufficientemente chiara per essere verificata sperimentalmente, e di non considerare il
linguaggio “particolarmente elementare” con cui i genitori comunicano con i propri figli.
Una proprietà cruciale dell’attuale approccio innatista va sotto il nome di approccio principi-e-
parametri e prevede che l’acquisizione del linguaggio avvenga attraverso una specificazione di
parametri: la GU possiede una serie di interruttori di controlli che possono assumere differenti
parametri (aspetti universali del linguaggio che possono assumere determinati valori all’interno
di una limitata serie di alternative). Ad esempio, se in inglese il verbo precede sempre –
invariabilmente- l’oggetto, in tedesco avviene il contrario. La posizione del verbo è dunque un
parametro che viene specificato in maniera diversa nel caso di una lingua specifica.
Bickerton ha proposto una versione di facoltà innata nota come ipotesi del bioprogramma
per il linguaggio, distinguendo tra le protolingue (come il pidgin) e le lingue vere e proprie. Il
pidgin era un gergo anglo-cinese usato dai portuali come mezzo di comunicazione tra le due
lingue ed in cui le la disposizione delle parole era relativamente poco strutturata. Bickerton ha
sottolineato come i figli dei marinai che parlavano il pidgin fossero, ad una sola generazione di
distanza, in grado –nonostante l’ambiente culturale povero- di parlare il creolo, un dialetto con
la struttura grammaticale dell’inglese e molto più complesso del pidgin. Il pidgin e il creolo
corrispondono dunque a due stadi diversi nello sviluppo del linguaggio, assimilabili a quelli del
processo evolutivo dei bambini nell’apprendimento del linguaggio (stadio olofrastico e
telegrafico).

Comunicazione e comprensione
Un aspetto critico della psicologia del linguaggio è la comprensione della lingua scritta e parlata
– su cui influisce molto anche il contesto. Un’utile distinzione a questo proposito è quella tra
informazione data ed informazione nuova. Coloro che sono coinvolti in una conversazione sono
detti entrare in contatto dato-nuovo per mezzo del quale il parlante aggiunge nuove
informazioni a quelle che già possiede l’ascoltatore. La comprensione sarebbe infatti
impossibile se colui che parla si limitasse ad introdurre nuove informazioni senza metterle in
relazione con ciò che l’ascoltatore già conosce. Inoltre, per comprendere i pensieri che il
parlante vuole comunicare, l’ascoltatore deve operare una decodificazione: la frase “Il caffè mi
terrebbe sveglio”, ad esempio, può essere interpretata in maniera positiva o meno, a seconda
delle circostanze. Grice ha analizzato il processo comunicativo nei termini di intenzioni ed
inferenze: colui che parla intende informare, colui che ascolta inferisce ciò che il parlante
intende. Per facilitare questo processo, i partecipanti alla conversazione devono rispettare il
principio di cooperazione, dato da quattro regole, o massime conversazionali (sulla base
delle quali vengono fatte le inferenze): non dire più del necessario (massima della quantità),
essere veritieri (massima della qualità), essere pertinenti (massima della relazione) ed essere
chiari (massima del modo).
Il linguaggio può essere utilizzato anche in modo figurato, come nel caso dell’ironia, una
figura retorica in cui ciò che si vuole dire è esattamente l’opposto di ciò che si dice. Essa

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comporta l’uso della simulazione, in quanto postula un duplice destinatario: un primo che
ascolta e non capisce, ed un secondo che è consapevole sia del surplus di significato sia
dell’incomprensione di coloro che si limitano al significato letterale. Se si interpreta l’enunciato
ironico secondo le massime di Grice si perviene alla teoria standard dell’ironia, secondo la
quale l’ascoltatore svolge due codifiche consecutive, una letterale ed una “reale”. Infatti, in
base al principio qualità, l’ascoltatore si aspetta un assunto veritiero e, se si accorge che esso è
invece contraddittorio, lo interpreta diversamente. Una teoria alternativa è quella del
promemoria ecoico, per cui gli ascoltatori intuiscono l’ironia dell’enunciato riconoscendo
l’allusione a pensieri ed opinioni di una persona diversa da colui che parla.

Vygotskij e il contesto sociale del linguaggio


Vygotskij era particolarmente interessato alla relazione tra pensiero e linguaggio; credeva
infatti che al secondo ano di vita i bambini inizino a pensare ciò che dicono. Egli ha esaminato
criticamente quello che Piaget definiva linguaggio egocentrico (che non tiene n conto il punto di
vista dell’asoltatore), sostenendo che esso non scompare –come sosteneva lo psicologo
svizzero- con l’avvento della pro socialità, ma diviene un linguaggio interno, che gioca un ruolo
importante nella regolazione del pensiero e costituisce una forma di rappresentazione
condensata. Una funzione particolarmente importante del linguaggio interno sarebbe la
pianificazione delle operazioni cognitive e dei pensieri.
La nozione più celebre introdotta da Vygotskij è però quella di zona di sviluppo prossimale,
la distanza tra il livello di sviluppo attuale, che può essere stabilito in base al rendimento nei
compiti di soluzione indipendente di problemi, ed il livello di sviluppo potenziale, che può
essere stabilito in base al rendimento nei compiti di soluzione sotto la supervisione di adulti o
compagni. Quando un bambino esamina un compito difficile sotto la guida di un’altra persona,
questa offre indicazioni e strategie verbali, che il bambino incorpora e fa proprie. Così, nel
processo di acquisizione del linguaggio, il bambino fa uso delle conoscenze di coloro che già
conoscono il linguaggio. La comunicazione tra la guida e il bambino ha luogo entro la zona di
sviluppo prossimale: non così complessa da creare confusione, ma neppure così semplice da
rendere l’apprendimento non necessario. Bruner ha sostenuto che qualsiasi meccanismo di
acquisizione del linguaggio deve essere integrato da un sistema di supporto per l’acquisizione
del linguaggio, che aiuti il bambino a muoversi attraverso la zona di sviluppo prossimale per
giungere ad un completo controllo della lingua.

Competenza testuale
La competenza testuale ci consente di partecipare a certe forme del discorso, ci consente di
parlare dell’atto linguistico, delle domande, delle risposte e corrisponde alla capacità di usare
un metalinguaggio. Il riferimento alle proprietà testuali del messaggio linguistico rende
possibile la distinzione tra testo orale e scritto e le interpretazioni che vengono date a questo
testo. La competenza testuale non è una condizione tutto-o-nulla. Il grado di esposizione a
testi scritti varia molto da persona a persona ed è correlato con le abilità cognitive relative al
vocabolario e alla fluidità verbale.

Lingua e cultura
Ogni cultura ha la sua lingua: se due lingue sono molto diverse fra loro, allora anche

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l’esperienza del mondo di coloro che parlano queste lingue sarà diversa (relatività linguistica).
Il principio della relatività linguistica significa che coloro che si servono di sistemi grammaticali
molto diversi non possono essere considerati come osservatori equivalenti ma, invece, devono
essere considerati come individui dotati di una diversa prospettiva sul mondo. Whorf ha
raggruppato le lingue europee in un gruppo e le ha poste in contrasto con le lingue
amerindiane. Nelle prime lingue prevale la formula forma+sostanza, che comprende i nomi di
sostanza. Essi denotano sostanze informi: la parola “pane”, ad esempio, non fornisce alcuna
indicazione a proposito della grandezza della forma del pane. I nomi di sostanza fanno
riferimento a categorie non delimitate da confini precisi. Queste categorie non compaiono
invece nelle lingue amerindiane. Un altro famoso esempio presentato da Whorf è quello degli
eschimesi che hanno ben tre nomi differenti per designare la neve.
Anche la percezione dei colori varia da cultura a cultura: in un esperimento di Brown ad un
gruppo di giudici veniva dato il compito di selezionare ventiquattro colori, otto dei quali
giudicati come esempi ideali dei colori prototipici (rosso, verde, giallo, blu, …). A questo punto,
veniva chiesto a soggetti inglesi di assegnare un nome a ciascuno dei ventiquattro colori: i
colori centrali venivano nominati più velocemente, gli altri più lentamente e in maniera non
sempre concorde. Altri studi hanno identificato undici colori fondamentali, che compaiono nella
storia di ciascuna lingua secondo una sequenza invariante: dapprima il bianco e il nero, poi il
rosso, il verde e il giallo, il blu e infine il marrone. Questa gerarchia è stata spiegata attraverso
le maggiori caratteristiche sinestetiche dei primi colori della scala.

Capitolo 9: Soluzione dei problemi

Wertheimer e il pensiero produttivo


Il pensiero produttivo è stato esplicato da Wertheimer attraverso il problema della finestra
dell’altare. Immaginando una finestra circolare su un altare che deve essere decorata con
dell’oro, bisogna scoprire la quantità di oro necessaria, sapendo che l’area è delimitata da due
linee verticali parallele tangenti alla circonferenza della finestra e di lunghezza uguale al
diametro della finestra circolare. Queste linee sono racchiuse da due semicerchi. Gli adulti a cui
era stato sottoposto questo problema l’avevano interpretato come un problema scolastico di
geometria: trovavano l’area del cerchio e dei semicerchi ma entravano in difficoltà nel calcolare
l’area delle quattro parti rimanenti. Un bambino invece adottò un approccio diverso: dopo aver
osservato la figura si rese conto che i semicerchi potevano essere inseriti perfettamente
all’interno della finestra. Da ciò risulta che l’area richiesta è semplicemente l’area di un
quadrato. Wertheimer distinse due tipi di pensiero: quello strutturalmente cieco, degli adulti, e
quello produttivo, ciò sensibile ai requisiti strutturali del particolare problema che doveva
essere risolto.

Duncker, fissità funzionale e insight


Anche Duncker si interessò ai processi di soluzione ai problemi. Il modo più semplice per
cercare di risolvere un problema è quello di fare ricorso alla memoria per determinare in che
modo gli oggetti possono essere usati per risolvere il problema (analisi della situazione).
Potenzialmente, ciascun oggetto, può eseguire molteplici funzioni, talvolta, capita di non

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essere in grado di rendersi conto che uno specifico oggetto possa eseguire la funzione
necessaria a risolvere il problema: questo fenomeno è detto fissità funzionale. Un esempio di
fissità funzionale è fornito dal problema delle monete. Immaginando di avere otto monete, di
cui una contraffatta e perciò più leggera delle altre, e una bilancia a due bracci, lo scopo è
quello di scoprire la moneta contraffatta usando la bilancia solo due volte. La maggior parte
degli individui pensa di dividere le monete in due gruppi da quattro, ma questo procedimento
comporterebbe almeno tre pesate. La soluzione di questo problema richiede invece un
procedimento inconsueto, che comporta la divisione in due gruppi da tre e un gruppo da due.
Questa procedura inusuale rende però necessario superare la fissità funzionale.
La psicologia del pensiero spesso ha a che fare con oggetti mentali. Un’immagine, per
esempio, è un oggetto mentale. Se vi si chiedesse quale è il colore del tetto di casa vostra
potreste evocare un’immagine mentale (pensiero analitico). Nel pensiero analitico, la
conclusione non contiene alcuna informazione che non sia già contenuta nelle premesse. Nel
pensiero sintetico, invece, la conclusione non è contenuta nelle premesse dal momento che
non è necessaria alla costruzione dell’oggetto mentale corrispondente. Il pensiero sintetico
permette di ricavare da un modello mentale più di quello che abbiamo usato per la sua
costruzione. L’insight non è altro che il prodotto del processo che ci porta a scoprire ciò che
non conosciamo.

L’insight esiste veramente?


Il fenomeno dell’insight è stato indagato attraverso il problema dei nove punti, nel quale i
soggetti devono collegare nove punti per mezzo di quattro linee rette senza mai sollevare la
penna dal foglio. Il processo di soluzione può essere facilitato dicendo ai soggetti che le linee
possono essere tracciate anche al di fuori dell’area delimitata da punti. Molti soggetti però, si
dimostrano incapaci di risolvere il problema anche dopo aver ricevuto questo suggerimento.
L’approccio gestaltista ritiene che, una volta rimossa la fissità, la soluzione emerga tutta di un
tratto in un lampo di inside, oppure come conseguenza di un processo in cui gli stadi successivi
convergono velocemente verso la soluzione. Recentemente si è cercato di distinguere tra i
problemi la cui soluzione è accompagnata da insight e problemi la cui soluzione non lo è. I
problemi senza insight vengono infatti risolti in maniera graduale e, nel corso del processo di
soluzione, i soggetti dovrebbero rendersi conto dei progressi effettuati, provando una
sensazione di vicinanza tanto più grande, quanto più progrediscono verso la soluzione del
problema. Questo non avviene nel caso di problemi di insight, in cui la soluzione compare
improvvisamente. La sensazione di conoscenza e quella di vicinanza riflettono i giudizi dei
soggetti nei confronti delle conoscenze possedute. Tali giudizi costituiscono esempi di
metacognizione ovvero della consapevolezza che abbiamo del funzionamento dei nostri
processi cognitivi.

Rigidità e atteggiamento mentale passivo


Come osservato con il problema dell’altare, talvolta, l’esperienza precedente può ostacolare la
soluzione di semplici problemi. Luchins ha condotto una serie di esperimenti che dimostrano
come la ripetizione di un particolare processo di soluzione possa rendere un individuo capace di
rendersi conto dell’esistenza di processi di soluzione alternativi. Una delle dimostrazioni da lui
forniti è quella del problema dei tre vasi di di liquidi. Immaginando di avere tre recipienti vuoti,

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di capacità, rispettivamente, di 21, 127, 3 litri, lo scopo è quello di capire come usare questi
recipienti per ottenere un volume di 100 litri d’acqua. La risoluzione del problema prevede
l’applicazione della regola B-(A+2C). Dopo aver risolto cinque problemi con la medesima
procedura, i soggetti sviluppavano un set, un modo specifico di rispondere a una data
situazione, cosicché lo utilizzavano anche in quelle circostanze in cui sarebbe bastato un
numero inferiore di passaggi. Le persone che manifestano il set hanno un atteggiamento
mentale passivo, cioè agiscono come se la situazione avesse una sola interpretazione possibile.
Al contrario avere un atteggiamento mentale attivo significa impegnarsi nella ricerca di nuove
possibilità, evitando la rigidità.

Intelligenza artificiale e soluzione di problemi


Esistono programmi per calcolatori che risolvono i problemi in modo intelligente, così come lo
fanno gli essere umani. Questi programmi costituiscono degli esempi di intelligenza artificiale.
Un’euristica è una procedura di soluzione utile. Le euristiche si contrappongono agli algoritmi,
ovvero alle procedure che garantiscono il raggiungimento della soluzione. Una divisione, per
esempio, è un algoritmo. Benché gli algoritmi funzionino sempre, essi richiedono a volte tempi
di soluzione molto lunghi. Le euristiche, invece, sono delle regole pratiche, delle scorciatoie che
consentono di arrivare in modo efficiente ad una soluzione. In primo luogo è necessario capire
il problema. La comprensione può essere facilitata per mezzo di metodi diversi. Ciò che è
importante è che la formulazione del problema renda chiaro al solutore di problemi, l’obiettivo
del problema. Per fare questo, può essere necessario tracciare un diagramma, per esempio.
Una volta compreso ciò che il problema richiede è possibile passare al livello seguente, quella
della formulazione di un piano che guidi verso la soluzione. Ma possono essere usati metodi
diversi. Il solutore di problemi potrebbe cercare delle analogie tra il problema presente e i
problemi di cui conosce la soluzione, per esempio, per poi cercare di applicare i procedimenti di
soluzione conosciuti al problema presente (esecuzione del piano. Le operazione necessarie a
questo proposito devono essere eseguite in maniera accurata, prestando attenzione ai dettagli.
Infine, il solutore di problemi deve esaminare la soluzione ottenuta.
Gli psicologi hanno molto spesso studiato un semplice gioco, chiamato Go-Moku. Il Go-Moku è
giocato su un reticolo: si tratta di un gioco simile al filetto. L’obiettivo è quello di allineare
cinque X oppure cinque O. Il programma per pc fa uso di una struttura di dati e di una
funzione di valutazione. Nel caso di un gioco semplice come questo, il programma può valutare
tutte le mosse possibili in qualsiasi stadio del gioco. Di conseguenza, il programma fa uso di un
algoritmo, ovvero la calcola la migliore fra tutte le mosse possibili. Lo spazio del problema
consiste del modo in cui il problema è rappresentato, compreso lo scopo da raggiungere e i
vari modi di trasformare la situazione data nella soluzione.
Lo studio del processo di ricerca della soluzione ha spesso fatto ricorso all’analisi di problemi
giocattolo: sono quel tipo di rompicapo che si potrebbe acquistare in un negozio di giocattoli. È
vantaggioso analizzare questo tipo di problemi perché essi possiedono una struttura conosciuta
e perché consentono di raccogliere informazioni interessanti sulle strategie di soluzione
utilizzate dai soggetti. Uno dei problemi che sono stati studiati in maniera approfondita da
Simon e dai suoi collaboratori è quello della torre di Hanoi. Tre anelli concentrici (piccolo,
medio e grande) sono sistemati su uno dei pioli raffigurati nella figura. Il compito è quello di
trasferire gli anelli dal piolo A al piolo C. Può essere mosso solo un anello alla volta e un anello
non può essere sistemato sopra un anello più piccolo. In questo modo, l’anello piccolo può

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essere sistemato sul piolo B ma l’anello medio non può essere sistemato su quello piccolo.
Benché lo scopo del problema sia quello di spostare tutti gli anelli del piolo A a quello C, questo
problema può essere scomposto in una serie di sottoscopi. Come è possibile programmare un
calcolare per risolvere il rompicapo della torre di Hanoi? Il GPS fa uso di regole di produzione,
costituite da una condizione e da un’azione. Se la condizione rappresentata dalla soluzione del
problema viene raggiunta, allora il processo di soluzione viene concluso. Un problema è risolto
se non vi è differenza tra lo stato raggiunto e lo stato meta. Una parte essenziale del GPS è
costituita proprio dall’analisi delle differenze tra lo stato attuale del problema e lo stato meta.
All’inizio del processo di soluzione c’è una grande differenza tra lo stato iniziale e lo stato meta.
Questa è in effetti la definizione stessa di problema: trovarsi in una data situazione e cercare di
raggiungere un’altra situazione. Le procedure usate dal GPS per ridurre le diffe3renze tra lo
stato attuale del problema e lo stato meta vanno sotto il nome di analisi mezzi-fini. Affinché il
processo di soluzione possa procedere è necessario individuare una serie di sottoscopi. Quando
analizza un problema il GPS crea una pila di scopi.
È possibile scrivere programmi per calcolatore capaci di simulare le procedure usate dagli
esseri umani per la soluzione di problemi come quello della torre di Hanoi? Per studiare la
soluzione di problemi nell’uomo è stata spesso usata la tecnica dei protocolli verbali. Ai
soggetti viene chiesto di riferire tutto ciò che passa loro per la mente, ovvero di pensare ad
alta voce. Questa tecnica è stata chiamata verbalizzazione simultanea: è necessario
distinguere questo tipo di verbalizzazione dalla verbalizzazione retrospettiva che si riferisce alle
interviste in cui i soggetti descrivono i processi cognitivi che hanno avuto luogo in un momento
temporale precedente. La verbalizzazione simultanea fa affidamento sulla memoria a breve
termine mentre la verbalizzazione retrospettiva fa uso della memoria a lungo termine. Quando
i soggetti pensano ad alta voce, essi cercano di descrivere verbalmente un processo non
verbale. La descrizione verbale così ottenuta è chiamata protocollo.
Non tutti gli psicologi credono che le simulazioni su calcolatore siano in grado di rappresentare
adeguatamente le prestazioni umane nella soluzione dei problemi. Alcuni psicologi hanno
sostenuto, per esempio, che i processi di pensiero siano troppo complessi per potere essere
simulati su calcolatore.

Capitolo 10: Ragionamento

Il ragionamento è un’attività mentale che sottopone a delle trasformazioni l’informazione data ,


così da poter giungere a delle conclusioni. Il sistema aristotelico (logica sillogistica) è il più
vecchio dei sistemi logici ed è stato l’oggetto privilegiato della ricerca psicologica.

Ragionamento sillogistico
I sillogismi sono costituiti da due premesse e da una conclusione. Entrambe le premesse
specificano una relazione tra due categorie. Di conseguenza, il ragionamento sillogistico viene
talvolta chiamato ragionamento categorico. Ciascuna delle premesse può assumere una delle
quattro seguenti forme:
• la premessa universale affermativa (“Tutti gli A sono B”)
• la premessa universale negativa (“Nessun A è B”)
• la premessa particolare affermativa (“Alcuni A sono B”)

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• la premessa particolare negativa (“Alcuni A non sono B”)


Si consideri il sillogismo: “Tutti i canadesi amano la neve – tutti i poliziotti canadesi a cavallo
sono canadesi – quindi, tutti i poliziotti canadesi a cavallo amano la neve”. Si potrebbe mettere
in dubbio questo sillogismo pensando a un canadese che non ama la neve. Quando bisogna
giudicare la validità di un sillogismo, però, la verità o la falsità di una particolare premessa è
del tutto irrilevante. La validità di un sillogismo dipende soltanto dal fatto che la conclusione
derivi necessariamente, o meno, dalle promesse.
Differenti tipi di premesse possono produrre un effetto atmosfera che conduce gli individui a
fre alcuni errori di ragionamento piuttosto che altri? È l’ipotesi formulata da Woodworth e Sells.
Sillogismo: “Alcuni sono B – Alcuni B sono C – quindi, alcuni A sono C”. Il fatto che entrambe
le premesse contengano il quantificatore “alcuni” crea un’atmosfera a favore di “alcuni” che
predispone i soggetti ad accettare una conclusione contenente tale quantificatore. Una
premessa negativa invece crea un’atmosfera a favore della negazione (esempio sillogismo:
“Nessun A è B – tutti i B sono C – quindi, nessun A è C”).
I Chapman hanno avanzato l’ipotesi che molti errori di ragionamento dipendano dalla tendenza
a sottoporre le premesse a conversioni illecite.
“Alcuni individui sono umani”: benché sia dotata di senso (e sia anche corretta), questa
proposizione vola le nostra intuizioni a proposito dell’uso del quantificatore “alcuni” e può
persino risultare offensiva. La proposizione “Alcuni individui sono umani” sembra implicare che
“Alcuni individui non sono umani”. Questa seconda proposizione ha senso se intendiamo con
“alcuni” con un significato “alcuni ma non tutti”.
Forse la più importante teoria del ragionamento sillogistico è quella di Johnson-Laird, secondo
cui gli individui costruiscono un modello mentale della situazione a cui si riferiscono le
premesse e poi traggono delle conclusioni a partire da questo modello mentale. Un insieme di
premesse rende possibile la costruzione di vari modelli mentali. Dal punto di vista di Johnson-
Laird i dettagli del modello sono irrilevanti. L’aspetto importante ha a che fare con le relazioni
tra le diverse parti del modello. Un modello mentale è una struttura mentale. Si consideri, per
esempio, una premesse quale “Tutte le balene sono forti”. Per costruire un modello si
potrebbero usare immagini di balene o cose del tutto diverse. Le balene possono essere
rappresentate in svariati modi. Per rappresentare la premessa precedente è necessario
aggiungere al modello l’informazione che le balene sono forti. Ciò che rende difficile un
sillogismo è il fatto che esso è compatibile con numerosi modelli mentali alternativi.
Dalle premesse “Nessun cammello è una balena – tutte le balene sono animali in via
d’estinzione” si possono costruire tre modelli mentali. Secondo la rappresentazione di Johnson-
Laird “balene” e cammelli” saranno divisi da una linea netta, che rappresenta il fatto che
cammelli e balene appartengono a insiemi diversi. Dalla “parte delle balene”, grazie alla
seconda proposizione, si può aggiungere il fatto che siano in via di estinzione. Una prima
possibile notazione potrebbe essere che, essendo i cammelli separati dalla linea rispetto a “via
di estinzione” si possa affermare che “Nessun cammello è un animale in via d’estinzione”. Una
seconda ipotesi invece è che almeno “Alcuni cammelli non sono animali in via di estinzione”. Il
terzo modello mentale porterebbe indicare tutti i cammelli come in via di estinzione.
Analizzando tutti e tre i modelli si giunge alla corretta conclusione: “Alcuni animali in via
d’estinzione non sono cammelli”. Il modello di Johnson-Laird sembra in grado di spiegare quali
siano le fonti di errore di ragionamento sillogistico.

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Wason e l’importanza della falsificazione


Secondo Wason e Johnson-Liard, un problema generativo è un problema in cui i soggetti non si
limitano a ricevere passivamente le informazioni ma devono invece generare da sé le
informazioni necessarie per risolvere il problema. In uno dei suoi esperimenti Wason diceva ai
soggetti che “i numeri 2,4,6 erano stati generati in base ad una semplice regola e che il loro
compito era quello di scoprire questa regola generando sequenze di tre numeri che sarebbero
state giudicate dallo sperimentatore in base alla loro conformità alla regola da scoprire”. Nel
corso di ciascuna prova i soggetti dovevano riportare la regola che avevano in mente. Quando i
soggetti erano sicuri di avere scoperto la regola, potevano comunicarla allo sperimentatore. Se
la regola non era quella giusta, allora essi dovevano continuare con il compito sperimentale
fino al momento in cui la regola veniva scoperta. I soggetti di un esperimento come questo
tendono spesso a pensare che il compito sia più semplice di quanto sia in realtà.
Nell’esperimento di Wason non è vantaggioso per i soggetti generare sequenze di numeri
coerenti con l’ipotesi formulata. È più vantaggioso, invece, generare sequenze di numeri
incompatibili con l’ipotesi formulata. La strategia appropriata è dunque quella di cercare di
falsificare l’ipotesi che è stata formulata, in maniera tale da essere in grado di eliminare le
ipotesi sbagliate. In questo modo è possibile avvicinarsi alla regola corretta per mezzo di una
strategia eliminativa. Se un’ipotesi si dimostra ripetutamente coerente con i dati e soltanto
saltuariamente incompatibile con essi allora non è ovvio che quest’ipotesi debba essere
considerata inaccettabile dal punto di vista scientifico. In generale, la tendenza a cercare
evidenze confermatorie per un’ipotesi è chiamata tendenza alla conferma e si manifesta tanto
nel comportamento di certi scienziati quanto nella maggioranza dei soggetti degli esperimenti
sul ragionamento.
Wason ha inventato un altro problema di difficile soluzione, basato sulla relazione di
disgiunzione esclusiva, il problema del Thog. La versione di questo problema che si descrive
ora presenta un rombo nero, un rombo bianco, un cerchio nero e un cerchio bianco. Un
disegno viene considerato un Thog se e solo se esso presenta il colore o la forma prescelti ma
non entrambi. Se venisse detto che il rombo nero è un Thog, si potrebbe affermare che anche
il cerchio bianco è un Thog. Ma i soggetti hanno la tendenza ad affermare che il rombo bianco
e il cerchio nero sono dei Thog, ma che il cerchio bianco assolutamente non lo è: queste
riposte errate vengono chiamati errori intuitivi.
Un Thog possiede uno e uno soltanto degli attributi prescelti. Dal momento che il rombo nero,
gli attributi prescelti potrebbero essere “nero” o “rombo”, ma non entrambi. Se il colore
prescelto fosse nero, la forma prescelta sarebbe cerchio. Viceversa se la forma prescelta fosse
rombo, allora il colore prescelto sarebbe bianco.
Sono state avanzate due possibili spiegazioni degli errori intuitivi. La prima: i soggetti trovano
molto difficile seprarare le proprietà di un particolare Thof dalle proprietà che definiscono la
categoria Thog. Questo punto può essere espresso in forma più generale dicendo che gli
individui trovano difficile separare la proprietà di un particolare oggetto dalle proprietà che
definiscono l’appartenenza ad una classe. La seconda spiegazione è che gli errori intuitivi siano
il risultato di un processo chiamato matching bias (tendenza alla corrispondenza). Il matching
bias è la tendenza a considerare tanto più simili due cose quanti più attributi esse hanno in
comune. Per risolvere il problema del Thog i soggetti devono usare la regola della disgiunzione
esclusiva. I soggetti devono capire che, affinché possa essere considerata un Thog, una figura
deve possedere uno oppure l’altro di due attributi ma non entrambi.

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Il compito di selezione costituisce forse la creazione più famosa di Wason. Ai soggetti di questo
esperimento vengono mostrate quattro carte (5-2-F-E). Ciascuna carta ha una lettera da un
lato e una cifra dall’altro. Il compito dei soggetti è di dire quali carte è necessario girare per
controllare la verità dell’affermazione che se una carta ha una vocale su un lato, allora ha un
numero pari sull’altro. E e 2 sono le risposte più comuni che i soggetti forniscono a questo
problema. Johnson-Laird e Wason descrivono un esperimento in cui, in un campione di 128
soggetti, 59 soggetti hanno scelto di girare la E e il 2 e altri 42 soggetti hanno scelto di girare
soltanto la E. queste risposte però non sono del tutto corrette. Se girando la carta E vi
troviamo il numero 5 abbiamo falsificato la regola e potremmo concludere che lo
sperimentatore stia mentendo. Di conseguenza, è corretto volere controllare la carta con la E
dato che la scoperta di un numero dispari falsificherebbe la regola. Consideriamo ora il
significato del risultato ottenuto girando la seconda carta. Dato che F non è una vocale, il fatto
che sull’altro lato ci sia un numero pari è del tutto irrilevante. Non è necessario controllare la
carta con la F, dal momento che qualunque cosa ci sia sul retro, non ci fornirebbe alcuna
informazione a proposito della regola. Il compito di selezione di Wason è un esempio di
ragionamento condizionale. Il ragionamento condizionale richiede l’uso di proposizioni
condizionali. Le proposizioni condizionali hanno la forma Se… Allora…: Se una condizione si
verifica Allora un’altra condizione avrà luogo. Usando al posto di numeri e lettere esempi
concreti (quale Toronto-Boston-Aereo-Auto) i soggetti tendono ad avere prestazioni migliori.

Ragionamento ricorsivo
Un processo che fa riferimento a se stesso viene detto ricorsivo. I fenomeni ricorsivi talvolta
possono condurre a complicate forme di pensiero. L’esempio più famoso a questo proposito è il
paradosso del mentitore: vi è un vecchio aneddoto a proposito di Epimenide di Creta, secondo
il quale lo stesso avrebbe detto “Tutti i cretesi sono dei bugiardi”. Sapendo che Epimenide è
cretese si può ragionare seguendo i due percorsi:
• Epimenide ha detto la verità. Perciò tutti i cretesi sono dei bugiardi (compreso
Epimenide): appare subito il contrasto paradossale
• Epimenide è bugiardo. Perciò Epimenide non direbbe la verità. Perciò la proposizione
“Tutti i cretesi sono dei bugiardi” sarebbe falsa. Questo significherebbe che Epimenide
ha detto la verità dicendo che “Tutti i cretesi sono dei bugiardi” e il suo stesso
comportamento ne costituisce una conferma.
È importante distinguere tra processi di ragionamento che hanno luogo all’interno dello spazio
del problema e quelli che hanno luogo al suo esterno. In uno studio, Paige e Simone
presentavano ai soggetti problemi simili a questo: una tavola è stata segata in due pezzi. Il
primo pezzo è lungo i 2/3 dell’intera tavola e il secondo è lungo 4 metri più del primo. Qual era
la lunghezza della tavola prima che fosse stata segata? Se la lunghezza del primo pezzo è
uguale a due terzi dell’intera tavola, allora il secondo pezzo non può essere più lungo del
primo. Eppure questo è proprio quello che il problema afferma. Vi è una contraddizione nella
formulazione stessa del problema. Per rendersi contro di questa contraddizione, il soggetto
deve considerare il problema nel suo insieme piuttosto che cercare immediatamente di
risolverlo.

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Cavalieri e furfanti
Rips ha osservato che le ricerche sul ragionamento solitamente fanno uso di un numero
piuttosto limitato di problemi. Per cercare di capire i processi di ragionamento, sarebbe
auspicabile esplorare il maggior numero possibile di problemi diversi. Rips ha studiato i
ragionamenti effettuati dai soggetti nel corso dei tentativi di soluzione di un problema analogo
a quello del paradosso del mentitore. Questo problema è formulato nei termini di una sera di
affermazioni fatte dagli abitanti di un’isola. Gli abitanti dell’isola possono essere cavalieri
(dicono il vero) o furfanti (mentono sempre).
“Gli isolani A, B e C possono essere dei cavalieri o dei furfanti. Due isolani appartengono allo
stesso gruppo se sono entrambi cavalieri o entrambi furfanti. A afferma che B è un furfante. B
afferma che A e C appartengono allo stesso gruppo. C è un cavaliere o un furfante?”
• Se A=cavaliere, allora B=furfante, allora A e C non appartengono allo stesso gruppo,
perciò C=furfante
• Se A=furfante, allora B=cavaliere, allora C=furfante
C deve essere necessariamente un furfante.
Rips ha analizzato i protocolli di verbabilizzazione simultanea forniti da un gruppo di studenti
universitari a cui era stato assegnato il compito di risolvere il problema dei cavalieri e dei
furfanti. I risultati erano che i soggetti si servivano di regole di deduzione, le quali sono parte
di un sistema di deduzione naturale. Un sistema di deduzione naturale fa uso di proposizioni
immagazzinate nella memoria del lavoro. Le proposizioni sono costruite per mezzo di connettivi
SE… ALLORA, E, O e NON. Quando una proposizione è la conseguenza necessaria di un’altra
proposizione, si può dire che la prima proposizione implichi la seconda.
Primo caso: P e Q implica P, Q. Esempio: “A è un cavaliere e B è un cavaliere” implica “A è un
cavaliere” e “B è un cavaliere”
Secondo caso: P oppure Q e non P implica Q. Esempio: “A è un cavaliere oppure B è un
cavaliere” e “A non è un cavaliere” implica “B è un cavaliere”
L’approccio che ipotizza l’esistenza di un sistema di deduzione naturale dall’approccio dei
modelli mentali di Johnson-Laird. Rips sostiene che i dati da lui raccolti non mostrano affatto
che i soggetti costruiscono dei modelli mentali per risolvere problemi di ragionamento come
quello dei cavalieri e dei furfanti. Secondo Rips, l’approccio della deduzione naturale è
superiore a quello dei modelli mentali perché descrive più accuratamente il processo di
ragionamento.

Capitolo 11: Giudizio e decisione

Euristiche e “biases” cognitivi


Gli individui spesso si servono di euristiche, o regole pratiche, che possono produrre il risultato
desiderato in alcune situazioni ma che possono anche risultare fuorvianti in altre situazioni.
Anche se alcune euristiche funzionano molto bene, talvolta esse rappresentano dei processi
inferenziali che si discostano dai principi del ragionamento corretto. Sono stati scoperti circa 30
di questi biases cognitivi.

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Statistica intuitiva
Gli individui provano a stimare la frequenza relativa o la proporzione delle occorrenze di un
evento? Si supponga, per esempio, di dover predire quante volte l’evento testa si verifica nel
caso di quattro lanci di una moneta non truccata. La congettura migliore, naturalmente, è che
quest’evento si verifichi due volte su quattro. Dato che la moneta non è truccata, è lecito
aspettarsi che il lancio della moneta dia testa il 50% delle volte. Ciò nonostante, non
dovremmo affatto sorprenderci se questo esito non si verifica. Il lancio di una moneta non
truccata produce testa il 50% delle volte a lungo andare, ma questa proporzione può essere
diversa se consideriamo soltanto una serie limitata di lanci. Questo fenomeno è chiamato legge
dei grandi numeri, scoperto da Bernoulli. Uno dei fraintendimenti che circondano la legge dei
grandi numeri ha a che fare con la sua relazione con quella che comunemente viene chiamata
legge delle medie. La legge dei grandi numeri specifica quanto spesso un evento si verifica a
lungo andare. Così, noi ci aspettiamo che un numero molto grande di lanci di una moneta non
truccata dia testa approssimativamente il 50% delle volte. Supponete, però, che dieci lanci
diano sempre croce. La comune credenza nella legge delle medie ci porta spesso a credere
che, a questo punto sia più probabile che l’undicesimo lancio dia testa: questa conclusione è
assolutamente sbagliata. La probabilità di ottenere testa è 0,5 in qualsiasi punto della
sequenza, indipendentemente dai lanci precedenti.
Spesso gli individui tendono a credere che un piccolo campione sia rappresentativo della
popolazione da cui è stato tratto. Questa credenza prende il nome di legge dei piccoli numeri,
la quale conduce gli individui a fare uso dell’euristica della rappresentatività. Quest’ultima è
responsabile anche di un altro comune tipo di errore che ha luogo quando i soggetti devono
decidere se una sequenza di eventi è stata prodotta o meno da un processo casuale. Anche
pensatori sofisticati e dotati di approfondite conoscenze matematiche si trovano in difficoltà
quando devono specificare ciò che distingue un processo casuale da un processo che non lo è.
La Lopes ha sottolineato la differenza tra un processo casuale e un prodotto casuale. Un
processo casuale, come ad esempio, quello del lancio di una moneta non truccata, può
generare sequenze che non appaiono affatto casuali. Il prodotto di non processo casuale può
apparire non casuale. Un esempio dei possibili effetti dell’euristica della rappresentatività è il
fenomeno della “mano calda” nel caso dei giocatori professionista di pallacanestro. Quando un
giocatore realizza una serie di canestri senza commettere alcun errore, gli spettatori
percepiscono questo giocatore come un qualcuno che possiede una “mano calda” (realizzare
una sequenza di canestri che difficilmente poteva essere prodotta da un processo casuale).
Questa credenza potrebbe dipendere dal fatto che e sequenze di eventi generate da un
processo casuale non vengono percepite in modo accurato. Di tanto in tanto un giocatore può
effettivamente realizzare una serie di canestri uno dopo l’altro allo stesso modo in cui il lancio
di una moneta non truccata può dare una successione di teste.
Gli individui tendono ad aggiustare le loro stime a seconda del numero iniziale della sequenza.
Dal momento che la prima sequenza (8x7x6…x2x1) inizia con un numero maggiore del primo
della seconda sequenza (1x2x3…x7x8), essa sembra produrre un risultato maggiore. Si
potrebbe dire che le sequenze siano ancorate a valori diversi.
Dire che alcune esperienze possono essere rievocate più facilmente di altre è una banalità:
tanto maggiore è la facilità di rievocazione di un item, tanto più questo è disponibile al
soggetto; la disponibilità si riferisce alla facilità con la quale un item può venire in mente –
come etichetta di una certa esperienza. Supponendo di dover giudicare la frequenza di un

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certo evento, ad esempio la frequenza con cui la lettera R può presentarsi come prima o terza
lettera all’interno di una parola, ci sarà molto più semplice portare a memoria evidenze del
primo caso, inferendo magari, erroneamente, che le parole che iniziano per R sono più
numerose di quelle che l’hanno come terza lettera. In realtà è il contrario, ma le parole che
iniziano per R sono per noi maggiormente disponibili e quindi vengono rievocate con maggiore
facilità. La disponibilità è anche responsabile delle cosiddette correlazioni illusorie, il fenomeno
per il quale gli individui credono che eventi diversi si verifichino in concomitanza gli uni con gli
altri anche se in realtà ciò non avviene.
Un altro principio degno di nota è quello della quantità: a due gruppi di soggetti chiamati a
correggere delle bozze venivano assegnate le medesime cinque pagine di articoli. Tuttavia, al
primo gruppo esse venivano consegnate singolarmente, al secondo corredate di giornale da cui
erano estratte. È stato empiricamente dimostrato che i membri del secondo gruppo, a fine
lavoro, erano più soddisfatti, in quanto percepivano di aver svolto una maggiore mole di
lavoro.
Anche la regressione verso la media è un concetto spesso dibattuto in psicologia dei
processi cognitivi. Se si considerano due variabili correlate tra loro, come l’altezza di genitori e
figli, si noterà che la loro correlazione, per quanto buona, non è perfetta: infatti, genitori molto
alti tendono ad avere figli meno alti di loro, e genitori molto bassi ad averne poco più alti di
loro. Questo fenomeno, la regressione verso la media, consiste appunto nel “bilanciamento”
dei dati verso valori più prossimi alla media, ed avviene anche in circostanze differenti. Ad
esempio, quando uno studente si attesta su una determinata media, anche se consegue un
risultato improvvisamente più alto o più basso del solito, tenderà, nelle prove successive, a
riconfermare la tendenza pregressa.
Lo spazio del problema definisce il modo in cui il problema è rappresentato, il che include la
definizione dello scopo che deve essere raggiunto e le varie modalità per mezzo delle quali lo
stato iniziale del problema può essere trasformato nello stato meta. Ad esempio, se per
assegnare tre monete a due bambini si decide di utilizzare un mazzo di carte, decidendo di
dare al primo una moneta per ogni carta rossa estratta dal mazzo, ed al secondo una moneta
per ogni carta nera, il problema può essere stabilire l’esito più probabile: 3 a 0, 2 a 1 o la
medesima probabilità? L’ultima alternativa è preferita dal 40% dei soggetti, benché quella
giusta sia la seconda: i soggetti fanno infatti spesso riferimento all’opzione più intuitiva. La
possibilità di fare uso delle corrette procedure di ragionamento dipende da tre fattori: la
chiarezza dello spazio del problema (la consapevolezza di tutte le alternative), la comprensione
dei processi casuali e le prescrizioni culturali (i soggetti ragionano statisticamente se sono stati
incoraggiati a farlo dalla propria cultura di appartenenza).

Pensiero magico e coincidenze significative


Con pensiero magico si intende un bias del ragionamento, considerato frutto del retaggio di
aspetti infantili nella vita adulta. Le “pratiche magiche” sono regolate da due leggi: la legge
della somiglianza e quella del contagio. La prima afferma che le cose simili si influenzano
reciprocamente, cause ed effetti sono simili le une agli altri. Le pratiche magiche basate su
questa legge sono dette magia omeopatica. La seconda legge afferma che le cose che sono
state in contatto le une con le altre continueranno in seguito ad esercitare un’influenza
reciproca: questa è la magia del contagio.
Affine al pensiero magico è l’esperienza della coincidenza significativa, che si verifica quando

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degli eventi sembrano essere associati in maniera significativa anche se si verificano


simultaneamente solo per caso. Esperienze di questo tipo lasciano una vivida impressione e
risulta difficile credere che si tratti semplicemente di casualità. Inoltre, come dimostrato da
Falk, gli individui tendono a percepire le proprie coincidenze come più notevoli e straordinarie
di quelle occorse agli altri (bias egocentrico): questo può derivare anche dall’euristica della
disponibilità, per cui spesso eventi simili vanno a sovrapporsi nella memoria risultando nei
ricordi troppo frequenti per essere casuali.

Tendenza alla positività


La tendenza alla positività è fortemente radicata anche nel nostro linguaggio. Infatti, quando si
chiede un giudizio, solitamente si specifica la scala di riferimento attraverso il suo polo
positivo. Il nome della scala bello-brutto, ad esempio, è bellezza. Un aggettivo positivo non
fornisce soltanto il nome ad un polo, ma alla scala nel suo complesso. L’aggettivo positivo
possiede pertanto un senso sia contrastivo sia nominale. Al contrario, gli aggettivi negativi
possiedono il solo senso contrastivo. Ne consegue che il polo positivo è psicologicamente
primario e più fondamentale di quello contrastivo, ipotesi che appare ancora più plausibile se si
pensa che gli aggettivi positivi sono “nati” anche con secoli di anticipo rispetto ai corrispettivi
negativi e sono utilizzati più di frequente. Anche i bambini aprendo prima i termini positivi
rispetto a quelli negativi: ciò è stato interpretato ipotizzando che essi imparino dapprima il
significato nominale del termine positivo, poi quello contrastivo ed infine il significato
contrastivo del termine negativo.
La tendenza alla positività si ripercuote anche sui compiti di apprendimento: se dei soggetti
devono apprendere delle serie di comparativi, hanno un ricordo significativamente maggiore se
questi sono positivi piuttosto che il contrario.

• Capitolo 12: Intelligenza e creatività

Intelligenza
Lo studio dell’intelligenza inizia nel diciannovesimo secolo, con Anastasi: essa viene misurata
attraverso test di intelligenza – la maggior parte dei quali, volti a scovare le differenze
individuali, promossi da Galton. Egli credeva che l’intelligenza fosse ereditaria e cercava di
misurare il QI attraverso prove di discriminazione sensoriale (capacità visiva, uditiva, ecc…). I
test di intelligenza successivi avevano invece un approccio diverso. I moderni test di
intelligenza si rifanno infatti a quello realizzato da Binet in risposta al problema pratico di
misurare i benefici dell’educazione scolastica. L’intelligenza era per Binet una facoltà
fondamentale, la cui alterazione è della più grande importanza per la vita pratica. Aspetti
essenziali dell’intelligenza sono l’abilità di ben giudicare, di comprendere adeguatamente e di
ragionare correttamente. Per misurare l’intelligenza, Binet ha creato compiti che consentono di
differenziare gli individui in riferimento a queste abilità. I test di intelligenza sono tipicamente
costituiti da varie scale che dovrebbero misurare le varie abilità. Come denotato da Spearman,
in genere, coloro che ottengono alti punteggi ad una scala, tendono a farlo anche nelle altre:
queste correlazione indicherebbero che ciascuna abilità umana è costituita da due componenti,
una specifica ed una comune a tutte le abilità, detta fattore generale o fattore g.

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La teoria dell’intelligenza di Sternberg


L’approccio all’intelligenza di Sternberg unisce quello psicometrico (di misurazione delle
capacità individuali) a quello informazionale (che studia i processi di elaborazione delle
informazioni). Sternberg ha notato che l’approccio psicometrico ha fornito evidenze
contraddittorie a proposito del problema del numero dei fattori che compongono l’intelligenza.
Benché la nozione di fattore non possegga una definizione accettata da tutti gli psicologi, essa
generalmente viene usata per fare riferimento ad un insieme di capacità che condividono
aspetti comuni. Invece di analizzare l’intelligenza in termini di fattori, Sternberg ha proposto di
analizzare l’intelligenza in termini di componenti. Mentre i fattori definiscono gli aspetti
strutturali dell’intelligenza, le componenti ne descrivono gli aspetti procedurali. Ciascuna
componente possiede tre aspetti misurabili: la durata (il tempo necessario per eseguire quella
componente), la difficoltà (la probabilità di commettere un errore) e la probabilità d’esecuzione
(la probabilità che la componente venga eseguita in una data situazione). Queste proprietà
possono variare indipendentemente le une dalle altre, così alcuni compiti richiedono tempi di
soluzione molto lunghi, ma che comportano un numero di errori basso e viceversa. Tre tipi di
componenti sono state identificate da Sternberg: le meta componenti, le componenti
dell’esecuzione e quelle dell’acquisizione della conoscenza.
Le meta componenti corrispondono ai processi esecutivi utilizzati nella programmazione, nel
monitoraggio e nelle attività decisionali connesse all’esecuzione del compito. Queste
componenti controllano le altre componenti. Una volta deciso come affrontare un problema, è
necessario che entrino in gioco le componenti dell’esecuzione, usate in ogni stadio del
processo di soluzione. I diversi stadi includono la codifica degli aspetti che lo spazio del
problema, il confronto tra le diverse parti del problema e la generazione della risposta
appropriata. Ad esempio, in un’analogia come “Il pesce sta all’acqua come il verme sta a …”, è
necessario, prima di rispondere, codificare ciascun termine allo scopo di comprenderne il
significato ed inuite così la relazione sottostante (processo di mapping). Le componenti
dell’acquisizione della conoscenza riguardano l’apprendimento di nuove informazioni ed il
loro immagazzinamento in memoria. Esse sono caratterizzate da selettività: dato che non è
possibile apprendere ogni cosa, è necessario escludere ciò che è irrilevante per poter isolare le
informazioni rilevanti e conservarle. La descrizione delle componenti cognitive fa parte della
sottoteoria componenziale dell’intelligenza, per cui: esiste un fattore g dell’intelligenza
generale, anche se non necessariamente ereditario come sosteneva Spearman, che potrebbe
essere identificato con le meta componenti; vi è una distinzione tra abilità fluide –che
costituiscono i processi di intelligenza utilizzati nelle prove di ragionamento e così via- ed
abilità cristallizzate –i prodotti dell’intelligenza; infine, le prove lessicali costituiscono la misura
migliore dell’intelligenza di un individuo, in quanto acquisite attraverso un numero di
componenti molto elevato e differenziato. Anche il rendimento scolastico è talvolta predetto dai
test di intelligenza, ma le misure non sono del tutto accurate.
Sternberg ha sostenuto che questa teoria componenziale non è sufficiente a descrivere
l’intelligenza, ma deve essere integrata da una sottoteoria contestuale e da una bilaterale. La
prima descrive le relazioni tra intelligenza e mondo esterno all’individuo, sia nei termini di
ambiente ricco o depauperato, sia nei termini di riferimenti culturali: gli stereotipi culturali che
definiscono l’intelligenza sono molto diversi tra le varie culture. La sottoteoria bilaterale mette
in relazione l’intelligenza sia col mondo interno sia col mondo esterno, permettendo di
utilizzare quelli che Sternberg ha chiamato concetti ben fondati – cioè concetti radicati e di

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facile uso, come ad esempio i colori.


Le critiche mosse a questo approccio provengono prevalentemente da Neisser, secondo cui le
componenti dell’intelligenza non sono definite in modo sufficientemente preciso e le
metodologie usate sono troppo tradizionali.

Gardner e la teoria delle intelligenze multiple


Secondo Gardner non c’è una sola –come vorrebbe far credere l’idea di fattore g, ma molte
intelligenze. Egli le definisce intelligenze multiple, “competenze intellettuali umane
relativamente autonome, ciascuna delle quali dipende da una differente parte del cervello.
Esse sarebbero: l’intelligenza linguistica, quella logico – matematica, quella spaziale, quella
corporeo – cinestetica, quella interpersonale, quella intrapersonale e quella musicale.
L’intelligenza separata richiede un sistema simbolico, che consenta di rappresentare ciò che
sappiamo del mondo: in genere lo strumento più utilizzato è il linguaggio, ma un tragitto – per
fare un esempio- può essere espresso anche attraverso un disegno ed una sensazione
attraverso un brano musicale. Queste sono forme simboliche di rappresentazione presenti in
tutte le culture ed importanti per l’adattamento e la sopravvivenza. Una delle ipotesi
investigate da Gardner è che ciascuna di questi sistemi di simboli sia l’espressione di
n’intelligenza separata. In secondo luogo, un’intelligenza separata sembra poter essere
identificata attraverso i prodigi, individui dotati di capacità straordinarie, che non possono
essere spiegate da una teoria generale. Anche lo studio dello sviluppo dell’expertise
sembrerebbe giocare a favore delle intelligenze separate.
Per quanto riguarda i prodigi, essi sono in grado di diventare competenti in un dato ambito
molto prima di quanto ci si aspetterebbe normalmente: costoro possono essere collocati
all’estremo opposto di quegli individui in grado di applicarsi con successo a molti compiti
differenti: il talento posseduto dai prodigi si esprime soltanto nell’esecuzione di un compito
altamente specifico. Nella maggior parte degli individui agiscono sia tendenze rivolte verso ciò
che è specialistico, sia rivolte verso ciò che è generale, ma in un prodigio vi è una tendenza ad
un’estrema specializzazione in un’area. A prescindere dalla persona, ci sono altri tre livelli, o
strutture, egualmente importanti per lo sviluppo di un prodigio: il dominio in cui si manifesta il
talento del prodigio stesso, il contesto storico e culturale di appartenenza e il più ampio
contesto evolutivo per questa particolare capacità. Un bambino può infatti diventare un
prodigio in una dato dominio solo se le conoscenze specifiche per quel dominio possono essere
da lui acquisite in base al periodo storico, alla cultura valorizzante o meno quella data capacità,
al sostegno dei genitori –finanziario e morale- e così via.
Una categoria peculiare di prodigi è rappresentata dagli “idiots savants”, ovvero da individui
portatori da handicap mentali ma dotati di capacità di rappresentazione molto superiore alla
media. In uno studio su quattro gruppi di soggetti, di cui uno di idiots savants, venivano
assegnati ai partecipanti vari compiti sperimentali, tra cui il riconoscimento di disegni, la
riproduzione di oggetti senza guardarli e la copiatura di oggetti. Mentre il riconoscimento di
disegni correlava con l’intelligenza generale, e le prove degli idiots savants risultavano
pertanto mediocri, nei casi di riproduzione e copiatura –determinati dalla capacità artistica-
costoro risultavano superiori agli altri membri dei gruppi di controllo, anche quelli dotati di
talento artistico. Questi risultati confermano la natura indipendente del QI e delle capacità
degli idiots savants.
Anche l’expertise viene considerata da Gardner un’area che può confermare l’esistenza di

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intelligenze separate. L’expertise è stata studiata variamente, uno degli esperimenti più famosi
riguarda la capacità di rievocazione delle posizioni degli scacchi da parte di giocatori esperti e
novizi. Dopo aver osservato gli scacchi disposti sulla scacchiera, ai soggetti veniva dato il
compito di ricostruire le posizioni dei pezzi che erano state mostrate in precedenza. I maestri
erano in grado di ricordarne un numero decisamente maggiore rispetto ai novizi se le posizioni
erano plausibili durante il corso di una partita, altrimenti non si riscontravano differenze. È
stato suggerito che gli esperti percepiscano le posizioni dei pezzi sulla scacchiera in termini non
di singoli pezzi, ma di unità più grandi, chunks, riuscendo così a ricordarne un numero
maggiore. Un’altra interpretazione possibile è che gli esperti facciano ricorso a
rappresentazioni fisiche –cioè relative ad entità facenti parte della teoria- piuttosto che ingenue
–basate sul senso comune- come in giocatori inesperti. Un aspetto importante dell’expertise è
infatti costituito dal modo in cui gl’inesperti usano le informazioni nel corso dei tentativi di
soluzione del problema. Ovviamente, un aspetto fondamentale è la pratica, un addestramento
intenso di una competenza specifica che non ha nulla a che vedere con l’innatezza.

Creatività
La creatività ha a che fare con la produzione di prodotti nuovi e socialmente apprezzati. Uno
dei test utilizzati per misurare la capacità di pensare in maniera originale è il test degli usi
alternativi, in cui il compito dei soggetti è di elencare sei diversi usi che possono essere fatti
con oggetti comuni: tanto più inusuali sono gli usi proposti, maggiore è il punteggio. È stato
proposto che gli individui creativi abbiano gerarchie piatte, cioè –se alla maggior parte degli
individui risulta più facile e veloce notare gli usi ovvi degli oggetti- questo non avviene per i
creativi, che sono in grado di produrre moltissime possibilità, risultando però più lenti della
media. Data una simile definizione si può quindi osservare come l’originalità possa essere
considerata a tutti gli effetti il contrario della fissità funzionale: la creatività dipende infatti
dalla capacità dell’individuo di interagire in maniera flessibile con l’ambiente. Maier ha discusso
uno studio in cui veniva chiesto a dei bambini di completare alcuni racconti, che poi dei giudici
avrebbero dovuto giudicare come terminati maniera o meno costruttiva. I bambini erano stati
divisi in due gruppi: quelli con problemi di delinquenza giovanile e quelli senza questo tipo di
problema. I risultati di questo esperimento mostravano che i bambini con problemi di
delinquenza tendevano a produrre in maniera maggiore conclusioni non formative, al contrario
degli altri. Maier ha individuato varie spiegazioni di questi dati: si potrebbe pensare che i
problemi di delinquenza si accompagnino ad un atteggiamento negativo verso il mondo in
maniera innata, oppure che gli apprendimenti dei bambini devianti siano differenti da quelli dei
bambini senza problemi di delinquenza, o ancora che le difficoltà che i bambini devianti hanno
dovuto affrontare durante la crescita li abbiano portati ad avere un atteggiamento negativo nei
confronti delle cose. Tuttavia, se l’esperimento viene ripetuto su comuni bambini di prima
media e viene chiesto loro di interpretare il ruolo di “piccoli delinquenti”, i risultati ottenuti
sono gli stessi. Ciò significa che il comportamento non viene necessariamente appreso in una
forma specifica oppure determinato in maniera innata, ma può essere derivato dal contesto in
occasioni specifiche. Ne consegue che gli individui posseggono un repertorio comportamentale
tra cui è possibile scegliere: le prestazioni comportamentali in un’occasione specifica possono
essere il frutto di una combinazione unica di elementi innati e acquisiti. Dal punto di vista di
Maier, gli individui creativi si distinguono per la loro maggiore capacità di selezionare ed
integrare gli elementi comportamentali (meccanismo di selezione-integrazione).

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Un'altra caratteristica degli individui creativi è l’originalità non solo nella soluzioni di problemi,
ma anche nella loro scoperta. Il processo di soluzione di problemi conduce infatti alla soluzione
di problemi ben definiti, mentre il processo di scoperta conduce alla formazione di una serie di
domande a partire da problemi mal definiti. La formulazione di un problema è spesso più
cruciale della sua soluzione, dal momento che la soluzione non dipende che dall’applicazione di
capacità di tipo matematico e sperimentale. La capacità di porre domande nuove e definire
nuove possibilità richiede invece un’immaginazione creativa.
Un approcci peculiare di studio dell’intelligenza è quello di Simonton, che ha sviluppato la
proposta di Campbell secondo cui il processo evolutivo è caratterizzato da due aspetti
fondamentali, di cui uno è la variazione cieca, ovvero il processo per mezzo del quale le
alternative vengono esplorate senza sapere in anticipo quale produrrà l’effetto desiderato (ad
esempio, il processo per tentativi ed errori). Secondo Campbell, il pensiero creativo può essere
inteso come una sorta di variazione cieca ad un livello simbolico. L’individuo può immaginare i
diversi esiti possibili di un’azione e anche il criterio di selezione che consente di decidere quale
sia l’azione appropriata. L’individuo può avere in mente un’idea piuttosto precisa del tipo di
soluzione richiesta dal problema e può modificare i suoi pensieri finché non emerge un’idea che
soddisfi i requisiti del problema stesso. Il meccanismo chiave del pensiero creativo sarebbe la
serendipità, ovvero la scoperta accidentale.
Secondo la rivisitazione di Simonton della teoria di Campbell, le soluzioni creative ai problemi
richiedono un processo di variazione, ciò delle permutazioni casuali degli elementi mentali che
forniscono combinazioni diverse di unità cognitive come idee e concetti. Alcune combinazioni,
più stabili di altre, vengono definite configurazioni e soddisfano i requisiti di un problema
specifico, ma sopravvivono solo se gli altri ne percepiscono l’utilità. Gli individui creativi,
secondo Simonton, avrebbero a disposizione un gran numero di elementi mentali e, quindi, di
possibili combinazioni tra essi: costoro avrebbero così una probabilità maggiore rispetto ad altri
individui di generare una configurazione potenzialmente utile (potenziale creativo).

Capitolo 13: Processi cognitivi in ambito personale

Processi cognitivi ed emozioni


Lo studio della relazione tra processi cognitivi ed emozioni è un punto focale della psicologia e
vanta numerosi studi. In uno di questi, i soggetti erano chiamati a svolgere un compito di
associazioni remote per misurare la creatività: a parte dei soggetti veniva fatto prima veder un
film divertente o venivano dati dei dolciumi, all’altra parte, invece, venivano fatte fare delle
esercitazioni. Sperimentalmente, il primo gruppo otteneva costantemente risultati migliori.
Numerosi sono stati gli approcci che hanno studiato le emozioni: il primo, in ordine di tempo, è
stato Freud, che descriveva l’organismo come spinto da un’energia –la libido- che esso deve
scaricare su un oggetto per poi poter ritornare ad uno stato di quiete (processo primario). Ogni
qual volta un oggetto gratifica un desiderio, ovvero diminuisce il livello di energia
dell’organismo, esso diviene oggetto di investimento libidico. Non tutti i desideri possono
essere appagati, l’esempio classico è quello del neonato e del suo attaccamento al seno
materno. Dapprima l’investimento libidico del bambino ha luogo sul seno, ma –quando egli
viene svezzato- deve aver luogo un contro investimento attraverso gratificazioni orale

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alternative (il ciuccio, il pollice, ecc…): questo è il processo secondario. I processi secondari
sono costituiti da processi cognitivi rivolti verso la realtà e corrispondono allo sviluppo di
effettive procedure capaci di mettere in grado l’individuo di trovare oggetti reali per soddisfare
i propri bisogni. Nella teoria psicoanalitica vi è una forte relazione tra il fatto di amare e di
conoscere un oggetto. Emozioni e processi cognitivi sono strettamente legati, poiché gli
individui conoscono solo ciò che amano. Il processo di investimento libidico non produce,
pertanto, solo attaccamento, ma anche conoscenza. Come l’investimento libidico rappresenta il
processo per cui il bambino acquisisce conoscenza del mondo, così il contro investimento o
rimozione rappresenta il processo per mezzo del quale gli individui attivamente dimenticano
quello che sanno, rimanendo in uno stato di attaccamento inconscio.
Berlyne si è mosso su una linea guida più fisiologica, studiando il concetto di arousal, ovvero il
livello di attivazione dell’organismo. Secondo l’autore, l’arousal definisce una dimensione
dell’esperienza emotiva. Il livello di arousal è associato all’intensità con cui l’emozione è
percepita, indipendentemente da che tipo di emozione si tratti. La capacità di uno stimolo di
accrescere l’arousal è definita potenziale di arousal. Secondo Berlyne, alcune proprietà degli
stimoli agiscono come importanti determinanti dell’attività cognitiva: queste proprietà sono
state definite collative, ovvero attinenti al confronto. Le proprietà collative di uno stimolo
vengono definite dal confronto tra lo stimolo ed altri stimoli e possono essere messe in
relazione con l’incertezza. Tanto più uno stimolo è nuovo, tanto maggiore è l’incertezza
dell’individuo a proposito della risposta appropriata, e lo stesso può essere detto per la
complessità. Il confronto con situazioni nuove, complesse o sorprendenti porta ad un
innalzamento dell’arousal e conduce al cosiddetto conflitto concettuale. In genere, oltre al
livello di attivazione, per quanto riguarda il conflitto è necessario osservare anche la
piacevolezza dello stimolo: ovviamente le situazioni da cui deriviamo maggiore piacere sono
quelle che inducono un conflitto minore e viceversa: questo aspetto è esplicato nella curva di
Wundt-Berlyne. La teoria d Berlyne è stata criticata da Martindale perché essa prevede che gli
stimoli dotati di uguale potenziale d’arousal tendano a suscitare la medesima quantità di
piacere, ma è facile immaginare che ciò non sia propriamente vero. Basandosi su un modello
architettonico connessionista, Martindale ha proposto una teoria alternativa riguardante il
piacere che deriva dall’attività cognitiva (piacere estetico). Il suo modello è costituito da unita,
collegate sia orizzontalmente sia verticalmente, collegate da connessioni di tipo eccitatorio,
come quelle verticali, o inibitorio, come quelle orizzontali. Il piacere estetico deriva dal grado di
attivazione delle unità cognitive.
Zajonc ha presentato molte evidenze del fatto che, tanto più gli individui vengono esposti ad
un evento, tanto più esso risulta loro piacevole (effetto della mera esposizione). In un disegno
sperimentale a soggetti appaiati, egli ha mostrato a delle coppie una serie di ideogrammi
(ripetuti con frequenze differenti) per loro sconosciuti, chiedendo ad un membro della coppia di
giudicarne la riconoscibilità e all’altro di giudicarne la gradevolezza. I risultati hanno indicato
che gli ideogrammi giudicati più gradevoli erano quelli presentati con la maggiore frequenza.
Zajonc suggerisce che la famigliarità soggettiva e l’esposizione ripetuta influenzino
separatamente i giudizi di preferenza: in questo modello emozioni e processi cognitivi sono
sistemi separati e le emozioni possono essere influenzate da un evento indipendentemente
dall’attività cognitiva ad esso associata.
Attualmente, il modello più utilizzato per la rappresentazione delle emozioni è quello
circomplesso di Russell, che ha ordinato le otto categorie più utilizzate dai soggetti per

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descrivere le emozioni in cerchio, in cui le parole in posizioni opposte hanno significati opposti.
Secondo Russell, le categorie usate per descrivere le emozioni posseggono una struttura
soggiacente caratterizzata da due dimensioni principali: arousal-sonno e piacere-dispiacere.
Secondo la teoria proposta da Bower, invece, le emozioni corrispondono ad unità o nodi di una
rete. Quando viene attivato, un nodo che rappresenta uno stato emotivo è in grado di attivare
altre unità della rete in misura maggiore di un nodo che rappresenta uno stato non emotivo.
L’attivazione prodotta dalle unità che rappresentano le emozioni viene distribuita in tutta la
rete e può costituire uno degli aspetti dell’esperienza che vengono immagazzinati in memoria.
Questo modello delle emozioni predice il fenomeno della rievocazione dipendente dallo stato
d’animo, per cui lo stato d’animo può essere visto come un aspetto del contesto all’interno del
quale la lista di parole è immagazzinata: ne consegue che la concordanza degli stati d’animo
del soggetto al momento dell’apprendimento ed al momento della rievocazione dovrebbe
facilitare quest’ultima.

Pensare le persone
Nella sua ricerca dedicata ai processi cognitivi in ambito interpersonale, Asch –in quanto
psicologo della Gestalt- ha enfatizzato il fatto che noi tendiamo a percepire gli altri individui
come unità psicologiche, avendone così un’impressione unitaria. In un suo esperimento, Asch
sottopose ai soggetti delle coppie di aggettivi (ad esempio, socievole e solitario), chiedendo
loro di giudicare il loro grado di accordo. Aggettivi giudicati a basso grado di accordo venivano
definiti disomogenei, aggettivi giudicati ad alto grado di accordo venivano definiti invece
omogenei. Successivamente, Asch chiese di fornire, per ogni coppia di attributi, una
descrizione dell’individuo che –ipoteticamente- li possedeva, osservando come in realtà i
soggetti fossero in grado di formarsi un’impressione unitaria anche dell’individuo caratterizzato
che aggettivi disomogenei. Questa è secondo l’autore la dimostrazione che l’uomo tende a
pensare in maniera coerente, come se la persona fosse “un’unità psicologica”.
Anche l’approccio proto tipico di Rosch ha avuto dei risvolti nello studio delle emozioni. In un
esperimento, sono stati sottoposti ai soggetti una serie di aggettivi, chiedendo loro di valutare
la correlazione di questi con i concetti di estroversione ed introversione. Successivamente,
usando gli stessi aggettivi, venivano create quattro descrizioni di caratteri, alcune contenenti
gli aggettivi rilevati come correlati, altre no e con la presenza di aggettivi nuovi, alcuni dei
quali fortemente affini alle dimensioni di estroversione ed introversione. Quindi veniva chiesto
ai soggetti di riconoscere i vecchi aggettivi: i soggetti tendevano ad indicare, oltre agli
aggettivi effettivamente visti in precedenza, quelli nuovi più fortemente correlati con i concetti
base, quelli insomma più prototipici.

Capitolo 14: Psicologia cognitiva applicata

Ergonomia
L’ergonomia è stata l’area della psicologia applicata all’interno della quale il contributo della
psicologia cognitiva è stato maggiore. Essa studia le relazioni tra gli individui ed il loro
ambiente di lavoro, per realizzare macchinari ed oggetti che possano essere utilizzati dai
lavoratori non solo in maniera efficiente, ma anche nella maniera più soddisfacente possibile.

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Gli ergonomi hanno ad esempio studiato la disposizione di tastiere, sedie e scrivanie –cercando
di prendere in considerazione i bisogni e le caratteristiche dell’utente finale e, per questo
motivo, l’ergonomia prende anche il nome di ricerca sui fattori umani. In questo ambito di
ricerca, si è diffusa l’idea che gli oggetti debbano essere user friendly, ad indicare una
proprietà desiderabile di qualsiasi interazione tra una persona ed un dispositivo qualunque. La
psicologia dei processi cognitivi interviene quindi, in ambito ergonomico, per quel che riguarda
l’interfaccia con l’utente – la relazione individuo/macchina.
La diffusione capillare dei calcolatori, ad esempio, li ha resi un oggetto di studio privilegiato
dell’ergonomia cognitiva, ad esempio per quanto riguarda la produzione di tastiere. Vi sono
due tipi di tastiere: quella alfabetica, in cui le lettere sono disposte –appunto- secondo l’ordine
alfabetico e quelle QWERTY. Le prime tastiere alfabetiche vennero rimpiazzate dalle QWERTY
perché troppo semplici da usare: i dattilografi erano infatti troppo veloci nell’utilizzo e
mandavano in panne i calcolatori, a quel tempo piuttosto lenti. Oggi, con i nuovi calcolatori
veloci, la tastiera alfabetica potrebbe essere reinserita, ma è stato visto sperimentalmente che
la QWERTY è divenuta ormai così familiare alla stragrande maggioranze delle persone, che
ormai la tastiera alfabetica comporterebbe solo dei rallentamenti. Le stesse considerazioni
valgono a proposito delle tastiere numeriche: mentre nel calcolatore esse sono talvolta
descritte a partire da 0 fino ad arrivare ad 1 (0,9,8,…,1), nei cellulari l’ordine è inverso, in base
al tipo di coordinate usate nella lettura. Ne consegue che contesti diversi richiedono soluzioni
diverse.

Istruzioni e progettazione dell’interfaccia con l’utente


Molti prodotti elettronici non possono essere utilizzati se non attraverso la spiegazione
contenuta nelle loro istruzioni che tuttavia, per essere utile, dovrebbero avere caratteristiche
ben definite. Il testo, ad esempio, dovrebbe essere organizzato in modo tale da riflettere le
azioni che l’utente deve eseguire. Questo è semplice quando le istruzioni sono di tipo
sequenziale, ma accade, talvolta, che le istruzioni per l’uso di dati oggetti (ad esempio, gli
orologi) richiedano simultaneamente di eseguire due processi diversi e, se esse non sono ben
descritte, possono essere difficili da seguire. Spesso quindi, si predilige una forma di
rappresentazione grafica e più immediata, che faciliti il lettore nell’esecuzione. Le immagini
infatti, sono in grado di rappresentare con successo informazioni riguardanti eventi simultanei,
ma solo se posseggono una serie di caratteristiche:
• Riconoscibilità: all’utente deve risultare immediatamente evidente ciò che viene
rappresentato;
• Modularità: il processo deve essere scomposto in una serie di semplici operazioni;
• Coerenza: l’utente deve essere messo in grado di riconoscere una parte dell’interfaccia
che gli consenta di svolgere tutte le operazioni.
Anche i libri elettronici stanno ormai prendendo piede, più di tutti i dizionari. Secondo Miller,
l’organizzazione di un dizionario dovrebbe rispecchiare quella delle relazioni semantiche tra le
parole, attenendosi alla struttura concettuale posseduta dagli individui. Sarebbe auspicabile
che, ogni qual volta un utente richiede informazioni a proposito di una parola, gli vengano
fornite anche informazioni sulle altre parole semanticamente associate alla parola consultata.
Alle relazioni di sinonimia e polisemia dovrebbe essere aggiunta quella di antinomia, che
renderebbe l’uso dei dizionari elettronici più semplice anche per i bambini. Un ultimo aspetto
compreso dovrebbe essere quello dell’ipertesto: collegamenti tra le voci che hanno significati

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simili (ad esempio cognizione  conoscenza, nozione, sapere), per consentire all’utente di
esplorare relazioni nuove. La struttura di questi dizionari potrebbe essere detta
psicologicamente corretta.

Progettare l’addestramento, progettazione e invenzione


Schmidt e Bjork hanno realizzato una serie di procedure per il miglioramento
dell’addestramento lavorativo che, pur non conducendo ad un apprendimento veloce,
producono in seguito i migliori risultati. Esse prevedono l’uso di alcuna tattiche, come la
procedura casuale ed il feedback periodico. La procedura casuale l’apprendimento di un
esercizio non in termini di piccole parti sequenziali e consecutive, ma in modo casuale. È stato
infatti dimostrato che, sebbene l’apprendimento sistematico sia più veloce, alla lunga quello
casuale risulta migliore. Lo stesso discorso vale per il feedback periodico: dare un
riconoscimento solo dopo un certo numero di prove rende più efficaci le prestazioni
consecutive.
Ance i concetti di progettazione e invenzione sono attinenti alla psicologia dei processi cognitivi
e sono stati analizzati da Weber e Dixon che, a partire da uno strumento, hanno chiamato
affinamento il processo per mezzo del quale le componenti di uno strumento vengono
riorganizzate per renderlo più efficiente. L’analisi delle trasformazioni che conducono al
perfezionamento di uno strumento costituisce l’analisi del guadagno, che valuta
l’accrescimento dell’efficienza dello strumento. Secondo Weber e Dixon l’analisi del guadagno
potrebbe essere applicata allo sviluppo di qualsiasi invenzione e mettere gli psicologi in grado
di formulare delle raccomandazioni riguardanti le modalità di sviluppo di un prodotto.

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