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part-of), come “la ruota è una parte della bicicletta”. Utilizzando queste due relazioni, i
ricercatori hanno sottoposto a studenti universitari (non facenti parte del corso di psicologia)
delle frasi che esprimevano la connessione tra diverse attività mentali, come “la pianificazione
è una specie di pensiero” o “il pensiero è parte della pianificazione”. Rips e Conrad hanno
osservato che spesso i soggetti manifestavano l’opinione che, se una prima attività mentale è
una specie di seconda attività mentale, allora la seconda attività mentale è anche una parte
della prima. Ad esempio, ragionare veniva considerato come una specie di pensare, e pensare
come una parte del ragionare. Questa reciprocità non è presente, invece, nella classificazione
degli eventi non mentali: anche se tutti direbbero che “il cuore è una specie di organo”,
nessuno affermerebbe che “un organo è una parte del cuore”. Esiste nel senso comune una
carenza di meta cognizione, di conoscenze riguardanti il funzionamento dei processi cognitivi.
Associazionismo e comportamentismo
La teoria associazionista è vecchia di migliaia di anni: gli associazionisti credono che, alla
nascita, gli individui non posseggano pressoché alcuna conoscenza e che le strutture mentali
emergano passivamente a causa delle influenze esercitate dall’ambiente. Essi credono che
l’ambiente possa imprimere nella mente del bambino qualsiasi cosa e che, nello stato terminale
dello sviluppo, la struttura mentale adulta sia costituita da un reticolo di associazioni tra gli
eventi che sono stati esperiti. Ad esempio, se si vedono spesso due amici assieme, allora
l’immagine di uno richiama subito alla mente l’altro: i due amici sono cioè divenuti associati.
Benché l’associazionismo sia antico, lo studio scientifico delle associazioni è recente ed uno dei
suoi pionieri è stato Thorndike – che eseguì alcuni famosi esperimenti sui gatti. Se un viene
rinchiuso in una gabbia con una leva che ne facilita l’apertura, dopo un certo numero di volte
che –pestando casualmente la leva- il gatto riesce ad uscire, apprenderà di conseguenza a
pestarla volontariamente per lasciare la gabbia. Questo tipo di apprendimento è detto per
prove ed errori. Il gatto ha, secondo Thorndike, appreso un’associazione, formando una
connessione. Gli individui sono però in grado di eseguire sequenze molto rapide di risposte, ad
esempio sono in grado di suonare un pianoforte. Secondo uno psicologo associazionista, un
individuo impara a suonare il pianoforte perché è in grado di associare le note sullo spartito ai
movimenti necessari per premere i tasti opportuni sul piano. D’altra parte è possibile che, una
volta familiarizzato col brano, il pianista non abbia più bisogno di leggere le note sullo spartito.
Questo comportamento viene spiegato da uno psicologo associazionista affermando che
ciascuna risposta è diventata a sua volta lo stimolo per quella successiva (teoria della catena
associativa). Più di quaranta anni fa, però, Lashley ha messo in luce il fatto che ci sono alcuni
fenomeni che non possono essere spiegati dalla suddetta teoria: ad esempio quello della
preattivazione (priming) di una risposta. Può accadere infatti che una risposta si verifichi in
una posizione della sequenza precedente a quella prevista in base all’attivazione da parte dello
stimolo immediatamente precedente – come accada ai dattilografi esperti, che spesso
compiono errori anticipatori (ad esempio, “pesame esante” anziché “esame pesante”).
Una versione più attuale dell’associazionismo può essere il comportamentismo, di cui uno dei
capostipiti è Skinner. Egli credeva che la caratterizzazione delle attività del pensiero nei termini
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delle associazioni tra stimolo e risposta (S – R) fosse preferibile alla concezione comune e non
scientifica secondo la quale l’attività del pensiero costituisce un’attività mentale; questo perché
il comportamento –in quanto visibili- è più facilmente studiabile rispetto alla mente. Skinner ha
però ricevuto numerose critiche, in particolar modo sulla sua concezione di linguaggio, da
Chomsky. Lo psicologo comportamentista sosteneva infatti che anche il linguaggio può essere
compreso per mezzo dei principi S – R, mentre Chomsky riteneva che quei principi non
potessero spiegare numerosi fenomeni linguistici, come l’uso creativo del linguaggio. Secondo
Chomsky, il linguaggio dovrebbe essere considerato come un fenomeno controllato da un
insieme di processi centrali, piuttosto che come un processo periferico che tratta le parole
come stimoli e risposte. Per mezzo del linguaggio gli individui esprimono le loro idee. Il
processo per mezzo del quale le idee vengono trasformate nel linguaggio è un esempio di
processo cognitivo.
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unità percettivamente coerenti e, per questa ragione, le associazioni tra gli elementi che le
compongono vengono ricordate con maggiore difficoltà.
Un altro contributo alla psicologia della Gestalt venne apportato da Kohler, che –in uno dei suoi
più famosi esperimenti- osservò il comportamento di uno scimpanzé che non poteva
raggiungere una banana appesa al soffitto senza servirsi di un bastone. Nell’esperienza
dell’animale si formava una lacuna nel momento in cui non poteva raggiungere ciò che voleva.
In questo caso, la lacuna era lo spazio tra la posizione della banana e la massima estensione
delle braccia dello scimpanzé. Lo scimpanzé aveva bisogno di qualcosa per riempire questa
lacuna: capendo che cosa la situazione richiedesse si rendeva anche conto di cosa dovesse
essere fatto. A questo punto, animale era in grado di utilizzare il bastone in maniera
intelligente per colmare la lacuna. L’insight rappresenta la consapevolezza di ciò che deve
essere fatto per risolvere un problema.
I contributi della psicologia della Gestalt si fanno sentire ancora oggi: un teoria recente è il
principio del minimo, secondo cui la nostra esperienza tende naturalmente ad assumere
l’organizzazione più semplice possibile. Oggetto di studio recente è stato anche il problema
della semplicità percettiva, analizzato nel confronto tra principio di semplicità (la mante
umana tende a percepire la figura più semplice tra tutte le possibili interpretazioni) e principio
di verosimiglianza (la percezione tende verso l’organizzazione che rappresenta l’evento più
probabile). Risulta probabile che ci sia una stretta relazione tra verosimiglianza e semplicità, in
modo tale che quello che viene percepito costituisca nel contempo l’alternativa più semplice e
più verosimile. Le leggi della Gestalt, come la somiglianza e la continuità, attribuiscono
pertanto allo stimolo l’interpretazione più semplice possibile. Senza queste interpretazioni
l’esperienza non sarebbe coerente ma caotica.
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può essere compreso senza che vengano compresi tutti i piani che lo regolano. Gli individui
posseggono piani per tutte le loro attività –percepire, prestare attenzione, parlare…- e lo studio
dei processi cognitivi è costituito in gran parte dallo studio di questi piani. Per quanto riguarda
la struttura dei piani stessi, Miller, Galanter e Pribram hanno proposto un’unità di monitoraggio
chiamata TOTE (Test-Operate-Test-Exit). In una semplice unità TOTE, un’azione viene
suscitata dall’incongruità tra la situazione presente e lo stato di cose desiderato: l’individuo
continua ad “operare” finché l’incongruità viene rimossa. L’individuo verifica se l’incongruità
esiste (test); se questo accade, allora un’azione viene intrapresa per eliminare l’incongruità
(operate), a questo punto, la fase di controllo viene ripetuta (test). Se l’incongruità viene
eliminata, l’individuo termina il programma (exit), altrimenti si passa ad una nuova fase
“operate”. Le unità TOTE possono essere organizzate gerarchicamente, cioè delle unità TOTE
possono essere contenute all’interno di altre unità TOTE. Per intuire quali sono i piani di un
individuo vi sono due possibilità: si può utilizzare la tecnica del thinking aloud (“pensare ad
alta voce”), oppure, per ottenere un resoconto più preciso delle modalità di esecuzione di un
piano è necessario formulare una teoria del comportamento per quanto possibile esplicita e
precisa. I protocolli che descrivono l’attività di pensiero forniscono informazioni preliminari che
consentono la scrittura di un programma per calcolatore in grado di simulare le operazioni
eseguite dai soggetti. Se i risultati generati dal programma concordassero con quelli prodotti
dai soggetti, allora potremmo dire che il programma rappresenta una teoria adeguata del
comportamento dei soggetti. Invece, se i risultati del programma fossero significativamente
diversi da quelli dei soggetti, questo significherebbe che la teoria è insufficiente (es: test di
Turing).
L’approccio informazionale nello studio dei processi cognitivi, dunque, intende studiare il “modo
in cu siamo programmati”: la psicologia cognitiva è lo studio dei programmi mentali.
L’approccio di Neisser allo studio dei processi cognitivi si propone di seguire il corso
dell’elaborazione umana dell’informazione a partire dalla presentazione iniziale dello stimolo.
Nel caso della cognizione visiva, lo studio dell’elaborazione dell’informazione inizia con l’icona.
Il riconoscimento dell’importanza potenziale dell’icona è emerso in seguito alle ricerche di
Sperling sugli effetti di stimoli presentati al tachistoscopio a tempi di presentazione molto
bassi. Al soggetto sperimentale viene presentata per un periodo breve, ad esempio 50
millisecondi, una matrice con tre stringhe di lettere: quando scompare, viene prodotto un
suono acuto (ad indicare la riga in alto), mediamente acuto (ad indicare la riga in mezzo) o
grave (ad indicare la riga in basso): il soggetto deve ricordare la riga indicata. Sperling ha
trovato che i soggetti sperimentali sono in grado di ricordare le lettere in qualsiasi posizione,
una volta scomparsa la matrice. Ciò significa che vi è una copia dello stimolo visivo –un’icona
appunto- che persiste nella mente umana anche quando lo stimolo non è più visibile. Partendo
dal concetto di icona, Neisser si era occupato del riconoscimento di pattern, un processo che
implica una relazione tra percezione e memoria. Diverse teorie hanno cercato di spiegare il
processo di riconoscimento: Neisser ha posto l’accento su due, quella del confronto tra sagome
e quella dell’analisi delle caratteristiche. Il riconoscimento dovuto al confronto tra sagome è
basato sul confronto tra il pattern da riconoscere e la sagoma prototipica immagazzinata in
memoria: se la sagoma percepita si distacca troppo dal modello, essa non viene riconosciuta.
L’analisi delle caratteristiche (attributi come grandezza, colore, forma e così via) confronta
le caratteristiche possedute dall’oggetto percepito con quelle richieste dalla configurazione
mentale (ad esempio: mela = rotonda, liscia, rossa; non rotonda, ruvida, arancione). Una delle
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teorie più influenti a fare uso dell’approccio dell’analisi delle caratteristiche per il
riconoscimento è quella proposta da Selfridge, chiamata pandemonium idealizzato. Questo
modello è costituito da tre livelli: il livello inferiore contiene i dati, ovvero l’immagine all’interno
della quale un insieme di attributi viene rappresentato. Il livello successivo contiene i demoni
cognitivi, concepiti come piccoli folletti che esaminano gli attributi dell’immagine. Vi è un
demone per la rilevazione delle mele, un per la rilevazione delle arance e così via. Se un
demone pensa di aver rilevato il pattern appropriato, allora comincia a strillare. Tanto più il
pattern nell’immagine assomiglia a quello che il demone sta cercando, tanto più il demone
strilla. Tutti i demoni possono strillare a tempo, con intensità diversa, a seconda della
somiglianza tra il pattern che stanno cercando e quello presente nell’immagine. In cima a tutti
questi demoni vi è il demone della decisione che ascolta il pandemonio e seleziona il demone
che strilla più forte.
Un altro modello relativo all’approccio informazionale è quello proposto da Norman e Bobrow, e
descrive il flusso di informazioni nel tempo. Inizialmente, i segnali fisici come il suono o
l’energia luminosa, vengono trasformati in una forma che può essere usata dal sistema
cognitivo (trasduzione). Lo stadio successivo è quello dell’immagazzinamento iconico, il quale
ha luogo nel registro sensoriale. Lo stadio di elaborazione successivo a quello del
riconoscimento è quello della memoria a breve termine o memoria di lavoro. Essa contiene
tutto ciò di cui siamo consapevoli in un dato momento dato che l’informazione entra ed esce da
essa piuttosto velocemente: lo stadio finale dell’informazione è rappresentato dalla memoria a
lungo termine, in cui sono depositati i ricordi permanenti. Il riconoscimento di pattern ha luogo
se un item recuperato dalla memoria a lungo termine viene accoppiato con un item nel registro
sensoriale. Prendendo ad esempio l’esperimento di Sperling, quando i soggetti devono
nominare le lettere, l’informazione nella memoria a lungo termine deve essere recuperata ed
usata per il riconoscimento. Successivamente, i soggetti possono mantenere le lettere nella
memoria a breve termine per mezzo della reiterazione sub vocalica (reharsal). Quest’attività è
indicata nella figura dal loop della reiterazione di mantenimento.
Broadbrent ha però messo in luce molti limiti dei modelli propri degli stadi dell’elaborazione. Un
primo problema concerne l’eccessiva linearità di questi modelli: il flusso dell’informazione viene
concepito in un’unica direzione, dallo stimolo in avanti. Questa concezione costituisce una
semplificazione eccessiva. Un secondo problema ha a che fare con il fenomeno delle differenze
individuali: le stesse informazioni possono essere elaborate in modi diversi da persone diverse,
o anche da una singola persona in occasioni differenti. Un terzo problema riguarda la
definizione di stadio, dove si possa considerare che uno finisca per fare posto ad un altro.
Broadbrent ha proposto un modello chiamato croce maltese, in cui il registro sensoriale è
concepito come negli altri modelli e le informazioni vi vengono trattenute finché non vengono
rimpiazzate da altre. La memoria di lavoro astratta e il magazzino associativo a lungo termine
sono rispettivamente simili a memoria a breve e lungo termine, mente il magazzino delle
risposte motorie contiene i programmi di azione motoria. Questi programmi riguardano le
azioni che sono state pianificate ma non ancora eseguite. Le quattro braccia della croce sono
collegate da un sistema di elaborazione centrale, che ha la funzione di trasformare
l’informazione proveniente da un braccio della croce in una forma utilizzabile da un altro
braccio della croce stessa.
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Il connessionismo
L’approccio connessionista somiglia per certi versi a quello associazionista, ma ne costituisce
un’alternativa più potente. Le due idee fondamentali di questo approccio sono che l’azione è
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• Capitolo 3: Attenzione
Secondo la definizione di William James, l’attenzione è “l’atto per cui la mente prende possesso
in forma limpida di uno tra tanti oggetti e tra diverse correnti di pensieri che si presentano
come simultaneamente possibili”.
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Errori di attenzione
Talvolta è possibile eseguire le azioni in modo non pianificato. Gli errori di attenzione (laspese
of attention) spesso sono stati spiegati nei termini della activation-trigger-schema theory di
Norman. Ci possono essere schemi differenti per differenti forme d’azione e più di uno schema
può essere attivato in un dato momento. L’esempio fornito da Norman è quello di una
sequenza di azioni prolungata (ad esempio la guida da casa al lavoro) all’interno della quale ci
sono molteplici azioni specifiche che vengono iniziate in momenti diversi della sequenza. In
una circostanza del genere, è sufficiente pensare a ciò che si sta facendo soltanto nei momenti
critici, senza mantenere sempre l’attenzione focalizzata. Se però la routine cambiasse,
insorgerebbero dei problemi, ad esempio se si dovesse andare a comprare il pane. Tuttavia, è
possibile –non tenendo attivo lo schema “comprare il pane”, finire per raggiungere ugualmente
casa senza averlo fatto. Norman e Reason hanno studiato gli errori di attenzione di questo
tipo. Un primo tipo di errore considerato da Norman ha luogo quando noi formuliamo in
maniera inadeguata quello che è nostra intenzione realizzare. Gli errori dovuti alla
formulazione erronea delle intenzioni possono essere suddivisi in due sottoclassi: la prima è
costituita dagli errori di modalità (mode errors). Essi si verificano quando eseguiamo un’azione
che sarebbe opportuna in una situazione o modalità diversa da quella in cui l’azione viene
effettivamente eseguita (ad esempio: un individuo che tenta di togliersi gli occhiali anche se in
quel momento non li sta portando). Gli errori dovuti alla formulazione inadeguata delle
intenzioni si verificano anche quando non abbiamo una comprensione adeguata della
situazione in cui ci troviamo. Questi sono chiamati errori di descrizione (description errors): un
esempio è dato da un individuo che vorrebbe versare dell’aranciata in un bicchiere e la versa
invece in una tazzina da caffè. Un secondo tipo di errore può essere dovuto all’attivazione
erronea di uno schema, come nel caso degli errori di cattura (capture errors). Tali errori si
verificano quando uno schema familiare cattura il comportamento sostituendosi ad uno schema
non familiare. Questo si verifica, ad esempio, quando –pur volendo fare qualcosa di diverso
all’interno di una situazione a cui è associata una sequenza abituale di azioni- ci si trova ad
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spontaneamente di aver visto la forma di un’anatra nel disegno usato come stimolo, accade
che nei disegni si rinvengano molti più elementi ad essa collegati (acqua, piume, nido, uccelli).
Ai risultati di questo esperimento è possibile fornire la stessa interpretazione attribuita agli
esperimenti sulla percezione subliminale. Infatti, è possibile che il materiale mantenuto sullo
sfondo venga codificato senza che i soggetti ne siano consapevoli, e ne influenzi il
comportamento successivo.
Recentemente sono stati eseguito nuovi esperimenti che hanno fornito nuovo vigore all’idea
che l’informazione può essere codificata al di fuori della consapevolezza, come quelli di Marcel
sul mascheramento retroattivo. La tecnica del mascheramento retroattivo consiste nella
presentazione di uno stimolo target e nel mascheramento di questo stimolo per mezzo di un
altro stimolo. La differenza temporale che intercorre tra la presentazione del primo stimolo e la
presentazione dello stimolo di mascheramento è chiamata stimulus onset asynchrony. In uno
dei primi esperimenti ai soggetti veniva brevemente presentata una singola parola che veniva
poi mascherata da un pattern. I soggetti dovevano cercare di identificare la parola stimolo.
Talvolta i soggetti riportavano parole diverse da quelle effettivamente presentate, ma
semanticamente collegate alle parole stimolo. Tuttavia, è possibile che queste risposte fossero
state prodotte in maniera casuale, il che rendeva necessari ulteriori controlli sperimentali. In
questi esperimenti si differenzia tra soglia oggettiva e soglia soggettiva: la prima si riferisce
alla soglia in cui i soggetti identificano uno stimolo con un’accuratezza superiore al caso,
mentre la seconda a quella in cui i soggetti asseriscono di poter identificare uno stimolo con
un’accuratezza superiore al caso, cioè si riferisce alla personale soglia in corrispondenza della
quale i soggetti si sentono consapevoli dello stimolo. In altri esperimenti, vi era una differenza
temporale tra lo stimolo target e lo stimolo di mascheramento apparentemente tropo breve per
consentire il rilevamento dello stimolo – vagamente simile all’effetto Stroop. Una superficie
colorata veniva mostrata dopo la presentazione e il mascheramento della parola target. La
parola target poteva essere “blu”, per esempio, e la superficie essere di colore rosso. In alcune
prove, le parole target ed i colori erano congruenti, in altre no. I soggetti dovevano riportare il
nome della superficie colorata: anche se essi non erano in grado di dire nulla a proposito della
parola target, rispondevano più velocemente alle prove congruenti. Tutti questi, sono esempi
di misure indirette dei processi cognitivi, che si differenziano da quelle dirette, come i
protocolli verbali in cui i soggetti devono indicare se abbiano o meno visto lo stimolo.
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è ciò che rimane impresso sulla cera dopo che il foglio di plastica è stato sollevato, i ricordi
sono confusi gli uni con gli altri. Se la memoria funzionasse così, allora la rievocazione
raramente sarebbe l’esatta ripetizione dell’esperienza originale. In realtà, è poco probabile che
la memoria abbia una struttura così poco organizzata come quella del notes magico, ma esso
aiuta a chiarire la distinzione tra tracce di memorie e schemi di memoria. Se le tracce di
memoria esistessero veramente, allora sarebbero depositate in memoria come copie ben
definite dell’esperienze precedenti. Da questo punto di vista ricordare significa di nuovo fare
esperienza di ciò che è successo in passato. Questa ipotesi è stata chiamata da Neisser
l’ipotesi della riapparizione.
Talvolta accade che i nostri ricordi siano particolarmente chiari e vividi: questo tipo di ricordi
sono stati studiati da Brown e Kulik: essi chiesero ad ottanta studenti universitari di ricordare
in che circostanze fossero venuti a conoscenza dell’assassinio di Kennedy, avvenuto dieci anni
prima. Quasi tutti i soggetti possedevano un ricordo vivido e dettagliato dell’assassinio e,
tipicamente, rammentavano informazioni riguardo: il luogo in cui si trovavano alla scoperta
dell’assassinio, ciò che stavano facendo, chi ha dato loro la notizia, il loro stato d’animo in quel
momento e ciò che accadde in seguito. I due ricercatori hanno chiamato flash di memoria i
ricordi di questo tipo e hanno proposto un modello per spiegarne la formazione. La loro teoria
è chiamata Now Print e ipotizza che l’informazione venga elaborata secondo una sequenza
predefinita. In primo luogo, è necessario giudicare il valore di sorpresa di un evento, tanto
maggiore quanto più l’evento è inconsueto. In seguito si valuta quanto un evento sia
importante: se esso viene considerato sorprendente e importante, allora il terzo stadio è quello
della formazione del flash. Il quarto stadio è quello della reiterazione: gli individui tendono a
pensare ai flash di memoria più spesso che agli altri ricordi e questo conduce al quinto stadio,
quello dei resoconti dei flash di memoria che vengono raccontati ad altre persone. La teoria
Now Print si concentra sul terzo stadio: è così chiamata perché si suppone che gli individui
creano una copia di certe esperienze, proprio come una fotocopiatrice. Si tratterebbe di un
meccanismo primitivo, risalente a quando ancora gli eventi straordinari non potevano essere
documentati con ausili artificiali (ad esempio i libri). Non per tutti i ricercatori questa ricerca è
convincente. Cohen e colleghi hanno raccolto informazioni sull’esplosione della navetta spaziale
Challenger da quarantacinque soggetti per mezzo di questionari soltanto tre giorni dopo il
disastro. Nove mesi più tardi, ventisette di questi soggetti riempirono dei questionari di follow-
up. Tutti i soggetti ricordavano qualcosa delle circostanze in cui erano venuti a sapere del
disastro, ma i resoconti forniti nove mesi dopo risultavano molto più generici dei primi, ad
esempio, alcuni soggetti dimenticavano o sbagliavano il nome della persona che li aveva
informati riguardo il disastro. Addirittura sette soggetti fornirono racconti incoerenti. Cohen e
colleghi hanno concluso che i flash di memoria non sono necessariamente più accurati dei
ricordi normali, ma vengono ricordati perché rappresentano i collegamenti tra la nostra storia
personale e la storia vera e propria. Questo approccio, sostenuto da Neisser, è stato chiamato
Reconstructive-Script e contrasta la teoria del Now Print.
Weaver ha esaminato le differenze tra i flash di memoria e i ricordi ordinari. Ai suoi soggetti
venne chiesto di ricordare tutte le circostanze che accompagnavano il loro primo incontro con
un amico. Per puro caso, quella sera stessa il presidente Bush ordinò che venisse dato inizio al
bombardamento dell’Iraq. Due giorni dopo si chiese ai soggetti di rispondere a dei questionari
che riguardavano sia l’incontro con l’amico sia la notizia del bombardamento. Vennero
effettuati due controlli a tre e dodici mesi di distanza. Confrontando i ricordi registrati in
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seguito con quelli originali, Weaver trovò che i due eventi venivano ricordati con pari
accuratezza, tuttavia, i soggetti si sentivano molto più sicuri riguardo il bombardamento
rispetto all’altra circostanza.
La teoria di Bartlett
La rilevanza che la nozione di schema ha assunto all’interno della psicologia della memoria si
deve a Bartlett. Nei suoi esperimenti, egli ha fatto uso di una tecnica chiamata metodo delle
riproduzioni in serie. Ad un primo soggetto viene dato qualcosa da ricordare: egli mette per
iscritto tutti i particolari che è in grado di rievocare. La versione così ottenuta viene fatta
leggere ad un secondo soggetto, il quale svolge lo stesso compito. La sua versione viene
fornita ad un terzo soggetto e così via. Dai riassunti si osservò che gli individui tendono a
selezionare una parte del materiale che deve essere ricordato e ad ometterne un’altra parte.
Queste omissioni riflettono un processo di razionalizzazione: ciò che è inusuale viene
trasformato, nel corso del tempo, in un contenuto sempre più familiare. Sulla base di
esperimenti di questo tipo Bartlett ha concluso che: il ricordo non è una rieccitazione di tracce
isolate, ma una costruzione immaginativa costruita dalla relazione del nostro atteggiamento
verso dettagli di rilievo che emergono dal testo. Questa massa attiva di reazioni è ciò che
Bartlett intendeva con la nozione di schema. Uno schema costituisce una struttura organizzata
che guida il nostro comportamento, un modello che può essere modificato per adattarsi a
circostanze diverse.
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astratto ed integrato le idee espresse dalle frasi di acquisizione. Maggiore è la semplicità di una
frase test, tanto più grande è la possibilità che essa venga riconosciuta erroneamente come
una frase di acquisizione. Un secondo esperimento è stato condotto in base ad un famoso
studio sulla testimonianza oculare. Ai soggetti veniva mostrato il filmato di un incidente
automobilistico, quindi veniva chiesto loro a che velocità andavano gli automobilisti al
momento dell’urto. I verbi utilizzati nella domanda potevano essere “urtare”, “scontrare”,
“entrare in collisione”, ecc… Le stime della velocità fornite dai soggetti erano di gran lunga
superiori quando veniva utilizzato il verbo “scontrare”, anziché “urtare”. Passata una
settimana, i soggetti venivano nuovamente interrogati sull’incidente del filmato, e veniva
chiesto loro se avessero visto o meno vetri rotti. Anche in questo caso, coloro che erano stati
sottoposti alla domanda contenente il verbo “scontrare” rammentavano in maggior numero i
vetri rotti. La spiegazione fornita per questi risultati sostiene che i due tipi diversi di
informazioni (il filmato e la domanda) si siano integrati nel corso del tempo, in modo tale che
non fosse più possibile decidere a quale delle due font appartenessero i singoli dettagli. Le
informazioni fuorvianti acquisite successivamente all’evento si erano cioè integrate con le
informazioni originarie. A partire da questi esperimenti, è stata anche studiata la possibilità che
gli individui non discriminino nel migliore dei modi tra ricordi reali e ricordi di eventi
immaginati. Se un evento viene immaginato in maniera particolarmente vivida, infatti, in
seguito può essere difficile ricordare se quell’evento sia effettivamente accaduto oppure no. Il
processo per mezzo del quale gli individui distinguono tra eventi immaginari e reali è definito
prova di realtà. In un esperimento, ai soggetti veniva mostrata la fotografia di un ufficio, in cui
c’erano quattro persone e molti oggetti diversi. In seguito, veniva fatto leggere loro un brano
contenete la descrizione dell’ufficio che conteneva dei particolari inesatti. I soggetti venivano
poi sottoposti ad una prova di riconoscimento. I soggetti dovevano leggere una lista di parole
ed indicare se ciascun item della lista era presente o meno nella fotografia. In un’altra
condizione sperimentale i soggetti venivano sottoposti ad un test di monitoraggio delle fonti,
per decidere se gli item della lista erano presenti nella foto, nel testo, oppure in entrambi. In
generale, i soggetti avevano la tendenza a considerare come appartenenti alla fotografia alcuni
item che invece erano stati soltanto suggeriti dal brano: un numero significativamente minori
di errori di questo tipo avveniva tuttavia nella condizione di monitoraggio delle fonti. Gli errori
compiuti durante la rievocazione sono dunque dovuti più ad un’imperfezione di recupero che
ad un’inesattezza del ricordo.
Script
Il concetto di script (copione) può essere usato per dar conto degli stessi fatti spiegati
mediante il concetto di schema. Schank e Abelson sono stati i primi a far uso della nozione di
script nella ricerca sulla memoria, mentre Neisser ha usato la teoria reconstructive-script per
spiegare il fenomeno dei flash di memoria. Schank e Abelson hanno definito uno script come
“una struttura che descrive una sequenza appropriata di eventi in un contesto particolare”,
oppure come “una sequenza predeterminata e stereotipica di azioni che definisce una
situazione ben conosciuta”. Inizialmente, questi ricercatori hanno rivolto la loro attenzione nei
confronti di script particolari, come quello del ristorante. Tutti ci aspettiamo, in n ristorante, di
ordinare il cibo, di mangiare, di pagare il conto e così via. Nei loro esperimenti, ai soggetti
veniva chiesto di elencare tutte le attività abituali che vengono comunemente svolte in alcune
situazioni tipiche (ristorante, supermercato, dottore, università…). I ricordi più concreti sono
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quelli che riguardano le esperienze specifiche. Secondo Schank, questi ricordi costituiscono la
memoria di eventi (ad esempio, una visita ad uno studio dentistico). Le normali visite
dentistiche dovrebbero svanire piuttosto rapidamente in memoria. Al livello seguente vi è la
memoria di eventi generalizzati. Come indicato dal nome, questo livello di memoria contiene le
informazioni che sono state astratte a partire da eventi particolari. Qui è immagazzinato ciò
che è comune alle varie memorie di eventi. Il genere di cose che caratterizza le normali visite
dentistiche fa parte della memoria di eventi generalizzati. A questo livello vengono
immagazzinate soltanto le informazioni relative ad uno script particolare, e non le informazioni
comuni a script diversi (ad esempio, sedersi nella sala d’aspetto). Le informazioni comuni a
script diversi fanno parte del successivo livello di memoria, quella situazionale. Una visita
medica descrive una situazione generale all’interno della quale si possono verificare le
esperienze più specifiche della visita dentistica, ortopedica, pediatrica, ecc… Ciò che gli eventi
generalizzati hanno in comune –ad esempio il dover aspettare prima di vedere il medico- va a
confluire nella memoria situazionale. Il livello di memoria ancora più generale è quello della
memoria intenzionale. La visita ad un dottore rappresenta infatti un esempio specifico del
“recarsi ad un ufficio”. L’idea di Schank di caratterizzare la memoria nei termini di diversi livelli
è molto simile ad altri approcci influenti all’interno della psicologia cognitiva.
Livelli di elaborazione
Un modello come quello di Schank si preoccupa maggiormente degli aspetti strutturali
piuttosto che di quelli procedurali dell’attività cognitiva. Al contrario, l’approccio di Craik e
Lockhart pone l’accento sui processi che influenzano la memoria. Costoro distinguono una
modalità superficiale ed una profonda di elaborazione. Considerando, ad esempio, la parola
TRENO, un’elaborazione superficiale (che considera solo le caratteristiche fisiche) ci porterebbe
ad osservare che la parola è scritta in maiuscole, ma, se la stessa parola viene elaborata in
maniera più profonda, si nota che essa si riferisce ad un mezzo di trasporto: in questo caso la
parola è stata elaborata nei termini del suo significato. Maggiore è il significato che viene
estratto da un evento, tanto più profondo è il livello di elaborazione.
Nella teoria dei livelli di elaborazione, sono possibili due differenti tipi di reiterazione. La
reiterazione di mantenimento che viene usata, ad esempio, ogni qual volta un individuo
continua a ripetersi un numero per non dimenticarlo. La reiterazione integrativa, invece,
sottopone un evento ad un’elaborazione più profonda. Numerose ricerche hanno studiato la
relazione che intercorre tra queste due forme di reiterazione. Alcune di queste ricerche hanno
fatto uso del compito di Brown-Peterson. Nel tipico paradigma sperimentale del compito di
Brown-Peterson, ai soggetti vengono presentati una serie di item e un numero. Dopo aver
sentito l numero, i soggetti iniziano a contare a ritroso dal numero indicato; dopo uno specifico
intervallo, il soggetto deve rievocare gli item. La numerazione a ritroso però, probabilmente,
ha bloccato qualsiasi tipo di reiterazione: infatti, tipicamente, la rievocazione è più accurata se
l’intervallo non è occupato dalla numerazione a ritroso.
Le critiche rivolte al modello di Craik e Lockhart, come quella di non specificare in maniera
sufficiente i meccanismi soggiacenti alla memoria, hanno portato i ricercatori a svilppare dei
novi concetti, come quello di complessità di rielaborazione e di distintività. La complessità di
rielaborazione si riferisce alla “quantità di elaborazione ulteriore effettuata dall’individuo che
produce materiali addizionali”. La distintività si riferisce invece alla precisione con cui un
elemento è codificato. Gli eventi dotati di un carattere distintivo sono più facili da ricordare.
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Stein e colleghi hanno studiato le forme di rielaborazione usate dagli studenti ad alto e basso
rendimento scolastico. Nell’esperimento, agli studenti venivano fornite frasi come “L’uomo
affamato salì sulla propria automobile” da completare. Mentre gli studenti ad alto rendimento
tendevano a completare le frasi in modo pertinente (ad esempio, “L’uomo affamato salì sulla
propria automobile, per andare al ristorante”), quelli a basso rendimento producevano
rielaborazioni del tipo “L’uomo affamato salì sulla propria automobile e partì”. Da questo
esperimento, Stein e colleghi dedussero che gli studenti a basso rendimento scolastico spesso
non rielaborano in maniera appropriata il materiale da apprendere, riscontrando così difficoltà.
I concetti di complessità di rielaborazione e distintività costituiscono delle alternative meno
vaghe alla nozione di profondità di elaborazione.
Craik e Lochart hanno messo la loro teoria in relazione con il concetto di memoria di lavoro,
cioè “il sistema di memoria a cui è affidato il compito di manipolare temporaneamente
l’informazione” – nozione di memoria primaria attiva è anche simile alla nozione di memoria di
lavoro proposta da Baddeley, anche se la seconda ha carattere più strutturale. La memoria
primaria, come viene concepita da Craik e Lockhart, invece, costituisce un’attività di
elaborazione e non una struttura.
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ecologico è stato criticato perché sembra incapace di condurre a principi generalizzabili intorno
alla memoria.
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Memoria semantica
La memoria semantica si riferisce alle informazioni di carattere generale che possediamo a
proposito del mondo. Tulving l’ha paragonata ad un dizionario che contiene parole, concetti e
le loro relazioni. L’uso della memoria semantica può essere esemplificato facendo riferimento,
ad esempio, ai tentativi di ricordare il nome di una persona, cosa che spesso risulta alquanto
difficile. James ha chiamato questo fenomeno tip-of-the-tongue (“sulla punta della lingua”). In
n famoso studio su questo fenomeno, sono stati presentate ai soggetti le definizioni di 49
parole a bassa frequenza, come abside, cloaca e così via. Nei casi in cui si produceva il
fenomeno “sulla punta della lingua”, spesso, i soggetti erano in grado di identificare alcuni
aspetti della parola critica come la lettera iniziale o il numero di sillabe (rievocazione generica).
In un altro esperimento, i soggetti, divisi in varie fasce d’età, dovevano tenere un diario per
annotarvi tutti i casi di parole “sulla punta della lingua”, specificando quando e come si fossero
risolti: strategie di ricerca, consultazione di libri, oppure se semplicemente la parola spuntava
fuori all’improvviso – pop up. I pop – up erano la soluzione più frequente per tutti i gruppi di
età, ma specialmente per gli anziani. I dati sottolinaevano inoltre come sia più difficile
recuperare la parola quando vi sono alternative persistenti, cioè “parole scorrette che si
affacciano più volte alla mente”.
Uno dei primi veri e propri modelli di memoria semantica è stato proposto da Quillian, nei
termini di una rete gerarchica. La rete è costituita da tre tipi di elementi: unità, proprietà e
puntatori. Le unità tipicamente si riferiscono ad insiemi di oggetti e costituiscono i nodi della
rete. I nodi sono etichettati per mezzo di sostantivi, le proprietà per mezzo di aggettivi o verbi.
I puntatori specificano le relazioni fra unità diverse, e le relazioni fra le unità e le proprietà. I
puntatori possono essere descritti per mezzo di verbi come essere, avere o potere. Un modo d
esplorazione della memoria semantica è la cosiddetta “illusione di Mosè”. Essa si riferisce al
fatto che molte persone rispondono alla domanda: “Quanti animali di ciascuna specie portò
Mosè con sé sull’arca?” con “Due”. Naturalmente, nessun animale venne portato sull’arca di
Mosè, era Noè. Ciò indica che le persone non ricercano una corrispondenza esatta tra
l’informazione contenuta nella memoria semantica e quella contenuta nella domanda, ma si
accontentano di una corrispondenza approssimata. Così, quando devono rispondere ad una
domanda, le persone spesso ricorrono all’informazione che più si avvicina a quella richiesta.
Una nozione emersa dallo studio della memoria semantica è quella della propagazione
dell’attivazione proposta da Quillian. Secondo tale nozione, nel corso di una ricerca
all’interno di una rete gerarchica vengono attivati tutti i percorsi della rete lungo i quali la
ricerca ha luogo. L’attivazione si propaga dal nodo dove inizia la ricerca. Tanto maggiore è
l’attivazione di un nodo, tanto più facilmente la sua informazione può essere elaborata. Molti
esperimenti sono stati condotti a proposito del fenomeno della facilitazione. In uno di questi, ai
soggetti venivano mostrate due parole che potevano essere veri e propri termini della lingua
inglese, oppure “non parole”. I soggetti dovevano semplicemente dire sì o no a seconda che il
termine fosse o meno esistente. Talvolta, il secondo termine era semanticamente associato al
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Memoria autobiografica
La memoria autobiografica è una forma di memoria episodica nella quale gli eventi vengono
rievocati insieme all’indicazione del momento della vita dell’individuo in cui si sono verificati. In
genere le persone sono in grado di ricordare circa 220 racconti autobiografici relativi agli ultimi
vent’anni (numero di Galton), anche se vi sono discriminazioni tra diversi gruppi d’età. Ad
esempio, il fenomeno della reminescenza, riscontrato nei soggetti over 50, comporta un
ricordo più vivido dei primi anni di vita; mentre la cosiddetta amnesia infantile riguarda il
ricordo molto incerto e nebbioso dei primi cinque anni di vita. Secondo Erikson, la
reminescenza si spiega con il fatto che è proprio a fine adolescenza – prima età adulta che gli
individui compiono le scelte più importanti della vita (la scelta del lavoro, il matrimonio…), per
cui è naturale che tali ricordi siano più vividi. Un altro processo di offuscamento dei ricordi è
rappresentato, naturalmente, dal graduale declino della memoria con il passare del tempo.
Oltre ai ricordi personali, la memoria autobiografica contiene i ricordi dei principali fatti storici
che hanno influenzato e dato un significato agli eventi della nostra vita (memoria storica). Gli
eventi pubblici che vengono mediamente meglio ricordati sono quelli di cui si sono occupati i
media, e vengono in genere raggruppati in periodi (ad esempio, la presidenza Kennedy).
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o suono che si producono con la mente. L’approccio proposto da Paivio è chiamato teoria
della doppia codifica, poiché postula l’esistenza di due sistemi di coficia indipendenti: quello
verbale e quello non verbale. Un evento può essere descritto per mezzo di parole usando il
sistema verbale, oppure può essere immaginato usando il sistema non verbale. Le unità di cui
è composto il sistema verbale sono chiamate logogens, e contengono le informazioni di cui ci
serviamo quando usiamo le parole; le unità del sistema non verbale sono chiamate imagens, e
contengono le informazioni necessarie per generare immagini mentali. Gli imagens
corrispondono ad oggetti naturali e possono generare varie immagini mentali associate tra
loro. Al contrario degli imagens, i logogens operano in maniera sequenziale: in una frase le
parole vengono una dopo l’altra. La teoria di Paivio sostiene che le parole che suscitano con
facilità un’immagine mentale tendono ad essere concrete (ad esempio tavolo), al contrario di
quelle astratte (ad esempio intenzione). La concretezza misura il grado in cui una parola si
riferisce a qualcosa che può essere esperito per mezzo dei sensi. L’immaginabilità e la
concretezza possono essere misurate e risultano direttamente proporzionali: concetti ad alta
concretezza sono anche più facilmente immaginabili. Una delle prime ricerche condotte da
Paivio ha esaminato il ruolo dell’immaginabilità nell’apprendimento. I soggetti dovevano
apprendere sedici coppie di parole ciascuno: le coppie potevano essere del tipo concreto-
concreto, concreto-astratto, astratto-concreto, astratto-astratto. L’apprendimento è migliore
quando entrambe le parole sono concrete, peggiore quando entrambe sono astratte. La
rievocazione del secondo termine di ciascuna coppia è migliore se il primo termine è concreto.
Per queste ragioni, il collegamento tra termini astratti e correlativi concreti è frequentemente
utilizzato come mnemotecnica.
Una caratteristica delle immagini è la distintività: le immagini bizzarre possono infatti facilitare
il ricordo. In un esperimento di apprendimento di coppie di parole, ai soggetti venivano
presentati, insieme con i lemmi, dei disegni rappresentanti o un’immagine ordinaria o
un’immagine bizzarra (ad esempio, nel caso della coppia ciotola-dottore, l’immagine ordinaria
poteva essere di un dottore con una ciotola in mano, quella bizzarra di un dottore con una
ciotola in testa). I risultati dei test a cui i soggetti venivano sottoposti immediatamente dopo la
presentazione degli stimoli indicavano che la rievocazione era più accurata nel caso delle
immagini ordinarie; ma con l’aumentare dell’intervallo tra apprendimento e test le immagini
bizzarre si dimostravano più efficaci. Una delle possibili interpretazioni di questo fatto è che le
immagini bizzarre producano tracce di memoria dotate di distintività maggiore rispetto a quelle
ordinarie. La distintività è percepita anche nella vita comune: ad esempio nascondere oggetti
in luoghi particolari significa farvi affidamento per aiutare la rievocazione di luogo/oggetto. La
strategia che ci porta a nascondere gli oggetti in luoghi particolari costituisce un esempio di
falsa credenza a proposito del funzionamento della memoria, un fallimento della meta
memoria.
Un altro aspetto della nostra meta memoria è costituito dalla credenza che la memoria peggiori
col passare del tempo. In alcune circostanze, tentativi ripetuti di rievocazione possono portare
ad un miglioramento della rievocazione stessa. Questo fenomeno è chiamato ipermnesia: “il
miglioramento nel livello complessivo di rievocazione associato a intervalli di ritenzione
crescenti”. In un tipico esperimento tre gruppi di soggetti erano istruiti a tentare di ricordare
almeno quaranta parole tra le sessanta di una lista (rievocazione forzata). Al primo gruppo
venivano fornite semplicemente le parole, al secondo i disegni degli oggetti e al terzo le parole,
ma si chiedeva loro di formare delle immagini mentali. Dopo tre tentativi di rievocazione,
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Rotazione mentale
Le immagini mentali possono avere un carattere dinamico, come dimostrano gli esperimento di
Shepard: ai soggetti venivano presentate coppie di disegni, in cui, in alcuni casi, i due disegni
rappresentavano lo stesso oggetto ruotato, in altri casi rappresentavano oggetti diversi. La
consegna sperimentale era quella di decidere se i disegni rappresentavano o meno lo stesso
oggetto, rispondendo mediante la pressione di una leva con la mano destra o sinistra. La
latenza della risposta veniva misurata. I tempi di reazione sono tanti più grandi quanto
maggiore è la rotazione angolare necessaria per allineare gli oggetti rappresentati: i soggetti
realizzano un vero e proprio lavoro di rotazione mentale.
Kosslyn ha realizzato una serie di esperimenti volti ad esplorare la relazione tra percezione ed
immaginazione. In uno di questi, i soggetti dovevano memorizzare la mappa di un’isola, in cui
vi erano differenti luoghi a distanze diverse gli uni dagli altri. Ai soggetti veniva poi chiesto di
formare un’immagine mentale della mappa e perlustrare i vari luoghi immaginando “un
puntino nero che si muoveva velocemente lungo il percorso più breve”. I soggetti dovevano
premere un bottone una volta giunti a destinazione: il tempo necessario per passare da un
luogo all’altro era proporzionale alla distanza tra questi luoghi nella mappa.
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• Capitolo 7: Concetti
Approccio classico
Alcuni concetti possono essere costituiti semplicemente da una congiunzione di attributi. Altri
concetti sono più complessi. Per appartenere ad un concetto disgiuntivo, per esempio,
l’oggetto deve possedere una qualsiasi delle due classi di attributi. Per capire perché un
oggetto costituisce un caso positivo di concetto disgiuntivo è necessario sapere quali sono gli
attributi rilevanti in base ai quali il concetto è stato definito e quali sono invece gli attributi
irrilevanti. Se un attributo fosse presente in tutti i casi positivi del concetto, allora si potrebbe
concludere che questo è un attributo rilevante – la sua presenza è necessaria affinché qualcosa
possa essere considerato come un membro del concetto. Il processo di inclusione degli attributi
ricorrenti e di esclusione degli attributi non ricorrenti è detto di astrazione. Gli attributi
ricorrenti, o caratteristiche dei singoli membri di una famiglia, andrebbero a definire il concetto
di somiglianza della famiglia. Nello studio della formazione dei concetti, Bruner ha usato
compiti sia di selezione sia di ricezione. Prendendo ad esempio un semplice concetto
congiuntivo come un quadrato nero, lo sperimentatore presenta ai soggetti un caso positivo
del concetto, ad esempio, una carta con un quadrato nero e un bordo. I soggetti devono
scegliere una qualsiasi delle altre carte per scoprire il concetto usato dallo sperimentatore che
dovrebbe confermare o smentire le scelte dei soggetti. Questo è un compito di selezione,
perché sono i soggetti a scegliere gli stimoli. Per scoprire il concetto, i soggetti utilizzano infatti
una strategia di focalizzazione conservativa, perché si focalizzano su un attributo e scelgono gli
stimoli che variano solo sulla dimensione rappresentata da questo attributo. Al contrario, nel
caso di una strategia di tipo olistico, i soggetti inizialmente assumono che il concetto sia
definito in base a tutti gli attributi presenti nel caso positivo del concetto. Se lo stimolo
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successivo è coerente con questa ipotesi, l’ipotesi viene conservata, altrimenti ne viene
formata una nuova. Nel caso di una strategia di tipo elementaristico, la prima ipotesi è
formulata nei termini di un sottoinsieme degli attributi del caso positivo del concetto, che viene
mantenuta finché non si trovano evidenze contrastanti.
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frequentemente di altre (per esempio, se un animale è alato esso tende anche ad avere
piume): attributi correlati.
Secondo Rosch, a causa di questi principi, i concetti finiscono per essere organizzati all’interno
di un sistema caratterizzato da dimensioni verticali e orizzontali. La dimensione verticale si
riferisce all’inclusività di una categoria. La categoria “mobile” per esempio, è più inclusiva della
categoria “sedia” la quale, a sua volta, è più inclusiva della categoria “sedia da cucina”. La
dimensione verticale, in questo modo, fa riferimento alla generalità di un concetto. I tre livelli
sono chiamati sovraordinato, base e subordinato. Le categorie a livello base avevano un
numero maggiore di attributi in comune di quanti ne avessero le categorie a livello
sovraordinato. Rosch ha scoperto che i bambini sono in grado di usare in maniera accurata le
categorie a livello base prima delle categorie a livello sovraordinato. “Sedia” viene acquisito
prima di “mobile”. Il livello base è generalmente quello più utile per la classificazione degli
oggetti.
La dimensione orizzontale, d’altro canto, distingue fra differenti concetti allo stesso livello di
inclusività. “Cane” e “gatto”, per esempio, sono concetti dotati approssimativamente dello
stesso livello di generalità. All’interno di ciascun livello della gerarchia categoriale alcuni
esemplari sono più proto tipici di altri. Rosch ha chiesto ai soggetti di valutare in che misura gli
esemplari di una categoria rappresentino la categoria nel suo insieme. Gli esemplari proto tipici
di una categoria condividono molti attributi con gli altri membri della medesima categoria e
pochi attributi con i membri di altre categorie. La dimensione orizzontale della struttura
categoriale è chiarita dagli esperimenti precedenti nel senso che i concetti hanno una struttura
graduata se alcuni membri della categoria sono miglior esempio della categoria stessa che non
altri e, inoltre, i confini della categoria non sono rigidamente definiti.
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Capitolo 8: Linguaggio
Il primo a svolgere importanti ricerche sl linguaggio è stato Wundt, specialmente per quanto
riguarda la relazione tra l’esperienza e le parole che vengono usate per descriverla. Le relazioni
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tra le singole componenti che costituiscono un’esperienza sono state da lui descritte tramite
diagrammi ad albero.
L’ipotesi innatista
Chomsky credeva che la competenza linguistica fosse innata, ipotesi che viene avvalorata dal
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fatto che l’insieme di enunciati cui è sottoposto il bambino in età evolutiva costituisce un
campione inadeguato delle strutture della lingua, insufficiente per mettere in grado i bambini
a usare il linguaggio in maniera efficace (povertà dello stimolo). Di conseguenza, si ritiene che
i bambini abbiamo un dispositivo per l’acquisizione del linguaggio, il LAD (Language Acquisition
Device) che contiene i principi della GU.
L’ipotesi innatista ha suscitato parecchie critiche: di non essere stata formulata in maniera
sufficientemente chiara per essere verificata sperimentalmente, e di non considerare il
linguaggio “particolarmente elementare” con cui i genitori comunicano con i propri figli.
Una proprietà cruciale dell’attuale approccio innatista va sotto il nome di approccio principi-e-
parametri e prevede che l’acquisizione del linguaggio avvenga attraverso una specificazione di
parametri: la GU possiede una serie di interruttori di controlli che possono assumere differenti
parametri (aspetti universali del linguaggio che possono assumere determinati valori all’interno
di una limitata serie di alternative). Ad esempio, se in inglese il verbo precede sempre –
invariabilmente- l’oggetto, in tedesco avviene il contrario. La posizione del verbo è dunque un
parametro che viene specificato in maniera diversa nel caso di una lingua specifica.
Bickerton ha proposto una versione di facoltà innata nota come ipotesi del bioprogramma
per il linguaggio, distinguendo tra le protolingue (come il pidgin) e le lingue vere e proprie. Il
pidgin era un gergo anglo-cinese usato dai portuali come mezzo di comunicazione tra le due
lingue ed in cui le la disposizione delle parole era relativamente poco strutturata. Bickerton ha
sottolineato come i figli dei marinai che parlavano il pidgin fossero, ad una sola generazione di
distanza, in grado –nonostante l’ambiente culturale povero- di parlare il creolo, un dialetto con
la struttura grammaticale dell’inglese e molto più complesso del pidgin. Il pidgin e il creolo
corrispondono dunque a due stadi diversi nello sviluppo del linguaggio, assimilabili a quelli del
processo evolutivo dei bambini nell’apprendimento del linguaggio (stadio olofrastico e
telegrafico).
Comunicazione e comprensione
Un aspetto critico della psicologia del linguaggio è la comprensione della lingua scritta e parlata
– su cui influisce molto anche il contesto. Un’utile distinzione a questo proposito è quella tra
informazione data ed informazione nuova. Coloro che sono coinvolti in una conversazione sono
detti entrare in contatto dato-nuovo per mezzo del quale il parlante aggiunge nuove
informazioni a quelle che già possiede l’ascoltatore. La comprensione sarebbe infatti
impossibile se colui che parla si limitasse ad introdurre nuove informazioni senza metterle in
relazione con ciò che l’ascoltatore già conosce. Inoltre, per comprendere i pensieri che il
parlante vuole comunicare, l’ascoltatore deve operare una decodificazione: la frase “Il caffè mi
terrebbe sveglio”, ad esempio, può essere interpretata in maniera positiva o meno, a seconda
delle circostanze. Grice ha analizzato il processo comunicativo nei termini di intenzioni ed
inferenze: colui che parla intende informare, colui che ascolta inferisce ciò che il parlante
intende. Per facilitare questo processo, i partecipanti alla conversazione devono rispettare il
principio di cooperazione, dato da quattro regole, o massime conversazionali (sulla base
delle quali vengono fatte le inferenze): non dire più del necessario (massima della quantità),
essere veritieri (massima della qualità), essere pertinenti (massima della relazione) ed essere
chiari (massima del modo).
Il linguaggio può essere utilizzato anche in modo figurato, come nel caso dell’ironia, una
figura retorica in cui ciò che si vuole dire è esattamente l’opposto di ciò che si dice. Essa
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comporta l’uso della simulazione, in quanto postula un duplice destinatario: un primo che
ascolta e non capisce, ed un secondo che è consapevole sia del surplus di significato sia
dell’incomprensione di coloro che si limitano al significato letterale. Se si interpreta l’enunciato
ironico secondo le massime di Grice si perviene alla teoria standard dell’ironia, secondo la
quale l’ascoltatore svolge due codifiche consecutive, una letterale ed una “reale”. Infatti, in
base al principio qualità, l’ascoltatore si aspetta un assunto veritiero e, se si accorge che esso è
invece contraddittorio, lo interpreta diversamente. Una teoria alternativa è quella del
promemoria ecoico, per cui gli ascoltatori intuiscono l’ironia dell’enunciato riconoscendo
l’allusione a pensieri ed opinioni di una persona diversa da colui che parla.
Competenza testuale
La competenza testuale ci consente di partecipare a certe forme del discorso, ci consente di
parlare dell’atto linguistico, delle domande, delle risposte e corrisponde alla capacità di usare
un metalinguaggio. Il riferimento alle proprietà testuali del messaggio linguistico rende
possibile la distinzione tra testo orale e scritto e le interpretazioni che vengono date a questo
testo. La competenza testuale non è una condizione tutto-o-nulla. Il grado di esposizione a
testi scritti varia molto da persona a persona ed è correlato con le abilità cognitive relative al
vocabolario e alla fluidità verbale.
Lingua e cultura
Ogni cultura ha la sua lingua: se due lingue sono molto diverse fra loro, allora anche
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l’esperienza del mondo di coloro che parlano queste lingue sarà diversa (relatività linguistica).
Il principio della relatività linguistica significa che coloro che si servono di sistemi grammaticali
molto diversi non possono essere considerati come osservatori equivalenti ma, invece, devono
essere considerati come individui dotati di una diversa prospettiva sul mondo. Whorf ha
raggruppato le lingue europee in un gruppo e le ha poste in contrasto con le lingue
amerindiane. Nelle prime lingue prevale la formula forma+sostanza, che comprende i nomi di
sostanza. Essi denotano sostanze informi: la parola “pane”, ad esempio, non fornisce alcuna
indicazione a proposito della grandezza della forma del pane. I nomi di sostanza fanno
riferimento a categorie non delimitate da confini precisi. Queste categorie non compaiono
invece nelle lingue amerindiane. Un altro famoso esempio presentato da Whorf è quello degli
eschimesi che hanno ben tre nomi differenti per designare la neve.
Anche la percezione dei colori varia da cultura a cultura: in un esperimento di Brown ad un
gruppo di giudici veniva dato il compito di selezionare ventiquattro colori, otto dei quali
giudicati come esempi ideali dei colori prototipici (rosso, verde, giallo, blu, …). A questo punto,
veniva chiesto a soggetti inglesi di assegnare un nome a ciascuno dei ventiquattro colori: i
colori centrali venivano nominati più velocemente, gli altri più lentamente e in maniera non
sempre concorde. Altri studi hanno identificato undici colori fondamentali, che compaiono nella
storia di ciascuna lingua secondo una sequenza invariante: dapprima il bianco e il nero, poi il
rosso, il verde e il giallo, il blu e infine il marrone. Questa gerarchia è stata spiegata attraverso
le maggiori caratteristiche sinestetiche dei primi colori della scala.
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essere in grado di rendersi conto che uno specifico oggetto possa eseguire la funzione
necessaria a risolvere il problema: questo fenomeno è detto fissità funzionale. Un esempio di
fissità funzionale è fornito dal problema delle monete. Immaginando di avere otto monete, di
cui una contraffatta e perciò più leggera delle altre, e una bilancia a due bracci, lo scopo è
quello di scoprire la moneta contraffatta usando la bilancia solo due volte. La maggior parte
degli individui pensa di dividere le monete in due gruppi da quattro, ma questo procedimento
comporterebbe almeno tre pesate. La soluzione di questo problema richiede invece un
procedimento inconsueto, che comporta la divisione in due gruppi da tre e un gruppo da due.
Questa procedura inusuale rende però necessario superare la fissità funzionale.
La psicologia del pensiero spesso ha a che fare con oggetti mentali. Un’immagine, per
esempio, è un oggetto mentale. Se vi si chiedesse quale è il colore del tetto di casa vostra
potreste evocare un’immagine mentale (pensiero analitico). Nel pensiero analitico, la
conclusione non contiene alcuna informazione che non sia già contenuta nelle premesse. Nel
pensiero sintetico, invece, la conclusione non è contenuta nelle premesse dal momento che
non è necessaria alla costruzione dell’oggetto mentale corrispondente. Il pensiero sintetico
permette di ricavare da un modello mentale più di quello che abbiamo usato per la sua
costruzione. L’insight non è altro che il prodotto del processo che ci porta a scoprire ciò che
non conosciamo.
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di capacità, rispettivamente, di 21, 127, 3 litri, lo scopo è quello di capire come usare questi
recipienti per ottenere un volume di 100 litri d’acqua. La risoluzione del problema prevede
l’applicazione della regola B-(A+2C). Dopo aver risolto cinque problemi con la medesima
procedura, i soggetti sviluppavano un set, un modo specifico di rispondere a una data
situazione, cosicché lo utilizzavano anche in quelle circostanze in cui sarebbe bastato un
numero inferiore di passaggi. Le persone che manifestano il set hanno un atteggiamento
mentale passivo, cioè agiscono come se la situazione avesse una sola interpretazione possibile.
Al contrario avere un atteggiamento mentale attivo significa impegnarsi nella ricerca di nuove
possibilità, evitando la rigidità.
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essere sistemato sul piolo B ma l’anello medio non può essere sistemato su quello piccolo.
Benché lo scopo del problema sia quello di spostare tutti gli anelli del piolo A a quello C, questo
problema può essere scomposto in una serie di sottoscopi. Come è possibile programmare un
calcolare per risolvere il rompicapo della torre di Hanoi? Il GPS fa uso di regole di produzione,
costituite da una condizione e da un’azione. Se la condizione rappresentata dalla soluzione del
problema viene raggiunta, allora il processo di soluzione viene concluso. Un problema è risolto
se non vi è differenza tra lo stato raggiunto e lo stato meta. Una parte essenziale del GPS è
costituita proprio dall’analisi delle differenze tra lo stato attuale del problema e lo stato meta.
All’inizio del processo di soluzione c’è una grande differenza tra lo stato iniziale e lo stato meta.
Questa è in effetti la definizione stessa di problema: trovarsi in una data situazione e cercare di
raggiungere un’altra situazione. Le procedure usate dal GPS per ridurre le diffe3renze tra lo
stato attuale del problema e lo stato meta vanno sotto il nome di analisi mezzi-fini. Affinché il
processo di soluzione possa procedere è necessario individuare una serie di sottoscopi. Quando
analizza un problema il GPS crea una pila di scopi.
È possibile scrivere programmi per calcolatore capaci di simulare le procedure usate dagli
esseri umani per la soluzione di problemi come quello della torre di Hanoi? Per studiare la
soluzione di problemi nell’uomo è stata spesso usata la tecnica dei protocolli verbali. Ai
soggetti viene chiesto di riferire tutto ciò che passa loro per la mente, ovvero di pensare ad
alta voce. Questa tecnica è stata chiamata verbalizzazione simultanea: è necessario
distinguere questo tipo di verbalizzazione dalla verbalizzazione retrospettiva che si riferisce alle
interviste in cui i soggetti descrivono i processi cognitivi che hanno avuto luogo in un momento
temporale precedente. La verbalizzazione simultanea fa affidamento sulla memoria a breve
termine mentre la verbalizzazione retrospettiva fa uso della memoria a lungo termine. Quando
i soggetti pensano ad alta voce, essi cercano di descrivere verbalmente un processo non
verbale. La descrizione verbale così ottenuta è chiamata protocollo.
Non tutti gli psicologi credono che le simulazioni su calcolatore siano in grado di rappresentare
adeguatamente le prestazioni umane nella soluzione dei problemi. Alcuni psicologi hanno
sostenuto, per esempio, che i processi di pensiero siano troppo complessi per potere essere
simulati su calcolatore.
Ragionamento sillogistico
I sillogismi sono costituiti da due premesse e da una conclusione. Entrambe le premesse
specificano una relazione tra due categorie. Di conseguenza, il ragionamento sillogistico viene
talvolta chiamato ragionamento categorico. Ciascuna delle premesse può assumere una delle
quattro seguenti forme:
• la premessa universale affermativa (“Tutti gli A sono B”)
• la premessa universale negativa (“Nessun A è B”)
• la premessa particolare affermativa (“Alcuni A sono B”)
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Il compito di selezione costituisce forse la creazione più famosa di Wason. Ai soggetti di questo
esperimento vengono mostrate quattro carte (5-2-F-E). Ciascuna carta ha una lettera da un
lato e una cifra dall’altro. Il compito dei soggetti è di dire quali carte è necessario girare per
controllare la verità dell’affermazione che se una carta ha una vocale su un lato, allora ha un
numero pari sull’altro. E e 2 sono le risposte più comuni che i soggetti forniscono a questo
problema. Johnson-Laird e Wason descrivono un esperimento in cui, in un campione di 128
soggetti, 59 soggetti hanno scelto di girare la E e il 2 e altri 42 soggetti hanno scelto di girare
soltanto la E. queste risposte però non sono del tutto corrette. Se girando la carta E vi
troviamo il numero 5 abbiamo falsificato la regola e potremmo concludere che lo
sperimentatore stia mentendo. Di conseguenza, è corretto volere controllare la carta con la E
dato che la scoperta di un numero dispari falsificherebbe la regola. Consideriamo ora il
significato del risultato ottenuto girando la seconda carta. Dato che F non è una vocale, il fatto
che sull’altro lato ci sia un numero pari è del tutto irrilevante. Non è necessario controllare la
carta con la F, dal momento che qualunque cosa ci sia sul retro, non ci fornirebbe alcuna
informazione a proposito della regola. Il compito di selezione di Wason è un esempio di
ragionamento condizionale. Il ragionamento condizionale richiede l’uso di proposizioni
condizionali. Le proposizioni condizionali hanno la forma Se… Allora…: Se una condizione si
verifica Allora un’altra condizione avrà luogo. Usando al posto di numeri e lettere esempi
concreti (quale Toronto-Boston-Aereo-Auto) i soggetti tendono ad avere prestazioni migliori.
Ragionamento ricorsivo
Un processo che fa riferimento a se stesso viene detto ricorsivo. I fenomeni ricorsivi talvolta
possono condurre a complicate forme di pensiero. L’esempio più famoso a questo proposito è il
paradosso del mentitore: vi è un vecchio aneddoto a proposito di Epimenide di Creta, secondo
il quale lo stesso avrebbe detto “Tutti i cretesi sono dei bugiardi”. Sapendo che Epimenide è
cretese si può ragionare seguendo i due percorsi:
• Epimenide ha detto la verità. Perciò tutti i cretesi sono dei bugiardi (compreso
Epimenide): appare subito il contrasto paradossale
• Epimenide è bugiardo. Perciò Epimenide non direbbe la verità. Perciò la proposizione
“Tutti i cretesi sono dei bugiardi” sarebbe falsa. Questo significherebbe che Epimenide
ha detto la verità dicendo che “Tutti i cretesi sono dei bugiardi” e il suo stesso
comportamento ne costituisce una conferma.
È importante distinguere tra processi di ragionamento che hanno luogo all’interno dello spazio
del problema e quelli che hanno luogo al suo esterno. In uno studio, Paige e Simone
presentavano ai soggetti problemi simili a questo: una tavola è stata segata in due pezzi. Il
primo pezzo è lungo i 2/3 dell’intera tavola e il secondo è lungo 4 metri più del primo. Qual era
la lunghezza della tavola prima che fosse stata segata? Se la lunghezza del primo pezzo è
uguale a due terzi dell’intera tavola, allora il secondo pezzo non può essere più lungo del
primo. Eppure questo è proprio quello che il problema afferma. Vi è una contraddizione nella
formulazione stessa del problema. Per rendersi contro di questa contraddizione, il soggetto
deve considerare il problema nel suo insieme piuttosto che cercare immediatamente di
risolverlo.
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Cavalieri e furfanti
Rips ha osservato che le ricerche sul ragionamento solitamente fanno uso di un numero
piuttosto limitato di problemi. Per cercare di capire i processi di ragionamento, sarebbe
auspicabile esplorare il maggior numero possibile di problemi diversi. Rips ha studiato i
ragionamenti effettuati dai soggetti nel corso dei tentativi di soluzione di un problema analogo
a quello del paradosso del mentitore. Questo problema è formulato nei termini di una sera di
affermazioni fatte dagli abitanti di un’isola. Gli abitanti dell’isola possono essere cavalieri
(dicono il vero) o furfanti (mentono sempre).
“Gli isolani A, B e C possono essere dei cavalieri o dei furfanti. Due isolani appartengono allo
stesso gruppo se sono entrambi cavalieri o entrambi furfanti. A afferma che B è un furfante. B
afferma che A e C appartengono allo stesso gruppo. C è un cavaliere o un furfante?”
• Se A=cavaliere, allora B=furfante, allora A e C non appartengono allo stesso gruppo,
perciò C=furfante
• Se A=furfante, allora B=cavaliere, allora C=furfante
C deve essere necessariamente un furfante.
Rips ha analizzato i protocolli di verbabilizzazione simultanea forniti da un gruppo di studenti
universitari a cui era stato assegnato il compito di risolvere il problema dei cavalieri e dei
furfanti. I risultati erano che i soggetti si servivano di regole di deduzione, le quali sono parte
di un sistema di deduzione naturale. Un sistema di deduzione naturale fa uso di proposizioni
immagazzinate nella memoria del lavoro. Le proposizioni sono costruite per mezzo di connettivi
SE… ALLORA, E, O e NON. Quando una proposizione è la conseguenza necessaria di un’altra
proposizione, si può dire che la prima proposizione implichi la seconda.
Primo caso: P e Q implica P, Q. Esempio: “A è un cavaliere e B è un cavaliere” implica “A è un
cavaliere” e “B è un cavaliere”
Secondo caso: P oppure Q e non P implica Q. Esempio: “A è un cavaliere oppure B è un
cavaliere” e “A non è un cavaliere” implica “B è un cavaliere”
L’approccio che ipotizza l’esistenza di un sistema di deduzione naturale dall’approccio dei
modelli mentali di Johnson-Laird. Rips sostiene che i dati da lui raccolti non mostrano affatto
che i soggetti costruiscono dei modelli mentali per risolvere problemi di ragionamento come
quello dei cavalieri e dei furfanti. Secondo Rips, l’approccio della deduzione naturale è
superiore a quello dei modelli mentali perché descrive più accuratamente il processo di
ragionamento.
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Statistica intuitiva
Gli individui provano a stimare la frequenza relativa o la proporzione delle occorrenze di un
evento? Si supponga, per esempio, di dover predire quante volte l’evento testa si verifica nel
caso di quattro lanci di una moneta non truccata. La congettura migliore, naturalmente, è che
quest’evento si verifichi due volte su quattro. Dato che la moneta non è truccata, è lecito
aspettarsi che il lancio della moneta dia testa il 50% delle volte. Ciò nonostante, non
dovremmo affatto sorprenderci se questo esito non si verifica. Il lancio di una moneta non
truccata produce testa il 50% delle volte a lungo andare, ma questa proporzione può essere
diversa se consideriamo soltanto una serie limitata di lanci. Questo fenomeno è chiamato legge
dei grandi numeri, scoperto da Bernoulli. Uno dei fraintendimenti che circondano la legge dei
grandi numeri ha a che fare con la sua relazione con quella che comunemente viene chiamata
legge delle medie. La legge dei grandi numeri specifica quanto spesso un evento si verifica a
lungo andare. Così, noi ci aspettiamo che un numero molto grande di lanci di una moneta non
truccata dia testa approssimativamente il 50% delle volte. Supponete, però, che dieci lanci
diano sempre croce. La comune credenza nella legge delle medie ci porta spesso a credere
che, a questo punto sia più probabile che l’undicesimo lancio dia testa: questa conclusione è
assolutamente sbagliata. La probabilità di ottenere testa è 0,5 in qualsiasi punto della
sequenza, indipendentemente dai lanci precedenti.
Spesso gli individui tendono a credere che un piccolo campione sia rappresentativo della
popolazione da cui è stato tratto. Questa credenza prende il nome di legge dei piccoli numeri,
la quale conduce gli individui a fare uso dell’euristica della rappresentatività. Quest’ultima è
responsabile anche di un altro comune tipo di errore che ha luogo quando i soggetti devono
decidere se una sequenza di eventi è stata prodotta o meno da un processo casuale. Anche
pensatori sofisticati e dotati di approfondite conoscenze matematiche si trovano in difficoltà
quando devono specificare ciò che distingue un processo casuale da un processo che non lo è.
La Lopes ha sottolineato la differenza tra un processo casuale e un prodotto casuale. Un
processo casuale, come ad esempio, quello del lancio di una moneta non truccata, può
generare sequenze che non appaiono affatto casuali. Il prodotto di non processo casuale può
apparire non casuale. Un esempio dei possibili effetti dell’euristica della rappresentatività è il
fenomeno della “mano calda” nel caso dei giocatori professionista di pallacanestro. Quando un
giocatore realizza una serie di canestri senza commettere alcun errore, gli spettatori
percepiscono questo giocatore come un qualcuno che possiede una “mano calda” (realizzare
una sequenza di canestri che difficilmente poteva essere prodotta da un processo casuale).
Questa credenza potrebbe dipendere dal fatto che e sequenze di eventi generate da un
processo casuale non vengono percepite in modo accurato. Di tanto in tanto un giocatore può
effettivamente realizzare una serie di canestri uno dopo l’altro allo stesso modo in cui il lancio
di una moneta non truccata può dare una successione di teste.
Gli individui tendono ad aggiustare le loro stime a seconda del numero iniziale della sequenza.
Dal momento che la prima sequenza (8x7x6…x2x1) inizia con un numero maggiore del primo
della seconda sequenza (1x2x3…x7x8), essa sembra produrre un risultato maggiore. Si
potrebbe dire che le sequenze siano ancorate a valori diversi.
Dire che alcune esperienze possono essere rievocate più facilmente di altre è una banalità:
tanto maggiore è la facilità di rievocazione di un item, tanto più questo è disponibile al
soggetto; la disponibilità si riferisce alla facilità con la quale un item può venire in mente –
come etichetta di una certa esperienza. Supponendo di dover giudicare la frequenza di un
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certo evento, ad esempio la frequenza con cui la lettera R può presentarsi come prima o terza
lettera all’interno di una parola, ci sarà molto più semplice portare a memoria evidenze del
primo caso, inferendo magari, erroneamente, che le parole che iniziano per R sono più
numerose di quelle che l’hanno come terza lettera. In realtà è il contrario, ma le parole che
iniziano per R sono per noi maggiormente disponibili e quindi vengono rievocate con maggiore
facilità. La disponibilità è anche responsabile delle cosiddette correlazioni illusorie, il fenomeno
per il quale gli individui credono che eventi diversi si verifichino in concomitanza gli uni con gli
altri anche se in realtà ciò non avviene.
Un altro principio degno di nota è quello della quantità: a due gruppi di soggetti chiamati a
correggere delle bozze venivano assegnate le medesime cinque pagine di articoli. Tuttavia, al
primo gruppo esse venivano consegnate singolarmente, al secondo corredate di giornale da cui
erano estratte. È stato empiricamente dimostrato che i membri del secondo gruppo, a fine
lavoro, erano più soddisfatti, in quanto percepivano di aver svolto una maggiore mole di
lavoro.
Anche la regressione verso la media è un concetto spesso dibattuto in psicologia dei
processi cognitivi. Se si considerano due variabili correlate tra loro, come l’altezza di genitori e
figli, si noterà che la loro correlazione, per quanto buona, non è perfetta: infatti, genitori molto
alti tendono ad avere figli meno alti di loro, e genitori molto bassi ad averne poco più alti di
loro. Questo fenomeno, la regressione verso la media, consiste appunto nel “bilanciamento”
dei dati verso valori più prossimi alla media, ed avviene anche in circostanze differenti. Ad
esempio, quando uno studente si attesta su una determinata media, anche se consegue un
risultato improvvisamente più alto o più basso del solito, tenderà, nelle prove successive, a
riconfermare la tendenza pregressa.
Lo spazio del problema definisce il modo in cui il problema è rappresentato, il che include la
definizione dello scopo che deve essere raggiunto e le varie modalità per mezzo delle quali lo
stato iniziale del problema può essere trasformato nello stato meta. Ad esempio, se per
assegnare tre monete a due bambini si decide di utilizzare un mazzo di carte, decidendo di
dare al primo una moneta per ogni carta rossa estratta dal mazzo, ed al secondo una moneta
per ogni carta nera, il problema può essere stabilire l’esito più probabile: 3 a 0, 2 a 1 o la
medesima probabilità? L’ultima alternativa è preferita dal 40% dei soggetti, benché quella
giusta sia la seconda: i soggetti fanno infatti spesso riferimento all’opzione più intuitiva. La
possibilità di fare uso delle corrette procedure di ragionamento dipende da tre fattori: la
chiarezza dello spazio del problema (la consapevolezza di tutte le alternative), la comprensione
dei processi casuali e le prescrizioni culturali (i soggetti ragionano statisticamente se sono stati
incoraggiati a farlo dalla propria cultura di appartenenza).
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Intelligenza
Lo studio dell’intelligenza inizia nel diciannovesimo secolo, con Anastasi: essa viene misurata
attraverso test di intelligenza – la maggior parte dei quali, volti a scovare le differenze
individuali, promossi da Galton. Egli credeva che l’intelligenza fosse ereditaria e cercava di
misurare il QI attraverso prove di discriminazione sensoriale (capacità visiva, uditiva, ecc…). I
test di intelligenza successivi avevano invece un approccio diverso. I moderni test di
intelligenza si rifanno infatti a quello realizzato da Binet in risposta al problema pratico di
misurare i benefici dell’educazione scolastica. L’intelligenza era per Binet una facoltà
fondamentale, la cui alterazione è della più grande importanza per la vita pratica. Aspetti
essenziali dell’intelligenza sono l’abilità di ben giudicare, di comprendere adeguatamente e di
ragionare correttamente. Per misurare l’intelligenza, Binet ha creato compiti che consentono di
differenziare gli individui in riferimento a queste abilità. I test di intelligenza sono tipicamente
costituiti da varie scale che dovrebbero misurare le varie abilità. Come denotato da Spearman,
in genere, coloro che ottengono alti punteggi ad una scala, tendono a farlo anche nelle altre:
queste correlazione indicherebbero che ciascuna abilità umana è costituita da due componenti,
una specifica ed una comune a tutte le abilità, detta fattore generale o fattore g.
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intelligenze separate. L’expertise è stata studiata variamente, uno degli esperimenti più famosi
riguarda la capacità di rievocazione delle posizioni degli scacchi da parte di giocatori esperti e
novizi. Dopo aver osservato gli scacchi disposti sulla scacchiera, ai soggetti veniva dato il
compito di ricostruire le posizioni dei pezzi che erano state mostrate in precedenza. I maestri
erano in grado di ricordarne un numero decisamente maggiore rispetto ai novizi se le posizioni
erano plausibili durante il corso di una partita, altrimenti non si riscontravano differenze. È
stato suggerito che gli esperti percepiscano le posizioni dei pezzi sulla scacchiera in termini non
di singoli pezzi, ma di unità più grandi, chunks, riuscendo così a ricordarne un numero
maggiore. Un’altra interpretazione possibile è che gli esperti facciano ricorso a
rappresentazioni fisiche –cioè relative ad entità facenti parte della teoria- piuttosto che ingenue
–basate sul senso comune- come in giocatori inesperti. Un aspetto importante dell’expertise è
infatti costituito dal modo in cui gl’inesperti usano le informazioni nel corso dei tentativi di
soluzione del problema. Ovviamente, un aspetto fondamentale è la pratica, un addestramento
intenso di una competenza specifica che non ha nulla a che vedere con l’innatezza.
Creatività
La creatività ha a che fare con la produzione di prodotti nuovi e socialmente apprezzati. Uno
dei test utilizzati per misurare la capacità di pensare in maniera originale è il test degli usi
alternativi, in cui il compito dei soggetti è di elencare sei diversi usi che possono essere fatti
con oggetti comuni: tanto più inusuali sono gli usi proposti, maggiore è il punteggio. È stato
proposto che gli individui creativi abbiano gerarchie piatte, cioè –se alla maggior parte degli
individui risulta più facile e veloce notare gli usi ovvi degli oggetti- questo non avviene per i
creativi, che sono in grado di produrre moltissime possibilità, risultando però più lenti della
media. Data una simile definizione si può quindi osservare come l’originalità possa essere
considerata a tutti gli effetti il contrario della fissità funzionale: la creatività dipende infatti
dalla capacità dell’individuo di interagire in maniera flessibile con l’ambiente. Maier ha discusso
uno studio in cui veniva chiesto a dei bambini di completare alcuni racconti, che poi dei giudici
avrebbero dovuto giudicare come terminati maniera o meno costruttiva. I bambini erano stati
divisi in due gruppi: quelli con problemi di delinquenza giovanile e quelli senza questo tipo di
problema. I risultati di questo esperimento mostravano che i bambini con problemi di
delinquenza tendevano a produrre in maniera maggiore conclusioni non formative, al contrario
degli altri. Maier ha individuato varie spiegazioni di questi dati: si potrebbe pensare che i
problemi di delinquenza si accompagnino ad un atteggiamento negativo verso il mondo in
maniera innata, oppure che gli apprendimenti dei bambini devianti siano differenti da quelli dei
bambini senza problemi di delinquenza, o ancora che le difficoltà che i bambini devianti hanno
dovuto affrontare durante la crescita li abbiano portati ad avere un atteggiamento negativo nei
confronti delle cose. Tuttavia, se l’esperimento viene ripetuto su comuni bambini di prima
media e viene chiesto loro di interpretare il ruolo di “piccoli delinquenti”, i risultati ottenuti
sono gli stessi. Ciò significa che il comportamento non viene necessariamente appreso in una
forma specifica oppure determinato in maniera innata, ma può essere derivato dal contesto in
occasioni specifiche. Ne consegue che gli individui posseggono un repertorio comportamentale
tra cui è possibile scegliere: le prestazioni comportamentali in un’occasione specifica possono
essere il frutto di una combinazione unica di elementi innati e acquisiti. Dal punto di vista di
Maier, gli individui creativi si distinguono per la loro maggiore capacità di selezionare ed
integrare gli elementi comportamentali (meccanismo di selezione-integrazione).
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Un'altra caratteristica degli individui creativi è l’originalità non solo nella soluzioni di problemi,
ma anche nella loro scoperta. Il processo di soluzione di problemi conduce infatti alla soluzione
di problemi ben definiti, mentre il processo di scoperta conduce alla formazione di una serie di
domande a partire da problemi mal definiti. La formulazione di un problema è spesso più
cruciale della sua soluzione, dal momento che la soluzione non dipende che dall’applicazione di
capacità di tipo matematico e sperimentale. La capacità di porre domande nuove e definire
nuove possibilità richiede invece un’immaginazione creativa.
Un approcci peculiare di studio dell’intelligenza è quello di Simonton, che ha sviluppato la
proposta di Campbell secondo cui il processo evolutivo è caratterizzato da due aspetti
fondamentali, di cui uno è la variazione cieca, ovvero il processo per mezzo del quale le
alternative vengono esplorate senza sapere in anticipo quale produrrà l’effetto desiderato (ad
esempio, il processo per tentativi ed errori). Secondo Campbell, il pensiero creativo può essere
inteso come una sorta di variazione cieca ad un livello simbolico. L’individuo può immaginare i
diversi esiti possibili di un’azione e anche il criterio di selezione che consente di decidere quale
sia l’azione appropriata. L’individuo può avere in mente un’idea piuttosto precisa del tipo di
soluzione richiesta dal problema e può modificare i suoi pensieri finché non emerge un’idea che
soddisfi i requisiti del problema stesso. Il meccanismo chiave del pensiero creativo sarebbe la
serendipità, ovvero la scoperta accidentale.
Secondo la rivisitazione di Simonton della teoria di Campbell, le soluzioni creative ai problemi
richiedono un processo di variazione, ciò delle permutazioni casuali degli elementi mentali che
forniscono combinazioni diverse di unità cognitive come idee e concetti. Alcune combinazioni,
più stabili di altre, vengono definite configurazioni e soddisfano i requisiti di un problema
specifico, ma sopravvivono solo se gli altri ne percepiscono l’utilità. Gli individui creativi,
secondo Simonton, avrebbero a disposizione un gran numero di elementi mentali e, quindi, di
possibili combinazioni tra essi: costoro avrebbero così una probabilità maggiore rispetto ad altri
individui di generare una configurazione potenzialmente utile (potenziale creativo).
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alternative (il ciuccio, il pollice, ecc…): questo è il processo secondario. I processi secondari
sono costituiti da processi cognitivi rivolti verso la realtà e corrispondono allo sviluppo di
effettive procedure capaci di mettere in grado l’individuo di trovare oggetti reali per soddisfare
i propri bisogni. Nella teoria psicoanalitica vi è una forte relazione tra il fatto di amare e di
conoscere un oggetto. Emozioni e processi cognitivi sono strettamente legati, poiché gli
individui conoscono solo ciò che amano. Il processo di investimento libidico non produce,
pertanto, solo attaccamento, ma anche conoscenza. Come l’investimento libidico rappresenta il
processo per cui il bambino acquisisce conoscenza del mondo, così il contro investimento o
rimozione rappresenta il processo per mezzo del quale gli individui attivamente dimenticano
quello che sanno, rimanendo in uno stato di attaccamento inconscio.
Berlyne si è mosso su una linea guida più fisiologica, studiando il concetto di arousal, ovvero il
livello di attivazione dell’organismo. Secondo l’autore, l’arousal definisce una dimensione
dell’esperienza emotiva. Il livello di arousal è associato all’intensità con cui l’emozione è
percepita, indipendentemente da che tipo di emozione si tratti. La capacità di uno stimolo di
accrescere l’arousal è definita potenziale di arousal. Secondo Berlyne, alcune proprietà degli
stimoli agiscono come importanti determinanti dell’attività cognitiva: queste proprietà sono
state definite collative, ovvero attinenti al confronto. Le proprietà collative di uno stimolo
vengono definite dal confronto tra lo stimolo ed altri stimoli e possono essere messe in
relazione con l’incertezza. Tanto più uno stimolo è nuovo, tanto maggiore è l’incertezza
dell’individuo a proposito della risposta appropriata, e lo stesso può essere detto per la
complessità. Il confronto con situazioni nuove, complesse o sorprendenti porta ad un
innalzamento dell’arousal e conduce al cosiddetto conflitto concettuale. In genere, oltre al
livello di attivazione, per quanto riguarda il conflitto è necessario osservare anche la
piacevolezza dello stimolo: ovviamente le situazioni da cui deriviamo maggiore piacere sono
quelle che inducono un conflitto minore e viceversa: questo aspetto è esplicato nella curva di
Wundt-Berlyne. La teoria d Berlyne è stata criticata da Martindale perché essa prevede che gli
stimoli dotati di uguale potenziale d’arousal tendano a suscitare la medesima quantità di
piacere, ma è facile immaginare che ciò non sia propriamente vero. Basandosi su un modello
architettonico connessionista, Martindale ha proposto una teoria alternativa riguardante il
piacere che deriva dall’attività cognitiva (piacere estetico). Il suo modello è costituito da unita,
collegate sia orizzontalmente sia verticalmente, collegate da connessioni di tipo eccitatorio,
come quelle verticali, o inibitorio, come quelle orizzontali. Il piacere estetico deriva dal grado di
attivazione delle unità cognitive.
Zajonc ha presentato molte evidenze del fatto che, tanto più gli individui vengono esposti ad
un evento, tanto più esso risulta loro piacevole (effetto della mera esposizione). In un disegno
sperimentale a soggetti appaiati, egli ha mostrato a delle coppie una serie di ideogrammi
(ripetuti con frequenze differenti) per loro sconosciuti, chiedendo ad un membro della coppia di
giudicarne la riconoscibilità e all’altro di giudicarne la gradevolezza. I risultati hanno indicato
che gli ideogrammi giudicati più gradevoli erano quelli presentati con la maggiore frequenza.
Zajonc suggerisce che la famigliarità soggettiva e l’esposizione ripetuta influenzino
separatamente i giudizi di preferenza: in questo modello emozioni e processi cognitivi sono
sistemi separati e le emozioni possono essere influenzate da un evento indipendentemente
dall’attività cognitiva ad esso associata.
Attualmente, il modello più utilizzato per la rappresentazione delle emozioni è quello
circomplesso di Russell, che ha ordinato le otto categorie più utilizzate dai soggetti per
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descrivere le emozioni in cerchio, in cui le parole in posizioni opposte hanno significati opposti.
Secondo Russell, le categorie usate per descrivere le emozioni posseggono una struttura
soggiacente caratterizzata da due dimensioni principali: arousal-sonno e piacere-dispiacere.
Secondo la teoria proposta da Bower, invece, le emozioni corrispondono ad unità o nodi di una
rete. Quando viene attivato, un nodo che rappresenta uno stato emotivo è in grado di attivare
altre unità della rete in misura maggiore di un nodo che rappresenta uno stato non emotivo.
L’attivazione prodotta dalle unità che rappresentano le emozioni viene distribuita in tutta la
rete e può costituire uno degli aspetti dell’esperienza che vengono immagazzinati in memoria.
Questo modello delle emozioni predice il fenomeno della rievocazione dipendente dallo stato
d’animo, per cui lo stato d’animo può essere visto come un aspetto del contesto all’interno del
quale la lista di parole è immagazzinata: ne consegue che la concordanza degli stati d’animo
del soggetto al momento dell’apprendimento ed al momento della rievocazione dovrebbe
facilitare quest’ultima.
Pensare le persone
Nella sua ricerca dedicata ai processi cognitivi in ambito interpersonale, Asch –in quanto
psicologo della Gestalt- ha enfatizzato il fatto che noi tendiamo a percepire gli altri individui
come unità psicologiche, avendone così un’impressione unitaria. In un suo esperimento, Asch
sottopose ai soggetti delle coppie di aggettivi (ad esempio, socievole e solitario), chiedendo
loro di giudicare il loro grado di accordo. Aggettivi giudicati a basso grado di accordo venivano
definiti disomogenei, aggettivi giudicati ad alto grado di accordo venivano definiti invece
omogenei. Successivamente, Asch chiese di fornire, per ogni coppia di attributi, una
descrizione dell’individuo che –ipoteticamente- li possedeva, osservando come in realtà i
soggetti fossero in grado di formarsi un’impressione unitaria anche dell’individuo caratterizzato
che aggettivi disomogenei. Questa è secondo l’autore la dimostrazione che l’uomo tende a
pensare in maniera coerente, come se la persona fosse “un’unità psicologica”.
Anche l’approccio proto tipico di Rosch ha avuto dei risvolti nello studio delle emozioni. In un
esperimento, sono stati sottoposti ai soggetti una serie di aggettivi, chiedendo loro di valutare
la correlazione di questi con i concetti di estroversione ed introversione. Successivamente,
usando gli stessi aggettivi, venivano create quattro descrizioni di caratteri, alcune contenenti
gli aggettivi rilevati come correlati, altre no e con la presenza di aggettivi nuovi, alcuni dei
quali fortemente affini alle dimensioni di estroversione ed introversione. Quindi veniva chiesto
ai soggetti di riconoscere i vecchi aggettivi: i soggetti tendevano ad indicare, oltre agli
aggettivi effettivamente visti in precedenza, quelli nuovi più fortemente correlati con i concetti
base, quelli insomma più prototipici.
Ergonomia
L’ergonomia è stata l’area della psicologia applicata all’interno della quale il contributo della
psicologia cognitiva è stato maggiore. Essa studia le relazioni tra gli individui ed il loro
ambiente di lavoro, per realizzare macchinari ed oggetti che possano essere utilizzati dai
lavoratori non solo in maniera efficiente, ma anche nella maniera più soddisfacente possibile.
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Gli ergonomi hanno ad esempio studiato la disposizione di tastiere, sedie e scrivanie –cercando
di prendere in considerazione i bisogni e le caratteristiche dell’utente finale e, per questo
motivo, l’ergonomia prende anche il nome di ricerca sui fattori umani. In questo ambito di
ricerca, si è diffusa l’idea che gli oggetti debbano essere user friendly, ad indicare una
proprietà desiderabile di qualsiasi interazione tra una persona ed un dispositivo qualunque. La
psicologia dei processi cognitivi interviene quindi, in ambito ergonomico, per quel che riguarda
l’interfaccia con l’utente – la relazione individuo/macchina.
La diffusione capillare dei calcolatori, ad esempio, li ha resi un oggetto di studio privilegiato
dell’ergonomia cognitiva, ad esempio per quanto riguarda la produzione di tastiere. Vi sono
due tipi di tastiere: quella alfabetica, in cui le lettere sono disposte –appunto- secondo l’ordine
alfabetico e quelle QWERTY. Le prime tastiere alfabetiche vennero rimpiazzate dalle QWERTY
perché troppo semplici da usare: i dattilografi erano infatti troppo veloci nell’utilizzo e
mandavano in panne i calcolatori, a quel tempo piuttosto lenti. Oggi, con i nuovi calcolatori
veloci, la tastiera alfabetica potrebbe essere reinserita, ma è stato visto sperimentalmente che
la QWERTY è divenuta ormai così familiare alla stragrande maggioranze delle persone, che
ormai la tastiera alfabetica comporterebbe solo dei rallentamenti. Le stesse considerazioni
valgono a proposito delle tastiere numeriche: mentre nel calcolatore esse sono talvolta
descritte a partire da 0 fino ad arrivare ad 1 (0,9,8,…,1), nei cellulari l’ordine è inverso, in base
al tipo di coordinate usate nella lettura. Ne consegue che contesti diversi richiedono soluzioni
diverse.
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esplorare relazioni nuove. La struttura di questi dizionari potrebbe essere detta
psicologicamente corretta.
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