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SPAGHETTI PULP
Ricetta Italiana

a cura di GM Willo

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Edizioni Willoworld

www.edizioniwilloworld.co.nr

www.willoworld.net

www.rivoluzionecreativa.co.nr

Spaghetti Pulp

a cura di GM Willo

Prima edizione: 2010

Copertina di Charles Huxley

Tutto il materiale di questo libro è sotto “Creative Commons


Attribution 2.5 Italy License.”

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INTRO

Questa è la terza raccolta a tema delle Edizioni Willoworld, la


casa editrice virtuale del sito www.willoworld.net e della
community Rivoluzione Creativa.
Il genere pulp nasce in America negli anni venti grazie a riviste
storiche quali “Weird Tales” e “The Strand”. Sarà proprio la
qualità scadente di questi giornali, stampati con carta non
rifilata di polpa di legno (pulp in inglese), a dare vita al
fenomeno dei “Pulp Magazine”. All'epoca l'aggettivo “pulp” non
definiva un vero e proprio genere, dato che su quelle riviste
apparivano accanto ai racconti horror del grande Lovercraft le
avventure di Conan il Cimmero di Howard. Solo in tempi recenti,
grazie soprattutto ai film di Quentin Tarantino, il significato della
“Pulp Story” ha assunto i consueti colori cremisi del sangue. È
in sintonia con quest'ultima definizione che questa raccolta si
pone.
Credo che possa parlare per tutti gli autori presenti in questa
raccolta affermando che, nonostante i temi cruenti e morbosi
affrontati, l'atteggiamento con cui queste storie sono state scritte
è sicuramente giocoso. La voglia di raccontare storie, magari
impegnandole di colori accesi, di frasi sporche, è un modo come
un altro per divertirsi ed esorcizzare alcuni malanni della nostra
società. Questo è il mood con cui mi piace sedermi davanti allo
schermo e scrivere le mie storie.
Gli autori dei racconti presenti in questo libro partecipano alle
attività ludiche e creative di una community on-line da me
gestita. Rivoluzione Creativa è un luogo d'incontro dove poter
creare in armonia sotto le regole del copyleft. Tutti quanti
possono parteciparvi semplicemente registrandosi al sito:
www.rivoluzionecreativa.co.nr.

GM Willo – 28 Maggio 2010

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INDICE

1. The Patrolman 7
2. Un giorno come tanti 56
3. Una sottile linea di fumo 58
4. Euphoria 61
5. Veldule miste e liso 63
6. L'alluce 65
7. La storia di Jack il ventriloquo 67
8. L'ultimo lavoro della mia vita 70
9. Notte a Shanghai 80
10. Il caso Kornher 84
11. Elizaveta 109
12. Jim lo sventrapapere 110
13. Rosso Natale 114
14. La soluzione di Jessie 117
15. Notte silente 119
16. Netturbini 122
17. La bestia al confessionale 125
18. Natale nichilista 129
19. Clarissa 134
20. Fanculo il Messico 138
21. Il seme dell'odio 147
22. Il lungo inverno 178
23. La numero 103 180
24. Il colore dell'anima 182
25. Chinese Takeaway 188
26. REC 189
27. 6 Giugno 2006 190
28. Rock City 197

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7
THE PATROLMAN
di Massimo Mangani

The Patrolman è una storia a capitoli scritta da Massimo


Mangani ispirata alla saga di Rock City, città immaginaria che
può ricordare Los Angeles, nella quale si muovono tutta una serie
di personaggi legati alla musica. Massimo ha una visione della
città più “alla Tarantino”, diversa da quel mood onirico degli
altri racconti della “Rock City Saga” che compaiono in fondo a
questa raccolta. Ma “The Patrolman” è soprattutto un omaggio
a Bruce Springsteen e alla canzone Highway Patrolman. Il
protagonista della storia è infatti il Joe Roberts che compare nel
pezzo del Bruce, riportato in coda al racconto.

Il mio nome è Joe Roberts, lavoro per lo Stato.


Facevo il Sergente della stradale giù a Perrineville, New Jersey,
prima di trasferirmi qui a Rock City, dove fare il poliziotto è
moooooolto più pericoloso. D’altronde dopo che mio fratello
Franky ha combinato quel maledetto casino nel ristorante di Jack,
soprattutto dopo che la famiglia del ragazzo accoppato mi ha
accusato di averlo lasciato fuggire in Canada, l’unica cosa che ho
potuto fare è stata trasferirmi il più lontano possibile, piantare
Maria e i ragazzi e ricostruirmi una vita. Tutto d’un colpo, zac!
Finiti i bei tempi quando io e Franky ballavamo con Maria sulle
note di “Night of the Johnstown Flood”. Il fatto è che una volta
tornato dal Vietnam Franky non è stato più lo stesso, ha preso a
bere e compagnia bella ed in poco tempo è diventato un cattivo
soggetto. La sera che ha ucciso il ragazzo purtroppo ero di
servizio e proprio io ho preso la chiamata; sapevo che era uscito
di casa già ubriaco ma non pensavo davvero che potesse arrivare
a fare una cosa del genere. Tutto quel sangue, la ragazzina che
piangeva disperata…

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In fondo l’ho cercato, certo, l’ho inseguito fino nel Michigan ma
quando ho visto le luci rosse della sua Buick dirigersi verso il
Canada, non so perché mi è venuto l’istinto di frenare, ho
pensato: “al diavolo che se ne vada via per sempre!”
Adesso eccomi qui, una divisa della CHP nuova fiammante, su e
giù per le autostrade a dare la caccia alla feccia della società. A
Perrineville il massimo che poteva capitare era un litigio fra vicini
di casa, un paio di furti l’anno e qualche ragazzino ubriaco ma qui
a Rock City la musica è cambiata: da quando mi sono trasferito
cinque mesi fa sono già stato coinvolto in una decina di
sparatorie… per fortuna, per ora, i cattivi hanno sempre avuto la
peggio… sarà perché uso proiettili da cinghiale!
Psicologicamente è davvero dura, nonostante i 300 giorni di sole
l’anno l’aria è terribilmente pesante e le gang che si spartiscono il
mercato della droga se ne fottono del bel tempo! Nel Southside se
hai una divisa addosso sei un bersaglio, anche molto ben visibile,
quindi devi sempre essere pronto a sparare per primo! Reggere
non è facile, l’unica cosa che mi sostiene è una buona dose
quotidiana di amfetamine che mi aiutano a tirare avanti senza
farmi prendere dalla paura, evitando che le mie gambe mi
riportino dritto in quel buco nel New Jersey.
Effettivamente mi mancano molte cose del vecchio Jersey, a
cominciare dalle gambe di Catherine Lefevre, la sventola
dell’autolavaggio che mi strusciava addosso le poppe, attratta
probabilmente dalla mia uniforme. Poveretta, anche lei due
bambini da crescere da sola e un lavoro di merda, tutto il giorno a
lustrare Mercedes e VW che non potrà mai permettersi! Mi
mancano anche le fredde serate invernali, quelle quando il vento
gelido del Nord paralizza i tuoi movimenti e tutto quello che
sogni è startene rintanato in casa, vicino al caminetto a leggere un
buon libro sorseggiando il tuo bourbon preferito.
Qua a R.C. non fa mai freddo, nemmeno a dicembre… il Natale è
davvero ridicolo, sembra una presa per il culo: abeti illuminati e
addobbati sotto il sole splendente… al massimo un po' di neve
finta. Ad ogni modo, anche Maria e i ragazzi mi mancano
maledettamente ma lei ha preferito rimanere accanto ai suoi

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vecchi piuttosto che seguirmi in questa “dirty town” zeppa di
angeli neri… sotto sotto, sono sicuro, spera sempre che Franky si
rifaccia vivo… d’altra parte era lui che avrebbe dovuto sposare…
non fosse partito per ammazzare un po' di musi gialli laggiù in
Vietnam! In fondo non tutti siamo nati per correre, o meglio non
tutti siamo così fortunati da giungere all’arrivo, magari ci
schiantiamo su qualche muro messo lì apposta da qualche
bastardo, non importa se di nome Lyndon o Richard!
Beh, ora è molto tardi, un altro goccio del vecchio Jack e
domattina di nuovo per la strada ma prima… una chiacchieratina
con i miei piccoli amici… mi vengono a trovare tutte le notti ed io
ne sono moooooolto felice…

II

Già, i miei piccoli amici, non so neanche bene come siano fatti
veramente, ma ricordo perfettamente il primo giorno che sono
venuti a trovarmi… eccome se lo ricordo!
Durante il pomeriggio, sulla Cienega avevo fatto saltare il
cervello ad un messicano che mi aveva puntato un fucile a canne
mozze contro; ci ero rimasto di sasso quando avevo scoperto che
si trattava di un maledetto ragazzino di 12 anni al quale era stato
chiesto di sparare ad uno sbirro per poter entrare in una gang! In
pratica stavo per essere accoppato da un neanche adolescente per
un maledetto rito di iniziazione! La cosa mi aveva sconvolto a tal
punto che, una volta steso il rapporto e rientrato a casa mi ero
sparato un paio di anfe con un abbondante sorso di bourbon,
dopodiché ero scoppiato in lacrime come un vitellino.
Quando li avevo sentiti entrare ero rimasto fermo in poltrona
pensando che fossero gli amichetti del moccioso venuti a
vendicarlo; avevo pensato: “al diavolo, che mi accoppino pure!”
Poi una voce simile a quella di un bambino aveva iniziato a
parlarmi: - Salve Joe, come andiamo? - Subito a ruota un’altra
voce: - Giornata dura vero Joe? - Infine una terza: - Non capita
tutti i giorni di aprire la calotta cranica ad un marmocchio, non è

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vero Joe?
Lo sguardo annebbiato forse per effetto delle pastiglie ingurgitate
poco prima, non vedevo che tre ombre scure davanti a me. Ero
sicuro che mi stessero fissando, me ne stavo zitto in attesa di
sentire nuovamente quelle voci, non avevo il coraggio di chiedere
chi fossero e cosa volessero da me, anche se nel cervello sentivo
qualcosa muoversi, la netta sensazione che una porta si stesse
aprendo.
- Siamo venuti per una proposta, Joe.
- Non puoi rifiutare, no, proprio non puoi Joe!
- Ne saresti troppo infelice, non sopravviveresti.
Non avevo la minima idea di cosa stesse succedendo ma non ero
spaventato, tutt’altro, mi sentivo in uno stato di pace assoluta, di
pura serenità.
- Ricorda cosa è successo a tuo fratello Franky!
- Ehi, un momento, come diavolo sapete di mio fratello… - mi si
erano rizzati i capelli in testa e per un attimo mi pareva di essere
tornato alla realtà.
- Noi sappiamo tutto, Joe!
- Non preoccuparti, ti aiuteremo noi.
- E tu ci aiuterai.
Le tre ombre si avvicinarono a tal punto che potevo percepire il
loro odore, un ottimo odore di bucato appena fatto, odore di
Marsiglia come quello che usava la mamma per lavare i panni
miei e di mio fratello. Improvvisamente percepii un sussurro
dentro l’orecchio che mi fece venire la pelle d’oca: - Il piano Joe,
dobbiamo mettere a punto il piano…
Mi risvegliai la mattina successiva con la radio che sparava
“Southern man” di Neil Young a tutto volume. Convinto di aver
sognato andai in bagno per lavarmi un po’ la faccia, poi
lentamente cominciai a cercare qualcosa da mettere sotto i
denti… sul tavolo di cucina notai qualcosa che mi fece restare
secco: una maglietta, la maglietta che indossava il ragazzino
messicano! La presi fra le mani e sentii l’inconfondibile odore del
sapone di Marsiglia!

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III

Il giorno dopo il sole splendeva radioso su Rock City, l’asfalto


degli enormi Boulevard ribolliva in quella calda mattina di
maggio ed io mi sentivo fresco come una rosa nonostante la
nottata passata sulla poltrona. Dell’incontro con le tre ombre
ricordavo soltanto fino ad un certo punto, ma una parola
continuava a ronzarmi in testa: il Piano!
Guidavo senza fretta su La Brea passando attraverso zone
malfamate e quartieri benestanti. Una della cose interessanti di
R.C. è che a distanza di pochi metri puoi incontrare il barbone che
razzola nei cassonetti e il vecchio Johnny Cash, vestito di nero
con la sua inseparabile chitarra a tracolla. Dopo l’arresto e la
detenzione a Folsom Prison il vecchio Johnny si era rimesso
proprio in sesto, non c’era alcun dubbio.
Sulla strada principale erano già all’opera i saltimbanchi che
intrattenevano gli innumerevoli turisti accorsi per visitare la più
grande parata di stelle mai vista sulla faccia della Terra! Questi
sono gli Stati Uniti: se vuoi fare affari devi andare a New York,
ma per il divertimento Rock City batte tutti! Las Vegas non è
male, devo ammetterlo, con le sue luci ed i suoi effetti ottici; San
Francisco è da sballo, nel vero senso del termine e forse in questi
anni sta sfornando i migliori poeti e musicisti in circolazione, ma
tutto sommato sono dei folli che vivono in una città folle. Rock
City è tutta un’altra cosa, è divertimento allo stato puro, sballo
reale, amplesso… per chi può permetterselo!
Perso in questi pensieri non mi ero accorto che si era fatta l’ora di
pranzo, l’ennesimo pranzo a base di hamburger e patatine fritte,
solo come un cane randagio. Mi fermai ad uno di quei nuovi fast
food, quelli con l’enorme M gialla sulla facciata ed ordinai un
Cheeseburger ed una Dr. Pepper. Nel locale non c’era moltissima
gente, meno che mai qualche pollastra per attaccare bottone;
appena finito mi avviai verso l’uscita ed incrociai quattro ragazzi
che, vedendo la mia divisa sputarono quasi contemporaneamente
per terra. Appena fuori dal locale sentii improvvisamente un forte
giramento di testa, mi appoggiai alla macchina ed iniziai a vedere

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tutto in bianco e nero. Inizialmente non capii cosa stava
succedendo, c’era qualcosa che non andava intorno a me ma non
riuscivo a capire cosa. Ebbi forti brividi appena realizzai che il
Sunset era completamente deserto: quella che prima era stata una
strada affollatissima di macchine e persone, improvvisamente
appariva come il Sonora! Un silenzio irreale mi faceva fischiare le
orecchie e soltanto alcune folate di vento si potevano percepire ad
intervalli regolari; nell’aria di nuovo quell’odore di Marsiglia.
- Joe, ehi Joe!
- Sai chi erano quelli Joe? - Scossi il capo, le voci, le ombre… mi
tornò subito in mente la notte precedente, le tre ombre…
- Quelli sono i messicani che hanno mandato il ragazzino a
spararti.
- Il Piano Joe, il Piano! - Persi i sensi e mi risvegliai molto tempo
dopo sulla mia macchina, la testa indolenzita appoggiata al
volante. In realtà l’orologio segnava sempre le 2 del pomeriggio,
l’ora in cui ero uscito da quel luridissimo Mac incrociando i
quattro balordi. Per quel giorno decisi di imboscarmi fino alla fine
del turno, cercando di riflettere su quanto mi era nuovamente
accaduto, anche se non riuscii a darmi alcuna spiegazione. Mentre
gironzolavo per le Hills sentii il segnale di chiamata via radio,
accesi e rimasi in ascolto… inchiodai rischiando di farmi
tamponare, il cuore che mi batteva a centomila, il terrore
improvvisamente si impadronì di me.
Codice 1: in un fast food sul Sunset erano stati rinvenuti i
cadaveri di quattro membri di una gang messicana, tre decapitati
da colpi di fucile a pallettoni, il quarto, che probabilmente aveva
tentato di scappare, con la testa completamente carbonizzata sulla
piastra degli hamburger. Inspiegabilmente, vista l’ora presunta
della strage, nessuno era passato di lì ed il personale del
ristorante, forse per lo shock, pareva colto da grave amnesia.
Accesi sirena e lampeggianti e cominciai a correre…

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IV

Dopo quell’episodio le ombre non mi hanno più lasciato, tutte le


sere vengono a trovarmi per pianificare meglio il mio destino ed
io, lo confesso, mi sento maledettamente bene! Non penso più a
Franky a Maria ed ai ragazzi, il mio unico scopo adesso è quello
di portare a termine il piano; d’altra parte un uomo deve
assolutamente avere un obiettivo chiaro nella vita! Così eccomi
qui, lavato e sbarbato a dovere, l’uniforme perfetta con tutte le
mostrine lucidate, pronto per una nuova giornata nella giungla di
Rock City!
Come al solito guido moooolto lentamente osservando tutto
quello che mi accade intorno, pronto ad intervenire, l’orecchio
teso per captare eventuali chiamate radio, la 44 a pallettoni nella
fondina, rigorosamente senza sicura! Mentre percorro Alvarado
Street noto un tizio, un ciccione in maglietta bianca e calzoncini
marroni, si muove con troppa circospezione ma, dopo un attimo
di riflessione decido di lasciarlo perdere. Appena prima di
lasciarmelo alle spalle sento un fruscio provenire dalla radio, poi
un’inconfondibile voce inizia a sussurrare: “Il ciccione Joe, segui
il ciccione!”
Lo sorpasso fingendo di andarmene, svolto a destra sulla Sesta e
percorro ancora qualche metro, guardo lo specchietto aspettando
che il ciccione attraversi, appena è fuori dalla vista scendo, chiudo
la macchina e mi incammino. Con l’uniforme addosso devo stare
attento a non farmi vedere; arrivo all’angolo e lo becco, faccio
appena in tempo perché con una mossa rapida si infila in quello
che, da lontano sembra un negozio. Proseguo il cammino e
quando arrivo davanti alla porta mi accorgo che si tratta di un
“sexy shop”; sento la rabbia crescere dentro di me, rabbia per la
voce che mi ha fatto seguire un uomo che, in fondo, non fa nulla
di illegale, almeno non nella “liberale” California! Torno indietro,
svolto sulla Sesta, apro la macchina e riprendo il pattugliamento;
dalla radio esce nuovamente una voce, non la stessa di prima ma
sempre molto conosciuta: - Non ti arrabbiare Joe, torna lì stasera,
bussa sei volte e dì “CHICO DE ORO”…

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A casa mi cambio, indosso abiti anonimi e mangio un hotdog con
maionese e ketchup, facendo attenzione a non sporcarmi. Ascolto
alla radio le ultime notizie: a R.C. ci sono stati 10 omicidi e 21
stupri… merda! 10 milioni di abitanti non sono così facili da
gestire, ci vorrebbe molta più disciplina… ordine e disciplina!
Appena inizia a calare il sole, decido che è l’ora di muovermi,
esco ed aspetto il bus, preferisco non prendere la mia macchina,
non si sà mai qualcuno annotasse la targa.
Arrivo sull’Alvarado che ormai è notte; insegne luminose colorate
lampeggiano segnalando i locali più disparati, si tratta per la
maggior parte di circoli dove si ritrovano giovinastri appartenenti
a quella merda chiamata “Beat Generation”… drogati e finocchi
che si atteggiano ad intellettuali… Arrivato davanti al sexy shop,
mi accorgo che l’insegna è spenta ma provo a bussare
ugualmente. Dopo qualche minuto viene ad aprirmi un
energumeno alto due metri e grosso come un armadio… merda,
spero di essere svelto con la 44 in caso di possibile colluttazione:
davanti ad un essere simile è bene mirare in mezzo agli occhi!
Il tizio mi guarda malissimo, fissandolo dico la parola d’ordine…
cambia subito espressione e mi fa cenno di seguirlo.
Attraversiamo una sala, deve essere il negozio, piena di falli e
vagine di gomma, vestiti in lattice nero e fruste varie, roba da
pervertiti! Alla fine di un corridoio ricavato in mezzo a degli
scaffali pieni di libri e riviste pornografiche, dietro una tenda
rossa c’è una porticina marrone. L’energumeno tira fuori una
chiave, la infila nella toppa e fa scorrere la serratura quattro volte,
poi mi dice di seguirlo e comincia a scendere per una scala ripida
e stretta. Man mano che scendiamo percepisco un fetore
tremendo, non vorrei sbagliarmi ma sembra puzzo di sangue e
pelle bruciata… alla fine della scala c’è una porta di acciaio
simile a quelle che proteggono i caveau delle banche… è aperta e
il gorilla sparisce dentro.
Prima di entrare sento suoni indistinti, ci sono alcune voci
maschili, rumori che non riesco a decifrare e… quello che sembra
un lamento. Non faccio in tempo a mettere piede nella stanza che
lo stomaco mi si chiude… devo tirare fuori tutto il mio

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autocontrollo! Un gruppo di uomini stanno in cerchio
completamente nudi e si masturbano selvaggiamente, al centro, su
un palco rialzato ci sono due imbracature, una accanto all’altra.
Su ciascuna delle imbracature c’è una donna appesa a testa in giù,
una è stata completamente squartata, il sangue gocciola ancora
lungo la testa, per terra una pozza enorme.
Le interiora sono ammucchiate da una parte… Gesù, è stata
letteralmente macellata! Un uomo incappucciato tiene una
fiamma ossidrica in mano e l’avvicina all’altra donna che, appena
sente il contatto con il fuoco geme come un maiale che sta per
essere sgozzato! Gli uomini in cerchio continuano a masturbarsi,
deve essere una specie di rito collettivo; l’uomo incappucciato,
molto lentamente posa la fiamma ossidrica e prende un altro
attrezzo che inizia a fare un rumore assordante; non mi rendo
subito conto che si tratta di una sega circolare, di quelle usate per
tagliare i mattoni, dagli uomini in sala si leva un’ovazione, vedo
anche il ciccione che ride e se lo mena a più non posso.
Prima di essere colto dai conati di vomito, mi precipito alla porta
ed inizio a salire le scale di corsa ma improvvisamente qualcuno
mi parla: - Visto Joe, hai fatto bene a seguirlo…
- Ordine e disciplina Joe, ordine e disciplina!
- É il tuo momento Joe….il Piano!
Inizio a barcollare, vedo di nuovo tutto in bianco e nero, i miei
sensi lentamente mi abbandonano, mi sento benissimo e svengo!
Mi sveglio nella zona di Culver City, steso per strada come un
barbone, non so bene dove… è tardissimo, inizia ad albeggiare,
mi alzo e mi metto alla ricerca di un taxi. Mentre vado verso casa
incrocio macchine della polizia di Rock City che sfrecciano a
sirene spiegate, poi anche alcuni colleghi motociclisti della CHP.
Arrivato a casa ho la strana sensazione di aver dormito 10 ore, mi
sento fresco e riposato… mi siedo in poltrona e subito sento i miei
piccoli amici che vengono a trovarmi… le ombre: - Bel lavoro
Joe!
Dopo aver parlato a lungo con loro, accendo la radio, sono le 7 e
fra due ore devo essere in centrale: - Efferata strage nella notte in
un sexy shop di Alvaredo, almeno 10 cadaveri trovati orribilmente

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massacrati, fra loro anche due donne letteralmente squartate,
probabilmente dopo essere state torturate. Emergono altri
particolari raccapriccianti che per ora gli investigatori non
vogliono rivelare. - Raccapriccianti davvero, i primi poliziotti
arrivati sulla scena del crimine erano stati ricoverati in stato di
shock dopo essere scivolati su una poltiglia fatta di sangue,
cervella ed interiora che ricopriva tutto il pavimento.

Mi sento maledettamente bene, non riesco fino in fondo a


comprendere questo stato di eccitazione che mi pervade
nonostante abbia allentato con le anfetamine, cercando di
rimanere sobrio tutto il giorno. I miei piccoli amici mi sostengono
e forse comincio a comprendere a cosa si riferiscono quando
parlano del “piano”, anche se esplicitamente non me lo dicono. Le
notizie della strage giù ad Alvarado continuano ad arrivare: una
manica di assassini pervertiti in meno… peccato per le due donne.
Tutte le sere chiacchieriamo a lungo, non riesco mai a ricordare
cosa ci diciamo, tutto quello che mi resta in mente è soltanto la
parola “piano”. Rock City è sempre più violenta ed i suoi abitanti
sentono il bisogno di qualcuno che li protegga, qualcuno che
applichi rigidamente la legge e la faccia rispettare senza la
minima concessione. La merda ormai ha raggiunto i palazzi del
potere, corruzione e malaffare si sono impossessati di questa
maledetta città, dei suoi fottuti grattacieli e di tutto quello che ci
sta dentro! La tolleranza sta raggiungendo i limiti di guardia…
ordine e disciplina presto torneranno a regnare…
Mentre pattuglio la Interstate 110 un enorme camion mi sorpassa;
sopra la targa vedo attaccato un adesivo con una scritta molto
carina: “Grateful if you pass from left, Dead if you pass from
right”… sorrido mentre penso che quella frase deve aver ispirato
quel complesso di sbandati che da San Francisco strimpellano
canzoni “peace and love” su tutte le radio. Controllo il
contachilometri e mi rendo conto che non è il camion ad andare

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troppo veloce, ma sono io, preso dai miei pensieri che vado come
una lumaca. La radio inizia improvvisamente a gracchiare: - “A
tutte le pattuglie nella zona di Huntington Park, ci è stato
segnalato un incidente sulla 110, direzione Nord… per favore
convergere.”
Accendo lampeggianti e sirena e inizio a correre finché, poco
prima dell’uscita per Huntinghton Park vedo una lunga coda di
veicoli fermi su tutte le corsie. Mi butto sulla destra e percorro la
carreggiata di emergenza finché l’inferno mi si presenta davanti:
un tir con rimorchio è piantato di traverso ed occupa tre delle
quattro corsie disponibili, due auto sono infilate sotto, ridotte ad
un ammasso informe di lamiere. Blocco la mia auto e scendo per
vedere meglio, faccio attenzione perché l’odore di benzina è
fortissimo ed i mezzi potrebbero prendere fuoco da un momento
all’altro. Mi avvicino alle lamiere contorte e riesco a scorgere gli
occupanti delle macchine, o quello che ne resta.
Rivoli di sangue scorrono lungo quelli che dovevano essere gli
sportelli, tracce di materia cerebrale e frammenti ossei sono sparsi
tutti intorno: l’urto deve aver fatto letteralmente esplodere le teste
degli occupanti… non riesco neppure a capire quanti erano.
Percorro lateralmente il rimorchio ed arrivo alla cabina del tir, mi
arrampico facendo attenzione a non tagliarmi con i vetri che
ricoprono l’asfalto, vedo l’autista riverso sul volante, perde
sangue dalle orecchie, respira a malapena.
- Riesce a sentirmi? - Sento un gorgoglio, un fiotto di sangue
scuro esce dalla sua bocca, poi smette di respirare.
Scendo e torno alla mia auto; intorno gente che singhiozza o
invoca Dio… sembra una piccola fine del mondo. In lontananza
altre sirene… in avvicinamento. Mentre prendo il nastro rosso e
bianco per delimitare l’area e tenere lontani i curiosi, un suono
attira la mia attenzione, è qualcosa di molto particolare, direi
inconfondibile. Apro bene le orecchie per capire da dove arriva,
anche se non possono esserci molti dubbi… proviene dalle
lamiere sotto il tir. Mi avvicino finché non ho la certezza che si
tratta del vagito di un neonato… corro di nuovo in auto a prendere
una torcia elettrica, illumino il groviglio e vedo che, sui sedili

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posteriori di una delle auto, sotto il cadavere di una ragazza con la
gola squarciata probabilmente da una scheggia di latta, c’è
qualcosa che si muove… una manina insanguinata.
Fortunatamente in quel momento arrivano i pompieri, faccio loro
cenno di raggiungermi… capiscono al volo la situazione e con il
flessibile in quattro e quattr’otto liberano il bambino. Lo prendo
in braccio, è completamente ricoperto di sangue ma noto con
sollievo che non si tratta del suo ma di quello schizzato dalla
giugulare della ragazza, forse la madre. Il piccino piange
disperatamente, lo abbraccio e lo porto verso una delle ambulanze
che nel frattempo sono giunte sul posto. Lo affido al personale
paramendico e torno a dare una mano agli altri soccorritori,
dentro di me una profonda tristezza; merda che strage!
Qualche ora dopo, rimossi resti e lamiere e fatto riprendere il
traffico a scorrere regolarmente, salgo in macchina e mi avvio
verso la centrale… la radio gracchia nuovamente: - Bel macello
vero Joe?
- E quel povero bambino, persa tutta la famiglia.
- Ma tu puoi fare qualcosa… - Questa volta non capisco dove
vogliano farmi arrivare
- Guarda a destra Joe!
- Sai perché il tir ha sbandato?
- La buca, Joe, guarda la buca.
- Le strade sono piene di buche Joe!
- Il consigliere Jefferson si pappa tutti i soldi invece di ripararle.
- Cammina con le tue gambe Joe!
Fine della comunicazione…

Stasera mi sento davvero a pezzi, per di più le ombre non sono


venute a trovarmi, vado a letto dopo una generosa dose di Burbon
liscio. Nottata infernale, mi rigiro nelle lenzuola, completamente
sudato, in testa un ronzio assordante. Appena prendo sonno inizio
a sentire le voci dei piccoli: - Il consigliere Jefferson.
- Cammina con le tue gambe. - Il bambino piange, mi sveglio…
provo a riprendere sonno.
- Il Piano Joe!

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- Con le tue gambe.
La mattina tutto mi è più chiaro. Mi alzo, mi preparo e con
l’uniforme impeccabile esco, la 44 nella fondina e… i proiettili
modificati in tasca!

VI

L’asfalto ribolle sotto i grattacieli di downtown, quello che ho in


mente potrebbe costarmi caro… moooolto caro! Il Municipio è
proprio davanti a me, aspetto che la notte si faccia più scura e che
tutti, anche gli ultimi impiegati escano per tornarsene dalle
rispettive famigliole. I miei piccoli amici mi hanno fatto una
sorpresa: tornando a casa, dopo la carneficina sull’autostrada, ho
trovato un pacchettino azzurro sul tavolo del soggiorno.
Conteneva una chiave, la chiave di una cassaforte avvolta in un
biglietto di pergamena gialla. Caratteri arcaici in china nera erano
stati usati per avvertirmi. -”La nostra parte l’abbiamo fatta, ora
cammina con le tue gambe!”
Così eccomi qui ad aspettare, con molta, molta pazienza…
Appena intravedo la guardia che chiude il portone d’ingresso
dell’edificio, mi avvio verso il garage, scendo la rampa e riesco
ad attraversare il cancello automatico un attimo prima che inizi a
chiudersi; mi accerto che non ci siano telecamere di sorveglianza
e, con molta cautela mi avvio verso gli ascensori. Entro nella
cabina ed aspetto di sentire il rumore dell’altro ascensore che
scende, poi schiaccio il pulsante del 34° piano, gli uffici dei
consiglieri. Da qualche parte arriva la voce gracchiante di Janis
Joplin, un’altra sballata della vecchia Frisco! Spero solo che
quando la guardia arriva nel sottosuolo, il mio ascensore sia già
abbastanza in alto per non essere sentito: non vorrei dover
aggiungere un’altra vittima innocente!
Arrivo al piano, esco cercando di attutire i miei passi ed accendo
la torcia di ordinanza per fare un pò di luce: un lungo corridoio si
estende davanti a me, su entrambi i lati porte di legno con
targhette d’ ottone. Inizio a muovermi leggendo le targhette e,

20
arrivato quasi in fondo faccio Bingo! Sulla targa della porta che
mi sta davanti leggo: Cons. T. J. Jefferson-Rep… allungo la mano
e spingo la maniglia verso il basso… la porta si apre… non avevo
dubbi, altrimenti le chiavi sarebbero state due: i miei piccoli amici
non tralasciano alcun particolare!
L’ufficio è completamente al buio, solo la tenue luce della città
filtra dalla finestra a vetri ma non è sufficiente per vedere
alcunché… tengo accesa la torcia e mi guardo un pò intorno…
dietro un’ampia scrivania piena di carte c’è un quadro che
raffigura il Golden Gate… vado quasi a colpo sicuro. La
cassaforte si apre dopo la sesta mandata, senza la chiave sarebbe
stato impossibile! Dentro ci sono alcune buste gialle di varie
dimensioni, i documenti che sto cercando devono essere proprio
lì… facendo attenzione a come sono posizionate le buste, le
estraggo ed apro quella più grande… ecco le prove! I fogli hanno
tutti l’intestazione del Comune, sono dattiloscritti e riportano in
maniera ordinata una serie di cifre con accanto la dizione “bil.
prev., verso la fine la trovo: “Asfaltatura autostrade 100.000$”
Nel foglio successivo altre cifre, altre voci, tutte con la dizione
“bil. cons.”… cerco e ricerco ancora… la voce “asfaltatura
autostrade” non esiste più! Faccio un rapido controllo incrociato
dei totali… quei 100.000$ sono spariti. Apro una busta più
piccola, contiene un foglietto dattiloscritto con l’intestazione
“Cayman International Bank”, è una ricevuta di versamento di
100.000$ fatta il mese prima… nella terza busta trovo l’estratto
conto della banca, constato che ogni anno, fra maggio e giugno
viene fatto un versamento di 100.000$! La cosa sta andando
avanti da 4 anni… complimenti! Adesso mi sento più tranquillo,
per scrupolo apro anche l’ultima busta, quella più piccola e con
mia grande sorpresa vedo che contiene una ventina di foto, tiro
fuori la prima e resto letteralmente basito…
…il bambino non avrà più di 10 anni, è seduto su una poltrona
con le gambe larghe, indossa un berretto di pelle nera con la
visiera ed un paio di stivali sempre di pelle nera, per il resto è
completamente nudo! Ha i tratti latini… forse messicano… non
mi stupirebbe se la foto fossa stata scattata in qualche lurida

21
topaia giù a Tijuana o a Nueva Laredo! Nella seconda foto si vede
un uomo seduto sulla stessa poltrona, tiene sulle ginocchia il
bambino… riconosco la faccia, sui giornali è apparso spesso… il
consigliere Jefferson! La terza foto mostra l’uomo, nudo anche
lui, che abbraccia il piccolo… decido che è sufficiente… rimetto
tutto a posto, chiudo la cassaforte.
I dubbi si sono dissipati… TUTTI!

VII

Finisco di incollare le lettere ritagliate dal giornale, apro la busta e


ci ficco dentro tre bossoli di 44, spero che il piano funzioni, è la
prima volta che “cammino con le mie gambe”. I miei piccoli
amici non sono più venuti a trovarmi, per ora… la cosa non mi sta
turbando minimamente, sento che posso tranquillamente farcela,
in fondo non ho che da far lavorare la fantasia! Chiudo la busta,
l’indirizzo l’ho scritto a macchina, dovrebbe funzionare senza
grandi problemi. Mentre percorro la strada per arrivare in centrale
mi fermo ed imbuco la busta, cerco il più possibile di non farmi
notare, non si sa mai, se il piano fallisse sarebbe un vero peccato.
Arrivato a destinazione saluto l’agente di guardia, salgo le scale e
mi reco nel mio nuovissimo ufficio: la mia domanda per il
servizio scorte è stata accettata ma per ora non c’è nessun nuovo
inserimento nel piano di protezione personale. Sbrigo un pò di
lavoro amministrativo, scartoffie inutili destinate al macero a
breve tempo, poi vado a prendere un caffè con il Tenente.
I giorni trascorrono alquanto monotoni ma da un momento
all’altro le cose dovrebbero cambiare, presto la notizia dovrebbe
fare il giro della città. A casa decido che è arrivato il momento di
fare la telefonata, alzo la cornetta e lentamente, molto lentamente
compongo il numero. La voce femminile, nonostante l’età, non ha
perso la sua sensualità: - Pronto?
- Pronto… Maria… - Un lungo attimo di silenzio…
- Joe?
- Come stanno i ragazzi?

22
- …dopo tutto questo tempo hai ancora il… coraggio… al diavolo
Joe, i ragazzi stanno bene, sono io che sto male!
- Scusa piccola, scusa davvero ma non potevo…
- Un cavolo, i ragazzi ti cercano, Joe ti prego, torna…
- Te lo prometto piccola… hai… hai notizie di Franky?
- No Joe… vieni a portarmi via Joe…
- Te lo prometto, e… ora ciao…
- No Joe, ti prego…
- Piccola finisco un lavoro e… non cercarmi, mi rifaccio vivo
io…
- …Ti aspetto Joe… - Calde lacrime iniziano a scendermi lungo
le guance, cerco di trattenerle, non dovrei piangere, mi mancano
maledettamente, non vorrei fosse così ma mi mancano!
La notizia arriva durante un’edizione della sera: il consigliere
comunale Jefferson ha ricevuto pesanti minacce probabilmente da
uno squilibrato, il capo della Polizia ha deciso di inserirlo nel
programma di protezione personale, se ne occuperà un’apposita
sezione della CHP comandata dal Tenente Dempsey. Ooooooooh
se il Tenente sapesse cosa nasconde il consigliere nella sua
cassaforteeeeeeee! Da domani sarò l’ombra del consigliere
Jefferson, dovrò occuparmi della sua protezione e sarò perfetto,
talmente perfetto che prima o poi mi ringrazierà, oooooh se mi
ringrazierà!
Prima di coricarmi arrivano, sono più esaltati del solito: - Ciao
Joe!
- Stai giocando bene le tue carte Joe!
- Il Piano Joe, sta funzionando anche senza di noi! - Non riesco
esattamente a riportare alla memoria “il Piano”, ma non mi
preoccupo, le ombre sicuramente mi rinfrescheranno, c’è forse
qualcosa di più grande rispetto a quello che già sto facendo?
Ripulire, ecco il piano, eliminare il più possibile la feccia, come i
vecchi sceriffi del Far-West! Dormo serenamente tutta la notte ed
appena la sveglia suona, mi ricordo l’impegno che mi sono
assunto, fare un briciolo di giustizia!
Faccio appena in tempo ad entrare nel mio ufficio che il Tenente
Dempsey bussa alla porta: - Ehi Joe hai sentito del consigliere

23
Jefferson? Dobbiamo assolutamente pianificare la sua protezione.
Nella sala riunioni ci sono tutti gli agenti addetti alla scorta, il
Tenente legge l’agenda del consigliere ed assegna gli incarichi
giorno per giorno… il 25 è previsto un viaggio a Tijuana,
Messico, c’è bisogno di un uomo moooolto discreto poiché un
poliziotto statunitense non può attraversare il confine con la
pistola nella fondina.
- Sergente Roberts…
- …presente! - Non chiedo di meglio, non vedo l’ora di farlo…
questo viaggetto in Messico…
Il consigliere è una persona di mezza età, alta più o meno un
metro e sessanta, capelli neri pettinati all’indietro e molto, molto
in sovrappeso! Mi porge la mano con fare gentile e me la stringe
vigorosamente, dandomi contemporaneamente alcune pacche
sulla spalla. Indossa degli elegantissimi vestiti italiani che altri
membri del Consiglio Comunale non potrebbero neanche
noleggiare e parla con una vocetta burrosa molto simile a quella
di Truman Capote. Dopo le presentazioni ci mettiamo in viaggio,
il tragitto è abbastanza semplice: Interstate 5 da R.C.giù
attraverso Long Beach, Santa Ana, San Diego e poi… Tijuana! Il
Pacifico scorre accanto a noi, il sole splendente si riflette su
quell’immenso specchio d’acqua, vivere in California è davvero
una grandissima fortuna.
Durante il viaggio non familiarizziamo molto, il consigliere è uno
che sta sulle sue, ogni tanto chiede di fermarsi per rifornirsi di
caramelle alla fragola. In un paio d’ore siamo a San Diego,
incantevole, mi dirigo verso il confine… fingo di ignorare lo
scopo di quel viaggio ed intanto rifletto sul modo migliore per
agire. Il bastardo seduto dietro di me mi fornisce l’indirizzo di un
albergo sulla Benito Juarez, dovrei ammazzarlo seduta stante ma
le conseguenze sarebbero imprevedibili… Decido che per ora è
molto meglio assecondarlo, arrivo davanti all’albergo, parcheggio
e lo guardo scendere dal sedile posteriore, come un enorme
scarafaggio viscido e ributtante!
All’ingresso viene accolto con tutti gli onori, forse paga
profumatamente e, soprattutto, paga in dollari statunitensi…

24
Rimango seduto stringendo il volante, osservo il movimento sulla
strada, vedo qualcosa che mi fa trasalire… due ragazzini si
fermano davanti all’ingresso dell’albergo, il portiere esce, dice
loro qualcosa e li fa entrare. Indossano magliette bianche logore e
pantaloncini corti stropicciati; hanno i piedi nudi… insieme non
arrivano a vent’anni. Stringo il volante così forte che le nocche mi
diventano bianche, sento male… non posso farci nulla, devo per
forza aspettare che si compia lo scempio su quelle creature
innocenti, tuttavia mi consolo al pensiero che presto schiaccerò
quel lurido scarafaggio!

VIII

Non riesco a rendermi conto del tempo che passa, vedo scorrere
una miriade di persone lungo il marciapiede, l’attesa mi sembra
interminabile. Ho la sensazione di stare per esplodere, continuo a
stringere il volante della Oldsmobile come se volessi
frantumarlo… cerco di non pensare a cosa sta succedendo in quel
cazzo di albergo. Improvvisamente qualcosa si muove, vedo i
ragazzini che escono dal portone, hanno la faccia sconvolta e
stanno masticando, forse quelle dannate caramelle alla fragola.
Dopo che si sono allontanati arriva il consigliere, viene salutato
con mille salamelecchi dal personale dell’hotel, deve averli unti
moooolto bene! Sale nuovamente sul sedile posteriore, è tempo di
rientrare a Rock City… te li sei fottuti per bene eh?
Senza dire mezza parola mi fa cenno di partire, deve considerarmi
poco meno di un servo… il suo chauffeur personale. Rientro sulla
Interstate 5, attraverso il confine e seguo le indicazioni per San
Diego, il Pacifico adesso scorre sulla nostra sinistra; il paesaggio
è talmente soave che il consigliere si addormenta, forse anche per
la fatica appena fatta. Appena passata la Old Town, invece di
proseguire dritto svolto a destra sulla 8 verso l’Arizona, il deserto
è un buon posto per far sparire un cadavere, soprattutto quando è
troppo ingombrante.
Il respiro del mio passeggero si fa sempre più pesante, per un bel

25
pezzo dovrebbe dormire, comunque mi tengo pronto ad ogni
evenienza, la mia 44 è a portata di mano. Fuori ormai la sera sta
calando, continuo a guidare con la certezza che il consigliere non
si sveglierà… all’altezza di Casa Grande lascio la via maestra e,
seguendo strade secondarie arrivo in pieno deserto… la
temperatura sta scendendo vertiginosamente, devo assolutamente
sbrigarmi.
Finalmente trovo il posto ideale, non si vedono luci nel raggio di
miglia, la strada è semi sterrata, nessuno dovrebbe venire a
disturbarci. Cercando di non fare troppo rumore scendo dalla
macchina, mi sgranchisco un po' e respiro l’aria fredda… è
davvero impressionante, di giorno su questo lembo di terra ci
sono mediamente 60 gradi, ma la notte si fa presto ad andare sotto
lo Zero! Apro lo sportello posteriore, afferro il consigliere per la
collottola e lo scaravento fuori dalla Oldsmobile, lo sollevo per il
bavero e, senza neanche dargli tempo di capire cosa stia
succedendo gli assesto un pugno in piena faccia. Sento il crack
della mandibola che si spezza, subito gli sferro una testata
fracassandogli il setto nasale. I suoi occhi sono sgranati per lo
spavento ed il dolore, sinistri gorgoglii escono dalla sua bocca. Il
peso dell’uomo aumenta, non si regge sulle gambe, lo faccio
inginocchiare… sento l’inconfondibile odore di escrementi
umani, si è cagato addosso… il volto è ridotto ad una maschera di
sangue, estraggo la 44 dalla fondina e gli ficco la canna in
bocca… devo forzare le ossa facciali spezzate, le sue urla sono
quasi insopportabili… premo il grilletto che ancora sta gridando,
il cervello schizza dappertutto, il proiettile modificato gli fa
letteralmente esplodere la testa.
C’è ancora un po' di luce, sufficiente per dare un’occhiata al
cadavere… le sue gambe si muovono a scatti, gli ultimi riflessi
nervosi… nel giro di un paio di giorni Mr.Jefferson sarà stato
interamente divorato dai Coyote… santi animali! Salgo in
macchina metto in moto e riparto; mentre percorro il tragitto
all’indietro realizzo di non poter tornare a Rock City… che
spiegazione dare? Rifletto attentamente, faccio un paio di
supposizioni, non sta in piedi nulla!

26
Nei pressi di Casa Grande prendo la mia decisione… imbocco
l’Interstate 10 direzione Tucson, svolto sulla 19… varco il confine
ad Heroica Nogales… l’unica è puntare su “El Monstruo” dove
posso far perdere le tracce per un po’. Improvvisamente, mentre il
Messico mi scorre sotto le gomme, riecco finalmente le voci…
stavolta mi pare di sentirle dentro la testa…
- Ottimo lavoro Joe…
- Il piano sta funzionando…
- Finalmente abbiamo un vendicatore come si deve.
- Libero Joe… libero di camminare con le tue gambe!
- Ma noi torneremo a trovarti!
Effettivamente mi sento forte, invincibile e libero… soprattutto
libero… moooolto libero! Mentre guido frugo nel cruscotto,
afferro le chiavi della cassaforte del consigliere; appena arriverò a
destinazione le spedirò al sindaco di R.C… Chissà che bella
sorpresa!

IX

Ci sono poche città al mondo dove puoi sparire con la certezza di


non farti trovare mai più, El Monstruo è una di queste: 20 milioni
di abitanti, una distesa di palazzi, baracche, grattacieli a perdita
d’occhio, senza nessun piano regolatore alle spalle. Mentre
percorro il Paseo de la Reforma mi rendo conto del perché
Mexico City si meriti un soprannome tanto sgradevole; soltanto
questo viale a 12 corsie che taglia la città come un’orrenda
cicatrice ha in sé qualcosa di veramente mostruoso!
La stanchezza si fa sentire, ho viaggiato tutta la notte e buona
parte della mattina senza fermarmi, qualche compressa di
Excedrina mi ha aiutato a stare sveglio ma adesso l’effetto sta
passando. Devo trovare un tugurio dove poter dormire ed ho
anche maledettamente bisogno di mangiare qualcosa. I soldi per
ora non sono un problema, nel cruscotto della Oldsmobile ho
trovato 5.000 bigliettoni in contanti, una carta di credito della
banca delle Cayman e un libretto di assegni. In questo Paese

27
posso fare la bella vita per molti, molti giorni, poi mi procurerò
una nuova identità e cercherò un lavoro… anche se non sono così
sicuro di rimanere qui per sempre; in fondo ho promesso a Maria
di tornare…
Accendo la radio e cerco qualche stazione californiana, forse la
notizia della scomparsa del consigliere viene già diffusa, in teoria
avrebbe dovuto essere tornato a R.C… mi ricordo della
cassaforte, spedirò le chiavi ma non subito, voglio mettere in
mezzo un po’ di tempo, adesso sarebbe troppo facile capire che
dietro tutto ci sono io. Sull’Avenida Monte Pirineos trovo un
albergo che fa al caso mio, è un edificio anonimo, piuttosto
fatiscente dove la polizia difficilmente ha voglia di mettere piede,
se non con le squadre speciali. Parcheggio, prenoto una stanza ma
prima di andare a letto decido di disfarmi della Oldsmobile, dato
che la polizia di R.C. contatterà sicuramente quella di M.C.
fornendo tutti i dati per rintracciare il Consigliere Jefferson.
Sulla 6.a Avenida di Nezahualcoyotl, quartiere malfamato a Nord
del Monstruo, trovo un’officina che mi paga 200 dollari per la
macchina… la dritta l’ho estorta al portiere dell’albergo in
cambio di una lauta mancia… adesso sono un anonimo essere
umano fra altri 20 milioni! Impiego circa 2 ore per tornare
all’albergo con i mezzi pubblici, ingurgito tortillas con salsa chili
in un lurido chiosco, mi fermo a comprare il necessario per la
notte poi finalmente posso stendermi sul letto e dormire. Il sonno
è molto agitato, continuo a sognare i coyote che smembrano il
cadavere del consigliere, mi sveglio appena vedo che ha il volto
di mio fratello Franky. Mi riaddormento e stavolta sogno i
ragazzini di Tijuana, corrono scalzi per la strada, attraversano di
corsa e vengono spappolati da un Piterbit nero, mi sveglio
ancora…
…guardo la sveglia sul comodino, sono le sei del pomeriggio,
speravo di dormire un pò di più ma decido di rinunciare. Faccio
una doccia tiepida, mi sbarbo, mi vesto con jeans e maglietta
nuovi e, proprio mentre sto per uscire alla ricerca di un goccetto
eccole ancora, ma questa volta non sono così felice di sentirle:
- Ooooh, Joe, non penserai mica di aver finito con il tuo lavoro?

28
- No Joe, non puoi mollare proprio adesso!
- Abbiamo ancora molte cose da farti fare. - Le ascolto con un
certo fastidio, ho intenzione di non dar loro più retta… - Joe, devi
tornare a Rock City.
- Il Piano, ricorda!
- Andate a farvi fottere voi e il vostro fottuto piano! - La voce mi
esce rabbiosa, non riesco a trattenermi, le ombre
ammutoliscono… solo per qualche istante… - Joe, non puoi
mollarci in questo modo.”
- Lo sai.
- Potresti pentirtene! - le voci si fanno più minacciose… senza
dire una parola di più esco dalla stanza sbattendo la porta… penso
a Maria…
Mi aggiro per le strade della città, il sole sta calando e credo che
fra un po’ mi infilerò in qualche cantina ad ingozzarmi di
mojarras, chicharron e tequila; ne individuo una che mi sembra
alquanto dignitosa, decido che è quella giusta, poi… tutto accade
improvvisamente, la testa comincia a girarmi, ho come la
sensazione di perdere i sensi, inizio a vedere in bianco e nero… la
scena avviene al rallentatore… una giovane donna sta spingendo
una carrozzina con dentro un neonato, arrivano due ragazzi alle
sue spalle, lei non si accorge di niente… i ragazzi estraggono
contemporaneamente le loro pistole, se le puntano addosso e si
sparano a vicenda… vedo distintamente la pallottola perforare il
cranio di uno dei due, uscire portandosi dietro un pezzo di materia
grigia, poi rimbalzare su qualcosa… la ragazza mooolto
lentamente inizia a voltarsi, la bocca si apre, il proiettile le si
infila preciso uscendo dalla nuca… mentre cade a terra spinge la
carrozzina in mezzo alla strada… la scena avviene sempre più
lentamente, la vivo come in un sogno… un enorme camion arriva
a tutta velocità… botta… la carrozzina vola via, atterra, sparisce
sotto le ruote… poltiglia rossa… è un Piterbit… nero… prima di
svenire percepisco distintamente la voce, non è più stridula ma
molto profonda, è una sola: - Attento Joe, la prossima volta
potrebbe accadere a qualcuno cui vuoi molto bene…

29
X

Il risveglio è davvero traumatico, non riesco nemmeno a rendermi


conto di cosa mi stia succedendo intorno… immagini sfocate
passano davanti ai miei occhi, rivedo la scena sulla strada… il
cambiamento repentino delle ombre mi dà molto da pensare…
qual’è davvero il loro piano? Adesso non sono altro che un
burattino nelle loro mani, non posso tirarmi indietro, devo
eseguire i loro ordini… ma perché? L’unica cosa che mi resta da
fare prima di tornare a Rock City è attendere che tornino a
trovarmi, che mi diano qualche spiegazione… in fondo volevo
soltanto restarmene tranquillo per un po’, poi sarei comunque
tornato a fare giustizia… la nostra giustizia!
Mi giro e mi rigiro nel letto, le ore della calda mattina passano
lentamente, non sento minimamente il bisogno di alzarmi, anche
perché non saprei davvero come trascorrere il tempo là fuori,
lungo le polverose strade di Città del Messico… il rischio di
cacciarsi in qualche guaio è troppo forte in questa lurida città. Le
gambe mi tremano maledettamente, la minaccia risuona ancora
viva nelle mie orecchie, ho paura… penso a Maria, ai ragazzi, a
Franky… devo chiamare Maria… leeeeentamente mi alzo,
striscio verso il bagno, ho come la sensazione che il mio corpo
non risponda ai comandi… l’acqua tiepida mi dà una sensazione
di sollievo… posso iniziare a mettermi in viaggio, le ombre per
ora non si sono fatte vive. Scendo nella Hall, pago il conto, entro
nella stanza del telefono pubblico…
- Maria?
- Joe, dove sei? Torna ti prego…
- …i ragazzi…
- …ho un brutto presentimento Joe, torna presto, ti prego!
- Devo finire di sbrigare alcuni affari, poi torno… te lo
prometto…
- Va' al diavolo Joe!
Mi procuro una Chevrolet del ’65, il motore è buono, ha la targa
del Nevada, dovrei passare il confine senza problemi; prima di
mettermi in viaggio mi procuro diverse compresse di Excedrina,

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non ho intenzione di fare soste. Prima di imboccare l’autostrada
mi fermo all’ufficio postale, spedisco un pacco al Sindaco di
Rock City: le chiavi della cassaforte del consigliere Jefferson!
Il motore romba, l’asfalto sotto le ruote scorre con uno stridio
sinistro, in cielo ci sono ampie nuvole scure… avrei giurato che
fino ad un minuto prima il sole splendesse incontrastato. Ci metto
due giorni per arrivare a Tijuana ma appena prima di attraversare
il confine, decido di fermarmi a riposare un pò, in fondo nessuno
mi corre dietro… per ora! Mi metto alla ricerca di un albergo e
nella mia mente un pensiero si fa strada lentamente… decido di
trascorrere la notte sulla Benito Juarez, nello stesso posto dove il
consigliere violentava i ragazzini. Quando sono ripartito ho avuto
come la sensazione di non aver finito il lavoro che mi ero
proposto, credo che qualunque cosa vogliano, le ombre non
avranno niente in contrario se prendo un’altra iniziativa
autonoma… - Cammina con le tue gambe, Joe!
Parcheggio nel punto esatto dove qualche giorno prima avevo
atteso il consigliere, sicuramente nessuno mi riconoscerà. Entro
nell’albergo, il portiere mi sorride, è un tipo allampanato di mezza
età, mi consegna le chiavi della camera, in cambio non vuole
alcun documento, me lo aspettavo, è tipico dei posti a ore.
Mi stendo sul letto ed inizio ad aspettare… aspetto l’oscurità…
aspetto i miei piccoli amici… farò un’altra po’ di giustizia!
Continuo a chiedermi quale sia davvero il piano, perché mi hanno
minacciato… perché hanno distrutto quelle vite innocenti…
Nonostante sia ancora giorno, lentamente i miei sensi vengono
meno… chiudo gli occhi… inizio a sognare in bianco e nero…

XI

Mi agito sotto le lenzuola, percepisco suoni e rumori provenire


dalla stanza accanto, faccio per alzarmi ma qualcosa mi tiene
incollato al letto… voci di bambini, rumore di una cinepresa in
azione, uomini che ansimano, non posso restare tranquillo, mi
rigiro ed improvvisamente sento il pavimento freddo sul mio

31
corpo. Un tremendo colpo alla testa mi fa perdere conoscenza, le
ultime cose che percepisco sono tre sagome scure davanti a me.
Mi risveglio sulla Chevrolet, il vetro freddo del finestrino
appoggiato alla tempia, il sole splende nel cielo azzurro, fa caldo,
moooolto caldo! Sono di nuovo in mezzo al deserto, se la mente
non mi inganna dovrebbe essere il deserto della California,
probabilmente sono su una statale o qualche altra merda di strada
degli Stati Uniti. Non riesco a spiegarmi come diavolo sono
piombato quaggiù, la testa mi duole da impazzire, devo aver preso
una botta, forse qualcuno di quei bastardi pedofili mi ha pizzicato
ed ha tentato di accopparmi. Ho una nausea tremenda, la bocca
impastata e, cosa davvero strana percepisco un odore fortissimo di
sapone di Marsiglia che mi riporta alla mente tanti maledetti
ricordi! Lo stesso odore di mia madre, dei miei piccoli “amici”,
della maglietta del ragazzino messicano che ho accoppato a Rock
City! Apro lo sportello, inspiro aria calda e polvere, cerco il
pomello della radio ed ascolto per qualche secondo
l’inconfondibile gracchiare di una canale fuori sintonia. Giro la
manopola, becco l’armonica del Boss, buon vecchio Boss dal
New Jersey, finisco di ascoltare Used Cars, poi la voce metallica
annuncia una nuova Hit di James Brown. Vorrei ascoltarla ma
dentro di me sento che devo fare presto, giro ancora, mi soffermo
su un pezzo Soul, la voce principale sembra quella di un
bambino… deve essere quel negretto… Michael Jason o Johnson
o come diavolo si chiama… l’ennesimo bimbo prodigio lanciato
da quella casa discografica di negri di New York che non avrà
alcuna chance di sfondare… giusto una meteora per impietosire il
pubblico e tirar su qualche dollaro…
Finalmente un notiziario, mi metto ad ascoltare con attenzione e
finalmente ecco la notizia, direttamente da Tijuana, Mexico, in un
albergo sulla Benito Juarez è stata compiuta una strage senza
precedenti quanto a ferocia: cinque persone sono state massacrate
in una camera, la Polizia Federale ha lasciato trapelare alcuni
dettagli raccapriccianti. I cinque sono stati legati e sgozzati come
maiali, la violenza è stata tanta e tale che i corpi risultano
praticamente decapitati. Improvvisamente riesco ad inquadrare la

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scena, ci sono cinque uomini inginocchiati, qualcuno singhiozza,
altri stanno in silenzio, tre bambini mi guardano spaventati, faccio
loro cenno di andarsene, in mano stringo un coltello affilatissimo,
appartiene ad uno dei balordi, ha tentato di infilzarmi prima che
gli frantumassi il polso.
La colluttazione è stata breve, non sono grandi combattenti, non
ricordo come ho fatto ad immobilizzarli. Appena sono sicuro che i
marmocchi sono spariti, mi avvicino agli uomini, li guardo uno ad
uno negli occhi, poi giro loro intorno… mi posiziono dietro al
primo, gli punto un ginocchio sulla schiena e lo afferro per i
capelli tirandogli indietro la testa, avvicino il coltello alla sua gola
e, mentre implora pietà affondo la lama, schizzi di sangue
sprizzano a fiotti, lo stesso ritmo dei battiti cardiaci, aumento la
pressione, dalla sua bocca escono gorgoglii, sento la lama che
incontra resistenza, devo essere arrivato a recidere le vertebre…
gli altri bastardi piangono, sono completamente ricoperti di
sangue… lascio la presa prima che la testa mi resti in mano, il
corpo si affloscia, dal collo continua a schizzare sangue, solo un
lembo di pelle tiene attaccati testa e tronco. Il ricordo svanisce ma
da quanto posso sentire al notiziario devo aver riservato lo stesso
trattamento anche agli altri.
Alcuni poliziotti sono svenuti appena giunti sulla “scena del
crimine”. Nessun accenno alla cinepresa ed al contenuto del film
trovati nella stanza, informazioni che i federali vogliono tenere
riservate… a quanto pare.
Tornato definitivamente alla realtà, mi domando come faccio ad
essere pulito, a non avere nemmeno una goccia di sangue addosso
dopo la mattanza che ho compiuto; deve esserci nuovamente lo
zampino delle ombre. Spengo la radio, esco dalla macchina e mi
sgranchisco le gambe, mi sembra di aver guidato per un’eternità
anche se in realtà qualcuno deve avermici portato mentre
dormivo, in questo posto dimenticato da Dio. La testa mi fa
ancora male, frugo nelle tasche e trovo un paio di compresse di
Excedrina, le ingollo aiutandomi con la saliva. Risalgo in
macchina, metto in moto e parto… dopo pochi metri trovo un
cartello che mi dice di essere sulla County Highway S34,

33
direzione Winterhaven, California, Stati Uniti… non così lontano
dalla vecchia e merdosa R.C.. Improvvisamente la radio si mette
di nuovo a gracchiare… - Salve Joe….!
- Come andiamo?
- Bel lavoretto laggiù a Tijuana…
- …con le tue gambe Joe!
“Cosa diavolo volete da me, si può sapere?”
- Non hai ancora capito Joe?
- Noi vogliamo te…
- Vogliamo la tua vita Joe, devi essere al nostro servizio per
pagare il tuo debito!
“Quale debito?”
- Lo sai benissimo Joe, anche tu sei responsabile…
- Tuo fratello Joe, lo hai lasciato fuggire…
- Lo sanno tutti.
- Ha ucciso un ragazzo e tu lo hai lasciato andare…
- Devi pagare Joe! - Improvvisamente sento la testa che sta per
esplodere, devo accostare la macchia e fermarmi, mi porto le
mani alle tempie… non è possibile… io non l’ho fatto, se n’è
andato da solo… Il dolore aumenta, non riesco a tenere gli occhi
aperti cosa posso fare?
- Giustizia!
- Giustizia, devi fare giustizia Joe!
- A te ci pensiamo noi…
Apro gli occhi, il dolore sta passando, giro la macchina e
sgommo… direzione Nord… Perrineville… New Jersey!

XII

Guido come un razzo sulla 276, è notte fonda, al bivio svolto sulla
195… nei pressi di Allentown lascio la Interstate e prendo la
statale verso Perrineville. Praticamente senza soste ho percorso
tutti gli Stati Uniti da Sud a Nord, una sorta di Kerouac anche se
meno fighetto e soprattutto meno tossico. Durante il viaggio ho
ingurgitato soltanto qualche compressa di Excedrina e qualche

34
sorso di bourbon, la radio mi ha fatto compagnia.
Progressivamente il deserto ha fatto posto ad ampie foreste
lussureggianti, poi a montagne innevate ed ora i dolci prati del
New Jersey scorrono nell’oscurità. Il cuore mi batte fortissimo,
non so ancora bene cosa sto andando a fare, né se ho intenzione di
vedere Maria e i ragazzi… qualcosa mi dice che sto correndo
inesorabilmente verso il baratro… i miei amici non si sono più
fatti vivi, nessuna ulteriore spiegazione. Dentro di me ripeto che
se dovessi dare la caccia a Franky, sarà soltanto per assicurarlo
alla giustizia, non gli torcerei mai un capello! In caso la richiesta
fosse diversa troverò il modo di oppormi… come se lo troverò!
I fari della Chevy illuminano l’asfalto, dalla radio la voce del
vecchio Elvis mi tiene compagnia… Dio quanto mi manca
Elvis… lui e la sua dannata cocaina! Cerco di non pensare a cosa
direi se dovessi vedere Maria, dentro di me so che sarà
praticamente impossibile evitarla, Perrineville è troppo piccola,
già dal mio arrivo tutti sapranno che il sergente Roberts è tornato!
Dannata provincia americana!!!
La voglia di girare la coda della macchina ed andarmene è molto
forte, potrei rifugiarmi sulle Montagne Rocciose, Aspen o qualche
merda del genere, oppure cacciarmi fra le nebbie di San Francisco
e confondermi con i figli dei fiori. Non sarebbe male finire i miei
giorni fatto di acidi come un cocomero, cantando maledette
canzoni hippie e scopando liberamente nei campus di Berkley o
Oakland! Giocando bene le mie carte potrei diventare il manager
di qualche gruppo musicale giù a Sausalito… ma le ombre mi
troverebbero… la minaccia ricevuta a Mexico City è troppo
seria… non potrei mai perdonarmelo se accadesse davvero
qualcosa a Maria, ai ragazzi o… a Franky!
Finalmente comincia ad albeggiare, percorro la Perrineville road e
sento l’inconfondibile odore dell’aria di casa: il buco di culo del
mondo dove sono cresciuto, dove ho scopato la prima volta…
Dopo tutto il casino combinato da mio fratello non ci avevo più
rimesso piede, l’umidità nell’aria entra nelle narici… ha
quell’inconfondibile essenza di erba bagnata… a Rock City non
l’ho mai sentita.

35
Mi fermo al bar del vecchio Taylor, devo assolutamente fare
colazione se non voglio svenire di botto… sono praticamente due
giorni che non tocco cibo! Taylor è dietro al bancone, sta
asciugando un bicchiere… appena metto piede nel locale si volta,
spalanca gli occhi, apre la bocca come per dire qualcosa, il
bicchiere gli cade di mano, va in frantumi!
- Cavolo Joe, non ti aspettavamo più… che diavolo…?
- Non chiedermi perché sono tornato… la risposta potrebbe non
piacerti…
Faccio colazione con del caffè nero e della torta fatta in casa, i
cibi sintetici della California non sono ancora arrivati quassù….
posso assaporare la fragranza delle cose genuine… cazzo! Il
vecchio Taylor mi guarda, fuori l’oscurità sta svanendo, qualche
pick-up coi fari accesi inizia a passare per la strada. Finisco di
mangiare, pago il conto… Taylor continua a guardarmi con aria
grave… - Che c’è?
- Va' da Maria, Joe!
La casa è rimasta tale e quale, il patio bianco con le colonne scure
che si affacciano sulla strada, le persiane verdi all’italiana, il tetto
grigio… al piano superiore la luce della camera da letto di Maria
è accesa… i ragazzi dormono. Il canto degli uccelli mattutini mi
riporta alle levatacce fatte da bambino, quando d’estate andavo a
fare passeggiate con i miei amici; mi pare di sentire la dolce
brezza estiva accarezzarmi le gambe lasciate nude dai calzoncini
corti… Parcheggio la Chevy, attraverso la strada con il cuore in
gola, entro sotto la veranda, aspetto un interminabile minuto,
vorrei scappare… Aspen… San Francisco… Busso…
Sento un passo delicato scendere le scale, il chiavistello si apre…
Maria è ancora bellissima, ha gli occhi rossi, sta piangendo da un
po’ di tempo, evidentemente non sono io la causa… restiamo a
guardarci in silenzio… mi butta le braccia al collo…
- Joe… Joe… sei tornato…
- Scusa Maria… scusa…!
- Oh Joe sei arrivato appena in tempo…
- …In tempo per cosa…
- …si tratta di Franky… è terribile Joe… - Il sangue mi si gela

36
nella vene.
- Franky cosa… Maria?
- Entra Joe… siediti…

XIII

Nel silenzio della mattina Maria mi fa accomodare sul divano in


soggiorno, sto tremando, non voglio pensare a quali siano le
cattive notizie su Franky… mi faccio coraggio - Non vorrai mica
dirmi che Franky è…
- No Joe, l’ho sentito ieri sera, ancora non è morto… spero…
ma… credo si trovi in un brutto guaio…
- Che diavolo gli è successo?
- Dopo che è fuggito da Perrineville si è messo con della brutta
gente, una banda di trafficanti di Vancouver, droga, armi… forse
prostituzione… sai com’è, ogni tanto ci sentiamo, è lui che
chiama… ieri sera si è fatto vivo, aveva la voce strana… era
spaventato Joe, impaurito da morire… mi ha detto che se gli fosse
capitato qualcosa avrei dovuto in tutti i modi avvertirti… ho
cercato di capire cosa gli stesse succedendo, poi ho sentito una
specie di colpo secco… ha urlato… qualcuno gli ha strappato il
telefono di mano… ho sentito delle voci, gli urlavano che
gliel’avrebbero fatta pagare, gli davano del bastardo… l’ultima
cosa che ho sentito è stata la sua voce straziata… chiedeva aiuto!
Maria non riesce a trattenere le lacrime, dentro di me sono
consapevole che ha sempre amato Franky, per la verità la cosa
non mi turba assolutamente… trattengo il fiato: - Ti ha detto da
dove chiamava?
- Ci eravamo sentiti anche la mattina, era a Saskatoon…
- Andrò a cercarlo, devo andare ma ti avverto, se lo trovo lo
riporto quaggiù e lo consegno alla polizia…
- …Preferisco averlo in galera a Perrineville piuttosto che
cadavere in Canada… ti prego Joe… ti amo Joe! - Percepisco dei
passi, qualcuno sta scendendo le scale… un ragazzino biondo con
indosso un pigiama celeste mi guarda, pare abbia visto un

37
fantasma, sgrana gli occhi, le labbra gli tremano vistosamente:
- Papà? - I miei occhi si arrossano, Dio, Johnny è cresciuto molto
dall’ultima volta che l’ho visto, adesso avrà 13 anni… è
bellissimo: - Figliolo!
Corro verso di lui, lo abbraccio, sento il suo respiro sulla mia
faccia… rimane rigido e la cosa mi fa alquanto male… mi
accorgo di star bagnando il suo collo di lacrime… - Perdonami
figliolo… perdonami! - Lentamente sento le sue mani scorrermi
lungo la schiena, mi cingono il collo e cominciano a stringere…
anche lui sta piangendo… - Ti voglio bene pa'… perché ci hai
lasciati?
- Te lo spiegherò figliolo, te lo prometto! - Alzo lo sguardo, dietro
di noi, immobile, un’altra figura ci sta fissando… Thomas….
ancora lacrime… l’ho lasciato adolescente e lo ritrovo adulto…
sembra meno emozionato del fratello… - Perdonatemi!
A tavola facciamo colazione tutti insieme come ai vecchi tempi,
spiego ai ragazzi che nel pomeriggio dovrò andarmene di nuovo,
devo cercare lo zio Franky ma tornerò presto e… non me ne
andrò mai più! Mi sembra di aver ritrovato quella serenità perduta
anni prima, presto il cerchio si chiuderà… riporterò mio fratello a
casa e finalmente potrò mandare al diavolo Rock City e
compagnia bella!
Guardo mangiare i ragazzi, sorridono, paiono felici di
rivedermi… anche Maria sembra molto serena ma un’ ombra le
oscura il volto… Trascorro il resto della mattina a parlare con
Thomas e con Johnny, racconto loro di Rock City, della
California, del Messico… ovviamente tralascio la storia delle
ombre… Thomas sta prendendo la patente, mi dice che vorrebbe
fare un viaggio da quelle parti… forse figliolo… forse. Mi butto
sul letto e dormo un paio d’ore; arriva il momento di ripartire,
Maria mi prepara una valigia, mi accompagna alla porta: - Stai
attento Joe…
- Lo farò.
- Riporta Franky… ti prego!
Di nuovo in viaggio, è trascorsa appena mezz’ora da quando ho
lasciato Maria, il mio pensiero adesso è riportare nel New Jersey

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Franky sano e salvo… accendo la radio… She’s a Rainbow esce
come un torrente dagli altoparlanti… improvvisamente un fruscio
assordante… un dolore improvviso, lancinante mi esplode nella
testa, accosto la Chevy… non riesco a tenere gli occhi aperti, mi
porto le mani alle tempie… sento le voci. - Non pensavi mica che
ti avremmo lasciato solo eh Joe?
- Dove pensavi di andare tutto solo Joe?
- Le regole del gioco le stabiliamo noi, Joe!
- Joe, Joe, hai fatto il cattivo! - Il dolore si fa sempre più
insopportabile, gli occhi mi esplodono, vedo migliaia di colori
che mi ballano davanti… “cosa diavolo voleteeeee???”
- Ormai dovresti averlo capito Joe!
- Il piano dovrebbe esserti chiaro!
Sento che sto perdendo conoscenza… il dolore si fa
insopportabile… sto morendo! Comincio a sentire voci confuse…
le ombre… persone… una sirena…

XIV

Il risveglio è stato estremamente agitato, quattro mani possenti mi


hanno tenuto inchiodato al letto, ho percepito voci ostili che mi
imponevano di stare fermo e zitto… un tubicino di gomma
trasparente usciva dal mio braccio destro, sentivo la gola
completamente indolenzita, un fortissimo senso di nausea mi
attanagliava lo stomaco… ho pensato ad una sorta di esecuzione
con iniezione letale… maledetti… perché ho meritato tutto
questo? Volti sconosciuti tutti intorno, parole, sguardi cattivi; il
sangue mi si è gelato nelle vene quando ho intravisto una sagoma
familiare… non è possibile… Maria! Mi ci è voluto tanto, troppo
tempo prima di realizzare, prima di aver raggiunto la
consapevolezza di ciò che mi è accaduto… di ciò che mi sta
accadendo dal giorno in cui le ombre si sono manifestate… forse
da prima!
Mi trovo in un letto del “Saint John Memorial Hospital” di
Chicago, Illinois, dove sono arrivato in elicottero, accompagnato

39
da Maria, dopo 5 giorni di ricovero all’ospedale di Perrineville
senza aver mai ripreso conoscenza! I medici mi hanno aperto il
cranio e mi ci hanno scavato dentro per ore, svelando una volta
per tutte la natura dei miei piccoli amici e del loro dannatissimo
piano: un tumore al cervello grande quanto una noce… non c’è
più niente da fare! Con il passare delle ore mi sono
tranquillizzato, mi sono anche rassegnato all’idea di dover
morire… la cosa mi sarebbe indifferente se non fosse per Maria e
i ragazzi… maledetto il giorno che ho deciso di tornare a casa!
Il Primario mi ha visitato, ha parlato di pochi mesi di vita, le
metastasi hanno raggiunto i polmoni, dovrò prepararmi ad
affrontare una lunga agonia, anche se con la morfina il dolore sarà
pressoché assente. Ho accennato qualcosa riguardo alle visioni
premonitrici… non ho potuto raccontare tutto… - Il nostro
cervello talvolta è un mistero, forse ha recuperato informazioni
presenti nel subcosciente…
- Ed ha agito di conseguenza - avrei voluto aggiungere, ma ho
taciuto!
Maria va e viene dal mio capezzale, cerca di non piangere davanti
a me, ha gli occhi perennemente arrossati, i ragazzi non sanno
ancora nulla, non sa come dirglielo.
Alterno momenti di lucidità a momenti di incoscienza, qualcosa
mi dice che ancora la mia missione non è finita, il piano non è
ancora interamente realizzato… prima della mia morte ho ancora
qualcosa da fare: devo ritrovare Franky… Sarà l’ultima cosa che
farò, riportare a casa il fratello perduto quella notte di tanti anni
fa, forse fuggito, forse lasciato andare in un attimo di debolezza.
Solo allora il cerchio si chiuderà, la famiglia sarà definitivamente
riunita ed io potrò andarmene serenamente… ecco, forse il piano
è questo… il mostro dentro di me ha lavorato affinché tornassi a
Perrineville, ben allenato per affrontare la banda di trafficanti che
tiene in ostaggio Franky.
Sogno di nuovo le ombre: - Non preoccuparti Joe… tuo fratello è
ancora vivo…
- Se ti sbrighi ce la fai Joe…
- Ricorda, se non segui il piano qualcosa di molto brutto potrebbe

40
accadergli!
Rivedo la scena della madre e del neonato a Mexico City… mi
sveglio di soprassalto, suono il campanello e dopo pochi secondi
arriva l’infermiera… chiedo la morfina… mi addormento come
un bambino… ancora qualche giorno… appena mi tolgono i
punti… ho bisogno di un AK47… andrò a Saskatoon!

XV

La Chevy sfreccia verso il confine, ho lasciato l’ospedale appena i


dottori mi hanno tolto i 140 punti che hanno tenuto la mia calotta
cranica attaccata al resto della testa, ovviamente non ho detto
nulla a nessuno, sono semplicemente uscito, di notte, nel tepore di
una calda serata estiva di Chicago. In qualche modo avrei
rintracciato Maria e mi sarei fatto comprare il necessario per
andare a riprendere Franky, ma nel parcheggio dell’ospedale è
successo qualcosa di veramente strano… la mia Chevrolet era
parcheggiata con le chiavi nel cruscotto, al suo interno,
appoggiata sui sedili posteriori un’enorme borsa nera con dentro
tutto il necessario… vestiti, soldi, la mia 44, un AK 47 e tante,
tante munizioni. Accanto alla borsa un biglietto simile a quello
trovato insieme alle chiavi della cassaforte del consigliere
“bastardo” Jefferson: “Non fallire l’ultima missione, vecchio Joe,
noi non ci saremo più!” Nel cassetto anteriore ho trovato siringhe
e fiale di morfina… il serbatoio era pieno!
Sto guidando quasi ininterrottamente da due giorni, ho
attraversato il Wisconsin, il Minnesota, conto di entrare in Canada
dal North Dakota dove l’Interstate 85 diventa la 35 secondo la
numerazione canadese. Saskatoon è ancora abbastanza lontana,
ogni tanto devo fermarmi in qualche lurido autogrill per buttare
giù qualcosa e, quando santo arrivare il dolore, spararmi della
morfina direttamente in vena! Tengo la radio sintonizzata sui
canali nazionali, una notizia arriva come un siluro, riguarda un
consigliere comunale di Rock City in California… è scomparso
da più di un mese e nella sua cassaforte sono state trovate le prove

41
che intascava soldi pubblici, forse con la complicità di altri
politici, oltre a del materiale pedopornografico… “alla buon’ora!”
penso dentro di me… lo scandalo rischia di far cadere la Giunta
Comunale… indaga l’FBI.
Finalmente una soleggiata e limpida mattina arrivo al confine…
se per caso dovessero fermarmi per perquisire la Chevy il piano
andrebbe a farsi fottere e per Franky non ci sarebbe più niente da
fare! Alla guardia di confine statunitense mostro il tesserino della
CHP, “viaggio di piacere amico… mi sono rotto il cazzo del caldo
californiano e mi voglio congelare un po’…”
Mi lascia andare senza storie, fa un cenno al collega canadese che
mi invita a passare… tutto fila liscio! Mi fermo al primo motel,
chiedo una stanza, infilo la borsa sotto il letto e mi ficco tra le
lenzuola, non ripartirò prima del pomeriggio. Studio la cartina
stradale, la cosa migliore è proseguire sulla 35 fino a Weyburn,
poi la 39 fino a Milestone e da lì la 6 verso Regina, infine la 11
dritto fino a Saskatoon… che nome del cazzo! Piombo in un
sonno profondo, la testa mi ronza, sogno Maria e i ragazzi… mi
dispiace di dover crepare!
Alle 4 del pomeriggio mi sveglio, è ora di rimettersi in marcia, la
spossatezza è passata… prendo la borsa, pago il conto all’anziano
alcolizzato della reception e riparto… dovrò guidare tutta la
notte… fra un po’ spero di rivedere Franky… non so come fare a
rintracciarlo a Saskatoon… dovrebbe essere un buco di città, i
malviventi saranno pochi… non dovrebbe essere difficile…
sperando sia ancora tutto intero… chissà cosa ha combinato!
La radio sta sparando una canzone… il sound vagamente
Country… sembra scritta per me… continua a ripetere: “prendila
semplice, prendila semplice”… è una parola… “puoi perdere,
puoi vincere…” Aquile del cazzo!

XVI

Arrivo a Saskatoon quando il sole è sorto ormai da un pezzo,


percorro Idylwyld Drive; per essere una delle arterie principali

42
della città il traffico è praticamente assente, il caos di Rock City
quaggiù è semplicemente un brutto ricordo, tutto è
maledettamente ordinato, maledettamente pulito, nemmeno
Perrineville è così perfetta.
Dopo un po’ di giri imbocco la North 3rd Avenue, mi fermo nel
primo motel che incontro, ho bisogno di sistemarmi un po’. La
testa inizia a dolermi e credo dovrò sparami un po’ di morfina,
parcheggio la Chevy prenoto una stanza e mi chiudo a chiave.
Tiro fuori il necessario, preparo laccio, siringa e soluzione e mi
sparo la dose in vena; via via che entra in circolazione il dolore
sparisce ed io mi sento forte ed invincibile come un leone. Apro la
borsa nera, tiro fuori la 44, è perfettamente pulita e lubrificata,
prendo le pallottole e riempio il caricatore… ovviamente sono
quelle modificate, capaci di far esplodere la testa ad un cinghiale.
Ripongo la 44 carica, tiro fuori l’AK 47, è un piccolo gioiello,
una via di mezzo tra un fucile ed un mitragliatore, il caricatore è
leggermente curvo e moooolto lungo! I proiettili sono enormi,
possono dilaniare un essere umano senza troppi problemi, mi sarà
davvero utile.
Adesso devo semplicemente mettermi alla ricerca dei balordi che
tengono prigioniero mio fratello Franky, non sarà un gioco da
ragazzi e soprattutto non ho la più pallida idea di quanto tempo lo
terranno ancora in vita. Se non lo hanno ucciso subito significa
che deve tornare più utile da vivo ai suoi rapitori, altrimenti,
avesse compiuto soltanto uno sgarbo il suo cadavere sarebbe già
in fondo ad un fiume o nel pilone di cemento armato di qualche
costruzione. Dovrò rispolverare le mie capacità investigative ma
questa volta nessuno verrà assicurato alla giustizia, o almeno non
a quella terrena.
Alla reception del motel il portiere è un tipo all’apparenza poco
raccomandabile, sulle braccia ha dei vistosi tatuaggi, deve essersi
fatto diversi anni dentro, probabilmente potrebbe essere utile
interpellarlo, magari saprebbe darmi qualche dritta. Maria ha
parlato di un giro di droga, armi e forse prostituzione, il tipo ha
l’aria di saperla lunga su tutte e tre, forse fa parte della banda.
Decido di non mettere troppo tempo in mezzo, mi avvicino al

43
bancone ed inizio a fissarlo, lui ricambia sostenendo il mio
sguardo con aria interrogativa. Estraggo il portafoglio dalla tasca
posteriore dei jeans, tiro fuori due biglietti da cento e li appoggio
in bella mostra sul ripiano, proprio davanti a lui: -”Sputa amico”
- Ho bisogno di un po’ di roba - dico mentre allungo il barccio e
gli mostro il segno dell’iniezione appena fatta. Mi guarda con aria
stupefatta: - Avrei giurato tu fossi un tipo a posto, non sembri
affatto un tossico…
- Le apparenze ingannano… allora?
- Ho alcuni amici che trattano questo tipo di merce, sono gli unici
in città, se mi dai tempo mi metto in contatto e ti faccio avere un
appuntamento…
- …che sia veloce, nelle mie condizioni non posso aspettare.
- Facciamo così… mettici un altro centone e…
- …facciamo così, ne metto altri due se la cosa va in porto,
altrimenti… - Alzo leggermente la maglietta e gli mostro il calcio
della 44.
- Ehi amico, mi sa tanto che tu non vuoi soltanto roba per te… tu
vuoi concludere un affare…
- Anche se fosse… come vedi sono molto affidabile… in fatto di
grana… mettimi in contatto con i tuoi amici e non te ne pentirai…
garantisco!
- Stasera, quando smonto dal turno… all’ingresso del personale di
servizio nel vicolo qua dietro.
- Molto bene… - Me ne vado abbastanza soddisfatto, al primo
colpo sono forse riuscito a gettare l’amo, adesso devono
abboccare i pesciolini. “Qualcosa” sta continuando a darmi una
mano, ho imboccato la strada giusta, mi sono fermato nel motel
giusto, ho avvicinato la persona giusta… coincidenze?
Esco dal motel, aspetterò il cambio del turno in giro per questa
città immacolata, magari mi metterò alla ricerca di qualche
quartiere brutto sporco e cattivo… come piacciono a me!

44
XVII

Ho girovagato tutto il giorno senza meta, Saskatoon è una


cittadina piacevole, piccola, tranquilla, è quasi impossibile
pensare che anche qui possano svolgersi attività criminali. Mi
fermo a mangiare un hotdog in un parco pulito e ben curato, la
voglia di fare i bagagli e ripartire per andarmene a crepare a Rock
City è davvero forte, non fosse per mio fratello!
Il sole inizia a calare, mi avvio verso la 3rd, devo iniettarmi una
dose di morfina e presentarmi all’appuntamento con il mio
intermediario, devo agire prima possibile considerato che il tempo
a mia disposizione è estremamente limitato, il mostro dentro il
mio cervello potrebbe decidere di farla finita da un momento
all’altro, in quel caso anche Franky andrebbe a farsi benedire!
Torno all’albergo, mi sciacquo un po' e preparo l’iniezione… il
dolore sparisce immediatamente ed io torno a sentirmi
maledettamente bene! Aspetto l’ora stabilita, infilo l’AK 47
carico nella borsa nera, scendo le scale ed esco dalla porta
riservata al personale di servizio. Il portiere mi sta aspettando,
appena mi vede fa un cenno con il capo per indicarmi la strada da
seguire, camminiamo nella semi oscurità fino ad un Pick-Up nero,
nuovo fiammante, saliamo a bordo, il motore inizia a rombare…
partiamo.
Durante il tragitto l’uomo mi dice di chiamarsi David Lagrange,
un maledettissimo francese, ha parlato con i suoi amici che hanno
deciso di ascoltare la mia proposta… pur di guadagnare bei
soldoni sarebbero disposti a stuprare le loro madri! Ascolto con
finta indifferenza, quando ormai è notte arriviamo in quella che
ha tutta l’aria di essere una zona industriale, ci fermiamo davanti
ad un capannone, tutto intorno oscurità e silenzio, dobbiamo
aspettare che vengano a prenderci, dentro il “covo” nessuno può
entrare. David accende una sigaretta, decido di tentare il tutto per
tutto: - Senti amico, oltre all’affare che devo portare a termine, i
miei capi mi hanno chiesto di riprendermi l’americano che state
tenendo prigioniero… non mi hanno detto esattamente cos’abbia
combinato ma vorrebbero farlo sparire loro…

45
- Non so di cosa tu stia parlando, non abbiamo nessun
americano…
- Andiamo, si chiama Franky Roberts… ha fregato la mia banda
giù a Rock City in California e merita una bella lezione… - Il
francese tira sempre più nervosamente la sigaretta, lo sguardo
teso, intuisco di averlo messo a disagio, lo guardo con
insistenza…
- Ascolta amico, i boss da cui dipendo mi hanno dato carta bianca
in fatto di denaro e mi hanno anche detto che l’americano vale
tanto… devo inserirlo nell’affare…
- Aspetta un minuto… - Si precipita giù dal furgone, nell’oscurità
intravedo la sua ombra avvicinarsi al cancello del capannone,
aspetto qualche minuto, poi uno spiraglio si apre, appare un’altra
ombra… confabulano per un po’… il mangiarane torna verso il
Pick-Up, risale, mette in moto.
- Adesso dove andiamo?
- Il capo in persona ti vuole vedere…
Stiamo andando verso la campagna, ci fermiamo nei pressi di un
casolare, pare abbandonato… David spegne il motore, appena
girata la chiave si volta verso di me… non gli lascio neanche il
tempo di provarci… la 44 sputa una lingua di fuoco, il suo
cervello schizza all’indietro sul vetro del finestrino che va in
frantumi, lo sportello si apre per il contraccolpo, un corpo con la
testa ridotta in poltiglia vola fuori, in mano stringe ancora una
calibro 9… dovrò tornare da solo al capannone… e capire perché
Franky è così pericoloso!

Il capannone sembra deserto, parcheggio il Pick-Up facendo un


po' di rumore, devono credere che David abbia compiuto la
missione, arraffo la borsa con l’AK-47, lo tiro fuori e me lo metto
a tracolla. Frugo sotto il sedile, afferro il cric, scendo dal furgone
e mi avvio verso il cancello… aspetto qualche secondo poi do un
colpettino sulla latta, resto in silenzio, sento dei passi avvicinarsi,
per fortuna è un uomo solo. Rumori di chiavi, un lucchetto poi un
chiavistello, il cancello si muove appena, scorre lasciando uno
spiraglio attraverso il quale intravedo la sagoma di un

46
individuo… - David?
Non dico nulla, il cancello si apre un po' di più, è il momento
buono, afferro la maniglia e la tiro con tutta la forza, fa molta
resistenza, l’uomo si sbilancia, cade per terra, dalla mano scivola
via una pistola, non aspetto neppure una frazione di secondo,
stringo più forte il cric e lo colpisco sulla testa, non emette nessun
suono, il sangue comincia subito ad uscire dalla ferita, prova a
rialzarsi ma lo colpisco ancora, poi ancora ed ancora, il cranio si
fracassa definitivamente, il corpo resta immobile in una pozza di
sangue e cervella, lo scavalco ed entro nel capannone… spero di
non aver fatto troppo rumore e soprattutto spero maledettamente
che Franky sia qui!
L’ambiente è enorme, male illuminato, apparentemente nessuna
attività umana, mi muovo con circospezione, prima o poi
qualcuno si farà vivo… per poco! Enormi pancali sono ammassati
un po’ ovunque, sopra ci sono grandi scatoloni di cartone avvolti
dal cellophane, sembrano pronti per essere spediti. Per terra vedo
altri scatoloni aperti, contengono pacchetti trasparenti con della
polvere bianca, probabilmente eroina raffinata, la banda fa le cose
in grande!
Dietro ad una serie di pancali intravedo una scala… porta ad un
soppalco chiuso, da una finestrella si vede una luce, qualcuno
deve essere là dentro! Salgo gli scalini facendo attenzione a non
fare rumore, rimango sulla porta… prima di entrare voglio sapere
cosa mi aspetta… percepisco il suono di due voci… prendo la
maniglia, la ruoto lentamente e sbircio dallo spiraglio… la scena
che mi si presenta davanti mi inquieta… ci sono due uomini, uno
è seduto davanti ad un apparecchio, una ricetrasmittente, l’altro
sta alle sue spalle, pare gli fornisca alcune indicazioni… l’uomo
seduto è Franky! Probabilmente faccio rumore, l’uomo che sta in
piedi si volta di scatto, estrae una pistola, si precipita verso di
me… spalanco la porta, imbraccio il fucile e lo freddo con un
colpo alla testa che lo decapita di netto, Franky si volta…
- No Joe!!!! - Non so da dove spunta un altro uomo, inizia a
sparare all’impazzata, devo ritirarmi, mi precipito giù dalle scale,
i proiettili mi fischiano vicino agli orecchi… mi riparo dietro ad

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un pancale… sento la sua voce.
- Che cazzo hai fatto Franky?
- Io niente!
- Chi cazzo è quello!!!
- Calmati… Ho detto calmati!!!! - Rumori non identificabili.
- Ok capo, mi calmo… mi calmo, ma devo andare a cercare quel
bastardo!

XVIII

Non riesco a credere alle mie orecchie, lo hanno chiamato


“capo”… Franky… non è possibile, qualcosa non quadra, devo
assolutamente parlare con lui, dentro di me sento strane
vibrazioni… probabilmente prima che mi asportassero il tumore
sarebbe stato il preambolo dell’apparizione dei miei piccoli
amici… devo raggiungere mio fratello, non riesco a costruire la
storia… deve spiegare… ha moooolto da spiegare.
Sento la porta che si apre, passi che scendono le scale, sono
almeno due uomini. Da dietro il pancale dove sto nascosto riesco
a intravedere gli ultimi gradini, Individui armati appaiono, sono
almeno tre, si guardano in giro con circospezione. Stringo l’AK
47 pronto a fare fuoco, non ne lascerò vivo nemmeno uno, devo
liberare il campo e salire quella maledetta scala. I tre si separano,
uno viene verso di me, gli altri due spariscono nella semi
oscurità… sento i passi avvicinarsi, arriva dal lato destro, io mi
sposto sulla sinistra, aspetto, l’uomo si ferma. Ad occhio e croce
deve trovarsi a pochi passi dal pancale, sulla diagonale opposta a
dove mi trovo io, i passi riprendono, la cosa migliore è aspettarlo,
prendo la mira, lentamente l’uomo inizia a girare intorno alle
casse, vedo la canna della sua pistola spuntare dietro l’angolo,
trattengo il respiro… improvvisamente appare, stringe l’arma con
due mani, sta prendendo la mira ma io posso giocare d’anticipo…
il proiettile dell’AK 47 gli dilania il petto, schizzi di sangue e
frammenti di midollo osseo schizzano sul muro dietro di lui, si
affloscia come una marionetta senza fili, una pozza di sangue si

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forma all’istante sotto il suo corpo, l’eco dello sparo sta ancora
rimbombando nel capannone.
Sento lo scalpiccio dei passi degli altri due uomini che si
avvicinano di nuovo, devo giocare sul fattore sorpresa, appena
penso di poterli avere a portata di tiro schizzo fuori sparando
all’impazzata, il primo cade con la testa frantumata, l’altro riesce
a scansare il colpo, si butta per terra, prende la mira e spara
colpendomi di striscio ad un polpaccio, sento bruciare, la ferita
inizia subito a sanguinare… sparo ancora verso di lui, vedo la
gamba destra che gli esplode, il sangue schizza a fiotti dalla
femorale, l’uomo urla, gli punto ancora la mia arma contro,
stavolta prendo la mira… la testa gli esplode.
La strada dovrebbe essere libera adesso, corro verso le scale, mi
butto dietro ad un altro pancale per vedere se qualcuno mi sta
prendendo di mira… non so quanti uomini vivi ci sono ancora…
oltre Franky.
Con il fiatone inizio a pensare a come potrebbero essere andati i
fatti… dopo aver ucciso quel ragazzo giù a Perrineville Franky è
scappato in Canada, si è affiliato ad una banda di trafficanti e ne è
diventato il capo… ma perché mentire a Maria… perché la
messinscena della telefonata? Forse perché lo credessimo morto,
perché non lo andassimo mai a cercare… in fondo adesso sta
cercando di farmi fuori, ma la cosa non deve piacergli…
conoscendolo!
Improvvisamente, nell’assoluto silenzio sento la voce di Franky,
proviene dal soppalco: - Tanto non avete più nessuna possibilità…
Un’altra voce, con forte accento francese lo interrompe: - Zitto
lurido bastardo, adesso è l’ora di farla finita, dopo che saremo
riusciti ad ammazzare quel federale, arriverà il tuo turno!
- Non vi servirà a niente, avete le ore contate…
Una terza voce si intromette: - Ehi capo, mi domando come abbia
fatto, lo abbiamo accompagnato anche al cesso, tenuto d’occhio
24 ore su 24… - Tiro un sospiro di sollievo, il capo non è
Franky… è quella merda dall’accento francese, lo stanno davvero
tenendo prigioniero… ora si tratta di scoprire cosa c’è dietro.
Esco dal nascondiglio, raggiungo la rampa, inizio a salire

49
lentamente, mooolto lentamente, non devo farmi assolutamente
sentire… nel frattempo ho cambiato il caricatore al fucile, ho
controllato anche quello della 44, manca un colpo.
La voce francese riprende a parlare: - Sarà il caso di andare a
vedere cos’è successo, non sento più niente giù, devono averlo
fatto fuori ma ho il sospetto che anche i ragazzi non se la passino
bene, saranno stati sparati almeno 100 colpi!
- Vado capo! - Arrivo in cima alle scale, mi appiattisco alla parete,
aspetto che la porta si apra, mentre l’uomo esce gli faccio lo
sgambetto, ruzzola giù per le scale, gli sparo una decina di colpi,
quando arriva in fondo una buona parte del suo corpo è ridotto ad
una poltiglia sanguinolenta, entro nel soppalco pronto a sparare
ancora, mi blocco subito. Un ciccione sta puntando una pistola
alla tempia di Franky, mi guarda con un ghigno, Franky ha un
paio di manette ai polsi…
- Butta il fucile stronzo o il cervello del tuo compare sarà la cena
dei topi che infestano questo lurido posto! - Franky mi guarda…
compare… lo sguardo eloquente… fai quello che dice. Lascio
cadere l’AK-47 per terra, lo allontano da me con un calcio, il
maiale non sa della 44!
Tutto avviene così in fretta che non riesco a rendermi conto di
nulla, il mangiarane si volta verso di me, mi tiene sotto tiro, inizia
a chinarsi per raccogliere il fucile, improvvisamente Franky si
alza, lo colpisce con violenza alla nuca con entrambe le mani, le
manette lo mettono quasi KO, io estraggo la 44, mentre premo il
grilletto il ciccione mi punta contro la sua arma… i colpi partono
simultaneamente… mentre vedo volare via la sua calotta cranica,
sento una specie di botta fortissima sulla mia fronte, rimango
stordito per qualche istante, vedo Franky che si precipita verso di
me, sta urlando qualcosa, dal labiale mi pare un
NOOOOOOOOOOO!
Del liquido appiccicaticcio inizia a colarmi sugli occhi, le gambe
mi cedono, l’impatto con il pavimento è piuttosto forte, resto
immobile a fissare la lampadina sul soffitto, stranamente non
provo alcun dolore… Franky si china su di me… vedo i
movimenti al rallentatore, non sento alcun suono… Le mani di

50
Franky mi accarezzano i capelli, ogni tanto si ritraggono, passano
sul suo viso che si imbratta del mio sangue, poi iniziano ad
accarezzarmi di nuovo… vedo le lacrime che sgorgano dai suoi
occhi, le labbra si muovono… - Non morire Joe, ti prego, tieni
duro… JOEEEEEEEE!!!!
Meglio così fratellino, dammi retta, meglio così! Sento sempre
più freddo, ho sonno, moooolto sonno, Franky continua a
piangere, arrivano altri uomini, alcuni hanno le divise della
Guardia Nazionale canadese, altri le pettorine dell’FBI… lo
sapevo vecchio Franky… lo sapevo che eri a posto… i fratelli
servono anche per questo no?
Inizio a sentirmi bene, maledettamente bene, in fondo preferisco
crepare in questo modo piuttosto che in un letto di ospedale col
catetere infilato nell’uccello ed un ago nel braccio!
Eccoli i miei piccoli amici, vedo le loro ombre ballonzolare
davanti a me…
- È ora di andare Joe!
- Il piano è andato a buon fine!
- Vieni, seguici Joe!
Con grandissimo sforzo riesco a dire: - Chi siete?
- Non lo hai ancora capito Joe?
- Siamo la tua coscienza, ti abbiamo semplicemente guidato fin
qui!
- Quella sera Joe, hai lasciato andare via tuo fratello, ma la colpa
più grave non è quella, è che lo hai lasciato solo…
- …a combattere. Merda!
- Tutto quello che hai fatto, gli atti di giustizia a Rock City, in
Messico hanno compensato quella colpa…
- …noi ti abbiamo solo mostrato quello che sapevi già… dal sexy
shop in poi… noi siamo la parte buona del mostro che ti ha
invaso!
- …il nostro compito finale era riportarti qui, aiutare Franky…
saldare una volta per tutte il tuo debito!
- È ora di andare Joe…
Sento freddo, mooolto freddo, il mio respiro si affievolisce… si
affievolisce… si affievolisce…

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Franky è ancora inginocchiato, riesco a parlare: - Va da Maria… i
ragazzi… un padre!
Franky annuisce, riesco ancora a chiedere: - Perché?
Franky si fruga nella tasca interna della giacca, estrae un
portadocumenti nero, me lo mostra… c’è un tesserino con la sua
foto… Federal Bureau of Investigation… agente speciale Franky
Roberts… annuisco… ora posso crepare in pace!

XIX

Dalle memorie di Franky Roberts


Perrineville, 15 Aprile 2010

Non fui io ad uccidere il ragazzo quella sera di 35 anni fa laggiù a


Perrineville. Per la verità è una storia lunga ma credo sia arrivato
il momento di raccontarla, se non altro perché ha causato la
tragica morte di mio fratello Joe diversi anni dopo.
Quando tornai dal Vietnam devo dire che rimasi piuttosto
sconvolto nel trovare Maria sposata con mio fratello; in fondo era
la mia ragazza. Inizialmente il dolore fu talmente forte che mi
misi a bere, in Paese tutti erano convinti che fossi impazzito, che
l’inferno del Vietnam mi avesse ridotto come tanti altri
sopravvissuti, un elemento pericoloso per la società. Provai a
riprendermi la mia vita, ma senza un lavoro e senza Maria era
davvero dura.
Incontrai Jason una sera d’inverno, eravamo stati insieme a
Saigon, gli raccontai le mie disgrazie, mi disse che era entrato nel
Bureau, che avevano bisogno di gente in gamba, mi lasciò il suo
biglietto da visita. Qualche mese dopo divenni agente federale,
assegnato ad operazioni sotto copertura; nel frattempo mi ero
ripulito, l’alcool era solo un brutto ricordo. Tuttavia dovevo
continuare a comportarmi come uno svitato per non destare
sospetti in attesa dell’assegnazione di un incarico.
Finalmente fui messo in contatto con una banda di trafficanti
canadesi, con basi anche nel New Jersey: avrei dovuto infiltrarmi

52
ed informare i miei superiori su tutte le loro attività… scoprii che
non si occupavano soltanto di droga, ma anche di traffico di armi
e prostitute. Riuscii anche a scoprire che la loro base operativa si
trovava a Saskatoon ed iniziai ad andarci piuttosto spesso finché
guadagnai la fiducia di Hector Marceau, il capo. Divenni
responsabile dello smistamento nel New Jersey, il Bureau
acquistò un capannone dove stipare armi e droga… l’idea non era
quella di sgominare subito la gang ma di tenerla d’occhio per un
po' in modo da scoprire eventuali collegamenti con pesci più
grossi. Durante una delle mie trasferte conobbi George, un
ragazzino di vent’anni arruolato dalla banda come fattorino,
Hector mi affidò il compito di svezzarlo, la prima missione era
portare una prostituta minorenne ad un ricco produttore di
Hollywood, era sottinteso che durante il viaggio avremmo potuto
disporne a nostro piacimento.
A metà del viaggio avvenne l’irreparabile, i due ragazzi si
innamorarono, quell’amore puro ed intenso di cui solo gli
adolescenti sono capaci. George provò a fuggire con la ragazza,
riuscii a fermarlo e feci la mia prima cazzata, la cosa che un
agente sotto copertura non deve mai fare… gli rivelai la mia
identità. Consapevole dei rischi a cui ci stavamo esponendo, li
portai a Perrineville pensando di mettere tutti al sicuro.
Abbagliato da quell’amore in cui rivedevo ciò che avevo provato
io per Maria, feci la seconda cazzata, preparai la loro fuga, la
pianificai nei minimi particolari. In realtà, avessi avuto un
barlume di lucidità avrei dovuto avvertire i miei superiori di tutto
il casino e far mettere i ragazzi sotto protezione… ma non lo feci.
La famosa sera accadde che un membro della gang in trasferta
riconobbe i due ragazzi che si preparavano a partire… successe in
un locale a Nord di Perrinville… iniziò ad insidiare la ragazza, ad
offenderla, poi disse che se non gliel’avesse data sarebbe corso da
Hector a spifferare tutto, compreso il fatto che io non avevo
portato a termine la missione. George provò a reagire, ci fu una
colluttazione, George ebbe la peggio, si ritrovò con il cranio
fracassato, io arrivai dopo una decina di minuti, il ragazzo era già
morto. Riuscii a farmi raccontare dalla piccola cosa era successo,

53
poi sentii in lontananza la sirena dell’auto di pattuglia di mio
fratello Joe. Dissi alla ragazza di mentire: “Quando il poliziotto ti
chiederà chi è stato, tu digli che è stato Franky” Era l’unico modo
per depistare le indagini, nemmeno Joe sapeva del mio lavoro
all’FBI, pensava che fossi ancora uno spiantato!
Inseguito da Joe riuscii a varcare il confine con il Canada,
raggiunsi il membro della gang che aveva ucciso George e lo
freddai con grandissimo piacere, poi mi recai a Saskatoon e da
laggiù avvertii i miei superiori che mi ordinarono di rimanerci
continuando a fornire informazioni.
Le cose andarono bene per molto tempo, grazie alle mie dritte
l’FBI riusciva a scoprire e smantellare enormi traffici di droga ed
armi. La cosa deve aver insospettito Hector che ha iniziato a
guardarsi le spalle, alla fine, non so come, ha scoperto che
all’interno della banda c’era una talpa e che quella talpa ero io.
Così sono passato da agente informatore del Bureau ad
informatore di Hector Marceau. Dopo avermi fatto prigioniero,
invece di ammazzarmi mi hanno costretto a fare il doppio gioco,
hanno installato una ricetrasmittente nella base da dove poter
parlare direttamente con il distretto di New York, fornendo
informazioni imprecise o false ai miei colleghi. Nonostante fossi
controllato giorno e notte, sono riuscito a mettere la pulce
nell’orecchio al comandante del distretto… quando Joe è arrivato,
anche l’ FBI era già in viaggio…
La morte di Joe ha segnato il resto della mia vita, mi sento
maledettamente in colpa, sono sicuro che in qualche modo l’ho
attirato io verso la fine… deve aver sentito il mio richiamo… non
so come spiegare… tra fratelli è una cosa piuttosto normale…
dopo essere stato fatto prigioniero dalla gang ho iniziato a
sognarlo spesso, lui deve aver percepito questi sogni.
Ha lasciato Rock City e si è messo sulle mie tracce… diavolo…
era mio fratello! Ti voglio bene Joe, ovunque tu sia ti voglio
maledettamente bene!

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HIGHWAY PATROLMAN

My name is Joe Roberts; I work for the state.


I’m a sergeant out of Perrineville: barracks number eight.
I’ve always done an honest job; honest as I could.
Got a brother named Frankie; Frankie ain’t no good.

Well ever since we were young kids, it’s been the same come
down:
I’d get a call on the shortwave; Frankie’s in trouble down town.
Well if it was any other man, I’d put him straight away.
But sometimes when it’s your brother, you look the other way.

Yeah, me and Frankie laughin’ and drinkin’;


Nothin’ feels better than blood on blood.
Takin’ turns dancin’ with Maria,
While the band played “The Night of the Johnstown Flood”.
I catch him when he’s strayin’, like any brother should.
Man turns his back on his family, he ain’t no good.

Well Frankie went into the army back in 1965,


I got a farm deferment, settled down, took Maria for my wife.
But them wheat prices kept on droppin’, ’til it was like we’s gettin’
robbed.
Frankie came home in `68, and me, I took this job.

Yeah, me and Frankie laughin’ and drinkin’;


Nothin’ feels better than blood on blood.
Takin’ turns dancin’ with Maria,
While the band played “The Night of the Johnstown Flood”.
I catch him when he’s strayin’,
Teach him how to walk that line.
Man turns his back on his family, ain’t no friend of mine.

The night was like any other, I got a call `bout a quarter-to-nine.
There was trouble at a roadhouse, out on the Michigan line.

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There was a kid on the floor lookin’ bad, bleedin’ hard from his
head.
There was a girl cryin’ at a table: “It was Frankie,” she said.

I ran out and I jumped in my car and I hit the lights.


I musta done about a hundred and ten, through Michigan county
that night.
It was down by the crossroads, out by Willow Bank.
Seen a Buick with Ohio plates; behind the wheel was Frank.

Well I chased him through them county roads.


‘Til a sign said “Canadian border five miles from here”.
Pulled over to the side of the highway,
Watched the tail-lights disappear.

Yeah, me and Frankie laughin’ and drinkin’;


Nothin’ feels better than blood on blood.
Takin’ turns dancin’ with Maria,
While the band played “The Night of the Johnstown Flood”.
I catch him when he’s strayin’, like any brother should.
Man turns his back on his family, he ain’t no good.

Written by Bruce Springsteen

56
UN GIORNO COME TANTI
di Charles Huxley

Mi sveglio. Intontito dalla serata precedente, scuoto la testa per


riacquistare lucidità. I lenzuoli macchiati di rosso mi ricordano
perché la sveglia è suonata così in anticipo. Tra poche ore sarei
dovuto entrare a lavoro, ma prima devo sistemare alcune cose. Mi
alzo dal letto, strascicando i piedi raggiungo il bagno. Ogni volta
che mi specchio ho la sensazione di essere più vecchio. Metto su
il caffè, mentre con lo straccio comincio a pulire il sangue da
terra. Lentamente torno a ricordare ieri. Una sera come tante. Il
gorgoglio della moka mi avverte, sempre più lento mi avvicino ai
fornelli, spengo il gas. Assaporo la tazza di caffè amaro, mentre il
pane si scalda nel forno. Cerco di togliere dalle mani i residui di
sangue secco. Le unghie sono le più difficili da pulire. Il pane è
pronto.
Finito di vestirmi, disinfetto i graffi che ho sul viso. Mi pettino ed
esco. Questa mattina è particolarmente fredda. L’umidità sembra
voler entrare sotto gli abiti, per infilarsi nelle ossa e non lasciarti
più. Macchinette programmate camminano per strada pronti per
una nuova giornata. Macchinette programmate dialogano tra
conoscenti. Scambio qualche sorriso, qualche saluto di
circostanza. Più volte mi fermo, stranito da pensieri nuovi.
Continuo il percorso. Arrivato in ufficio, timbro il cartellino. Alla
mia scrivania comincio la routine di sopravvivenza che molti
chiamano lavoro. Non ho comprato il giornale stamattina. Strano,
un gesto consueto ormai. Un acquisto automatico. È come se già
sapessi cosa è successo ieri. Otto ore e quarantadue minuti dopo
sono nuovamente libero. Esco dallo stabile grigio e mi avvio al
pub per una birra. La pinta bionda davanti a me è una delle poche
conoscenze piacevoli rimastemi. Non passa molto tempo che una
ragazza si avvicina al tavolo. Dopo mezz’ora di inutili discorsi
decido di invitarla a casa. Mossa avventata. Adesso sembra
insicura, imbarazzata. Le spiego che le mie intenzioni non sono

57
sessuali, che cerco un dialogo, che può stare tranquilla, che se
vuole avremmo potuto andare in un giardino invece che a casa, mi
bastava uscire da qua. La cosa sembra rinfrancarla. Si decide ad
infilarsi il cappotto e usciamo. Il tempo mi è amico oggi.
Comincia una fastidiosa pioggerellina. Dopo pochi passi, senza
dover dire niente, è lei a propormi di andare a casa mia. Fatto. Un
paio di bicchieri dopo la situazione si scalda un po’. Convinta da
un nuovo amico la ragazza comincia a parlare dei suoi sogni,
delle sue paure. Scongelo nel microonde un po’ di carne, e
preparo la cena. Se la gusta. Ce la gustiamo. Il vino rosso è
perfetto con questa carne tenera e succosa. Lei comincia ad
elogiare la mia cucina. Frasi comprate in cartoleria. Preparo il
caffè, seconda volta oggi. Continuo distrattamente ad ascoltare le
banalità della ragazza, dandole le spalle. Lei continua a parlare, io
affilo in mio coltello. La moka deve ancora smettere di
gorgogliare e lei è già priva di vita sul pavimento con la gola
tagliata da orecchio ad orecchio. Nessun urlo, la cosa più veloce
della mia vita. Comincio ad essere bravo. Faccio posto nel
congelatore, spostando il pezzo di carne rimasto dalla cena e
quella ciocca bionda ormai intirizzita dal freddo. Finisco di
preparare la ragazza, piccole porzioni da single e la sistemo
accanto alle altre. Dovrò pulire di nuovo casa.
Avevo detto che non era una questione sessuale.

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UNA SOTTILE LINEA DI FUMO
di GM Willo e Stefano Cisternino

Ci sono momenti in cui la memoria è un luogo da cui


bisognerebbe solo scappare, invece io ero lì, piantato come un
chiodo arrugginito su uno sgabello appiccicoso di chissà quali
umori. Pensavo davvero di aver ripagato il mio debito, di aver
cancellato anche tutti quelli che ne erano a conoscenza, e invece
mi ritrovai Lui a cinque centimetri dal viso. Sembrava quasi che
Dio si fosse dimenticato di finirlo da quanto era spigoloso, e con
una voce che ricordava il rumore di un tritarifiuti mi disse ciò che
temevo di più: «pensavi proprio che ti avrei permesso di non
danzare tra le ombre per me?»
Melvin Kondaurov, era quello il suo nome, un nome cattivo come
la sua faccia, precipitato dalla remota Siberia in questa maledetta
città, come un seme malato che germoglia nonostante la stagione
sia sbagliata, e si sviluppa in escrescenze gibbose, dando alla luce
frutti velenosi…
«Cosa bevi?» gli chiesi con le mani in bella mostra. La fondina
che nascondeva il ferro era lontana chilometri, nonostante sentissi
la fredda canna sulle costole, appena sotto la giacca. Un
movimento sbagliato e poteva essere la fine.
«Varechina…» gracchiò lui. Ma non sorrise, perché era più che
probabile che non stesse scherzando. Ordinai due scotch doppi ma
non staccai lo sguardo dal suo volto. Quasi gli occhi mi facevano
male…
«Una brutta storia quella del giapponese, ma credimi, io non
c’entro nulla…» la mia voce esitava troppo, la temperatura del
locale si era maledettamente alzata, le luci dei neon mi
svalvolavano in testa, il brusio in sottofondo sembrava la
zampettio di milioni di insetti pronti a divorarmi. In situazioni del
genere non riesci a pensare, anzi, pensare diventa una cosa molto
pericolosa.
«Stronzate!» sbraitò Melvin. Poi afferrò il suo scotch e lo tirò giù

59
in un unico sorso. Poteva essere la mia occasione per agguantare
la pistola, ma me la lasciai sfuggire. Ero paralizzato come una
colonna di granito, molle come il budino al cioccolato che faceva
mia zia, in trance come una lepre folgorata dai fari di un auto.
«Adesso vieni con me…» disse, portandosi alla bocca la sua
sigaretta. Cercai di aggrapparmi alla sottile linea di fumo che
sprigionava, immaginandomi piccolo piccolo, un esserino fatto di
ombre e fumo di sigaretta. La mia unica via d’uscita…
«Melvin, ti giuro che non è stata colpa mia…»
«Su, non facciamo storie. Vedrai che tra poco sarà tutto finito» mi
assicurò lui, alzandosi dallo sgabello.
Non dissi altro. Bevvi il mio scotch e lo seguì fuori dal bar. Che
altro avrei potuto fare? Piangere? Urlare? Melvin Kondaurov era
un tipo quieto, ma non ci avrebbe pensato su due volte a estrarre il
cannone davanti alla barista e a ridipingerle le pareti del bar col
mio sangue.
«Adiamo sul retro, dove ci sono i cassonetti» ordinò, una volta
raggiunto il marciapiede. Il buttafuori nero alla porta del locale ci
guardò di sbieco, ma non disse niente. Meglio per lui.
Quella era la fine di una vita troppo breve e troppo schifosamente
sbagliata. Mentre muovevo piccoli passi dentro quel lurido vicolo,
provai a pensare alle poche cose buone che mi erano capitate, ma
l’odore dell’orina mischiato a quello del sudiciume che
fuoriusciva dai cassonetti era insopportabile. Mi tornò a mente
solo la faccia di mio padre, e quella cicatrice che gli rattoppava la
guancia. Figlio di puttana…
Fu la buccia di banana. Si, proprio lei, quella dei cartoni animati,
quella delle comiche, la fottuta e meravigliosa buccia di banana.
Melvin aveva estratto il ferro, una S&W calibro 40, e lo spingeva
con impazienza tra le mie costole. Ancora qualche passo e avrei
sentito il bang, oppure non l’avrei sentito affatto. Ma lo show se
lo rubò la buccia di banana.
Melvin Kondaurov, 123 chilogrammi di carne russa compressa,
appoggiò tutto il suo peso sulla gamba destra, in un lezzo vicolo
della periferia cittadina. La buccia lo fece scartare
prepotentemente di lato, ma provò lo stesso a riacquistare

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l’equilibrio. Fu un gesto istintivo, ma sbagliato. Cadde
pesantemente a faccia in giù, la S&W gli rimase sotto, partì un
colpo e insieme al piscio il vicolo si macchiò del suo sangue.
Sangue Made in Russia.

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EUPHORIA
di Marco Filipazzi

La luce è soffusa. La grande sala è appannata di fumo. La musica


rimbomba. La massa brulica, si muove come un cumulo di
formiche intrappolate che stanno per impazzire, ma anche in
mezzo a loro la scorgo. La sua massa di capelli arancioni si agita
forsennata. Cattura subito la mia attenzione.
Finisco la birra d’un fiato e le vado incontro. Getto il bicchiere di
plastica a terra, un secondo dopo viene calpestato sotto una
miriade di suole sporche. Mi faccio largo tra la folla. Quando la
raggiungo lei non mi nota subito. Continua a dimenarsi al suono
di quel punk frastornante. Ac/Dc. Ramones. Germs. Emana un
odore di fumo e sudore. Ha una minigonna rosa shocking con
motivo scozzese. Le calze a rete bucate. Una maglietta scolorita
dei Punkreas annodata a scoprirle la pancia. Un borsello
borchiato, tempestato di spille tonde, portato a tracolla. Le
sobbalza su un fianco. Finalmente si gira. Si accorge di me. Mi
fulmina con lo sguardo. Mi cattura.
La canzone cambia. Balliamo insieme quella canzone stonata. Al
secondo ritornello lei si getta verso di me, le braccia attorno al
mio collo, e mi ficca la lingua in bocca con tanta violenza che
quasi mi fa male. È una forza della natura.
Non so come si chiama, ma per me è la Regina del Punk. Si
struscia un po’, poi avvicina la bocca al mio orecchio e sussurra.
“Vieni con me.” Mastica una gomma.
Prendendomi per mano mi trascina tra la folla. Mi porta in bagno.
Mi spinge dentro uno dei cessi e chiude la porta. La serratura
scatta. Clack! Il fetore di piscio e fumo e vomito è insopportabile.
Lo sguardo di lei è lucido di libido. Suppongo debba esserlo
anche il mio. Con foga mi slaccia i pantaloni e a quel punto sono
disposto a farmi fare di tutto. Di tutto.
“Sei carino” dice lei. Si toglie la gomma dalla bocca e l’incolla
alla parete. Rovista nel borsello con una mano, con l’altra si infila

62
nei miei boxer.
“Anche tu non sei male” dico. Le parole mi escono come un
mugugno.
Lei sorride maliziosa. Mi poggia una mano sullo sterno e mi
costringe a sedermi sul water. “Hai qualcosa per mandarci in
orbita?” si mette a cavalcioni su di me.
Sorrido. Un sorriso da ebete. Mi metto una mano in tasca e le
agito davanti al naso un sacchetto. Dentro ci sono delle pastiglie
rosse. Pastiglie di Euphoria. Quanto di più potente esista sul
mercato per mandarti in orbita e fare punk tutta la notte. Fresche
fresche dalla Colombia. Il suo viso si contrae in una smorfia di
sadico piacere. Mi toglie il sacchetto dalle mani. Si toglie da
sopra di me. Pantaloni e boxer ricadono a terra, sul pavimento
sudicio. Si acciambellano intorno alle mie caviglie.
“Rilassati” mi dice. Mi ordina.
Getto la testa all’indietro, l’appoggio contro il muro. Chiudo gli
occhi. Mi concentro sul piacere. Poi tutto accade in meno di un
secondo. Mi sento accarezzare la gola dalle sue dita fredde. Un
brivido mi percorre la schiena. Mi scende giù nello stomaco.
Riapro gli occhi e provo a dire qualcosa. L’unico suono che mi
esce dalla gola è un rantolo strozzato. Attorno a me le pareti del
bagno sono affrescate con glifi rossi. Rosso sangue. Mio sangue.
Alzo gli occhi su di lei. Si è appiattita contro la porta del bagno.
Alcuni schizzi di sangue le hanno rigato la maglietta. La pancia.
Mi porto le mani alla gola come per cercare conferma. Si, sono io
che sanguino. Noto un taglierino nella sua mano. Gocciola gocce
vermiglie. Lei sorride malefica. Attende la mia morte.
Mentre le forze mi abbandonano la vedo sfilarsi la parrucca
arancione. Una cascata di capelli neri, lisci come spaghetti, le
ricadono sulle spalle. Solo allora la riconosco. Una delle puttane
di Don Fernando. La più pericolosa. Il suo nome d’arte è Black
Julie, mi pare. Ed io mi sono fatto inculare una partita di Euphoria
per un pompino.
In fondo, forse, meglio morire così che affrontare il mio boss.

63
VELDULE MISTE E LISO
di Jonathan Macini

La città è una maschera grigia di nebbia. Copre ogni cosa col suo
silenzio. Sembra dormire la città, sotto una soffice coltre. Ma la
città non dorme mai, nemmeno alle quattro del mattino, in quelle
nottate invernali lunghe e gelide. Neanche i gatti per i vicoli, i
semafori lampeggiano d’arancio, un neon rotto e una sirena in
lontananza. La città è immobile, ma respira ancora, come un
vecchio randagio che chiede l’elemosina alla stazione, una serpe
in agguato, un felino pronto a scattare. La città diventa pericolosa
quando dorme. La abitano strane creature, animali della notte,
girano nascosti nelle ombre, vergognandosi delle proprie
deturpazioni, quelle dell’anima s’intende.
Poi ci sono quelli come me, che osservano, che aspettano, che
fumano. Un’altra sigaretta, mentre l’orologio segna le quattro e
diciannove. Il posacenere dell’auto ne è ricolmo. Guardo oltre la
carreggiata, il vicolo buio, quello sul retro del ristorante cinese.
Distinguo appena le sagome di Chon e del suo scagnozzo…
grembiuli e cappelli da cuochi. Aspettano le provviste.
Il ragazzo è appena stato assunto alla pasticceria all’angolo della
strada. Ha solamente diciassette anni e dovrebbe andare a scuola,
ma sono tempi difficili, e poi il padre è disoccupato da quasi due
anni. Passeggia ad ampie falcate sul marciapiede opposto. Lo
vedo approssimarsi al vicolo, quello di Chon. Che sia lui il piatto
giorno? Meglio non farsi sorprendere…
Scendo dall’auto e divento un’ombra sgusciante che attraversa la
strada, raggiungo il lato opposto e mi fermo dietro una vettura
parcheggiata a ridosso del vicolo. Nessuno mi nota, e ringrazio la
nebbia, sempre lei, sorella e puttana di questa assurda città. La
città dormiente. La città sognate. La città in balia del suo
prossimo incubo.
Il ragazzo è risucchiato dentro al vicolo con una rapidità
impressionante. Faccio fatica a distinguere i movimenti, ma

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risaltano all’occhio le lame dei coltelli da cucina. Un urlo
strozzato e tutto è finito. A questo punto entro in gioco io.
«Quanti involtini pensi di farci, Chon?»
L’automatica è ben in vista e punta direttamente alla faccia gialla
del cuoco.
Il chinaman sbraita nella sua lingua, lo scagnozzo mi guarda con
il terrore negli occhi, poi afferra la vittima e la trascina dentro le
oscurità del vicolo.
«Quanto vuoi, sbillo meldoso?»
«Beh, per te farò un buon prezzo. Tre testoni e tengo la bocca
chiusa.»
«Bastaldo!» impreca il cuoco. Poi estrae dalla tasca un mazzetto
di banconote e me ne allunga sei di quelle grandi.
«É un piacere fare affari con te, chinaman!»
«Non posso dile attlettanto…» sbuffa lui.
Sto quasi per andarmene quando mi viene in mente di chiedergli
una cosa.
«Com’è che lo cucini?»
«Con veldule miste e liso…»
«Buono… lasciamene da parte un piatto, mi raccomando!»
Ve lo dicevo che erano tempi difficili.

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L'ALLUCE
di GM Willo

Potrei rimanere delle ore ad osservarmi l’alluce. In quel dito vi è


nascosto un mistero, ne sono certo.
La botta non è quella di sempre. Non mi ricordo neanche com’era
di solito, perché sono tre mesi che non mi faccio un giro coi santi,
il creatore e le sue puttane, ma qualcosa mi dice che questa volta è
diverso. Con la coda dell’occhio rilevo Friz in collasso pieno
nell’angolo, ma non mi distraggo dall’alluce, per paura di
perderlo. La roba ce l’ha data uno nuovo, un certo Phon, proprio
come l’aggeggio per asciugarsi i capelli. Friz diceva di
conoscerlo, ma secondo me mentiva in stile piena astinenza, che
per convincermi ad andare a braccetto insieme si sarebbe
tranquillamente venduto anche l’anima. Io questo lo sapevo bene
perché mi ci ero trovato più volte nei suoi panni, ma anche se ero
pulito non me ne fregava un cazzo, perché tanta era la voglia di
farmi un giro sull’ottovolante. Eppure ve lo ripeto, questa storia è
diversa. C’è qualcosa che non riesco a capire. Friz è sempre lì… e
chi lo muove! Ha ancora l’ago nel braccio che gli penzola come
lampione rotto. Cavolo, che paragone di merda!
Dicevamo dell’alluce. Ne vado fiero e non lo nascondo. Ho dei
bei piedi, io. Anche se ho fatto la vita del tossico per dodici anni i
piedi me li sono sempre curati. L’essenziale è avere le scarpe
buone, la soletta che respira e il calzino giusto. Cavolo che alluce
bello che c’ho, anche se non riesco a capire come mai non riesco
a muoverlo. Forse è proprio per questo che mi sembra che la botta
sia diversa.
La stanza di Friz è un letamaio, ma almeno non ci disturba
nessuno. I suoi sono fuori e comunque non entrano mai qui
dentro. Friz è un stronzo patentato che arriva anche a ricattare la
madre con la siringa sporca per una ventina di euro. Io queste
cose non le ho mai fatte. A diciotto anni mi sono infilato il primo
ago e due mesi dopo ho lasciato casa. Poveri vecchi, perché mai

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avrei dovuto dar loro la pena di convivere insieme a un tossico.
Loro non mi hanno mai fatto niente di male, anzi, sono stati due
genitori esemplari. Chissà cosa penserete adesso, ma è vero. Mi
hanno insegnato tutto quello che c’era da insegnare per vivere una
vita degna, per trovarmi una ragazza, un lavoro, una casa e così
via, e forse avrei potuto farle tutte queste cose, se una sera di
dicembre non fossi andato insieme a Elvis a farmi un bagno nella
vasca di Bacco, riempita fino all’orlo degli umori sessuali di
Afrodite. Elvis mi sussurrava Tread Me Nice con le sue labbra
sensuali. Gli chiesi un pompino e lui si avventò sull’uccello e per
poco non mi succhiò anche l’anima.
L’alluce rimane immobile. C’è qualcosa che non va, adesso ne
sono tremendamente sicuro. Vorrei chiamare Friz, anche se
probabilmente sarebbe inutile perché da quanto riesco a vedere mi
sembra più andato di me. Comunque le mie corde vocali sono
morte. Amplificatore spento, ragazzi…
Forse dovrei metterci dello smalto, mi vien da pensare. Forse
sono finocchio. Smalto alle unghie dei piedi e pompini di Elvis. I
segnali ci sono tutti. Non che me ne freghi poi molto. Nella mia
vita avrò scopato per piacere non più di una decina di volte, più
qualche centinaio di sveltine per portarmi a casa la pagnotta.
Cazzo, non ci avevo pensato. E se fossi… ma no, dai! Eppure
fuori è già buio. Saranno le otto ormai e questo vuol dire che sono
tre ore che ci siamo fatti e Friz non accenna a muoversi mentre io
sono ancora rapito dal grande mistero dell’alluce. Che cazzo ci
sarà mai di così interessante in un dito di un piede?
Ma no dai, non può essere…
…siamo morti!
Cazzo che figata!

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LA STORIA DI JACK IL VENTRILOQUO
di Dario de Giacomo

Ho scoperto che Jack il ventriloquo vive una vita normale. Che


poi, pensaci!, non vuol dire proprio un cazzo di niente. Quanto
vivi tra la gente, vivi sempre una vita normale, a modo tuo. Bene!
Jack la vive proprio così la sua vita, ma parla con la pancia. Lui
dice che parlare con la pancia gli fa male, che in ogni caso è
peggio che muovere la bocca. Jack ha ragione: lo stomaco non
mente, quello che sente lo vomita magari, ma difficilmente lo
trattiene. Jack però non vorrebbe parlarvi di questo. Lui in una
notte di luna piena… già, ma Jack non è un licantropo, non fatevi
trascinare dall’entusiasmo, questa non è davvero una nera novella,
perché lui vive una vita normale. Dunque, in una notte di luna
piena Jack afferra il volante di pelle della sua auto, ingrana la
marcia, che entra sempre male, e parte.
Gli sfila davanti un cunicolo d’asfalto pieno di notte, buio,
lunghissimo e anche a Jack, come a tutti quelli che lo percorrono,
sembra che quel rettilineo d’asfalto, duro sotto le quattro ruote,
non finirà mai.
Tutto quel buio è presidiato di carne avariata, mignotte incatenate
ai due margini dell’incubo, illuminate dalla rapidità dei lampi: si
sa che le stelle declinano in fretta nel backstage, per trenta euro
con ingoio.
Jack ingoia saliva e succo acre, dolciastro, di eroina, accelera,
schiaccia il piede dentro quel rettangolo di lamiera sparato nel
buio. La sua auto è una discarica a cielo aperto, puzza di gomma
bruciata, come la strada, fetore di rimmati.
Dritta in gola brucia l’eroina, corre veloce Jack il ventriloquo, ma
la puzza la porta dentro, dentro quell’auto, dentro quella strada
dove la città scarica le immondizie di esseri umani.
Prima o poi ti abitui, Jack, a sopportare il fetore dei tuoi tappetini
di gomma lerci di birra e piscio.
Ti abitui a tutto Jack, prima o poi. Devi solo correre veloce! Le

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mani strette sulla pelle lucida del volante, rattrappito, e la pancia
non ti farà più male, soffrirai di meno. Ora lui respira con la
bocca per non parlare, per non sentire il fetore.
Jack suda come un malato allo stadio terminale. È arrapato, non
di sole puttane, e poi non ha con se il guanto. Non è gentile
scopare qualcuno senza il guanto, è da incivili scopare le puttane
senza indossare il guanto: se te lo sfili troppo presto, puoi
rischiare di beccarti un’emozione, ma non c’è un guanto
abbastanza duttile per il suo cuore, e lui non vuole prendersi lo
scolo del sentimento.
Jack è arrapato, sì, ma proprio di vita. Per questo suda come un
maiale scannato, perché quando sbavi dietro alla vita, quella ti si
attacca addosso come un profumo da quattro soldi, il profumo che
senti alla periferia dell’anima.
Perché, Jack, Tu un’anima ce l’hai! E non è dentro i tuoi coglioni,
come pensi sempre, cercando di sborrarla svelto e dappertutto,
ogni volta che ti si riempie. No Jack! Tu l’anima ce l’hai nello
stomaco, ecco perché parlare con quello ti fa star male. Però ora
senti solo il tanfo alla periferia del sentimento. Solo per questo.
Cazzo che notte stanotte, una notte come tutte le altre notti, ma
cazzo se è strana forte stanotte.
Ma insomma Jack che vai cercando qui, in culo ai lupi, fuori della
tua tana?
Slitta il rettangolo di lucido acciaio, sbanda. Bestemmi con
cortesia. Jack è cortese, sapete?,sa come vivere tra la gente, sa
vivere normalmente, ma parla con la pancia e gli fa male.
Jack guarda che ti ammazzerai così! Non te ne fotte niente, credo.
Figurati se importa a me che ti vedo sfrecciare veloce e nemmeno
ti conosco, né stasera né mai.
Jack non vede più nulla avanti a sé, immagina solo che la strada
sia dritta, l’ha sempre vista dritta davanti a sé.
Ma! Cristo! Jack punta i piedi, si riscuote all’improvviso, un
lampo freddo di coscienza, come i postumi dolorosi di una
sbronza.
Una curva maledetta gli si para di fronte all’improvviso. L’auto
derapa, slitta, frena scivolando sull’asfalto, non la controlla, si

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anima e guida la sua corsa, lambisce il parapetto scintillando
frammenti di vita metallica che si spezzando nel buio.
Uno stridio ferroso, Jack curva, curva ed esce. Accosta l’auto e
scende.
Esce alla luce. La luce. Sì Jack, la luce. Lui esce in un campo di
grano macchiato di papaveri rossi.
Jack davvero non è stato mai bravo a scrivere i finali, ma non
importa ora. Qui c’è tanta luce bionda e il finale scatta da sé e la
storia finisce.
Allora è l’alba. Dio com’è bella quest’alba. Allora l’alba è proprio
così e odora di salmastro, mentre le grosse formiche nere gli
ballano sulle dita.
Ora canta una canzone di pancia. Cantare di pancia non fa male
ora sotto il cielo illuminato di luce immensa.
“Sai che ti dico?” – Jack sorride – “ Cantare di pancia, all’alba, in
un campo di grano macchiato di papaveri rossi non fa male!”.

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L'ULTIMO LAVORO DELLA MIA VITA
di Jack Lombroso

Ormai André è morto da tempo, sdraiato sul letto con la camicia


piena di sangue. Attendo l’alba qua in questo schifoso motel. Una
bottiglia a farmi compagnia e due sacchi di banconote che non
spenderò mai. Le luci delle auto della polizia continuano a filtrare
attraverso le tende, illuminando a intermittenza questa squallida
stanza.
Rassicuravo André dicendogli che sarebbe andato tutto bene.
Dicevo di essere al sicuro ormai, ma Jimmy deve aver parlato. Lo
sapevo. Eppure lo sapevo; me lo sentivo che sarebbe andata male
stavolta. Quanti coglioni sono stati fregati, pensando che fosse
l’ultimo colpo della loro vita. Un bel colpo, un lavoro in grande.
Quanto basta per scappare in un paesino nel buco di culo del
Messico e rimanerci ,vivendo da milionario. E invece eccomi qua.
Aspettavo Jimmy, ma al suo posto è arrivata la polizia. Ma
facciamo un po’ di chiarezza in questa storia. Lasciate che ve la
racconti dall’inizio.
André venne a trovarmi nei primi di agosto. Io vivevo insieme a
Donna, in una casetta sulle rive del lago nella contea di Salt lake.
Me ne stavo sulla veranda a mandar via dalla bocca quel sapore di
pesce e alghe marce, che impestava l’aria, con una birra gelata,
quando una moto di grossa cilindrata si ferma davanti a me. Era
André. Maledetto lui e il momento che accettai. Non lo vedevo da
tre anni e solo Dio sa come era riuscito a trovarmi.
- Duke, vecchio bastardo - biascicò, con quell’accento del sud che
pareva avesse sempre una patata mezza masticata in bocca.
- André, gran figlio di puttana - Risposi al saluto - Cosa cazzo ci
fai quaggiù?
- Sono venuto trovare un vecchio amico, perché non si può? -
Non credetti mai a quella evidente scusa, e nei successivi trenta
minuti ebbi la conferma di aver ragione. Scambiati altri inutili
saluti lo presentai a Donna e ci stappammo due birre. Scendemmo

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fino alla riva del lago, mettendo i piedi a mollo per combattere
l’afa estiva. - Cristo santo se puzza questo lago - disse André
prima di dare una lunga sorsata dalla bottiglia.
- Ascolta André… Tu non sei il tipo di fare visita ai vecchi amici,
così, per cortesia. Cosa cazzo ti porta quaggiù? - Staccò la bocca
dalla bottiglia e si passò il dorso della mano per asciugarsela.
- Beh! Sai com’è!? Non ci vediamo dai tempi del Country club.
Diciamo che il lavoro ci fruttò abbastanza, ma ormai saranno
finiti anche a te quei verdoni. O sbaglio? - Non sbagliava. Il colpo
al Country club mi permise di vivere da signore per un bel po’,
ma quei soldi erano ormai finiti da un pezzo. Per uno come me, a
cui un impiego durava circa tre mesi non era facile metter via
qualcosa. Ma che ci posso fare. Non sono il tipo da sopportare
quei lavoretti del cazzo da impiegatuccio medio di provincia. Io
voglio vivere da signore. Che non significa pieno di soldi come
molti pensano, ma libero. Libero di stare una giornata con i piedi
nel lago, una confezione da sei nella borsa frigo e la mia Donna
accanto. Aspettando che il sole si spenga nell’acqua.
- Diciamo che qualche spicciolo mi farebbe comodo, non sono
tempi facili questi - risposi alla fine, dopo averci pensato su.
- Appunto. Vedi che siamo sempre in sintonia!? Ho per le mani
una cosa grossa, di quelle che ti sistemi una volta per tutte.
- Andrè non ci ho mai creduto al colpo della vita. Lo sai sono solo
cazzate e finisce che gran parte del resto della vita lo passi in
galera. Non ho più trent’anni amico. Non me lo posso permettere
un soggiorno prolungato nella prigione di stato.
- Ma guarda che è una cosa semplice. Un lavoretto da tre. Tre
persone giuste e ci becchiamo mezzo testone per uno. -
Cinquecentomila dollari. Cazzo. Risolverebbero tutti i miei casini
e potrei assicurare un futuro a me e a Donna, che anche lei sfiora
la cinquantina. Un futuro come piace a noi.
- Ascolta Duke. Ascolta il piano prima di dire di no. È un gioco da
ragazzi.
- Tutti quelli che hanno organizzato qualcosa, pensando che fosse
un gioco da ragazzi sono stati sempre fottuti. Non lo so André…
- Ascolta almeno il piano prima. Cazzo Duke, prima di rifiutare

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mezzo testone facile…-
- Va bene André. Dimmi il piano. - Errore madornale. È quasi
scontato che chi ascolta il piano lo ha già accettato per metà.
Maledizione, era la cifra del bottino che mi faceva girare la testa.
- Allora, ascolta. Il 15 agosto a Las Vegas, chiuderanno due
banche dello stesso gruppo. Una per essere ristrutturata e l’altra
per le ferie estive, solo una terza rimarrà aperta. Ci sei?! Un
furgone passerà dalla prima per ritirare i soldi. Poi proseguirà
verso l’altra banca per fare il carico e portarlo alla centrale a Los
Angeles. La strada che dovrà compiere il furgone della sicurezza,
dovrà però deviare ber un breve tratto in una strada secondaria
che passa attraverso il deserto, perché nella principale stanno
ristrutturando il manto stradale. Ed ecco che noi saremo lì ad
aspettarli. Per aumentare la sicurezza del viaggio, hanno
anticipato il prelievo di un giorno rispetto a quello standard. Ma
noi questa informazione confidenziale l’abbiamo dalla nostra.
- Se è confidenziale come fai a saperlo? - dissi dubbioso.
- È qui che entra in scena il nostro terzo uomo. Jimmy Carter.
Assunto da sei mesi allo sportello di una delle filiali minori. Ha
sentito la conversazione al telefono, mentre lo comunicavano al
direttore.
- E possiamo fidarci di questo Jimmy? Chi cazzo è, chi lo
conosce? - Mi accorgevo solo ora che già pensavo ai dettagli.
Nella mia mente già si evidenziavano le possibili varianti, anche
se André non aveva ancora accennato a come rapinare il furgone.
Cazzo, era come se avessi già accettato.
- Ti ricordi di Jenna?
- Si... - Jenna era la sorella di Andrè. Era più giovane di qualche
anno, ma quando noi ancora provavamo a farci qualche
cheerleader del college lei aveva già assaggiato mezzo campus.
Jenna. La conobbi meglio qualche anno dopo. Capite cosa
intendo, vero?
- Beh! Jenna si è sposata. E prova a dire con chi?
- Fammi indovinare… con Jimmy Carter? - risposi sorridendo.
Andrè annuì ridendo, battendosi la mano sulla coscia per
sottolineare la sua felicità.

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- E come pensi di fermare un furgone blindato? - Ormai mi stava
sempre più convincendo ma cercavo di mettere più dubbi
possibili tra me e il piano. Solo ora rimpiango di non aver seguito
quella linea di pensiero. Se l’avessi fatto, non mi troverei in
questo casino.
- Al furgone ci pensa Jimmy. È un ex marine e ci sa fare con gli
esplosivi. Ma aspetta ora ti racconto tutto.
Fummo interrotti da Donna che ci chiamò per la cena. Dovemmo
interrompere il discorso. Sarebbe stato un casino se si fosse
accorta cosa stava proponendomi André. Sapeva dei miei
trascorsi, ma gli avevo assicurato di non farlo mai più. E ci
credevo fermamente a quella promessa. Prima di oggi.
A tavola parlammo del più e del meno, come se niente fosse. In
fondo eravamo amici dal tempo del college io e Andrè e non ci fu
difficile discorrere senza entrare in particolari, poco piacevoli,
diciamo così. Sembrava andare tutto per il meglio, quando a fine
cena mi alzai per stappare altre due birre.
- Insomma è tanto che non vi sentivate più te e Duke - disse
Donna
- Sì - rispose André, - Dai tempi del Country cl… - le parole
morirono in bocca di André. Ma ormai era troppo tardi. Donna mi
guardò con un aria strana e André se ne andò velocemente con
una scusa. Lo accompagnai alla moto.
- Scusa amico. Accidenti alla mia boccaccia.
- Va bene André, non preoccuparti. Dopo ci parlerò, vedrai che
capirà. - Lo salutai e tornai in casa. Con un appuntamento per
l’indomani. Avevo quindi già accettato? Allora non lo sapevo ma
oggi posso rispondere di sì. Purtroppo lo avevo già accettato.
Rientrai in casa.
- Senti Donna…
- Non una parola di più, Duke. Non so cosa a spinto il tuo amico a
venire qua. Spero sia solo una visita di piacere, perché lo sai bene
come la penso su certe cose. - Era sulla porta di cucina. Ancora
bella come quando la incontrai. Un grembiule rosso stretto in vita
e i guanti per i piatti alle mani. Donna era l’unica cosa che avevo
e sarei stato finito se l’avessi persa.

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- Senti… Ascoltami amore. Non abbiamo più un soldo e lo sai, io
per i lavoretti giù in paese non sono portato… -
- Allora era come immaginavo. Duke, non scherzare nemmeno.
Mi avevi promesso che il Country Club era l’ultimo, che
saremmo stati qua in riva al lago. Noi due e il sole, dicevi. Avresti
trovato un lavoretto che bastasse per noi due, dicevi. Allora erano
tutte bugie! - Aveva le lacrime agli occhi e la voce rotta. Mi sentii
un verme nel vederla così, ma io a fare il meccanico o il postino
della strafottuta provincia non ci sarei mai finito.
- Sarà l’ultimo. Lo giuro. Ci sono in palio un sacco di soldi,
amore. Ci sistemeremo per il resto della vita e potrai smettere di
fare le pulizie a casa di quella vecchiaccia della Brown. Ascoltami
tesoro. È una cosa semplicissima… Nessun rischio, lo giuro.
- Lo giuro. Avevi giurato tante cose Duke. Avevi giurato che
sarebbe stato l’ultimo. Hai cinquantacinque anni Duke.
Dannazione se ti mettono dentro io cosa faccio. Con i tuoi
precedenti ti buttano fuori quando sarai già vecchio. Ed io dovrò
stare qui ad aspettarti tutti quegli anni, qui da sola. Ma non ci
pensi a me… eh!? - Adesso le lacrime gli scendevano lungo le
guance. Ma ormai, inconsapevolmente la mia decisione era già
presa.
- Senti. Domani vado a parlare con André. Ti prometto che se non
è una cosa facile come dice ci rinuncio. Va bene? - Donna non
rispose. Mi guardò con l’espressione più triste che avevo visto in
vita mia, poi si girò e cominciò a lavare i piatti. La sentii piangere
mentre uscivo dalla porta. Tornai in casa solo quando vidi le luci
spente. Aspettai ancora un po’ per essere sicuro che dormisse. Per
non dover incontrare il suo sguardo. Mi spogliai e infilai nel letto
più silenziosamente che potei per non svegliarla.
- Ripensaci Duke. Non farlo. Per favore... - sussurrò nel buio.
Non dormii quella notte, rimasi a guardare il soffitto ascoltando i
singhiozzi di Donna. Prima dell’alba si addormentò. Mi alzai dal
letto ed andai all’appuntamento. Arrivai alla tavola calda con
circa quaranta minuti di anticipo. Bevvi diversi caffè prima che
André arrivasse con il tipo che poi si presentò come Jimmy.
André si accorse della faccia scura che avevo e fece sparire subito

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il sorriso che lo accompagnava sempre.
Era un sognatore, André. Fin da ragazzi, quando scendevamo al
fiume per fumare un po’ d’erba. Lui parlava e parlava con lo
sguardo all’orizzonte come potesse già vedere il futuro. Io invece
lo ascoltavo in silenzio. Allora lui smetteva di parlare di punto in
bianco e mi guardava. - Hai perso la lingua? - diceva sorridendo.
Duke il silenzioso, mi chiamava, con quel sorriso sempre
stampato in faccia. - Duke il silenzioso e André il sognatore -
rispondevo io, interrompendo il silenzio. - Sempre insieme -
chiudeva il cerchio André.
- Allora? - disse Jimmy - Tutti d’accordo?
- Si. Tutti d’accordo - risposi io.
Ci salutammo ed ognuno andò per la sua strada. André fece per
chiedermi qualcosa, probabilmente su Donna, ma io feci finta di
niente e ingranai la marcia.
Il piano era semplice. Verso le 13.00 del 15 agosto il furgone
avrebbe prelevato dalla prima banca. Quando passava davanti alla
seconda io lo avrei seguito a distanza. La deviazione era
obbligatoria quindi non avrei destato sospetti anche se mi
avessero visto. Jimmy e André avrebbero aspettato al decimo
chilometro della strada secondaria, dopo aver inscenato il finto
incidente. Pistole in pugno avremmo bloccato le guardie mentre
Jimmy faceva saltare il portellone posteriore del furgone. Preso il
bottino saremmo scappati in tre direzioni diverse, cambiando le
auto lungo la strada, per poi ritrovarci al motel in cui sono adesso.
Semplice, anche troppo.
Alla mia incertezza su come avrebbero reagito le guardie, André
rispose che, solo tre mesi prima, c’era stata una rapina in una
banca. La guardia era intervenuta ed era stata ferita. C’era stata
diversa polemica al riguardo, perché gli onorari pagati dalle
banche non permettevano alle agenzie di vigilanza di mettere le
guardie in coppia, certamente più avvantaggiati che posizionati
singolarmente come erano. Diversi di loro si lamentavano di
dover rischiare la vita per uno stipendio minimo, per fare la
guardia a dei soldi, per di più assicurati. André era certo della
poca reattività delle guardie: scontente e prese di sprovvista.

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Preparai mentalmente il mio ruolo. Pensai e ripensai se ci fosse
sfuggito qualcosa. Immaginai la scena in tutte le sue possibilità.
In quasi tutte
Era il 15 mattina. Salutai Donna che mi guardava vestirmi dal
letto. Mi avvicinai per baciarla ma lei si scansò.
- Duke… - disse, quando ero sulla porta.
- Comunque vada, io non ti aspetterò. - Piangeva.
La guardai e me ne andai senza risponderle. Ero sicuro che la
felicità di vedermi tornare sano e salvo ci avrebbe fatto superare
tutto questo. E poi avrei avuto con me mezzo milione di dollari.
Arrivai a Los Angeles leggermente in anticipo e mi sedetti su una
panchina, con un giornale e una birra, vicino alla seconda banca.
Alle 13 in punto il furgone si fermò davanti a me. Io mi alzai, finii
lentamente la mia birra e montai nell’auto che avevo parcheggiato
dall’altro lato della strada. Partimmo. Tutto sembrava andare
bene. Alla deviazione il furgoncino svoltò verso la strada poco
trafficata. Io lo seguivo a distanza. Quando arrivammo sul posto,
le auto di Jimmy ed André bloccavano la strada. Dal cofano di
una delle auto usciva un fumo bianco e denso. Ghiaccio secco,
piccolo trucco. Andrè era in terra sporco di sangue finto. Jimmy si
avvicinò velocemente al furgone fingendo di chiedere aiuto,
mentre l’autista alla radio stava già chiamando i soccorsi. Dieci
minuti da ora. Jimmy puntò la pistola attraverso la portiera aperta.
Io aggirai il furgone da dietro e feci scendere l’autista. Mentre
André gli dava il cambio, Jimmy, preparò l’esplosivo per far
saltare il portellone posteriore. Non volevamo perdere tempo a
convincere i due ad aprirci. Un bel botto sarebbe stato
sicuramente più veloce. Jimmy posizionò il detonatore sul piccolo
quantitativo di c4 appiccicato al furgone. Sembrava andare tutto
per il meglio. Invece.
Aspettavamo il rumore dell’esplosione mentre legavamo le mani
delle guardie con le fascette di plastica.
Niente. Nessun rumore. Nessuna esplosione.
- Cosa succede? - urlò André.
- Non lo so, non esplode - rispose Jimmy, che tornò ad armeggiare
col detonatore. In lontananza si udirono le sirene dell’ambulanza.

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André si voltò verso una guardia. - La combinazione del
portellone, avanti!
La guardia rimase in silenzio. - Dammi la combinazione o ti sparo
in testa, bastardo!
Silenzio. Fottutissimo eroe.
- Muoviti cazzo! - urlò André. Io intanto maledicevo in silenzio
l’ex marine, esperto di esplosivi. Quella testa di cazzo stava
mandando tutto a puttane e per mantenere la calma immaginavo
nella mia testa le serate con Donna, in riva al fiume. Immaginavo
che faccia avrebbe fatto quando l’avrei fatta venire in Messico.
Preparavo mentalmente le frasi che le avrei detto per convincerla,
sicuro che l’avrei convinta.
- Muoviti cazzo, muoviti. Quanto ti ci vuole, stronzo - urlava
Andrè.
Davanti ad una nuvola di polvere si vedeva correre veloce
l’ambulanza. Ma ci accorgemmo che era accompagnata da una
pattuglia di polizia. Probabilmente il conducente del furgoncino
della sicurezza aveva mangiato la foglia. La volante della polizia
era sempre più vicina, quando udimmo l’esplosione. Alla fine
Jimmy ce l’aveva fatta, ma ora avremmo dovuto scappare dalla
polizia. Buttammo le mazzette nei sacchi, mentre André aveva già
girato le auto per scappare. Tornò al furgone con noi ci dette
mano a finire il lavoro.
Corremmo veloci verso le auto ma i due poliziotti erano già scesi.
Il rumore degli spari mi gelò il sangue nelle vene, quando André
urlò. Lo vidi rallentare fino ad appoggiare un ginocchio a terra.
Sparai due colpi verso i poliziotti e ne vidi uno cadere a terra.
Buttai i sacchi in macchina e mi avvicinai ad André e con la mano
libera lo presi per la cintura facendolo alzare. Jimmy intanto era
arrivato alla sua macchina e sparava contro lo sbirro rimasto.
Infilai André al posto del passeggero e partii come un razzo,
lasciando quello stronzo di Jimmy dietro di noi, mentre sentivo
arrivare altre sirene in lontananza. Ma io ero sempre più lontano.
Parlavo ad André che si teneva il fianco e singhiozzava per la
paura e per il dolore, mentre il sangue gli inzuppava la camicia.
- Avanti amico, sta calmo. Andrà tutto bene - ed altre puttanate

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simili. In realtà nulla era andato bene. Jimmy aveva trasformato
un piano perfettamente riuscito in una stronzata mondiale. Aveva
impiegato otto minuti, dei dieci che avevamo, per fare una cosa
che avrebbe dovuto provare e riprovare nei giorni precedenti
Cambiai l’auto, trascinando André da una a l’altra. Era sempre più
pallido e tremava come una foglia.
- Avanti amico, ci siamo quasi - sussurravo, ma lui mi guardava
triste e spaventato. Stava morendo.
Arrivammo al motel sicuro che nessuno ci avesse visti. Entrai
nella stanza già prenotata con la chiave che ci aveva dato Jimmy
alla tavola calda. Gettai il sacco di banconote sporco di sangue
sulla moquette e stesi André sul letto. Tirai la tenda alla finestra e
accesi la piccola luce da comodino. Aprii la camicia di André e
cominciai a pulire la ferita con un asciugamano che avevo
bagnato. Tutto questo in meno di venti secondi. L’adrenalina
scorreva a fiumi e aumentò ancora di più quando vidi la ferita di
André. Forse lui si accorse della mia espressione - Sono fottuto,
vero? - La pallottola lo aveva preso sul fianco destro e non c’era
foro di uscita. Era ancora dentro e se gli aveva preso il fegato per
il mio amico ci sarebbe stato poco da fare. - Ma no, vedrai che
andrà tutto bene. È una cosa da poco.
- Ex marine del cazzo - disse André, guardandomi.
- Mi spiace amico. Morire in un cazzo di motel, che fine di merda.
- Non dire cazzate bello. È tutto ok. Appena arriva Jimmy ti
portiamo da un dottore, ok? - Non so se almeno io credevo in
quello che stavo dicendo, di sicuro non ci credeva André.
- Jimmy è stato beccato, gli ho visto alzare le mani mentre
scappavamo in auto. Ma sta tranquillo, Duke. Scappa ora, va via e
forse ce la fai. Io ormai sono morto. - La voce gli si affievoliva
sempre di più, era sempre più pallido e freddo.
- Ma che dici? Ora ti metto in auto e andiamo, non ti lascio solo
ok? - Andrè mi guardò, consapevole della sua fine. Sorrise, come
faceva giù al fiume da ragazzi.
- Duke il silenzioso e André il sognatore… Sempre insieme eh? -
Poi chiuse gli occhi, girò la testa e morì.
Passarono attimi, minuti, forse ore. Ero rimasto come catatonico a

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guardare il sorriso di Andrè che ancora aveva sulla bocca. A
ripensare a quando eravamo al fiume. A Donna. Furono le sirene a
risvegliarmi.
Arrenditi sei circondato, esci con le mani alzate ed altre stronzate
da telefilm. Jimmy era stato preso e aveva cantato
immediatamente come un uccellino. Solo lui sapeva che eravamo
qua e non aveva perso tempo a dirglielo.
Ormai André è morto da tempo, sdraiato sul letto con la camicia
piena di sangue. Attendo l’alba qua in questo schifoso motel. Una
bottiglia a farmi compagnia e due sacchi di banconote che non
spenderò mai. Le luci delle auto della polizia continuano a filtrare
attraverso le tende, illuminando a intermittenza questa squallida
stanza. Lo so, lo so che l’ho già detto. Ma ora che ho concluso di
raccontarvi la mia storia, torno a pensare che sono un uomo finito.
Il mio amore, Donna, non la vedrò mai più se non attraverso delle
sbarre. Ma lei non verrà mai a trovarmi, lo so, lo ha detto.
Probabilmente ho ucciso un poliziotto e ho visto dentro come
trattano gli ammazzasbirri. Se invece non è morto e se riesco a
sopravvivere al carcere, uscirò giusto in tempo per vedermi
vecchio e solo, a rimpiangere ancora di più la libertà che ho
perduto. In ogni caso non avrei un buon futuro.
Ora capisco i credenti: Quando non hai più forza per combattere,
o ti rivolgi a Cristo o ti ficchi una pistola in bocca.
Ma io non sono credente.

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NOTTE A SHANGHAI
di Hermes

Osservo il mio viso allo specchio dopo essermi truccata, cerco


qualche imperfezione, dopo un’attenta analisi mi ritengo
soddisfatta. I capelli perfettamente acconciati come la moda
occidentale impone, il viso un ovale perfetto accarezzato dalla
cipria, sugli occhi un velo di trucco, le ciglia marcate da una linea
nera. La bocca rossa, un piccolo cuore morbido in cui sbocciare.
Indosso il vestito migliore, lui ha scelto un raffinato tessuto di
seta indaco con dei fiori di ibisco color crema, il taglio aderente e
la forma gli ho scelti apposta per provocarlo. Un ultimo tocco,
apro il profumo, il contagocce di vetro accarezza il mio collo
bianco e i polsi lasciando una delicata essenza di gelsomino. So
bene quanto lo eccita sentirlo sulla mia pelle.
Ora sono perfetta, sono pronta per lui. Mi faccio trovare in salotto
dove verrà servita la cena. I domestici sono addestrati a non
vedere e non sentire. Lui è a capo dei servizi segreti e la sua
crudeltà è conosciuta in tutta Shanghai, basta un suo gesto e le
persone spariscono, lui non si fida di nessuno eccetto me, io sono
la sua amante, eppure mi tremano le gambe ogni volta che mi
guarda.
Vedo i fari dell’auto; è arrivato. Poco dopo entra in salotto, bello
con il suo completo di sartoria francese, il viso è tirato, gli occhi
di una fiera braccata, la fine della guerra ormai è questione di
settimane, abbasso lo sguardo pudicamente con deferenza, lui
adora sottomettermi, io so essere una perfetta e cedevole
concubina. Mi scruta con quello sguardo da diavolo, il cuore
manca un battito, mi fingo imbarazzata, lui ne viene lusingato…
stupido uomo. Ci sediamo a tavola ma lui non tocca cibo, si nutre
di sguardi, i domestici educatamente si dileguano, sanno che
griderò stanotte. So cosa vuole, la sua sola fame è quella del mio
corpo. Lo amo e lo odio al tempo stesso.
Poche frasi di rito, il nostro gioco è già cominciato, mi interroga

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su come ho trascorso la giornata e io inizio pur remissiva a
provocarlo con lo sguardo. Questo lo eccita e lo fa arrabbiare al
tempo stesso, ma è proprio ciò che voglio. Apre un porta sigarette
d’argento, me ne offre una, condiscendente accetto e con la punta
della lingua distrattamente umetto il labbro inferiore, mentre
porto la sigaretta alla bocca appena accesa. Lui non perde nessun
dettaglio, soffio delicatamente il fumo azzurrognolo verso il suo
viso. Un terribile gioco dove la vittima provoca il carnefice, sento
la sua eccitazione aumentare, il mio sguardo si fa più insolente,
attendo una reazione decisiva da un momento all’altro, mi farà
molto male, ma questo non mi impedisce di eccitarmi.
Spengo la sigaretta con insolente disprezzo mentre i nostri guardi
non vogliono lasciarsi. Ha ceduto, si alza di scatto e mi afferra il
braccio, mi sovrasta, so quanto adora lasciare segni sul mio corpo.
Bene, ci siamo quasi, mi mostro turbata e oppongo un’indignata
quanto vana resistenza. Questo lo sta facendo incazzare ancora di
più. Mi trascina verso la stanza da letto in stile coloniale, dopo
tutto questa villa una volta era l’ambasciata britannica prima
dell’invasione giapponese. Tento di divincolarmi e grido, la mia
acconciatura perfetta tirata dalle sue mani crudeli si scioglie in
una cascata di boccoli sulle spalle. É eccitato, conosco quella luce
nei suoi occhi, mi butta per terra ai piedi del letto a baldacchino
davanti al grande specchio, io rispondo con uno sguardo feroce.
La pagherò cara… lo schiaffo arriva in un istante, neppure l’ho
visto partire e sono già terra, la stanza inizia a girare, la guancia
pulsa, ma và tutto bene… è quello che voglio.
Devo rimanere concentrata anche se sento caldo tra le gambe, non
vedo l’ora che mi prenda. Il trucco del mio viso viene rigato da
false lacrime mentre lui si toglie la cinta, la userà su di me lo so,
la chiude intorno al mio collo come un cappio, l’aria passa appena
ma non oppongo resistenza neppure quando mi strappa di dosso il
mio bel vestito. Con il tempo ho imparato quando smettere di
oppormi e cedere passivamente ai suoi giochi perversi, prima
costretta per dovere, poi con il tempo conoscendo un piacere che
mai avrei creduto possibile.
Ora sono ai suoi piedi in ginocchio, tenuta al guinzaglio come una

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cagna. Nei suoi occhi leggo laida lussuria mentre guarda il mio
corpo nudo come la prima volta. Lui non si spoglia, lo tira
semplicemente fuori dai pantaloni e me lo sbatte in faccia. La sua
mano ancora mi tiene stretta per i capelli costringendomi a
prenderlo in bocca, provo ad opporre una vaga resistenza ma la
verità e che mi eccita farlo. Adoro il suo sapore, la calda
consistenza della sua eccitazione tra le mie labbra rosse. Alzo lo
sguardo come piace a lui, osservo come sussulta ad ogni affondo.
Mi costringo ad uno sguardo da bambina imbarazzata, anche se
adoro quando scopa la mia bocca, ma questo è il nostro gioco, o
quello che voglio fargli credere. Mi gira la testa obbligandomi a
guardare lo specchio, vedo riflesso il mio corpo nudo umiliato a
terra, totalmente prostrata alle sue perversioni. Sento le ginocchia
cedermi vedendo la mia immagine mentre compio quell’atto
volgare, mi vuole umiliare, non sa invece che la mia eccitazione
non fa che crescere a dismisura e questo non aiuta i miei piani.
Lui è stato il mio primo uomo, la sua violenza mi da piacere, mi
scuote il corpo e mi tocca l’anima, ma ignora quanto sia disposta
a fare pur di raggiungere il mio obbiettivo.
Cambia gioco e mi sbatte sul letto, magari si deciderà a scoparmi,
non aspetto altro. Dannazione, odio come mi tocca e fruga con
quelle dita, non riesco ad essere razionale quando fa cosi. Ti odio,
glielo grido a denti stretti, lui mi frusta le natiche sino a farmi
urlare, provo a divincolarmi senza successo. Ancora mi obbliga in
quella posizione oscena; la mia faccia affondata sui cuscini e il
sesso oscenamente esposto al suo sguardo, ora la sua bocca ha
sostituito le mani, quella lingua mi farà impazzire maledetto. Sto
per cedere ma non voglio, mi serve mantenere controllo e lucidità.
La necessità mi porta a rischiare. Con rabbia gli chiedo se è
diventato impotente e cosa aspetta a scoparmi. Non ho mai osato
tanto. Me ne pento ben presto, mi possiede con ferocia, mi
accorgo di stare urlando di dolore e piacere al tempo stesso, urla
che si sentiranno per tutta la villa.
Mi fa male, devo sopportare il dolore, devo tenere duro ancora un
po’. I suoi assalti si fanno più veloci, il suo sudore e il mio si
mischiano. Quanto sa essere divino in questi momenti, come una

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serpe non solo prende il mio corpo ma avvinghia la mia anima in
una morsa fatale, non devo cedere al piacere, non prima di lui. Si
eccolo, si muove più veloce, manca poco, non resisto, il piacere ci
raggiunge ad unisono, lo sento esplodermi dentro ed esausta e
appagata mi accascio sul letto, quindi recito la mia parte. Prendo
fiato e rompo il silenzio con un pianto accompagnato da soffocati
singhiozzi. Lui sussurra delle scuse, pare davvero mortificato,
odio questa sua debolezza, mi promette un gioiello, non
immagina quanto ho goduto, mai come stanotte mi sento puttana
e appagata tanto dal sesso quanto dai suoi sensi di colpa. Con
goffe carezze cerca di calmarmi, gli do l’illusione di esserci
riuscito. Lui si alza dal letto e mi osserva, la pietà lo costringe a
rimanere, inizia a fumare e si accomoda su una poltrona di vimini.
Accanto, in una bottiglia di cristallo, il suo liquore preferito è li
che lo attende, si versa da bere. Osservo dal letto in posizione
fetale, stringendo le lenzuola e trattenendo il respiro, lui trangugia
il liquido scuro. Ancora qualche istante, ecco fatto. Il collo gli si
irrigidisce di colpo e intravedo il suoi occhi spalancati dal terrore.
Il bicchiere cade a terra. Il veleno inizia a fare effetto.
Mi alzo avvicinandomi a lui, ma fitte dolore mi fanno barcollare,
avverto colare lungo le cosce seme e sangue, mi avvicino a lui
osservando i suoi ultimi istanti di vita. É strano, non mi aspettavo
che fosse cosi doloroso vederlo morire, ma mi sforzo di
ricordarmi chi è. Il carnefice della mia famiglia e di centinaia di
cinesi sta morendo davanti ai miei occhi. Mi impongo di
ignorarlo, mi rivesto in silenzio. Scivolerò fuori dalla villa
inosservata, dopo quello che è accaduto i domestici non oseranno
disturbarci prima dell’ora di pranzo e per quell’ora sarò molto
distante.
Lascio la stanza con il suo sguardo ormai vitreo, mantiene
un’espressione carica di domande, non saprà mai chi sono
realmente e perché l’ho fatto. Dopotutto sono una spia e lui, per
quando fosse l’uomo che ho imparato ad amare, era un traditore
collaborazionista. Ed io ho avuto la mia vendetta.

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IL CASO KORNHER
di Charles Huxley , GM Willo , Demiurgus , Cainos

- Capitolo 1-
Il pacco

Charles indossa il giubbotto, un vecchio pezzo di pelle marrone


malconcio, allaccia stretti gli anfibi ed esce sotto la pioggia della
sera. Sono le 23:30; a mezzanotte ha l’appuntamento col Rosso, il
pusher che gli rifornisce la roba. Sale in macchina, aziona i
tergicristalli e alza il volume dello stereo, tutto questo prima di
ingranare la marcia e partire lentamente. La città sembra già
dormire. Prende la via più lunga, per controllare se ci sono
pattuglie in giro, ma le strade sembrano deserte. Arrivato al molo,
parcheggia la macchina lontano dai lampioni, spegne il motore e
si infila la 9 millimetri nella cintura. Il Rosso sembra essere in
ritardo, come sempre, cosa che a Charles fa incazzare
terribilmente, soprattutto quando si tratta di affari. Ci vogliono
due sigarette prima che i fari illuminino la banchina. Lo stronzo è
arrivato fin qua in macchina. Il Rosso scende con in mano una 24
ore nera e ha accanto un tipo alto almeno uno e novanta.
«Sei in ritardo» Charles schiaccia in terra la terza sigaretta.
«Tranquillo amico, ero ad una festa» risponde il Rosso.
«Ti avevo detto di parcheggiare lontano, lo sai che non sopporto
queste cazzate.»
«Tu ti agiti sempre troppo, amico. Sta piovendo, che dovevo fare
bagnarmi tutto come hai fatto te? Che problema c’è? Tu ti agiti
sempre troppo… Prendi sempre le cose troppo sul serio.» Per il
Rosso è sempre tutto un gioco, sembra non rendersi conto che sta
muovendo 3 chili di bianca purissima.
«Va bene, fammi vedere la roba.» Charles sta perdendo la
pazienza, vuole andare via di là più velocemente possibile, c’è
qualcosa che lo rende nervoso.
«Ok, ok, amico, ecco qua…» Le serrature della 24 ore scattano, le

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buste sigillate aspettano in fila di essere smistate. Charles infila la
punta di un coltello a scatto in quella centrale e mette sulla lingua
un po’ di polvere. Aspra e acida, per niente amara, sembra quasi
frizzare. Non fa in tempo ad aprire bocca e il freddo del ferro gli
schiarisce le idee. Sembra che il Rosso l’abbia fregato. Sorride
davanti a lui, mentre il gorilla gli preme più forte la pistola alla
tempia.
«Bene, bene, amico… La tua roba ce l’hai. Ora dammi i soldi.» Il
Rosso l’ha fregato. Chissà quale merda ha imbustato prima di
partire. Charles sa che se non riporta la merce o i soldi a Cainos è
spacciato. L’ultimo che ha provato a fregarlo é finito sventrato
dalle palle alla gola, come un coniglio. Non ha scelta, allunga la
busta nera piena di soldi e il gorilla l’afferra strappandogliela di
mano. Il Rosso adesso sta ridendo. Charles cerca di prendere
tempo, ma nessuna idea gli viene in aiuto; la situazione è davvero
critica e lui lo sa. Tutto ad un tratto una voce. C’è qualcuno che
sta cantando. Il Rosso si volta di scatto imitato dal suo gorilla. Se
c’è un dio, allora questa volta è dalla sua parte.
Tutto accade velocemente. Charles estrae la pistola e pianta tre
pallottole nel torace del gorilla, che cade all’indietro giù dalla
banchina, finendo nell’acqua nera. Il Rosso si volta puntandogli
addosso un cannone da un chilo. Preme il grilletto. Niente, lo
stronzo ha scordato di togliere la sicura. Nei suoi occhi un lampo
di terrore, mentre Charles gli spara dritto in testa, a distanza
talmente ravvicinata da fargli schizzare via la faccia. Sangue,
cervello e pezzetti di cranio schizzano in aria, mentre il Rosso va
giù con un tonfo. Charles si gira in cerca della busta nera. Niente.
Il gorilla se l’è portata con se.

- Capitolo 2 -
Il videogioco

«È sicura questa cazzo di chat?»


«È criptata maestro, vai tranquillo…»
«Ti è arrivato l’aggeggio?»

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«Si… L’ho appena provato. Roba assurda…»
«Non m’interessa la tua opinione. Quando me lo puoi fare
avere?»
«In casi normali te lo caricherei su una piattaforma schermata, in
modo che solo tu ci possa accedere. Ma questo non è un caso
normale…»
«Certo cretino che non lo è! Portamelo stasera.»
«Con questa pioggia?»
«Fai come ti dico. Ti ho appena sparato sul conto un bonus di
2000 crediti. Ti aspetto.»

La finestra oleografica tremola solo un istante, prima di tornare da


dove è venuta. Will gli ha attaccato una cimice di sua invenzione.
Ne avrebbe seguito la scia, rivelandogli l’indirizzo.
“Ha avuto il coraggio di chiamarla chat cripitata!” pensa, mentre
il cursore forma velocemente i caratteri sullo schermo: Simon
Felipe Garcia Kornher, 205 E. 45th St. 212-867-5100.
«Dammi l’impulso dell’HGPS dell’auto» comanda la voce piatta
del Traveller, un uomo sulla trentina con i capelli arruffati e
occhiaie profonde. La sua voce è cambiata negli ultima anni. La
usa quasi esclusivamente per parlare alle macchine, scandendo
con precisione la fonetica delle sillabe.
«Caricami i dati sul deck della Ford.» Il computer annuisce con
un leggera alterazione del brusio della ventola di raffreddamento.
Will afferra la giacca in similpelle e guadagna velocemente
l’uscita. Un minuto dopo è alla guida della sua auto.
Il videogioco poteva valere una fortuna. Avrebbe potuto
guadagnarci almeno 30000 crediti, più che sufficienti a saldare il
debito con Cainos. Gli erano rimasti due giorni di tempo per farlo,
e non poteva certo permettersi di lasciarsi sfuggire
quell’occasione.
Il mondo era pieno di menti depravate, gente disposta a sborsare
qualsiasi cifra per provare le ebbrezze proibite dei Giochi-Tabù.
Un mercato sotterraneo che stava fiorendo, e che avrebbe presto
superato anche il giro degli stupefacenti.
A Will questo non gli importava un accidente. A lui serviva la

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roba, e quando non aveva liquidi, Cainos gli faceva credito. E
avrebbe continuato a farglielo, se non faceva il furbo e gli
restituiva quello che gli aveva prestato.
Il deck di bordo detta indicazioni con una voce femminea di bassa
qualità. “Lo devo aggiornare questo dannato aggeggio” pensa,
mentre imbocca una via laterale che lo avrebbe fatto piombare
addosso all’auto di Kornher. Imposta la velocità di crociera in
modo da favorire la collisione. Il puntino lampeggiante sul deck,
che indica l’auto del suo bersaglio, si muove rapidamente lungo la
strada principale. Non riuscirà ad evitare l’impatto con la sua
Ford, in corsa lungo il vicolo adiacente.
Lo stridio dei pneumatici sull’asfalto bagnato spaventa un gatto
tigrato che passa di lì. É l’unico essere vivente in circolazione. Il
paraurti rinforzato in cemento e acciaio della Ford va a colpire
esattamente lo sportello del conducente dell’altra auto, una
vecchia Cadillac verde scura. L’idea è quella di ammazzarlo sul
colpo, il topastro di merda. A Will non piace mettere mano sulle
armi da fuoco.
L’impatto scaraventa la Cadillac sul marciapiede opposto. La
Ford invece rimane dov’è, in mezzo alla strada deserta. Will non
si preoccupa neanche di spostarla. Scende velocemente e si
avvicina alla sua vittima. Riesce a vederla attraverso il finestrino
frantumato. Ha la testa poggiata sul volante e non si muove.
Il videogioco giace sul sedile posteriore. Deve essere rimbalzato
nell’abitacolo prima di depositarsi lì. Will apre lo sportello
posteriore e allunga la mano verso una custodia scura. Kornher è
ancora vivo. Lo può sentire respirare, un rantolo che non gli lascia
molte speranze.
«Mi dispiace amico. Dovevi stare più attento con quella chat!»
Will rimonta sulla Ford e accende il deck portatile. Deve
assicurarsi che il materiale sia quello giusto.
Cerca con le dita il plug sottopelle e ci spinge dentro lo spinotto.
Estrae il disco dalla custodia e lo infila nella fessura laterale del
deck. Questa se lo divora in un sol boccone.
La spinta è impietosa. Trovarsi in quella situazione non è affatto
piacevole. Bambini, urla, violenze, sesso sfrenato. Un’orgia di

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sangue e sperma in cui decine di infanti vengono seviziati ed
uccisi brutalmente. A chi potrebbe mai piacere quella roba? Quale
mente disastrata poteva reggere quegli impulsi? Ma soprattutto,
chi erano stati gli artefici di un videogioco così orripilante ed
efferato?
Will si disconnette per vomitare il suo sandwich fuori dal
finestrino. “Quella roba valeva almeno 100 testoni”, è il suo
ultimo pensiero, prima di accendere il motore e imboccare la
strada di casa.

- Capitolo 3 -
L’orco

Nella stanza 116 della clinica privata Trauma Squad, la luce


artificiale avvolge l’ambiente, conferendogli un aspetto freddo e
asettico. Kornher è tenuto in un coma farmacologico da massicce
dosi di antidolorifici e antibiotici. Il suo corpo è letteralmente
traforato di agocanule, assediato da deflussori per le flebo, il suo
volto semicoperto da una maschera ad ossigeno. Seduto al suo
fianco, incurante del categorico divieto di fumare, Popoff aspira
profondamente il suo sigaro di tabacco ogm, saturando l’aria di
fragranze tossiche.
«Svegliati! Non puoi morire… devo essere io a divorarti l’anima,
bastardo…» sibila con una voce graffiata dal troppo fumo e
traboccante d’odio.
Si alza con calma, spegnendo il sigaro sulla fronte di Kornher: il
suo battito cardiaco aumenta, la linea verde dell’ECG sembra
eccitarsi e danzare nella sua corsa folle. Vladimir Popoff soffia in
faccia a Kornher l’ultima boccata di fumo rimastagli nei polmoni
lordi di catrame, osserva soddisfatto l’ustione circolare sulla sua
fronte: gli ricorda il mirino laser della sua Sternmayer
intelligente.
La porta della stanza si apre, l’infermiera cinese spinge un
carrello bianco, dal ventre d’acciaio saturo di fiale e soluzioni
saline. «Ora uscire, prego. Medicazione…» balbetta mrs. Wong.

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«Io esco quando decido di uscire, muso giallo, io entro quando
decido di entrare. E se ti azzardi a dire a chiunque che mi hai
visto qui, fosse anche quella mezzasega che ti scopa, ti caccio in
culo quella siringa che stringi nelle mani.»
Mrs. Wong indietreggia, finendo per sbattere la schiena contro la
porta. Popoff le si avvicina, guardandola come una vipera scruta
un topo prima di inghiottirlo. «Ci siamo capiti?»
Le sfiora un seno, annusando il suo profumo al muschio bianco.
«E cambia profumo: questa merda zen appesta.» Poi la scosta con
forza dalla porta. Nel volto di mrs. Wong la paura è mista al
disprezzo, ma un occidentale non avrebbe mai fatto caso alla
differenza delle sue espressioni. Per Popoff sono tutte uguali,
bambole cinesi usa e getta, buone solo per uno cazzo di snuff.
Appena Vladimir lascia la stanza l’Orco gli appare davanti. Un
terrore riverenziale lo invade, la vipera non si era accorta
dell’aquila che volteggiava sopra la sua testa. L’Orco si avvicina
al suo sgherro con un sorriso diabolico, la sua voce taglia il
silenzio del corridoio, illuminato da gelidi neon.
«Hai notizie della merce?» chiede, senza smettere di sorridere.
La cravatta spunta dalla giacca come una lingua cadaverica, le
mani, invece, sono nascoste nelle grandi tasche del cappotto,
30.000 €$ di artigianato nanotecnologico.
Popoff non riesce a parlare: l’Orco non tollera fallimenti. Non è
colpa sua se Kornher non si è ancora svegliato. Era già un fottuto
miracolo che non fosse morto. Ma all’Orco non importa, l’unica
cosa che ha importanza è la merce.
«Non ancora capo, quello stronzo è imbottito di farmaci e non si è
ancora svegliato…» L’Orco piega il collo, poi la sua mano destra
scatta come una frusta, avvinghiando la trachea del russo come un
cappio d’acciaio.
«E allora sveglialo…» ruggisce.
«È impossibile, la cinese lo sta medicando, proprio ora…» tenta
di replicare Vladimir, ma la stretta gli stronca la voce e la
carotide. Il russo cade al suolo, emettendo orribili gemiti,
soffocati dall’orrenda mutilazione. Poi l’Orco estrae dalla tasca
anche l’altra mano, rivelando un cannone d’acciaio lucido e

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polimeri plastici: Popoff tenta di urlare, ma nessun suono esce
dalla sua gola spaccata, mentre un proiettile grande come una
biglia gli spappola il petto. «Risposta sbagliata!» sospira l’Orco,
senza alcuna emozione. Poi la signorina Wong spalanca la porta,
ma non riesce a realizzare l’accaduto: un secondo proiettile solca
l’aria, centrandola in piena fronte. «Azione sbagliata!» conclude
l’Orco, prima di uscire indisturbato dalla clinica, mentre le
telecamere tentano inutilmente di registrare la sua immagine,
schermata dal cappotto olografico griffato Mitzuni. Entra poi
nella sua limousine, salutando con un sorriso Mara, la sua baby-
puttana.
«Hai trovato cosa cercavi, paparino?» chiede la bambina con aria
ingenua. L’Orco le accarezza il mento: «Adesso si, piccola mia…
al resto ci penserà il Segugio.»
L’autista mette in moto il mostro di metallo e, mentre il cerca-
persone del Segugio inizia a suonare, Mara apre la zip del suo
paparino.

- Capitolo 4 -
Il Boss

I soldi cominciavano a girare, gli affari cominciavano a girare, e


come di consueto, in perfetta simmetria, anche le palle
cominciavano a girare per i problemi.
Era passato un bel po’ di tempo da quando il suo ruolo era quello
di factotum del signor Zusetstu Takanawa, influente boss della
malavita cinese di Sun-City. Ne era passato di tempo da quando
da sotto gli occhiali scuri spiava i movimenti della bellissima
figlia, Trisha Takanawa… e poi quel titolo sul giornale. “Trisha
Takanawa è morta!!!”
«È morta signore… signore mi sta ascoltando?»
Distratto dai suoi pensieri, i suoi occhi dietro gli occhiali scuri
vedono nuovamente l’ufficio ancora in allestimento, la sua mano
percepisce di nuovo il freddo legno in mogano della sua scrivania.
Lo splendido volto di Trisha Takanawa viene sostituito da quello

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del fedele sgherro.
«Chi è morta?» chiede Cainos con voce pacata.
«La nostra agente, quella che avevamo infiltrato nella clinica, la
Trauma Squad, con il compito di monitorare e prelevare le dovute
informazioni da Kornher, una volta ripresosi.»
Lo stupore è d’obbligo. Kornher gli doveva dei soldi. Mezza Sun-
City doveva soldi a Cainos, e l’altra metà era quella che dormiva
tranquilla.
«E in che modo siete riusciti a dispensarla da quella tremenda
dipendenza da ossigeno che la tormentava, in una missione di
copertura talmente semplice?»
«Signore, sembra che ci siano stati dei problemi inaspettati…» la
voce dello sgherro comincia a tremolare. Non era mai buon segno
quando diveniva sarcastico, il boss.
Cainos torna a riflettere, a parlare fra se ad alta voce “…ci sono
stati dei movimenti a nostra insaputa, movimenti importanti da
attirare così tanta attenzione per una semplice consegna…” e
continuando a parlare alza la mano destra, che fino a quel
momento era rimasta adagiata sulla scrivania. Nel movimento un
luccichio colpisce l’occhio dello sgherro, che intravede in quella
mano un lucente rasoio dal manico d’argento e la lama in freddo
acciaio.
«Non dobbiamo disperare, signore» deglutisce, suda, balbetta.
Nel frattempo il suo probabile carnefice ammira la lucentezza del
suo gioiello.
«Ritengo che nessuno abbia sospettato che fosse una dei nostri, e
che nessuno possa risalire a noi…»
Lo sgherro tenta in tutti i modi di assumere un’espressione
rilassata, e ridacchiando abbozza una battuta.
«Ritengo che si sia trovata nel posto sbagliato nel momento
sbagliatissimo, e che quindi ne abbia subito le conseguenze.»
«Ritieni?»
Il tono non presagisce niente di buono. Nervosamente si appresta
ad aggiungere: «Si signore, inoltre Kornher è ancora vivo,
possiamo sempre riprendere i suoi soldi, cioè i tuoi soldi. Anzi,
adesso sappiamo che c’è qualcosa di più dietro e potremmo usare

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le dovute precauzioni…» questa volta il tono è più risoluto.
«Si, potremmo!»
«Forse è la strada giusta. La perdita è stata minima, la ragazza
uccisa era della vecchia guardia dei Takanawa, una cinese alle
prime armi…» Un flash irrompe nella mente di Cainos. Quel
nome rievoca l’angelico volto di Trisha, la sua pelle di porcellana.
«…se riflette Signore si è dimostrata una pedina sacrificabile, che
ha compiuto un ottimo lavoro. Con la sua morte ha rivelato un
complotto inaspettato.»
«Basta così, hai ragione, mi hai convinto, rimaniamo con il piano
prestabilito. Metti un’altra infermiera a sorvegliare Kornher e
piazza un uomo a sorvegliare lei. E ricordati che questa volta sei
ufficialmente responsabile.»
«Certo signore. Potrei consigliarle di utilizzare…»
«No, non consigliare, non voglio uno dei nostri. Voglio uno al di
fuori, uno che non possa essere ricondotto direttamente a noi.
Puoi utilizzare Charles. Al momento sta gia portando avanti un
affaruccio per nostro conto.»
«Certamente signore» sono le sue ultime parole, prima di
scomparire per sempre dalla vista del boss.
“Tuuuuuuuu… Tuuuuuuuuuu… Tuuuuuuu…” il telefono da
libero.
«Pronto Charles, ho un altro lavoro per te, non appena avrai finito
con quella consegna. Uno dei miei sta venendo da te a darti i
dettagli, senti cosa ha da dirti. Se sei ancora interessato a lavorare
per me a tempo pieno, e ti consiglio di esserlo, si potrebbe
liberare un posto… Il suo.» Click.

- Capitolo 5 -
Lavoro sporco

«Maledetto figlio di puttana.» Charles sputa sul corpo senza testa


del Rosso, il cellulare stretto nella mano sinistra mentre nella
destra ancora fuma la 9 millimetri. I biglietti verdi galleggiano
nell’acqua nera, ormai zuppi. Si allontana velocemente da quel

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delirio di carne e sangue, monta in auto e parte sgommando.
«Cosa cazzo racconto a Cainos adesso? Quel cinico psicopatico
mi sventra se non gli riporto indietro qualcosa.»
Charles poggia l’indice sulla serratura scanner e rientra in casa.
Getta il giubbotto a terra e si siede sul divano nero. Si rialza
veloce, nervoso, come un topo in gabbia, afferra di nuovo il
cellulare. Se non si calma lo spezzerà. Compone il numero di
Shag, mentre ringhia allo specchio. «Pronto?» Qualcuno dovrà
prendersi il pacco stasera, e non sarà certo Charles.
«Shag, sono io. Hai 9000 crediti da investire?» Solo lui potrebbe
trovarli così in fretta, in una serata soltanto. Solo quella piccola
sanguisuga può toglierlo dai casini.
«9000 K? Una bella cifra amico… Cosa hai da propormi?»
«Vieni qua. Subito.» Charles sa che entro tre ore Shag e almeno
un paio dei suoi saranno lì, invaderanno casa sua con le loro
catene d’oro e le puttane strafatte di cui il bastardo si circonda
sempre. Si avvicina all’armadietto, sceglie la più forte delle tre
fiale e si prepara. La siringa attende pronta sul bracciolo del
divano, Charles stringe forte il laccio, facendo risaltare le sue
vene martoriate. Infila l’ago, mentre la vena pulsa ad ogni goccia
di Black Lace che inietta. La roba entra veloce in circolo mentre
la mascella di Charles si serra. Schiuma verdastra gli cola dai lati
della bocca, la pupilla, sempre più piccola, diventa la punta di uno
spillo, mentre la musica del riproduttore sembra voler sfondare le
casse.
Il campanello squilla, Charles inspira profondamente ed apre la
porta. Shag insieme a due coglioni ricoperti d’oro entrano nella
stanza seguiti da una troia dai tacchi vertiginosi. «Allora Charlie,
cosa mi vuoi proporre?»
«Odio quando qualcuno mi chiama Charlie… Lo sai?» Due buchi
nel petto al primo stronzo. Black Lace danza nel sangue
contraendo i muscoli in spasmi dolorosi. Charles è veloce,
velocissimo, prima che il secondo negro capisca cosa succede ha
già la lama dentro la carotide. Black Lace aiuta… Black Lace
danza veloce. Charles neanche si accorge che alla mano con cui
teneva il coltello mancano una paio di dita, spappolate da un

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proiettile appena sparato. Charles tira il grilletto… Può poco con
la pistola scarica, in tutto il casino non si è ricordato di ricaricarla.
Mentre la troia urla, Shag gli spara ancora una volta. Lo manca.
In un secondo salta addosso al negro, mentre la mano sinistra
zampilla sangue Charles addenta forte il collo del ricettatore. La
mascella si serra stretta, i muscoli tesi dalla droga sintetica come
cavi d’acciaio. Un gorgoglio accompagna la morte di Shag, non
prima del terzo sparo che gli centra la coscia. Niente, nessun
dolore. Black Lace fa il suo dovere. Charles si volta verso la
ragazza. «E ora troia, è il tuo turno.»

- Capitolo 6 -
Cannibal Party

Il videogioco si chiama Cannibal Party. A Will gli tremano le


mani quando risale in superficie, dopo aver esplorato le ultime
videoteche dello sprawl. Un prodotto Shikoku, ideato e redatto
dall’illustre mago dei Giochi-Tabù, Hideyoshi Kimura.
Nel sottosuolo c’è molto fermento a riguardo. Alcuni dicono che
si tratti un autentico snuff, altri che sia totalmente digitalizzato, e
che Kimura non esista nemmeno. La solita manovra economica
della Shikoku per far salire il prezzo del prodotto. Ogni tanto
rispolverano un vecchio nome, e Kimura è sempre stato il loro
cavallo da battaglia.
La leggenda vuole che il sadico programmatore giapponese usi
mettere in scena il girato, che poi trasforma in videogioco, in un
ingegnoso lavoro di post produzione. Il risultato è ovviamente dei
più realistici.
Cannibal Party incomincia con una classica scena di violenza
hard-core perpetuata ripetutamente su dei bambini. Il set è una
casa ottocentesca; tende di velluto color porpora e lenzuoli
bianchi dappertutto, per far risaltare il sangue sprizzato dai
corpicini dilaniati. L’escalation è ovviamente verso il basso. Si
parla di iniziazione alla demonizzazione, attraverso ripetuti
rapporti carnali con infanti e susseguenti smembramenti. L’ultima

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scena è un banchetto sontuoso in cui i bambini uccisi vengono
divorati in più portate.
La recensione turba così profondamente il Traveller che un
minuto dopo il distacco è già sul divano ad iniettarsi un po’ di
tranquillità. Si chiama Blue Marine, leggera come le onde del
bagnasciuga e profonda come gli abissi. Will ascolta il suo corpo
galleggiare verso il largo, in un torpore cosmico che gli restituisce
un minimo di divinità. Al risveglio è intontito e già in piena
astinenza. La Blue Marine è quasi finita, e Cainos non lo rifornirà
mai se prima non gli riporta i suoi soldi.
Le serrande sono abbassate, ma una luce intensa penetra
violentemente dai lati. È tornato il sole, pensa Will, mentre si
prepara il caffè. La custodia del videogioco giace distrattamente
sul tavolo della cucina. Il disco è ancora dentro al processore.
Will afferra la custodia ed è preso da un irresistibile tentazione;
gettare via tutto, far sparire quella follia, prodotto di menti
depravate. Ma Cainos non gliela avrebbe fatta passar liscia. Non
gli avrebbe concesso altro tempo. E poi lui di tempo, senza la sua
cara amica blu, non gliene rimaneva molto.
Il gorgoglio del caffè lo riporta sulla terra. C’è qualcosa di strano
nella custodia. È priva di copertina, ma è rivestita di plastica
trasparente per inserircene una. Sotto il cartoncino scuro spunta
l’angolino di un post-it giallo. Will lo estrae con cautela. Un
nome, un indirizzo, un numero di telefono.
Vladimir Popoff.

- Capitolo 7 -
Tanto va la gatta al largo…

La signorina Wong giace a terra, riversa nel suo stesso sangue. Il


camice da infermiera orribilmente imbrattato, lo sguardo perso
nel vuoto, incredulo, come stupito. Anche Vladimir è a terra. Solo
il neon del corridoio conferisce movimento alla scena, quando
decide di sfarfallare un po’, prima di esaurirsi completamente.
«Ci mancava anche questa…» mugugna il detective, gettando a

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terra la sua sigaretta senza nicotina. La sua squadra è al lavoro da
almeno due ore: il fotografo avrebbe potuto realizzare un
calendario macabro con tutti gli scatti che aveva prodotto. In rete
avrebbe sicuramente venduto più di una edizione a basso costo
dell’enciclopedia duecani.
Le due giovani reclute della polizia di Sun-City stanno ancora
tentando di inserire i due corpi nelle body-bag, lottando con i loro
conati. È la prima volta che recuperano due corpi per il
dipartimento scientifico. Il primario del Trauma-Squad osserva in
silenzio la scena del crimine, accanto al detective, con le braccia
conserte ed un espressione preoccupata.
«Non va bene…» borbotta. «Se la stampa venisse a saperlo
perderemo credibilità, detective… è necessaria la massima
discrezione…»
Il detective Anderson si volta verso il primario, legge il suo nome
sul tesserino, osserva il suo taschino ricolmo di strumenti medici
e tre penne da 2000€$ l’una.
«Dottor Kaboto, una sua collega è morta… e lei si preoccupa del
suo reparto?» Il primario non si scompone. «Tutti moriamo.
Questa è una clinica privata, la morte fa parte del nostro lavoro.»
«Potrebbe essere lei il prossimo, dottore… neanche questo la
preoccupa?» Questa volta il dott. Kaboto deglutisce, sbattendo
ripetutamente le palpebre, un vecchio tic adolescenziale.
«E perché dovrei?» balbetta. «Non ho nemici…»
Il detective allora lo incalza. «A quanto sembra, la sua infermiera
ne aveva eccome… o forse è solo capitata nel posto sbagliato al
momento sbagliato, ma io non né credo al caso né alle
coincidenze…»
Il dott. Kaboto ascolta in silenzio, nervoso…
«Ho bisogno di sapere tutto sul paziente della stanza 116 e sulla
signorina Wong, oltre alle registrazioni delle telecamere di
sicurezza, ovviamente…»
Il dottore conduce il detective Anderson nella sala di
sorveglianza, un loculo dalle pareti ricoperte di schermi, una
piccola scrivania, ed un agente privato che sonnecchia annoiato su
una sedia di alluminio. Al loro ingresso la guardia assume

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l’espressione più intelligente che riescea simulare, si alza in piedi,
aspettando sull’attenti le richieste del dottor Kaboto.
«Consegni al detective Anderson le memorie del reparto 7, ala C,
stanza 116, tutte le registrazioni, comprese quelle in archivio.»
«Ricevuto dottore, ma devo avvertirla che non troverà molto,
detective. Qualcuno ha disturbato la ricezione con qualche
tecnologia cinese. Roba cazzuta, per almeno cinque minuti ho
pensato ad un guasto al sistema di video-sorveglianza.»
«La procedura standard obbliga a suonare l’allarme dopo trenta
secondi di guasto al sistema, agente. Anche questo finirà sul
rapporto, dottor Kaboto, dovrebbe scegliere meglio i suoi
collaboratori…»
Il dottore fulmina con lo sguardo la guardia privata, ma non
aggiunge altro. Intuisce che è solo un ricatto per estorcere
informazioni normalmente riservate o coperte dal segreto
professionale. «Cosa vuole sapere, detective?» conclude con voce
rassegnata il dottore.
«Voglio ogni fascicolo, ogni cartella, ogni appunto, della
signorina Wong e del paziente della 116. Non abbiamo molto
tempo, dottore, quelli della scientifica stanno aspettando i
cadaveri per l’autopsia e per i rilevamenti.»
Il dottore si direge verso la porta, la apre facendo un cenno al
detective. Poi, senza neanche voltarsi verso la guardia, pronuncia
le parole «Lei è licenziato.» E chiude dietro di se la porta.
Dopo qualche ora i due corpi giacciono in altrettanti lettini di
metallo, con un cartellino agli alluci dei piedi ed un lenzuolo
bianco come sudario. Le scansioni hanno rilevato le impronte
digitali dell’uomo sul camice della donna, all’altezza del seno, le
stesse ritrovate sul sigaro che aveva bruciato la fronte del paziente
della 116. Evidenti segni di strangolamento sono stati osservati
sul collo dell’uomo, tale Vladimir Popoff, pregiudicato, con una
lista di reati da far accapponare Jack lo squartatore.
Incrociando i dati rilevati sulla scena del crimine, le tracce
lasciate dall’infermiera e da Popoff, l’agente Anderson
ricostruisce tassello per tassello la scena, fermandosi di tanto in
tanto a riflettere, aspirando la sua ennesima sigaretta salutista.

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Le dita scorrono veloci sui due terminali del suo studio. Volti,
facce, rapporti, si intrecciano come i pezzi di un puzzle
misterioso: era quello che gli piaceva del suo lavoro, quell’opera
di scoperta, l’ordine che emergeva dal caos. Non gli importava
della pena che eventualmente avrebbe inflitto al colpevole: era
solo una sfida, una lotta contro il caso, una missione personale.
«Rapporto: la signorina Wong non risulta residente in nessun
paese della confederazione, né iscritta a nessun database digitale o
ad alcuna scuola per infermieri, dottorati di ricerca, associazioni
del cyberspazio o nella banca dati della polizia di Sun-City.»
Spenge la sigaretta nel posacenere di metallo.
«Vladimir Popoff…» aggiunge, espirando l’ultima boccata di
fumo «risulta invece collegato ad una fitta rete criminale, che
opera in vari settori della malavita organizzata. Dalle indagini
degli agenti Fargo e Roswell, entrambi deceduti due mesi fa in
servizio, la rete è governata da un individuo senza scrupoli che si
fa chiamare l’Orco… voci di corridoio legano questa cellula alla
produzione di videogiochi illegali e ad una lista impressionante di
reati.»
L’agente Anderson cerca un’altra sigaretta, ma il suo pacchetto è
ormai vuoto. Sbuffa… «Qualcosa non torna… C’è puzza di affare
andato a monte… E solo il paziente della 116, Kornher, anche lui
pluri-pregiudicato, potrà fare luce su questa vicenda.» Spenge il
registratore, alza la cornetta del videotelefono interno. «Capo…
si, ci sono novità. Ho bisogno di una squadra… si… no…
perfetto, loro andranno benissimo… dobbiamo piantonare la
stanza 116: Kornher è l’unico che può darci informazioni…
perfetto… le farò sapere… grazie per la fiducia…»
Il sole cala su Sun-City, nascondendosi dietro i grattacieli,
formicai di metallo, freddi come il cuore dei suoi abitanti.
“Questa volta ci lascio le penne…” sospira Anderson.
Poi scopre un mozzicone di sigaretta abbandonata nel posacenere:
due, tre boccate al massimo… “Abbastanza” pensa, ed il sapore di
sinte-tabacco rende meno amaro il suo nefasto presentimento.

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- Capitolo 8 -
Una spiacevole sorpresa

La stanza è completamente ricoperta di sangue. La puttana di


Shag anche, con la gola squarciata e la lingua sporca di sperma
che penzola dal taglio. Cravatta colombiana. Charles prepara
nuovamente una siringa, questa volta carica di nanochirurghi.
L’effetto della Black Lace sta finendo e il dolore comincia a farsi
sentire. Su di un panno sporco di sangue c’è la pallottola e
l’accendino con cui ha sterilizzato alla meglio il coltello. Sul
megaschermo l’orgia continua, mentre una donna asiatica viene
sodomizzata con un bastone elettrico, le urla si confondono con la
musica che non ha smesso per un attimo di riversarsi dalle casse
dello stereo. Appartamento insonorizzato, i soldi spesi meglio in
assoluto. Charles si rilassa sul divano accanto al corpo di Shag. I
nanochirughi cominciano il lavoro, la mano smette di sanguinare
e lentamente Charles riprende il controllo di se. Passano i minuti.
Va già meglio…
Afferra il telecomando e richiama l’hi-fi al silenzio. Respira…

“Mi è andata proprio bene questa volta” pensa lo scagnozzo una


volta uscito dall’ufficio di Cainos. “È chiaro che il capo comincia
a tenermi in considerazione, o semplicemente si è accorto che non
è colpa mia, in effetti cosa avrei potuto fare? Meglio non
pensarci, anzi posso scaricare la patata bollente a quel fallito
drogato di Charles, che se la veda lui.”
Così continuano i suoi pensieri e le sue illusioni, mentre
attraversa la parte ricca della città per avvicinarsi alla terrificante
periferia di Sun-City, che di sole ha ben poco. Passa un paio di
quartieri senza notare niente di strano. È una di quelle serate
tranquille, si trova ancora ai margini della reale periferia. Charles
si è sistemato in una zona con case autonome, segno evidente che
non se la passa poi così male.
Ecco la porta, parcheggia la macchina e si avvicina
tranquillamente, suona il campanello ma nessuno risponde. Suona
e chiama ma la risposta è sempre la stessa. Origlia alla porta ma

100
non sente nessun rumore, gira il pomello e la porta si apre, chiede
permesso ed entra.
“C’è Charles in piedi che ansima, ecco perché il silenzio.”
“C’è Morte sul tutto il pavimento, ecco da dove viene il sangue
che ha addosso.”
“C’e’ Black Lace nel suo corpo, ecco perché tutto questo casino.”
“C’è uno sconosciuto davanti a lui, ecco perché sono morto.”

Il fischio dei polmoni sotto sforzo lentamente si assottiglia,


sebbene lo stordimento sia sempre forte, e la ragione torna a
prendere la sua posizione nella rispettiva zona del cervello.
Charles si guarda attorno e non può che provare disgusto per
quello che ha fatto, non può che provare disgusto per il sapore di
sangue e i lembi di carne strappata che ha in bocca, non può che
trovare conforto per il denaro che ha recuperato.
Adesso deve stare tranquillo, deve fare rilassare il corpo,
metabolizzare la droga, sorbirsi i laceranti crampi allo stomaco
per le restanti due ore; la Black Lace da anche questo. Decide di
sdraiarsi comodamente sulla poltrona, penserà dopo a sistemare
tutto quel casino, adesso solo relax, deve stare quieto, e fare
pensieri quieti. Basta anche con Cainos. Si basta! Paga bene ma è
troppo rischioso. Ha troppi nemici e ci sono altri farabutti a Sun-
City a cui offrire servizi, e i loro nemici non sono mai così audaci.
“Si, è la cosa più giusta da fare, la più quieta… respira, inspira,
respira, inspira, rilassati, apri gli occhi, la luce intermittente della
segreteria telefonica, qualcuno deve avermi chiamato quando ero
fuori.”
Click – Pronto Charles, ho un altro lavoro per te, non appena
avrai finito con quella consegna. Uno dei miei sta venendo da te a
darti i dettagli, senti cosa ha da dirti. Se sei ancora interessato a
lavorare per me a tempo pieno, e ti consiglio di esserlo, si
potrebbe liberare un posto… Il suo. – Click
Una fiammata al volto, di scatto lo sguardo al pavimento; Shag,
due negri e la troia… No, non solo, c’è anche un uomo in giacca e
cravatta giusto all’entrata, sdraiato prono sul pavimento ma col
volto che guarda innaturalmente il soffitto; ha un’aria sorpresa,

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comicamente sorpresa.
Un lacerante dolore allo stomaco… No, non e’ la Black Lace. È
ancora troppo presto. Questa è un’altra cosa; si chiama Angoscia!

- Capitolo 9 -
La trappola dell’Orco

La cimice si era fatta strada attraverso chilometri di fibra ottica,


per penetrare nel processore di Kornher e rivelarne la locazione.
Ne poteva usare solamente una, per questo non aveva potuto
rintracciare il compratore. Ma quel foglietto giallo apriva mille
nuove possibilità.
Will si accomoda sulla sua sedia di vimini reclinata, il volto a
pochi centimetri dallo schermo olografico. In mano tiene il post-it
con l’indirizzo.
«Cercami Vladimir Popoff, 5 W. 15th St. 212-347-8281.»
Il disco inizia a grattare, come infastidito dal comando. La voce
del deck annuisce con un suono sintetico, proveniente da un unico
speaker montato sulla parete.
«Localizzato.»
Ci sono cose che la voce non può ordinare ad una macchina. Will
estrae da sotto la sedia la sua tastiera wireless e incomincia a far
danzare le sue dita sopra le cinque file di tasti neri. Il deck del suo
obbiettivo è spento, segno che il depravato è fuori, ma gli bastano
un paio di comandi per rimetterlo in funzione. Dopo di che tutta
la storia del signor Popoff è a sua completa disposizione.
Venti minuti più tardi Will si è già reso conto che quel contatto
non è altro che un mediatore, un pesciolino insignificante
nell’oceano della malavita di Sun-City. Se voleva piazzare il
videogioco doveva contattare direttamente il compratore. Doveva
cercare più a fondo…
«Esplorami l’Orco.»
Quel nome rimbalzava in molti files che Vladimir aveva cercato
maldestramente di criptare. Di sicuro doveva trattarsi di un
personaggio importante, con tutta probabilità colui che voleva il

102
videogioco e che aveva ingaggiato Popoff per trovarglielo.
Rimette a posto la tastiera ed allunga le sue ossa annichilite,
cercando un po’ di sollievo. Aspetta la risposta dallo speaker. Un
nome vero, una strada, un numero. Qualsiasi cosa può andar bene,
ma l’altoparlante rimane muto. Will chiude gli occhi. È alla
ricerca di un luogo tranquillo nella sua testa, per combattere il
desiderio impellente della sua amica blu.
Quando li riapre si accorge che ha appena commesso un grave
errore. Dati perlopiù indecifrabili scorrono veloci attraverso lo
schermo olografico. Le finestre sono andate, il cursore pure.
Dannazione, pensa Will mentre riafferra la tastiera. Gocce di
sudore gli imperlano la fronte. I comandi non rispondono, la
cascata ininterrotta di numeri e simboli diventa sempre più
incomprensibile.
«Rimuovi, rimuovi!» La voce non è più quella quasi sintetica che
ha l’abitudine di utilizzare con la macchina. È fin troppo chiara la
nota di terrore con cui pronuncia quelle due parole.
Will si alza velocemente dalla sedia, catapultandosi verso
l’interruttore generale. STACK! La stanza sprofonda nel buio
rotto solamente dalla luce esterna, che continua a penetrare le
serrande abbassate. La ventola del processore decelera fino a
fermarsi. I led diventono gli occhi morenti di creature aliene.
Will voleva trovare l’Orco, ma come succede nelle favole, era
stato l’Orco a trovare lui.

- Capitolo 10 -
Convergenze

Mara rimette a posto gli oggetti di paparino, quelli che stimolano


e a volte lasciano segni, lividi, graffi e tracce indelebili
nell’intimo. Nella megasuite dell’Hilton Hotel le tende color
porpora giocano con i riverberi delle candele, sparse per tutta la
stanza. Incenso e musica zen, come piace a lui. Mara è dolce e ci
sa fare; gli ricorda la cinesina, l’unica donna che è riuscita a
scalfire il cuore dell’Orco. Trisha Takanawa.

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Ma gli orchi non si possono permettere gli affari di cuore.
Strapparle la vita fu il dolore più grande, il piacere più sottile.
Dolcissima Trisha, pensa, mentre la sua nuova baby si avvicina al
plasma. Ci danza un po’ in controluce, mentre scorrono le
immagini di “Jungle”, produzione sudamericana, piccolo budget
uguale grande film. Sullo schermo una ragazza indigena viene
seviziata ripetutamente da un branco di archeologi bianchi. Mara
è sensuale con le sue non-forme. Ha il corpo di una dodicenne e la
mente di una di cinquanta. L’Orco ha un’altra erezione. Ha un
membro che fa paura, risultato di molteplici operazioni di
extension, ma la sua bambina sa come accoglierlo. Anche lei è
stata sottoposta a numerosi interventi di “incavamento”. Sono
fatti l’uno per l’altra.
Il telefono squilla. Non si può disturbare l’Orco in momenti come
quello. Afferra il cellulare per scaraventarlo dall’altra parte della
stanza, ma il nome che vi lampeggia sopra lo fa bloccare. È il
Segugio.
«Prega di avere buone notizie, perché non amo essere disturbato
quando Mara balla per me.»
«Sono stato da Kornher, e poi a casa sua. Maldestro, il ragazzo.
Qualcuno deve averlo fregato mentre portava la merce al tuo
sgherro. Qualcuno che ci sa fare con i computer, ma non tanto
quanto me.»
«Hai un nome?»
«Di più. Ho un indirizzo: Will Coston, 16 O. 22th St. 212-332-
5459.»
«Ottimo lavoro!»
L’erezione è andata a farsi fottere, ma presto ne avrebbe avuta una
ancora più grande.
«Aspettami qui piccola. Tornerò con un gioco nuovo…»

L’agente Anderson ritorna sulla scena del delitto, e questa volta è


un massacro. Tre corpi dentro la stanza di Kornher, due alla porta
e uno nel corridoio. Lo riconosce subito, è quello del dottor
Kaboto. Il killer è entrato dalla finestra, ha fatto saltare le cervella
ai due agenti che tenevano d’occhio Kornher, uno di quelli nel

104
corridoio ha provato ad entrare ma è stato freddato subito, poi
deve esserci stata una breve sparatoria. L’uomo usava proiettili
Killer-Pool, quelli che rimbalzano sulle pareti. Non gli è stato
difficile eliminare gli altri due agenti. Una pallottola deve essere
rimbalzata un po’ nel corridoio, fino a esplodere nella testa del
primario.
Kornher giace privo di vita nel suo letto. Ha una siringa piantata
nel braccio e non appartiene alla clinica. Il killer lo ha fatto
parlare con una dose fatale di Boost, roba da servizi segreti.
Anderson in pochi secondi ricostruisce la scena nella sua testa.
Maledice se stesso e tutta Sun-City. Poi si scaraventa nel
corridoio verso la sala di sorveglianza e s’imbatte in un settimo
cadavere; è quello della guardia.
Entra nella stanza delle registrazioni, non aspettandosi di trovare
nulla. Ma forse il killer non ha perso tempo. Chiede al terminale i
footage dell’ultima mezz’ora e… bingo! La faccia dell’uomo non
dice nulla, ma un fotogramma della telecamera del parcheggio
può bastare. Anderson esce dalla clinica con l’unico indizio che lo
mantiene in gioco; un numero di targa.

Will sa che se vuole salvarsi non può nascondersi, non con


personaggi come Cainos o l’Orco. Se vuole avere una minima
possibilità deve rischiare. Riaccende il deck e inizia a scavare.
Incrocia nomi, dati, facce, indirizzi. Ha bisogno di qualcosa.
L’informazione è potere… Trisha Takanawa, è lei la chiave.
Il vero nome dell’Orco è Theoderich Forsbach, di origine
tedesche. Dieci anni prima lavorava a fianco di Juri Gazdik per il
noto boss nippo-cinese Zusetsu Takanawa. Gazdik è il vero nome
di Cainos. Insieme hanno arrecato terrore nelle strade di Sun-City,
fino al giorno in cui Juri scoprì che il suo amico se la faceva con
la sua donna; Trisha… L’odio di Gazdik divenne follia quando la
figlia del boss venne trovata decapitata nel letto di Forsbach.
Passarono gli anni e i nome cambiarono, le facce vennero alterate
dagli interventi chirurgici, ma nel sottosuolo della matrice si
possono rinvenire le storie che ancora non hanno una fine. Questa
è una di quelle.

105
«Pronto Cainos?»
«Will, che piacere risentirti. Hai i miei soldi?»
«Si, e forse qualcosa di meglio….»
«Attento pesciolino, non giocare con gli squali…»
«Theodorich Forsbach.»
«Cosa?»
«Ti aspetto. Click.»

Charles è sotto la doccia quando sente squillare il telefono. È


tentato di non rispondere. Vuole andarsene, scappare più lontano
possibile dal macello che ha appena compiuto. Ma i dolori
ritornano insieme al desiderio di lei. Black Lace, dove sei?
La segreteria scatta. Charles spegne il getto d’acqua per ascoltare.
È la voce di Cainos.
«Charles, lascia perdere tutto e precipitati sulla ventiduesima;
Will Coston. Ti aspetto sotto casa sua. Ah, dimenticavo, portami i
soldi. Ho una sorpresina per te, roba di prima qualità. A dopo.»
Charles esce dal bagno. Il salotto assomiglia a una macelleria
poco pulita. Apre l’armadio; pantaloni, maglietta, giacca, scarpe,
tutto rigorosamente nero. Il cannone è carico. Si riparte.

- Capitolo 11 -
Sensazioni…

Will continua a rigirarsi tra le mani il dischetto. Sulla liscia


superficie argentata non c’è neanche un segno, una parola che
possa minimamente ricondurre a ciò che contiene. È una copia
pirata, ovviamente. Presto saranno qui. Non sa in che ordine, ma
saranno qui, tutti quanti. Tanto vale finirsi la scorta, pensa. Un
tuffo nel mare blu, sempre più giù, sempre più giù…
Driin! Driin!
È Cainos, insieme a quel pazzo di Charles. Si accomodano in
salotto. Hanno due cannoni lucidi e pronti a scattare. Cainos non
tollera stronzate. Charles ha negl’occhi la follia dell’astinenza.
«Parla, pidocchio!»

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Will deglutisce, ma l’amica blu gli da una mano. Afferra la
custodia del videogioco e la mostra ai due.
«Prima di tutto vorrei saldare i conti. Questo videogioco vale
almeno centomila crediti…»
«E che cazzo ci faccio io con un videogioco?» ride Cainos.
Charles gli va dietro.
«Va bene, se mi dai un po’ di tempo te lo piazzo io…» continua il
Traveller.
«Dove lo hai preso?»
«Oh, un lavorino di hacking. Ce l’aveva un fesso di nome
Kornher…»
Cainos scatta come la corda di una arco, punta il pistolone alla
tempia di Will, freme, quasi non riesce a controllarsi.
«Allora sei stato tu a ridurre Korher così!»
«Che cazzo succede?»
«Kornher mi deve dei soldi, e tu mi vorresti piazzare la roba che
gli hai rubato?»
Will ha fatto male i suoi calcoli, ma ha ancora da giocare
un’ultima carta.
«Ok, ok… Parliamo di Theodorich Forsbach.»
«Si, parliamone…» la voce di Cainos è il bisbiglio di un demone.
«È l’Orco.»
«Cosa?»
«Quel depravato che si fa chiamare l’Orco. È lui!»
«Se mi stai dicendo una stronzata ti giuro che il mio amico
Charles qui ci metterà intere settimane ad ammazzarti…»
«Sta venendo qui…»
«Cosa?!!»
«Non sa che siete qui. Pensa che io sa da solo. Potete fotterlo…»
Il dito di Cainos s’irrigidisce sul grilletto. Una linea indefinibile
separa Will dal sonno più lungo.
Driin… Driiin… Driiiiiiiiiiiin!
«È lui!»
Poi incomincia l’olocausto.
L’Orco irrompe nell’appartamento preceduto dal Segugio e un
secondo sgherro. Charles si muove veloce, nonostante la ferita

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alla gamba. Fa secco lo sgherro e poi si mette al riparo dietro il
sofà. La pistola di Cainos è in traiettoria verso la porta. Non
spreca il vantaggio, anche se il colpo deve passare attraverso il
cranio del povero Will. Ferisce il Segugio e poi trattiene il corpo
del Traveller per usarlo come scudo.
Intanto due proiettili Killer-Pool sparati dal Segugio rimbalzano
freneticamente nella stanza. Uno colpisce di striscio Charles, che
impreca e manda tutti a farsi fottere. Rinuncia al riparo e scarica il
cannone addosso ai bastardi. È una mossa azzardata. La testa del
Segugio esplode, ma l’Orco ha tutto il tempo di mirare al suo
bersaglio. Charles fa due passi indietro cercando di rimettersi gli
intestini dentro lo squarcio che gli si è appena aperto nel basso
ventre. Ci rinuncia e crolla dietro il sofà.
Juri e Theodirich si ritrovano uno davanti all’altro, le pistole
puntate alle rispettive facce. Facce cambiate durante gli anni, ma i
loro occhi sono quelli di sempre.
«Perché l’hai uccisa?»
«Perché ti amava, e non potevo sopportarlo.»

Anderson spalanca la porta dell’appartamento di Will Coston. Di


scene come quella che gli si presenta davanti ne ha viste anche
troppe, ormai. La sparatoria non ha lasciato supertesti. Ci sono sei
uomini riversi al suolo, e solo due hanno la faccia ancora intera.
Il detective sa che non dovrebbe toccare niente, ma il buio e la
puzza sono intollerabili. Si avvicina a una finestra e la spalanca.
Si chiede da quanti mesi non sia stata aperta.
La luce irrompe sulla scena come il risveglio alla nuda realtà
dopo un sogno bellissimo. Anderson è stanco. Si chiede che senso
abbia raccattare i tasselli di assurdi puzzle come quello che ha
davanti. Poi il suo sguardo va a un oggetto riverso sul pavimento;
la custodia di un dischetto. La prende. Anche questo non
dovrebbe fare. Se la rigira tra le mani. Sulla nera superficie
risaltano cinque macchie di sangue. Apre la custodia, estrae il
dischetto, e qualcosa gli dice che tutto è partito da quell’oggetto.
Ma non sa se fidarsi delle sue sensazioni, ormai. L’ultima che ha
avuto era una delle più nefaste, e invece sembrava che se la fosse

108
cavata anche questa volta.
Poi un led rosso incomincia a pulsare sulla superficie del
dischetto.
«Che diavolo è?»

ESTRATTO DAL SUN-CITY JOURNAL

Per combattere la pirateria informatica la Shikoku, nota


produttrice di videogiochi per adulti, ha messo sul mercato una
nuova tecnologia, il Pirate-Mine-System. Si tratta di un metodo
non molto ortodosso per fronteggiare il dilagante problema. In
pratica il software trasforma il supporto su cui è stato copiato in
un trasmettitore. Al satellite della Shikoku basteranno un paio di
giorni per rintracciare la copia e intervenire seguendo le normali
misure riserbate ai pirati informatici.
L’intervento del laser satellitare è veloce e non lascia traccia. Il
pirata viene fulminato all’istante e la copia ovviamente distrutta.
La multinazionale ha sperimentato il prodotto in segreto e
sembra aver dato i risultati sperati. Ci sono stati alcuni incidenti,
come nel caso del detective Anderson della squadra omicidi (ne
abbiamo parlato in un articolo precedente), ma le autorità non
sembrano voler intervenire legalmente contro la Shikoku. In
fondo si tratta di una piccola perdita, in una lotta che va avanti
da anni contro l’inarrestabile contro-cultura del file-sharing.

Charles Huxley
GM Willo
Demiurgus
Cainos

2008-2009

109
ELIZAVETA
di GM Willo

Le russe sono tipe strane, hanno il sangue delle lucertole, hanno il


ghiaccio nelle vene, e magari ci scopi e non esiste niente di più
focoso, passionale, bizzarro, ma poi le guardi negli occhi e
capisci: sei fregato! Elizaveta era esattamente così.
La conobbi in albergo, quello in cui lavoravo. Chissà come poteva
permettersi una suite di lusso, forse era nei servizi segreti. Beh, a
me piace pensarla così…
L’ascensore era il nostro luogo. Lei m’invitava con lo sguardo, io
la seguivo nel loculo, partivamo e dopo un po’ premeva l’alt. Poi
mi si avvicinava come una pantera, sfiorava con le sue labbra
carnose il mio orecchio sussurrandomi: zaychik moy… mio
coniglietto.
Volete che vi descrivi il resto? Meglio di no. La vostra
immaginazione può bastare…
Boris non era suo fratello. Era solo un puttaniere, e ci beccò nel
posto sbagliato al momento sbagliato; l’ascensore appunto!
Il resto sono solo storie di pallottole e vodka. Eppure io l’ho
amata. Per quel poco che è durata…
«Avanti il prossimo!»
«Eccomi, sono io. Giovane lo so, arma da fuoco, regolamento di
conti, storie di donne… C’è posto lassù?»
«Vedo, vedo…. Una sola domanda: ma lei la amava quella lì?»
«Con tutto il mio cuore!»
«Allora vada. L’ascensore è sulla destra.»
Ancora l’ascensore, pensai. Si aprirono le porte e c’era lei.
«Dove eravamo rimasti?» chiese.
Il paradiso più dolce…

110
JIM LO SVENTRAPAPERE
di Jack Lombroso

- Ti giuro che è tutto vero amico! - Continuava a raccontarmi la


stessa storia tutte le volte che ci incontravamo. Alla quarta pinta
partiva con il solito ritornello. - Ti ho mai parlato di Jim. Jim lo
sventrapapere?
- Si - rispondevo io. - Almeno duecento volte.
Lui rimaneva zitto per un’altra mezza pinta e poi attaccava. - Ti
giuro che che è tutto vero. C’era questo tipo, quando lavoravo giù
al sud, che si inculava le papere fino a sventrarle. Era uno degli
operai che lavoravano con me alla costruzione della ferrovia,
posavamo a terra le rotaie. Si chiamava Jim, sarà stato alto
almeno due metri e portava sempre dei vecchi jeans tutti logori
che teneva su con due pezzi di spago, come fossero bretelle.
Intanto io ordinavo un’altra pinta, giusto per affogare il cervello e
permettergli di sopravvivere. Al banco di un pub trovi sempre
quelli che hanno bisogno di raccontarsi. Di raccontare e
raccontare ancora, senza mai dire niente. Parlano e parlano; per
ore e di tutto, come se parlando purificassero la loro vita. Io odio i
banconi dei pub, ma non sopporto di sedermi al tavolino come le
coppiette del cazzo o come gli ubriachi che non riescono più a
stare in piedi. Odio anche i pub. A dire il vero odio anche i bar,
ma sono gli unici posti dove ti stappano la bottiglia senza fare
troppe domande.
- Faceva un caldo bestiale amico. È così te lo giuro, faceva così
caldo che la birra che pisciavamo era più fresca di quella che
buttavamo giù dalle bottiglie e ne pisciavamo così tanta da
ubriacare la terra intera. Comunque… La sera finito il lavoro ci
portavano da mangiare con un furgoncino. Aveva la marmitta così
piena di buchi che lo sentivamo a due chilometri di distanza. Ci
scaricava la sbobba e ripartiva come se gli corresse dietro il
diavolo, alzando un polverone tremendo. Col tempo imparammo
ad allontanarci in fretta, ma i primi tempi ne mangiammo di

111
quella polvere… Accidenti. Dopo aver finito la sbobba il vecchio
Bob preparava il caffè facendo bollire l’acqua in un vecchio
pentolino poggiato direttamente sul pezzo di legno che ardeva.
Proprio come i vecchi pionieri. Era il caffè più schifoso che abbia
mai bevuto in vita mia. Ad ogni sorso la polvere di caffè ti
scendeva lungo la gola raschiandotela come fosse sabbia. Ma
nessuno osava dire niente al vecchio Bob. Sembra che qualche
anno prima avesse fatto bere a forza tutto il pentolino di caffè
bollente ad un pivello che ne aveva parlato male. Ci teneva al suo
caffè, cazzo… Ci teneva un sacco. Dopo il caffè di Bob ci
giravamo a turno una bottiglia di whisky fatta in casa. Ce la
portava il contadino che abitava vicino al cantiere. Distillava
quella roba in un capanno accanto al fienile e ce ne dava una
bottiglia al giorno in cambio di una ventina di sigarette, che
racimolavamo mettendone due o tre a testa. Quando tutti si
addormentavano sotto la luna, Jim, si alzava piano piano e spariva
verso la fattoria. Nessuno se ne accorgeva tranne me, perché io
dormo poco amico. Puoi crederci è tutto vero, dormirò cinque ore
al massimo per notte. - Io ogni tanto annuivo stanco. Avevo
sentito quella storia tante di quelle volte che sapevo ormai dove
annuire e dove fare la faccia stupefatta. Ordinai un whisky, a
sentirne parlare mi viene sempre voglia di un whisky, e ci misi
dietro un’altra pinta. Tanto per sopravvivere, sapete com’è?!
- La prima sera che Jim si allontanò pensai che fosse andato a
pisciare e continuai a pensare ai fatti miei. Il mattino seguente il
contadino ci disse che una delle sue papere era morta, ma non
aveva nessun segno addosso. Nessun animale predatore l’avrebbe
lasciata li dopo averla uccisa. Sembrava morta di causa naturale.
Noi continuammo a lavorare schivando la nube di polvere del
camioncino porta-sbobba e stordendoci col whisky. Quella notte
Jim sparì di nuovo verso la fattoria, così lo seguii. Mi nascosi
dietro un cespuglio non troppo lontano, riuscivo comunque a
vederlo alla perfezione perché la luna era piena e rischiarava
tutto. È tutto vero amico, Jim era lì coi pantaloni abbassati e
un’anatra in mano che starnazzava impazzita. Gli teneva il becco
chiuso con la sinistra, mentre usava la mano destra per non fargli

112
aprire le ali. È tutto vero amico mio. Jim tirò fuori l’uccello più
grosso che abbia mai visto e d’un colpo cominciò a fottersi
l’anatra. Jim aveva un affare tanto mostruoso che quasi impalò il
pennuto. Che ti devo dire amico, dopo questa scena tornai indietro
e finsi di dormire. Povera bestia. - Mi dava col gomito nel fianco,
appena si accorgeva che mi distraevo un attimo. Non sopportavo
più quel suo modo di parlare così serrato e quel suo gesticolare
agitato. Non ti lasciava tregua. Dovevi per forza essere partecipe
del suo cazzo di racconto. Mi balenò l’idea di colpirlo con la pinta
proprio sul naso, ma avevo già abbastanza casini con gli sbirri,
così l’unica soluzione fu quella di ordinare un altro giro. Doppio.
Ne avevo proprio bisogno. Non avevo neanche finito di parlare
che lui riprese.
- Il giorno dopo il contadino tornò e ci raccontò di nuovo la storia
dell’anatra morta. Io guardai Jim che se ne stava all’ombra del
grosso albero e sorrideva soddisfatto con una sigaretta che gli
pendeva all’angolo della bocca. Il contadino non riusciva proprio
a spiegarsi cosa diavolo stava succedendo, ma disse che anche
oggi avrebbero mangiato anatra a pranzo, fortuna che piaceva un
sacco a sua moglie. Jim quasi si soffocò in quel momento. Dette
la colpa al fumo che gli era andato di traverso e si allontanò. La
notte, appena tutti si furono addormentati, Jim si alzò di nuovo.
Jim. Gli dissi io. Guarda che lo so che sei tu che fai fuori le anatre
fottendotele. Dovresti smetterla o alla fine il contadino si
insospettirà.
- Che ci posso fare vecchio, mi disse, hanno un culetto così stretto
e caldo… E poi alla moglie del fattore piacciono da morire. Lo
hai sentito anche tu.
- Ti giuro che è tutto vero, amico mio. Dopo poco sentii un urlo
così forte che si svegliarono anche gli altri. Corremmo verso la
fattoria che aveva le luci accese e trovammo Jim steso a terra con
i pantaloni ai ginocchi e la testa rotta . Il fattore si era nascosto
dentro il fienile e lo aveva visto mentre cercava di scoparsi una
papera. Era uscito fuori dal buio e prima che Jim se ne accorgesse
gli aveva dato in testa con la pala che usava per spargere il
letame. Si era rotto di farsi sventrare tutte le papere. Il giorno

113
dopo Jim fu spostato di cantiere dalla ditta appaltatrice e non lo
rividi più. Credimi amico, ti giuro che è tutto vero. - Mi guardava
come se aspettasse qualcosa.
- Allora amico, cosa ne pensi?
- Penso che è proprio un peccato che non lo hai incontrato te, quel
fattore. - Le parole mi uscirono di bocca senza che me ne
accorgessi. Lui mi guardò duro, come se gli avessi offeso
qualcuno di caro.
- Cosa vuoi dire amico?
- Voglio dire che tutte le volte che vengo qui mi racconti di Jim
del fattore e della moglie che amava il ripieno. Non ce la faccio
più capisci? Non mi interessa di tutta questa storia, che ha forza di
sentire ho imparato a memoria.
Avevo anche addolcito la voce, perché in fondo un po’ mi
dispiaceva trattarlo male. Era un buon diavolo anche se rompi
cazzo. Lui rimase un attimo in silenzio, non disse niente e si girò.
Se ne ebbe tanto a male che non mi parlò mai più. Lo avessi
immaginato prima.
Sono tornato in quel bar qualche giorno fa dopo un’assenza di un
anno almeno. Non era cambiato niente anche le facce erano le
solite. Vidi il vecchio che se ne stava seduto al banco sul solito
sgabello, dava le spalle alla porta e non mi vide entrare. Accanto a
lui c’era un ragazzo con i capelli rossi che buttava giù grossi sorsi
di liquore scuro, da un bicchiere squadrato. Mi sedetti due
sgabelli alla destra del vecchio. Lui si sporse un po’ verso il
ragazzo dai capelli rossi e lo sentii dire
- Ehi ragazzo, ti ho mai raccontato la storia di Jim lo
sventrapapere? - Così ordinai e scalai di uno sgabello
avvicinandomi al vecchio, per sentire quella storia una volta
ancora.

114
ROSSO NATALE
di Jonathan Macini

La vigilia di natale mi vesto di rosso, per via delle macchie…


Mi metto il cappello con le campanelle, la barba finta, con quei
fastidiosi pilucchi che mi entrano in bocca e mi fanno sputare, gli
stivali alti foderati di pelliccia e alle otto di mattina incomincio il
giro della città. La stazione dei treni, quella degli autobus, la via
dei negozi con tutte le lucine accese, il centro commerciale, la
piazza della chiesa, dove mi metto a disposizione di chi vuole
scattare qualche foto, e poi di nuovo a camminare per il centro
storico, perché col freddo che fa non ci si può permettere di
rimanere fermi.
A metà mattinata mi faccio un panino grazie agli spiccioli
rimediati dai turisti. Mi siedo su una panchina un po’ riparata dal
vento, facendo attenzione agli strumenti che tengo legati sotto il
costume, e addento una prelibata rosetta col prosciutto, o se mi va
bene con il salame ungherese, che ci vado matto. Quando mi
rimetto in cammino sono già le undici e anche le volte che c’è il
sole la temperatura rimane sempre poco sopra lo zero. Mi muovo
in direzione del fiume, attraverso il ponte pedonale, gremito di
sgambettanti ragazzini, e getto uno sguardo sotto l’argine dove
nutrie e talponi hanno i loro affari. Più tardi andrò a far loro
visita, quando le ombre avranno reclamato le strade della città ed
il rituale avrà santificato questo inutile giorno di festa.
Dalla parte opposta del fiume la situazione è più tranquilla. Entro
nella piazza dei giochi nella quale si aggirano piumini rossi e
celesti. Si arrampicano sulle strutture di metallo, cavalcano le
altalene e giocano a rincorrersi. Le loro piccole grida sono una
musichina speciale per il mio cuore. Appena mi vedono arrivare i
più piccoli mi vengono incontro. Io mi metto a suonare il
campanello che mi porto appresso e auguro a tutti “Buon Natale”,
fino a quando i genitori si fanno vicini per scattare qualche
fotografia. C’è anche chi mi mette in braccio un bimbetto per

115
portarsi a casa il ricordo perfetto della vigilia. Qualcuno mi
allunga due euro. I più generosi mettono mano anche alla
banconota da cinque. D’altra parte è natale…
Io sorrido, anche se con tutta quella barba finta nessuno se ne
accorge, e ringrazio. Non che ne abbia davvero bisogno,
figuriamoci. Nella vita reale mi bastano poche ore davanti al
computer per tirare su 8-10 mila euro, basta conoscere bene il
mercato, l’andamento dei titoli quotati in borsa e naturalmente,
specie in questi ultimi tempi, è essenziale attingere alle
informazioni giuste.
Ma la vigilia non è un giorno come gli altri. Non è nemmeno la
realtà come la penso io. Fare il giro della città vestito da Babbo
Natale è una sorta di liturgia, un’esperienza trascendentale,
totalmente al di fuori della normalità. Sono ormai quindici anni
che celebro così il natale, e mi piace sempre di più. Peccato che
venga solo una volta all’anno…
Dopo la piazzetta me ne vado al bar a prendere un cappuccino
caldo e un cornetto. Di solito il barista me li offre, perché è natale
ovviamente, ed io, vestito in quella maniera, rappresento
l’essenza della festa. Mi accomodo a un tavolino a leggere il
giornale anche se non leggo veramente. Ho solo bisogno di
riscaldarmi un po’ prima di riprendere il mio giro.
Da una strada poco frequentata ritorno verso il fiume, passo il
secondo ponte (quello con le macchine) e ritorno sulla strada dei
negozi. Alle due il via vai è diventato a dir poco caotico. La gente
si affretta fuori e dentro le botteghe per afferrare il regalo
dell’ultimo minuto. Facce tese, mamme stressate, bimbi stanchi e
spesso piangenti. Vogliono di più. Vogliono sempre di più. Un
regalo più grande, più bello, più importante. Genitori impotenti
chinano il capo per soddisfare celermente le richieste dei loro
piccoli tiranni. Ed ogni anno è sempre peggio…
Il caos è mio amico. È nel caos che l’occasione si presenta,
immancabilmente. Non devo far altro che appostarmi vicino
all’entrata di un negozio di giocattoli. Sono loro, i piccini, che
vengono da me. Mi guardano, mi sorridono, la loro mamma sta
cercando la carta di credito davanti alla cassa, con la fila dietro

116
che le respira sul collo. Le scivola il portafoglio, le monetine
rimbalzano, una donna anziana alle sue spalle sbuffa scocciata. È
il momento in cui afferro la manina del piccino e lo trascino
dentro la fiumana di gente in preda alla febbre del natale. A
migliaia deambulano con pacchi e pacchettini, sciarpe e cappelli,
i-pod negli orecchi e cosí tanti problemi in testa che diventa
proprio impossibile accorgersi di un bambino che chiama la sua
mamma.
Conquisto indisturbato il vicolo. Dovrebbero notarmi ma nessuno
mi vede. Succede sempre così. A volte me lo auguro pure. Mi
dispiace per quell’esserino, ma non è colpa mia se non interessa a
nessuno, non vi pare?
Il vicolo è già buio perché è uno dei giorni più corti dell’anno e
sono le quattro e mezza del pomeriggio. Dietro il cassonetto
nessuno ci può disturbare. Lo guardo negli occhi, gli dico di stare
calmo che tutto andrà bene, ma lui di solito continua a piangere,
poverino. Allora decido di affrettarmi, estraggo da sotto il
costume i miei strumenti e il sacco di plastica rivestito di iuta,
essenziale per il mio travestimento. Lavoro coi guanti per evitare
di macchiarmi. La giacca rossa, come ho già detto, mi è d’aiuto.
Un quarto d’ora dopo sono di nuovo sulla via dei negozi, un
Babbo Natale provetto con tanto di sacco pieno di regali. Da
qualche parte una madre urla disperata il nome di suo figlio. Io mi
avvio verso il fiume. Il rituale non è ancora finito…
Devo dare da mangiare ai topi…

117
LA SOLUZIONE DI JESSIE
di AAVV

Ci sono cose nella vita che cambiano; altre invece non


cambieranno mai. Nonostante i miei cinquant’anni di servizio non
riesco ancora ad abituarmi a scene come queste, povera Jessie. E
pensare che l’ho vista crescere: mi sembra ieri che correva felice
nel giardino davanti casa e mia moglie…ah! come si arrabbiava
quando le calpestava con i suoi piedini minuti le orchidee! Ma
stranamente quel 15 di giugno non la vidi per tutto il giorno: una
giornata plumbea nonostante l’avvicinarsi della stagione calda.
Poi verso le 16 però mi arrivò una telefonata che mi mise una
grande inquietudine addosso.
«È a terra» farneticava l’altro capo del telefono, «riesco ancora a
sentire il battito regolare del suo fragile cuore, ma il suo sguardo,
fisso verso il muro davanti a se, sembra accompagnare
serenamente quello stato di quiete a cui ora appartiene, quasi
voglia fingere di non accorgersi della ferita che le bagna la
fronte…» La voce, spezzata dal pianto e dal riso, forse alla mercé
di quello stramaledetto crystal mat, la riconobbi subito; era quella
di mia figlia Denise, sua amica d’infanzia, compagna di scuola, di
università, e complice di mille altre incomprensibili storie di una
generazione allo sbando.
«Denise, smettila. Che cosa succede? Ti sei drogata? Dove sei?»
ma lei continuava a delirare.
«…oh papà, vedessi com’è bella, mi sta sorridendo… non ti
preoccupare, siamo da Sin, ti ricordi, te l’ho presentato… stiamo
girando un film… ma Jessie ormai ha finito…»
«Non ti muovere di lì, vengo subito» le urlai nella cornetta.
Provai a riordinare i pensieri, a rimanere legato alla routine, ma
quella era mia figlia e non potevo aspettare l’ok della centrale.
Infilai in auto e schiacciai con forza il pedale dell’acceleratore.
Sin, certo che lo ricordavo, che il diavolo se lo porti… Era il loro
spacciatore, sicuro. Si faceva passare per un artista moderno,
com’è che li chiamano, concettuali… stronzate! Piccola Denise,

118
in quale guaio ti sei cacciata, pensavo, mentre la sirena dalla mia
auto sgombrava il traffico dei rientri pomeridiani.
Entrai nell’appartamento e il tanfo mi fece riassaporare il
sandwich del mio pranzo. L’odore era quello di birra rancida e
cibo avariato. Li trovai in camera da letto. Lui mezzo nudo con la
cinepresa in mano, mia figlia in un angolo con un ago nel braccio
e la povera Jessie seduta sul pavimento accanto alla porta, il
revolver vicino alla mano. Povera piccola Jessie.
Denise era in piena O.D. ma se la sarebbe cavata. Sin me lo levò
dalle mani l’agente Reeves, che per fortuna mi aveva seguito
dalla centrale, altrimenti ne sarebbe rimasto ben poco di quel
pezzo di merda. Poi arrivò la scientifica.
Ci sono cose nella vita che cambiano; altre invece non
cambieranno mai.
Le persone cambiano.
Le generazioni cambiano.
Le mode, i costumi, le canzoni, i vestiti, i locali, le automobili…
tutte queste cose inutili non fanno altro che cambiare, ma la morte
rimane sempre la stessa.

AUTORI: GM Willo, Giulia, Daniele, Fida, Andrea C., J. Macini

119
NOTTE SILENTE
di Marco Filipazzi

Un elicottero tagliò il cielo notturno come una lama di rasoio


gettando luci rosse e blu tutt’intorno. Rallentò in prossimità di
un’imponente edificio scuro. Dalla finestra il Commissario lo
vide scomparire dalla propria visuale, immaginandoselo mentre si
poggiava delicato sul tetto e un drappello di poliziotti saltava giù,
portandosi dietro il loro uomo. Tra le mani il Commissario si
passò una pallina antistress. Aveva la fronte umida di sudore ed
una morsa allo stomaco di strana tensione, ancestrale paura. La
porta dell’ufficio si spalancò alle sue spalle.
“Portatemelo qui e lasciateci soli” disse senza nemmeno voltarsi,
senza nemmeno ascoltare veramente. Quando l’agente uscì, il
commissario attese qualche attimo prima di andare alla sua
scrivania e far sparire la pallina antistress dentro uno dei cassetti,
quindi tornò davanti alla finestra. Quella pallina gli sarebbe
mancata.
Il tempo di socchiudere gli occhi, poggiare la testa contro il vetro
freddo, ed un rumore alle sue spalle lo strappò di nuovo alla
realtà. Il Commissario si voltò a guardare di sottecchi, ed eccolo
lì. Il loro uomo se ne stava seduto all’altro capo della scrivania, le
mani legate dietro la schiena, le caviglie ammanettate alla sedia,
la testa china ed una massa di capelli unti che gli ricadevano sul
viso. La porta si richiuse e tutto ripiombò nella penombra. Il
commissario si poggiò con la schiena alla finestra e tacque per un
lungo attimo. I rumori della città notturna arrivavano da fuori.
“Sai, vedo persone come te un giorno sì e l’altro pure, quindi non
pensare di impressionarmi con il tuo fare da duro, ok?” il
Commissario si staccò dalla finestra e andò verso un mobiletto
scuro, relegato in una angolo. “Per farti capire, negli ultimi tre
giorni ho avuto a che fare con la reincarnazione di Elvis ed un
sodomita di cani, tira tu le conclusioni” prese una bottiglia ed un
bicchiere dal mobiletto. “Questo solo nell’ultima settimana eh,

120
immagina che ho visto in vent’anni di servizio. Cose da non
credere. Il lato peggiore della specie umana. E adesso arrivi tu.
Per quanto mi riguarda non mi fai né caldo né freddo. Whisky?”
Il tizio tacque. Il Commissario rimise a posto la bottiglia ed
ingollò un sorso di liquore.
“Ammetto che la trovata dei canini è stata ingegnosa e la stampa
ci è andata a nozze. Hai regalato un po’ di brivido a questa città
morta, il che non è da tutti, ma lascia che ti spieghi una cosa: Bela
Lugosi è morto da un pezzo e come forse avrai già capito da te, a
me non vanno proprio a genio certe buffonate.” Il tizio cacciò un
rantolo soffocato ed un filo di bava mista a sangue gli colò dal
mento. Il Commissario si sedette alla scrivania; sospirò, guardò
l’ora.
“Le tre. La mezzanotte del Diavolo. Un orario perfetto per la resa
dei conti, no?” bevve un sorso di whisky. “Ora, voglio che tu
sappia che sei fottuto comunque ma la spada di Damocle qui la
faccio io. Hai sette cadaveri nella tua cantina, tutti completamente
dissanguati, una prova più che sufficiente per sbatterti in un
manicomio criminale questa notte stessa, buttare la chiave nel
cesso e tirare lo sciacquone, solo che abbiamo un problema, non
grandissimo ma c’è. La scientifica ha trovato tracce di un ottava
vittima. Macchie di sangue incrostato in un barattolo. Sangue non
appartenente a nessuna delle vittime. Come ho detto, sei fottuto
comunque, ma se ci dici dove sta la numero otto allora forse
potrei presentare alla corte una perizia clinica con su scritto che
soffri di ematodipsia o qualche altra cazzata del genere e magari
ottieni pure uno sconto della pena” bevve un’altra lunga sorsata.
“Ora la palla torna a te, campione.” Nell’oscurità e nel silenzio, fu
allora che il tizio parlò per la prima volta in un sussurro morente.
“A cena…” disse.
Il Commissario aggrottò la fronte. “Come, prego?”
“Non dove mangia, ma dov’è mangiato. Un concilio di politici
vermi cena con lui.”
“Bravo Amleto, hai studiato Shakespeare, vuoi un dieci in
pagella? No, perché questo non ti aiuterà a salvare il tuo culo
secco” finì il whisky nel bicchiere, quindi si sporse sulla

121
scrivania, verso il tizio. Emanava un odore rancido di cane
bagnato. “Dimmi dove hai messo il corpo.”
“In cielo. Mandatelo a cercare lassù. Se poi non lo trovate,
andatevelo a cercare, voi di persona, a quell’altro recapito. Se non
lo trovate neanche lì, entro il corrente mese vi salterà lui stesso al
naso su per la scala del faro.”
Il Commissario agguantò il telefono e compose il numero di un
interno. “Al faro! Mandate subito una pattuglia. E venite a
riprendervi questo stronzo tra dieci minuti. Prima me lo torchio
ancora un po’” dopodiché riappese. Senza esitazioni fece il giro
della scrivania ed andò alla porta. Il tizio seguiva i suoi
movimenti con lo sguardo basso, celato dietro il muro di capelli.
Il Commissario fece scattare la serratura e si allentò il nodo della
cravatta, quindi si avvicinò alle spalle del tizio. Si chinò su di lui
e gli fece scivolar via le manette dai polsi e dalle caviglie.
“Senti, te lo dirò una sola volta e te lo dirò chiaro. Ho preso in
mano quest’indagine dal quarto omicidio in poi e ho fatto di tutto
per evitare questo momento, ma tu quando ti muovi sembri un
elefante che si lascia dietro un olocausto di prove, quindi mi è
stato inevitabile catturarti. Solo che non voglio. Hai reso un
grande servizio a questa città uccidendo i capisaldi di alcuni tra i
più pericolosi clan della città. C’è gente scontenta di ciò, molto
scontenta, ma non io. Ho combattuto nella merda per una vita e
poi mi sono reso conto che la merda infestava anche questa
centrale.” Il tizio si alzò, voltandosi a fissare il Commissario.
“Per quel che mi riguarda posso solo dirti grazie. Hai avuto le
palle di fare quello che io ho solo e sempre sognato. Far cagare
addosso Don Fernando, Kiriyama e tutto il resto della feccia.” Il
tizio non disse nulla, solo un flebile spicchio d’avorio fece
capolino attraverso la giungla di capelli corvini. Un secondo dopo
il Commissario venne tramortito da un gancio che pareva un tir e
finì lungo e disteso a terra.
Quando rinvenne il tizio era sparito, di lui restava solo l’odore
rancido dei suoi vestiti.

122
NETTURBINI
di GM Willo

Mi chiamo Alvin, quarantatré anni, faccio il netturbino, e che


cazzo, penserai adesso, ma aspetta che ti racconti di quella sera in
cui trovai la ragazza, una morona da urlo, calze bianche e culo
all’aria. Eh già, mica sto scherzando. Io le stronzate non le dico.
Non sono come quel deficiente di Fester, il mio collega. Quello è
capace di convincerti di aver visto tua madre vestita da suora
darci dentro nell’ascensore dell’Hilton. Una volta mi disse che si
era portato in camera quattro gemelle, appena sedici anni, 64 in
totale, e che se le era scopate mentre guardavano insieme un dvd
di Harry Potter. Che stronzo!
Erano le cinque meno dieci e il turno era praticamente finito, cioè
potevamo anche fottercene di quel vicolo, ma nessuno dei due
aveva impegni per quel pomeriggio e allora, che cazzo, gli dissi a
Fester, facciamo anche quest’ultimo sforzo. Entrammo come al
solito a marcia indietro, perché quella stradina era il buco del culo
della città e finiva proprio a ridosso dei cassonetti. Il puzzo era
peggio del solito, ma né io né Fester ci facciamo più caso. Al
puzzo ti ci abitui, e dopo una settimana di lavoro già non lo senti
più. Perché lo sapete vero che nella vita ci si abitua a fare tutto,
anche a spalare la merda!?
Comunque, io scendo e aiuto Fester a fare manovra. Il vicolo è
davvero stretto e i cassonetti sono proprio in fondo, addosso al
muro morto. Siamo sul retro di un ristorante cinese, e la puzza
della spazzatura si mischia a quella del fritto. Roba da farti
rimettere il sandwich di pollo, ma io strizzo con forza il filtro
della mia sigaretta e non ci bado. “Vieni, ancora tre metri e ci
siamo” urlo al mio collega, facendogli segno di muoversi.
Spegne il motore scaricandomi addosso una zaffata di gasolio, ed
è quasi un piacere. “Forza, muoviamoci”, mastica lui con lo
stecchino in bocca. Quanto lo odio quel lurido pezzetto di legno
bavoso tra le sue labbra. Ce l’ha sempre. Lo conosco da dieci anni

123
e non l’ho mai visto una volta senza. Beh, avrete capito che Fester
mi sta proprio sui coglioni, ma è anche il mio collega e in qualche
modo ci sono affezionato. Comunque, dicevamo…
I cassonetti vanno trascinati su quelle rotelle del cazzo fino al
braccio meccanico del mezzo, poi premi il pulsante e fa tutto lui.
Il problema è che spesso quei cuscinetti sono rotti o incrostati di
rifiuti, e si muovono appena. A volte è un proprio una faticaccia, e
in quel caso fu anche peggio. Non si volevano muovere quei
maledetti. “Dai, forza, dammi una mano…” impreco. Fester è
appostato vicino al pulsante del braccio meccanico. Facevamo i
turni; la mattina io guidavo e lui muoveva i cassonetti mentre il
pomeriggio cambiavamo.
“Che palle…” risponde lui, traslando lo stuzzicadenti da una parte
all’altra della sua lurida boccaccia. Mi si avvicina e insieme
spostiamo quella ferraglia maledetta. Ma in quell’istante la zampa
di metallo che regge un cuscinetto si spezza. Il cassonetto, pieno
fino all’orlo di pattume, s’inarca pericolosamente verso di noi,
Fester ed io proviamo a reggerlo ma quel bastardo peserà si e no
mezza tonnellata. PATAPUMF! L’immondizia si rovescia sulla
strada a due metri dal camion. Entrambi siamo sul punto di
imprecare contro gli dei del cielo e della terra, quando la sorpresa
ci toglie il fiato. Tra i neri sacchi della nettezza rovesciati
spuntano le cosce tornite della morona.
Io di pezzi di fica nella vita ne ho visti, specialmente sui vialoni
della periferia, ma come quella… peccato fosse morta! “Che
diavolo!” impreca Fester. Ma negli occhi gli leggo un luccichio
porcino.
Completino intimo bianco con tanto di giarrettiere e sandalini
neri. Qualche macchietta di sangue qua e là, ma poca roba. Merce
di prima qualità… nel cassonetto dei desideri.
“Pensi a quello che penso io?” mi fa Fester. Vecchio porco, certo
che penso alla stessa cosa. Il camion ci nasconde la visuale
dell’arteria principale e in quel vicolo non ci passa neanche un
cane. Al massimo potrebbe affacciarsi un cinese dalla porta
posteriore del ristorante, ma i musi gialli si fanno sempre i cazzi
loro, son gente tranquilla, non so se mi spiego.

124
“Chi incomincia?” domando.
Beh, non vi racconto altro, perché la gente potrebbe pensare male.
Sappiate soltanto che quel pomeriggio fu uno spasso. Finimmo il
turno un po’ più tardi del solito, ma alle sei meno dieci eravamo
già da Todd a farci una budweiser ghiacciata, pronti a guardarci la
partita. Fester sorrideva come un scemo e forse anch’io avevo la
stessa espressione, chissà.
“Ordiniamo un altro giro, collega?”
“Perché no…”
Sono quelli i momenti in cui ti convinci che, malgrado tutto, la
vita non è sempre un’inculata.

125
LA BESTIA AL CONFESSIONALE
di Jack Lombroso

Sabato. Ore 01.00. L’uomo esce dalla doccia, si versa un


abbondante doppio gin e lo butta giù d’un fiato.
Jack Burton. Quaranta anni circa, si masturba lentamente
guardando un porno col volume della TV azzerato. Pulisce
velocemente il lenzuolo con un clinex, poi, osserva allo specchio
il fisico asciutto da atleta.
Jack Burton. Principio di calvizie. Indossa un paio di vecchi jeans
e una maglietta rossa, si allaccia le scarpe da ginnastica nere e
stende una riga di coca. L’ennesima della sera. Tira la bianca e
spezza l’amaro con un altro bicchiere di gin. Si accende una
sigaretta ed esce di casa.
L’aria è piuttosto calda e le puttane, sul lato opposto della strada,
mettono in mostra la mercanzia. Ci pensa un po’ su, poi tira dritto
per la sua strada. Il quartiere è uno dei più sporchi e malfamati
della città. In un angolo un gruppo di neri parlano gesticolando tra
loro. Pantaloni attillati e camice sfarzose. Ogni tanto gettano un
occhio sulle puttane; per vedere come vanno gli affari. Ricky, da
tutti conosciuto come il Topo, ultima risorsa dei tossici disperati,
attende lontano dalla luce, davanti a quella che una volta era una
biblioteca. Attende i clienti, pronto a vendergli ogni tipo di merda
tagliata con medicinali scaduti, che compra ad un quinto del
prezzo da Bud, il farmacista.
Da una delle tante stradine laterali si sentono urla e rumori di vetri
rotti. Dopo qualche istante ne esce un ragazzino sui 13 anni con in
mano quello che sembra un portafoglio. Sparisce veloce correndo
nell’oscurità. Un minuto appena ed un uomo sulla sessantina
spunta fuori dallo stesso vicolo: pantaloni alle caviglie e camicia
bianca zuppa di sangue. Si regge l’addome, vittima di una lama.
Stasera il servizietto lo hanno fatto a lui.
Jack Burton. Ex marinaio, imbarcato come mozzo all’età di sedici
anni, su un mercantile inglese. Ne era sceso dopo dieci anni, dopo

126
aver dovuto più volte soddisfare le voglie del resto
dell’equipaggio. Arriva davanti al pornoshop di Rodney, suo
abituale fornitore. Riconsegna la videocassetta, ma non ne preleva
altre, sa che domani non avrà tempo. In cambio di una banconota
verde, Rodney gli passa una bustina sul banco. Fatta la spesa esce
di nuovo in strada, non prima però di aver assaggiato l’acquisto. Il
cuore pompa il sangue con la forza di un fiume in piena, la
mascella si serra più forte mentre digrigna i denti.
Il Buco, come viene chiamato questo quartiere, vanta il record di
omicidi, rapine e stupri della città. Abitato dalla gente più povera
un mix di razze e di culture che non si incontreranno mai. Un
melting pot criminale, malato e violento si mischia e cresce
nell’indifferenza collettiva.
Una vecchia Oldsmobile procede a passo d’uomo. Dentro, quattro
ispanici, con i colori dei Creepers, si guardano intorno. Avanzano
verso due tipi che stanno fumando erba davanti ad un negozio di
liquori. Il proprietario, un pakistano sui trent’anni sta spazzando
la soglia del negozio. I due Creep sul lato destro dell’auto si
sporgono dai finestrini, S&W calibro 40 in mano. Fanno fuoco sui
due che, prima di rendersene conto, crollano a terra riempiti di
piombo. Regolamento di conti tra bande. Roba normale, roba di
tutti i giorni nel Buco. Kashar, che ha lasciato moglie e sei figli in
Pakistan, sperando di fare fortuna quaggiù, giace a terra in una
pozza di sangue. Aveva deciso di spazzare nel momento sbagliato.
Nessuno si affaccia. Tutti sanno come funziona quaggiù nel Buco.
La macchina parte sgommando. Il neon rosso del negozio di
liquori, illumina la scena a intermittenza.
Jack Burton. Rimasto nei pressi del mare per altri cinque anni,
come scaricatore giù al porto, scaldato nei mesi freddi dal rum
rubato da qualche cassa e dalle prostitute da poco della taverna
vicina. Arriva finalmente al Back Door. Entra nel bar di pessima
qualità e fila veloce in bagno. Prepara un mucchietto di bamba
sulla seggetta sporca del water, ormai la mano trema troppo per
regolarla in strisce. Tira su d’un colpo. Ancora gin per spezzare
l’amaro. Ancora gin per ammorbidirsi un po’.
Pamela gli si avvicina al banco, lo seduce con un prezzo

127
conveniente e i due escono nel vicolo accanto. Pamela si
inginocchia e si mette in bocca qualcosa che fatica a diventare
duro, per colpa dell’alcool e della droga. Succhia con vigore per
molto più tempo di quanto pensasse. La cocaina e il gin ormai si
sono impossessati di lui. Fa alzare la puttana, sbattendola al muro
e gli infila la lingua in gola. Gli alza la minigonna sopra ai fianchi
e quasi gli strappa le mutandine ormai in preda dell’unico
desiderio di trovare un caldo posto per sfogarsi. Sputa sulle dita
per inumidire ciò che cerca, ma trova solo il pene flaccido di
Pamela, che ricambia con un sorriso lo sguardo d’odio di lui.
Strattonandola per i capelli lo costringe nuovamente in ginocchio,
penetrandole la bocca più ferocemente che può. Pamela cerca di
liberarsi da cosa la sta soffocando, ma lui la tiene stretta per i
capelli mentre le lacrime rigano di nero le guance del trans.
Pamela pensa allora di mordere, ma sa che sarebbe la fine per lei,
decide quindi di assecondare i violenti colpi che le scuotono la
testa, sperando così di ridurre i tempi di quella tortura. Lo fa
cercando di trattenere i conati di vomito.
Jack Burton. Cocainomane in stadio avanzato, animale sudato che
ansima. Riesce finalmente a venire e spinge di lato il trans che
riprende fiato con grosse boccate d’aria. Sulla bocca un misto di
sperma e bava. L’uomo la guarda con disprezzo e si allontana.
Sono ormai le quattro mentre si mette alla ricerca di un altro bar
dove bere ancora, quando si accorge del calo imminente. Le
gambe cominciano a tremare e lo assale una violenta nausea.
Dopo qualche passo, che a lui sembrano chilometri, si trova
davanti, come un oasi nel deserto, il Rex. Altro bar di infima
categoria. Entra in preda al panico e chiede sbavando dove è il
bagno. Dieci minuti dopo esce e si siede al banco. Sembra essersi
ripreso e il barista sembra invece avvezzo alla scena, perché senza
scomporsi domanda l’ordinazione e la prepara.
L’animale sudato e ansimante è già lontano quando Pamela si
riprende. Rientra nel bar, corre veloce da Joseph, il suo protettore
e gli spiega cosa è successo. Joseph, un tunisino di cinquanta
anni, un metro e novanta per novanta chili di cattiveria; mani
grosse come pale, osserva Pamela con tenerezza, poi un sonoro

128
schiaffo per non aver preso i soldi. Esce rabbioso in cerca
dell’uomo, trascinandosi dietro il trans.
Passa il tempo di un paio di gin e la porta si apre di schianto.
Joseph ha cercato per ogni bar fino a quando ha trovato quello
giusto, adesso si avventa ringhiando sull’uomo indicatogli da
Pamela, che resta sulla porta.
Jack Burton. Quattro anni di incontri da pugile
semiprofessionista. Nessuna sconfitta. Capisce in un attimo cosa
sta succedendo. Rinvigorito dalla striscia che ha fatto da pausa tra
i bicchieri di gin, afferra il bicchiere e lo scaglia verso la
direzione del gigante, che si avvicina sempre di più urlando e
imprecandogli contro. Joseph accoglie il fondo spesso e pesante
del bicchiere proprio sulla fronte. Barcolla indietro mentre una
fontanella di sangue comincia a zampillare dal grosso taglio. L’ex
pugile è già su di lui e ne basta uno per metterlo ko.
Ancora la bianca lo guida; comincia a pestare sulla bocca e su
tutta la faccia del tunisino, che ormai è privo di sensi a terra.
Un’occhiata al barista che sta telefonando basta a farlo uscire di
corsa dal bar. Joseph è steso a terra a braccia larghe, come
crocifisso. Dalla fronte continua a zampillare copioso il sangue,
imitato dal naso di cui è rimasto ben poco, mentre la mascella ha
assunto una strana postura segno di una frattura certo non
solitaria. Di Pamela neanche l’ombra.
Jack Burton. Amante del vizio e consapevole di questo. Rientra in
casa, ormai sono quasi le sei. Si sciacqua il viso e risistema i
capelli. Una riga più piccola delle altre lo previene un nuovo calo.
È domenica, e tolti gli abiti sporchi di sangue indossa quelli che
lui chiama “da lavoro”, poi si avvia alla sua occupazione. Il
quartiere, con le prime luci dell’alba, sembra aver riassorbito gli
incubi notturni, stipandoli negli angoli più bui. I primi negozi e
caffetterie cominciano ad aprire. L’uomo arriva davanti una
piccola e squallida chiesetta, si ferma davanti alle scale e osserva
l’andamento claudicante di una vecchia signora, fino a che questa
non gli si ferma davanti.
- Buongiorno padre - dice la vecchia
- Buongiorno Anna - risponde, padre Jack Burton.

129
NATALE NICHILISTA
di GM Willo

«Che cazzo hai fatto?»


«Che cazzo ne so. Mica lo sapevo che era carica…»
La neve diventa rossa, si confonde con il costume rosso, e rosso è
pure il naso a patata di quel povero cristo, anzi no, del povero
Santa, riverso nel parcheggio dell’autogrill, un paio di lampioni
sparati sul misfatto, la bufera di neve e due rapinatori vestiti da
babbo natale. Una scenetta coi fiocchi, come quelli che cadono da
più di due ore e ricoprono il paesaggio. I bambini intanto
aspettano davanti al caminetto. Quest’anno aspetteranno invano.
«Ma è proprio lui?»
Uno dei balordi si avvicina, da un calcio alla carcassa barbuta,
come se quello bastasse a verificarne l’identità.
«Ma le hai viste le renne? Cazzo, e adesso che facciamo?»
«Come che facciamo, dobbiamo entrare nell’autogrill. La cassa è
piena a quest’ora…»
«Come sei stronzo. Il colpo è saltato, non lo capisci? Bisogna
nascondere il corpo. Forza, dammi una mano…»
«Ma che ce l’hai con me?»
«Sei tu che gli hai sparato, no?»
«Ma io non lo sapevo che era carica…»
«Stronzo… Muoviti!»
Le renne osservano la scena. Il vecchio Santa è bello grasso e ce
ne vuole per portarlo fino al guardrail. I due balordi scivolano più
volte sulla neve e sul sangue. Anche babbo natale sanguina, non
lo sapevate bambini? Una volta fuori dalla luce dei lampioni i due
si sentano più tranquilli. Le renne sbuffano, il vento fischia, un tir
corre veloce sull’autostrada. È la vigilia.
«Prendili i piedi!»
«Ma questo peserà si e no centocinquanta chili…»
«Prendili i piedi e smettila di lamentarti, o ti giuro che ti faccio
fare la stessa fine del vecchio!»

130
«Certo che potresti anche stare più calmo. Dopotutto è natale,
siamo tutti più buoni…»
«Senti chi parla! Quello che ha appena ucciso lo spirito del
natale…»
«Si, va beh… è stato un errore, dai!»
«Ci sei? Uno, due…»
La figura vestita di rosso vola sopra il guardrail, sprofonda nelle
tenebre, ruzzola fino a fare splash. Il canale di scolo… Il vecchio
Santa affonda nella merda, una scena da cinebrivido.
Ciononostante rimane la vigilia, le luci per la città, i bimbi in
attesa, i camini, le comari che apparecchiano la tavola, l’albero, il
presepe. Possibile mandare tutto a puttane? È a questo che sta
pensando uno dei balordi, mentre riprende fiato appoggiato al
solito guardrail. Guarda le renne e la slitta più in là, stracolma di
pacchetti.
«Certo che sei proprio stronzo. E adesso tutti quei regali? Poveri
piccini…»
«Carichiamoli sul furgone. Magari ci rendono un migliaio d’euro
al mercato nero. Dopotutto il colpo è saltato…»
«Ma ce l’hai un cuore? È natale! Quelli appartengono ai bambini
del paese. Dopo avergli ammazzato il vecchio li porteresti via
anche i regali? Sei proprio un caso unico!»
«Si vabbé, ma mica lo sapevo che era carica…»
«Si può sapere cosa ti è saltato in mente? Perché hai premuto il
grilletto?»
«Te l’ho detto, non sapevo fosse carica, e poi volevo solo
spaventarlo, ma mi dev’essere scivolato il dito…»
«Scivolato il dito?»
Le renne sanno ascoltare. Sono secoli che ascoltano gli elfetti che
si lamentano per lo sfruttamento sul lavoro. Diciotto, venti ore al
giorno a costruire i giocattoli, verniciarli, impacchettarli. La
grande fabbrica su al polo nord, voluta dalla Cocacola, si perché
c’è la stramaledetta multinazionale dietro tutto il business. Anche
il vecchio Santa non era altro che un dipendente delle alte
dirigenze della bibita. E cosa vi credevate, bambini?
Così le renne ascoltano i balordi che litigano, ascoltano il vento

131
che impreca, e non li sfugge neanche il rumore del suv che entra
nella stazione di servizio. Ne esce un tizio con un cappotto beige
che si mette a fare benzina. Non può fare a meno di notare i due
balordi vestiti di rosso.
«Buon Natale!»
«Chi cazzo è questo?»
«Sshhhhhh! Stai zitto… Buon Natale! (rivolto al cappotto beige)»
«Accidenti che bel costume! C’avete pure le renne… fate le cose
in grande quest’anno!»
«Eh già! Non vi dico quanto ci sono costate…»
«Posso immaginare…»
Il tizio se ne va a pagare, le renne sbuffano, i due balordi
imprecano e l’ennesimo tir passa a tutta velocità a pochi metri
dalla scena. La magia del natale. Volete sapere qual’è la vera
magia del natale? Che anche se non esiste una magia, arrivati al
ventiquattro sera ormai tutti ci credono.
«Non possiamo restare qui. Se quello si avvicina e vede il sangue
sulla neve…»
«Di sicuro non possiamo restare qui. Fa un freddo cane!»
«Forza, muoviti. Apri lo sportello del furgone. Carichiamo i
regali…»
«Oh, finalmente mi dai ragione! Vedrai, conosco un tipo in città
che ce li piazza a un buon prezzo. Chissà, magari nel mezzo ci
sono quei videogames che costano una barcata di soldi…»
«Piantala e muoviti, ti ho detto…»
«Ma come sei nervoso!»
Gesù è morto e sepolto. Non ha fatto la fine di Santa, che affonda
lentamente nel canale di scolo con una pallottola nella pancia, ma
non gli è certo andata meglio. Povero diavolo, crocifisso,
lapidato, insultato… E noi continuiamo a festeggiargli il
compleanno nel giorno sbagliato. Ma che ci ha fatto di male, mi
chiedo. Poi uno si sorprende se accadono cose del genere per la
vigilia…
«Attento, questo è pesante. Una bicicletta, credo…»
«Mica c’entrano tutti…»
«C’entrano, c’entrano. Mettili per bene e vedrai che c’entrano!»

132
Il suv riparte con uno sbuffo di vapori inquinanti. L’uomo in
beige ha resistito alla tentazione d’indagare. Deve scappare a
casa, da moglie e figli, è la vigilia, i tortellini in brodo, il cappone,
e poi un salto in chiesa, tanto per rimanere nelle grazie del
Signore. Una volta all’anno può bastare.
«Spostati, guido io!»
«Perché?»
«Ti ho detto spostati!»
«Ok…»
Il furgoncino dei due balordi descrive una “U” sulla neve. Le
renne non fanno una piega, rimangono impassibili al loro posto.
Aspettano il ritorno del loro padrone, Anche loro, come i bambini,
aspetteranno invano.
«Dove vai?»
«In paese.»
«Che cazzo dici?»
«Hai presente l’albero gigante in piazza? Li mettiamo là sotto,
che ne pensi?»
«Ma tu sei fuori! Gira il furgone e andiamocene a casa!«
«No. È il minimo che possiamo fare dopo quello che è successo,
dopo quello che hai combinato…»
«Ma cosa ti prende?»
«Senti, fai come vuoi, pensa pure quello che ti pare, ma io a
babbo natale ci ho sempre creduto. Quando ho visto le renne e
quel tizio è stato come se tutto tornasse ad avere un senso. La
famiglia, la vita, il lavoro, il natale… Avrei comunque rinunciato
al colpo, lo capisci.»
«No, non ti capisco…»
«È successo qualcosa qui dentro, ho sentito il click del
cambiamento, ho finalmente visto le cose con più chiarezza. Poi è
partito il colpo ed è stato come un brutto risveglio, ma ho capito
che tutto adesso ha un senso, l’incontro di stanotte, la rapina
andata a puttane, noi che portiamo i regali in paese. Era tutto
scritto…»
«Ma che cazzo dici?»
«Si era tutto scritto…»

133
«Attento! Quel tir ci viene addosso!!!!»
Pacchi pacchetti, pacchettini, lamiere, stracci di vesti rosse, rosse
come la carta da regalo, rosse come la vernice del paraurti del tir,
rosse come il sangue dei due finti Santa. Sull’autostrada innevata
muore questa storia di natale, una storia balorda come tante,
perché tanto il natale non esiste.
Non esiste nulla.
Non esiste niente.

134
CLARISSA
di Jonathan Macini

La notte che uccisi Clarissa scoprii l’irresistibile fascino della


morte. Ma prima di raccontarti questa storia, mia cara lettrice,
desidero che tu conosca una grande verità: più ti è vicina la
persona reclamata dalla nera signora, più meravigliosamente
profondo è l’abisso in cui la tua anima vorrebbe abbandonarsi.
L’omicidio di Clarissa incominciò per gioco. Glielo dissi pure,
mentre possedevo il suo corpo minuto e spigoloso sul tavolo della
cucina. Nella luce morbida degli spot, ricordo i suoi seni appena
accennati, come quelli di una tredicenne, la sua bocca vorace, i
suoi occhi con quel taglio vagamente orientale, sopra un nugolo
di deliziose lentiggini.
“Vienimi dentro!” mi urlò. Ed io, trascinato dall’onda
irrefrenabile dell’orgasmo, le risposi “Prima o poi ti uccido,
Clarissa!”
Il giorno dopo mi portò il caffè a letto, ed era più dolce del solito.
A me basta una puntina di zucchero per ammazzare l’amaro,
invece ne aveva messo un intero cucchiaino. Appena lo assaggiai
mi venne la bizzarra idea che avesse paura e che inconsciamente
avesse zuccherato il caffè, pensando così di potere addolcire
anche me.
“Davvero mi vuoi uccidere?” sghignazzò lei, arruffandomi con la
mano i capelli.
“Difesa personale” gli risposi. “Ti ucciderò prima che tu uccida
me…” Poi risi, e quella fu la mia prima risata macabra. Col tempo
sono riuscito a perfezionarla, e adesso ne vado quasi fiero. Lei
rise di rimando, ma non riuscì a nascondere lo sforzo che faceva a
rimanere allegra.
Il gioco continuò per una settimana, poi lei cedette. Una sera mi
chiese di smetterla con gli scherzi sulla morte perché la mettevano
a disagio. Io le dissi “va bene” e non ne parlammo più. Ma intanto
nella mia testa l’idea aveva già assunto proporzioni ben più

135
realistiche di un semplice gioco.
Il pensiero più affascinante fu la scelta dell’arma. Come avrei
rubato la vita della piccola Clarissa, gracile come un fuscello, una
bambola di pelle candida profumata di fiori di pesco? Il coltello lo
trovai subito troppo scontato, l’arma da fuoco troppo volgare e il
veleno assolutamente borghese. Mi ci volle un mese per prendere
una decisione, ma posso dire adesso di aver fatto bene i miei
calcoli. Quando chiudo gli occhi posso ancora avvertire sui palmi
delle miei mani il viscido calore dei suoi liquami, rievocare il
profumo dei suoi organi, rimirare il cremisi delle sue interiora,
un’esperienza davvero straordinaria.
L’altro dettaglio che mi premeva era il momento, perché
richiamare la morte è una specie di atto liturgico. Il movente in
realtà è assolutamente irrilevante, ma il modo e il tempo, così
come il luogo, sono elementi essenziali per portare a termine il
rituale in modo soddisfacente. Il luogo lo conoscevo da tempo; il
letto in cui ci eravamo amati per più di un anno. Mancava solo il
tempo…
Fu lei a porgermi la data su un piatto d’argento.
“Amore, cosa facciamo venerdì?”
“Venerdì? Cosa succede venerdì?”
“Ma come che succede? È il tuo compleanno!”
“Ah, già… lo dimentico sempre…”
Ma quella volta non me lo dimenticai…

Cena a base di pesce, antipasto freddo servito su un letto di


ghiaccio tritato, risotto all’astice e lime, spiedi di calamari e
gamberoni alla brace con radicchi ed erbe aromatiche. Un pinot
grigio per annaffiare ed una bottiglia di Berlucchi per festeggiare.
Lei vestita di classe, col nero che le dona sempre, io in jeans e
camicia, nonostante il ristorante di livello. Non ho mai sopportato
i completi e le cravatte…
Usciamo sazi e lievemente ubriachi. Fumo la mia cicca prima di
entrare in auto, lei manda due messaggi col cellulare, poi mi
chiede se voglio che guidi lei. Le rispondo di no e le apro la
portiera, come un vero gentleman. È davvero bella…

136
Le chiedo del mio regalo e lei mi guarda con un sorriso malizioso
negli occhi. Mi dice che ce l’ha indosso e che me lo mostrerà tra
poco. Al provocante invito rispondo con fare lento, lasciandomi
scorrere addosso il momento. Non ho fretta di arrivare a casa. Ho
tutta la notte a mia disposizione e non voglio commettere errori.
Ai semafori gialli rallento e mi fermo, evitando scrupolosamente
di superare i limiti di velocità. Lei intanto gioca di nuovo con il
telefonino.
«A chi scrivi?» le chiedo.
«A Linda. Domani andiamo a fare shopping…»
«In centro?»
«Si…»
No, Clarissa, domani sarai alla corte della nera signora, penso io,
stringendo più forte il volante in similpelle della C3.
Saliamo nel suo appartamento, che è stato anche il mio per quasi
quattro mesi. Convivere è meraviglioso. Solo vivendo sotto lo
stesso tetto riesci veramente a conoscere qualcuno, o comunque
una parte sostanziale di questo qualcuno. Vedere Clarissa lavarsi i
denti, sentirla imprecare per una macchia sul pavimento, annusare
i suoi vestiti sporchi, trovare i suoi capelli dalla vasca da bagno,
sono state emozioni molto più intense delle scopate che facevamo
nei primi tempi, quelle di puro abbandono. Il sesso non mi è mai
veramente interessato, anche se non gliel’ho mai dato a vedere.
Lei s’infila in bagno mentre io mi verso un goccio di J&B. Mi
trovo in uno stato quieto, fluido. Sento che i movimenti usciranno
fuori da soli, basterà lasciar fare al demone che ho coltivato negli
ultimi mesi, come una bestia affamata prigioniera dentro la mia
anima. Credo che alla fine ce l’abbiamo tutti. La differenza tra me
e te, carissima lettrice, è che io non ho più paura di aprire la sua
gabbia.
Metto su un po’ di lounge e mi distendo sul letto, vestito e con il
bicchiere in mano. Per adesso faccio fare a lei. Devo conservare
le energie per ripulire la stanza, quando tutto sarà finito. Lei esce
dal bagno con indosso un completino blu che riesce appena a
mostrare le sue forme, tanto è minuta. Si avvicina, mi leva il
bicchiere di mano e incomincia a baciarmi. Le sue mani

137
armeggiano abilmente i bottoni della camicia, ma quando si
spingono più giù le blocco. Continuiamo per un po’ così, poi le
sussurro: “ti va di fare un giochino?” Mi guarda sorpresa, è una
cosa nuova per noi, ma oggi è il mio compleanno e pare si senta
quasi in obbligo di dirmi di si. Scendo dal letto e frugo
nell’armadio sotto i miei vestiti. So bene cosa cerco; due paia di
manette. Ce le ho messe la sera prima, insieme a qualcos’altro…
Torno da lei e le leggo un velo di paura negli occhi, ma io la
tranquillizzo con un bacio e la promessa di un piacere nuovo. Con
movimenti dolci e lenti l’aiuto a posizionarsi nel mezzo al letto, le
passo attorno ai polsi il freddo metallo dei ceppi, e infine la fermo
alla testiera di ferro battuto. Inizio a baciarla, scendo giù con
esperienza, sosto per un po’ attorno all’ombelico, poi le sfilo
delicatamente le mutandine. Dopo averla provocata abbastanza, le
affondo la bocca nella vagina, iniziando a muovere dolcemente la
lingua. La sento gemere, dimenarsi, salire fino alle alte vette
dell’orgasmo. Il suo urlo di piacere precede di un attimo le
contrazioni muscolari del corpo e delle sue gambe, strette attorno
alla mia testa. Adesso tocca a me, penso.
«Lo voglio in bocca…» mi dice.
«No aspetta, ho un’altra idea…» le rispondo. Poi vado a prendere
la corda, il nastro adesivo e le cesoie…

La notte che uccisi Clarissa scoprii l’irresistibile fascino della


morte. Fu lei la prima, e come in amore, la prima non si scorda
mai. Adesso hai capito, mia piccola lettrice, perché nel mio
guardaroba conservo ancora la sua pelle, liscia, candida,
profumata di fiori di pesco.
Su tesoro, smettila di tremare. È arrivata l’ora del rituale…

138
FANCULO IL MESSICO
di Jack Lombroso

Fisher chiama Colombo alle tre del pomeriggio. Fa sempre così. È


l’unico modo per contattarlo. Niente indirizzo, niente
informazioni, solo un numero di cellulare. Il sudore appiccica la
camicia sulla schiena dell’inglese. Non si è mai abituato al clima
anche se sono anni ormai che lavora in Messico. Potremmo
definire l’attività di Fisher come un'agenzia di collocamento
criminale. Conosce tutto e tutti e dà lavoro ad almeno una trentina
di delinquenti vari, passando loro i lavori che gli vengono
richiesti e prendendoci sopra una percentuale; chiaramente.
Rapinatori, Killer, rapitori e tutta la crema della criminalità
messicana è nel libro paga dell’inglese.
Si massaggia distrattamente il cavallo dei pantaloni mentre
compone il numero. Un grosso bicchiere di whiskey annega tre
cubetti di ghiaccio sulla scrivania, da ottocento dollari almeno.
Colombo recupera Enrique da casa. Un bel posto, villette a
schiera in un complesso residenziale. Nessuno immagina il lavoro
che fa il proprio vicino di casa. Quel giovanotto così gentile dai
modi educati e dall’aspetto curato. Ferma il Mercedes grigio
scuro e suona tre colpi di clacson. Braccio fuori dal finestrino. La
camicia hawaiana semiaperta lascia intravedere il tradizionale
giapponese sul petto, dai colori sgargianti. Colombo sbuffa e
accende una cicca d’erba. Erba messicana.
Enrique esce cinque minuti dopo. Completo scuro di lino su
scarpe lucide leggermente a punta. Camicia verde smeraldo stirata
con cura. Profuma di dopobarba. Monta in macchina e infila il cd.
Johnny Cash canta di omicidio e cocaina. La cenere cade sui
bermuda di Colombo. Parcheggiano davanti al residence. Salgono
le scale e suonano una sola volta. Marlene viene ad aprire la
porta. Sorriso bianco, vestaglia di seta azzurra con ricami floreali
color pastello che mette in risalto i grossi seni dai capezzoli
turgidi. Ha i capelli leggermente spettinati. Fisher deve averci

139
giocato da poco.
Saluta e li fa accomodare sul divano in pelle bordeaux. Uno
schermo a quaranta pollici rimane spento sulla parete. Marlene
versa da bere. Whiskey, molto ghiaccio. Liscio per Enrique.
Sparisce, dietro una porta che chiude piano. Il legno delle scale a
chiocciola scricchiola appena sotto i piedi nudi di Fisher. Anche
lui in vestaglia. Oro arrogante e arabeschi neri. Beve con loro e
vomita parole banali. I due si chiedono quando parlerà del lavoro.
L’inglese sembra capire i loro sguardi e attacca.
- Beh, ragazzi. Le cose stanno così: tre tipi, spacciatori di poco
conto, si sono messi sul mercato espandendo il giro molto
velocemente. I tre stronzi hanno sconfinato nella zona di Don
Carlos, senza saperlo. Ma questo non interessa al Don.
Stranamente, invece di farli fuori, gli ha affidato un compito.
Come risarcimento diciamo. I tre devono fare uno scambio per
lui, dollari americani per diamanti grezzi. Tutto questo per non
ritrovarsi una pallottola dentro la loro testolina. Un lavoretto
semplice semplice.
- Perché mai Don Carlos si fida dei tre stronzi? È cosa c’entriamo
noi? - Colombo si accende una seconda cicca d’erba mentre
interroga l’inglese con lo sguardo.
- Beh, perché si fida non lo so. Sono cazzi suoi. Probabilmente
perché nessuno che ha un minimo di cervello cercherebbe di
fottere Don Carlos. Metà del Messico è sotto il controllo dei suoi
uomini e nell’altra metà chiunque gli deve un favore… E dove
scappi? Comunque… Quando i tre hanno saputo che lo scambio
dovevano farlo con gli uomini di Mauricio Brama se la sono fatta
sotto. Hanno quindi deciso di venire a chiedere aiuto a zio Fisher,
affinché gli trovassi dei validi sostituti. Ed ecco cosa c’entrate
voi. Andate all’incontro, recuperate i diamanti e li portate ai tre
messicani. Tornate da me e intascate la ricompensa. Tutto qua.
Fisher finisce i dettagli, Enrique il terzo whiskey, Colombo la
seconda cicca. Si alzano lenti, affaticati dal caldo e raggiungono
l’uscita. Ultima occhiata alla stanza: dalla porta a vetri che da sul
giardino con piscina, entrano cinquanta chili di curve abbronzate
dal sole. Bikini rosa che lascia poco all’immaginazione. Dal

140
triangolo di destra, leggermente spostato, spunta fuori l’aureola
scura del seno. Susy. La seconda amica di Fisher. Uomo
fortunato.
Le pale del ventilatore girano lente muovendo l’aria calda.
Tequila e pezzi di lime sul tavolo scheggiato dall’uso. Ricardo
sembra un fagotto flaccido e vuoto così accasciato ad un angolo
della stanza. La pancia aperta ha smesso già da tempo di
sanguinare. L’impugnatura in madreperla della 44 ancora stretta
in mano. Quarantatré gradi. Sembra di stare dentro un forno.
Colombo versa un altro shot. La tequila gli brucia la gola. Morde
un pezzo di lime e sorride sputandone la buccia. Trenta
centimetri; lama rossa di sangue, dormono accanto alla bottiglia.
Trenta centimetri che sono entrati tutti nella pancia di Ricardo.
La porta si apre lentamente. Enrique entra nella stanza in
penombra, unico vano della capanna che funziona da bar, non
lontana dalla città. Lo sguardo va veloce da Ricardo a Colombo,
che a stento riesce a rimanere sulla sedia. Buco di 44 in pancia.
Poche speranze. Al massimo altri due shot. Enrique si avvicina al
tavolo. I tacchi di cuoio duro risuonano sul pavimento di assi di
legno. Con movimenti lenti versa due tequila, ne passa una a
Colombo e butta giù l’altra tutta d’un fiato. Niente lime per lui.
Il ventilatore muove invano l’aria, appiccicosa come caramello.
Colombo solleva gli occhi e fissa la canna della pistola che
Enrique gli ha puntato in faccia. Sorriso amaro. - Sarebbe solo
questione di tempo, amigo. Quel buco in pancia non mi lascia
scelta. È solo per avere la certezza che nessuno ti trovi prima del
tempo che ti ci vuole per tirare le cuoia, e ti costringa a parlargli
di me. Lo sai anche tu come vanno certe cose, vero? - Colombo
annuisce. Ultimo shot. Boom. Non che provi così dispiacere per
Colombo, in fondo stavano insieme solo per lavoro, e poi, da
queste parti, la vita vale sempre poco.
Il barista è steso come uno straccio bagnato, a cavallo del
bancone. Era d’accordo anche lui o cosa? Mentre Colombo
affondava la lama nella pancia di Ricardo, e si prendeva la sua
brava pallottola, il bastardo ha tirato fuori da sotto il banco un
fucile a pompa, di quelli con le canne segate. Enrique già pronto,

141
appena fuori della porta del bar. Due pallottole per il tipo sulla
porta e due per il barista. Ma che cazzo c’entrava il barista?
Uscendo scavalca il cadavere toccandolo appena con la punta
della scarpa. Distanza ravvicinata. Buchi grossi come lime. Tre
contro due. Ne è uscito uno soltanto. Chiude la porta e se ne va.
Enrique guida veloce già da un’ora buona lungo la strada
polverosa. Johnny Cash canta la sua ultima storia dalle casse delle
stereo. Prima di mezzanotte deve essere a Guadalajara e davanti a
sé ha almeno tre ore di viaggio. Lì, lo aspettano i mandanti dello
scambio, tre coglioni messicani che non saprebbero distinguere i
diamanti da pezzi di vetro.
Adesso Enrique conta di arrivare sul posto più presto possibile,
rifilare i diamanti ai tre messicani, tenersi i soldi dello scambio
che non è andato a buon fine e passare da Fisher per il compenso.
Poi, sparire veloce dal Messico. La bomba ormai è innescata e lui
vuole essere più lontano possibile quando scoppierà. Il cellulare
squilla tre volte prima che Enrique risponda.
- Enrique?
- Si, dimmi? - È uno dei tre messicani a parlare.
- Abbiamo un problema, dobbiamo spostare l’incontro a domani
mattina… se per lei va bene. - La voce tremante del tipo lo irrita.
Voce insicura, piena di paura di chi non sa cosa sta facendo. Di
chi sa che la faccenda è più grande di lui.
- Va bene. - Risposta secca e riattacca. Altri cinque chilometri
lungo la solita strada polverosa. Il paesaggio che lo circonda ha
un che di irreale. Sabbia e cactus. Rallenta la macchina e svolta a
destra. Entra nel parcheggio del motel. Scende dall’auto e viene
investito da un caldo infernale. Quarantacinque gradi. Sono le
nove di sera… che cazzo di posto.
Spinge la porta che cigola sui cardini come lamentandosi di essere
stata disturbata. Il cicalino fa il suo dovere. L’ingresso del motel è
ancora più fetido della facciata esterna. Due poltrone e un
divanetto stanno in piedi per miracolo sul lato destro della stanza,
illuminata a stento da un lampadario mezzo scassato. Odore di
sigaro e tacos nell’aria. Di fronte a lui c’è un piccolo banco, con
dietro un ciccione a due centimetri da un ventilatore portatile. Il

142
ciccione biascica qualcosa che pare un saluto, passandosi, da un
lato all’altro della bocca, il mozzicone di sigaro che spunta da
sotto i folti baffi grigi. Canottiera chiazzata di unto. È lui che
puzza di tacos. Tacos e formaggio rancido.
Enrique legge il cartello delle tariffe. Lascia una banconota per la
stanza e una ancora per la bottiglia di tequila. Il ciccione gli passa
una chiave, biascica ancora qualcosa e torna a puntare lo sguardo
sul minuscolo schermo accanto al ventilatore. Dal quale escono
pessime battute e risate registrate. Sembra che il ciccione abbia
detto che la bottiglia gli sarebbe stata portata in camera, quindi
Enrique prende la chiave e sale le scale.
La camera rispecchia pienamente l’infima qualità del posto. La
vernice sulle pareti è ingiallita dal tempo e in alcuni punti si
stacca, lasciando scoperto l’intonaco bianco. Il letto sembra aver
vissuto molto più di Enrique. Il copriletto di cotone grezzo pare
essere uscito direttamente dagli anni ’50 e odora di vecchio e
stantio. Insomma, un bel letto di merda. Almeno è a due piazze.
Enrique si toglie giacca e camicia con l’idea di una doccia gelata.
Bussano alla porta. Un toc-toc lieve, quasi sussurrato dal legno.
Apre e si ritrova davanti una ragazza dai capelli corvini. Il vestito
beige, che le scende fino a sopra le ginocchia, è stretto sul petto. Il
sudore ha formato due piccole chiazze a mezzaluna sotto il seno.
Gli occhi verdi della ragazza si incollano sulla faccia di Enrique.
Occhi strani, quasi cattivi che contrastano con la corporatura
minuta e indifesa. Particolare importante… La ragazza ha una
bottiglia in mano.
- La sua tequila signore - la voce è dolce come il miele. Quattro
parole sussurrate come una ninna nanna.
- Grazie. Ma tu chi sei? - Enrique afferra la bottiglia e si scosta un
poco dalla porta. Come a volerla fare entrare.
- Pita, la figlia del padrone del motel - risponde. La voce sembra,
se possibile, ancora più dolce. Ha un che di sensuale. Lei non
accenna a fare un passo. Continua invece a guardare dritto negli
occhi Enrique. Come se lo odiasse. Uno sguardo così intenso,
duro e freddo che infastidisce un poco l’uomo. Eppure per
qualche motivo ne è attratto. Quel corpo esile. Quella voce

143
mielosa. Quegli occhi da killer.
- Vuoi entrare a bere qualcosa? - Lei non risponde, muove un
passo dentro la stanza. Abbassa lo sguardo e si ferma. Poi entra
con uno scatto improvviso. Enrique sente arrivare l’erezione,
stretta nei pantaloni. Apre la bottiglia e lei allunga il braccio
porgendogli due bicchierini da shot. Neanche se ne era accorto
che li aveva in mano. Due bicchierini da shot. Due. Lei si siede
sul bordo del letto sempre col braccio teso. Tiene i bicchieri in
modo che lui possa direttamente versarci la tequila dentro. Tiene
la testa bassa ma gli occhi, rivolti verso l’alto, non smettono mai
di fissarlo. Sorride. L’espressione del volto, in quella strana
posizione, assume un’aria sinistra ed eccitante allo stesso tempo.
Enrique versa. Poggia la bottiglia sul piccolo comodino e prende
uno dei due bicchieri. Adesso anche lui la sta guardando fissa
negli occhi. Alza appena il bicchiere a mo’ di brindisi e butta giù
d’un fiato. Lei fa lo stesso. Sedendosi il vestito le si è alzato un
po’, lasciando vedere le cosce brunite dal sole. Enrique le fissa.
Lei se ne accorge e lo lascia fare. Si alza di scatto, si avvicina alla
bottiglia e dà un sorso. Righe di tequila le colano dai lati della
bocca. Non si pulisce.
Enrique le si avvicina e senza dire nulla bacia una di quelle righe
saggiandone il sapore con la punta della lingua. Stacca la testa dal
viso e passa all’altra riga. Appena le appoggia le labbra vicino alla
bocca, lei si gira di scatto per morderlo, poi scappa via veloce.
Enrique si è scostato appena in tempo, prima che il morso si
serrasse sulla guancia. Si tocca il viso nel punto dove la pelle è
stata graffiata dai denti. Una piccola ferita comincia a sanguinare.
L’erezione aumenta.
Il letto cigola ogni volta che Enrique si rigira tra le lenzuola
appiccicose. La notte è rischiarata da una luna candida mentre le
cicale friniscono tra gli spini dei cespugli. Il sonno è stato
interrotto più volte dai pensieri che non gli abbandonano la testa.
Ancora non capisce cosa diavolo stia succedendo. Perché questa
guerra intestina tra chi ha il mercato in mano. Non avrebbe senso
dar vita ad una di quelle lotte che durano fino alla fine di ogni
uomo, per espandere il proprio mercato. Le perdite sarebbero

144
sicuramente maggiori dei ricavi.
Enrique si alza dal letto che sembra un forno. Si avvicina lento
alla bottiglia che ormai ha raggiunto la sua metà. Mentre beve un
lungo sorso, con l’intenzione di stordirsi e riuscire a dormire,
bussano alla porta. Va ad aprire ritrovandosi davanti la figlia del
padrone. Pita non parla ed entra in stanza senza far rumore.
Quegli occhi di ghiaccio nel corpo abbronzato. Senza dire una
parola si avvicina ad Enrique e fa per baciarlo.
- Non avrai ancora intenzione di mordermi? - Dice mentre
istintivamente fa un passo indietro. La ragazza lo guarda,
inclinando leggermente la testa. Poi abbassa gli spallini del vestito
e lo lascia scivolare fino alle caviglie. Enrique osserva il corpo
nudo della ragazza, poi le si avvicina spingendola verso il letto.
La pelle sudata di Pita gli ricorda il sapore aspro del lime, mentre
si lascia accarezzare il volto dai seni pesanti. Adesso la piccola
messicana danza sul ventre di Enrique che asseconda i movimenti
con ritmo regolare. I due corpi sono diventati uno solo.
Enrique si addormenta, stancato dalla passione. Finalmente i
pensieri sono stati allontanati dalla magia della ragazza che stesa
accanto a lui, fissa il soffitto senza mai chiudere gli occhi. Quegli
occhi da killer… Sorride nella stanza buia. Un rumore metallico
risveglia Enrique. Un rumore che gli è familiare, che ha già
sentito più volte. Apre gli occhi, mentre la ragazza fa scorrere il
carrello di una pistola. Colpo in canna… Canna vicina alla fronte
di Enrique. Merda!
Prova d’istinto a muoversi accorgendosi di avere le mani legate
alla spalliera del letto. - Che diavolo stai facendo? - Pita è ancora
nuda. Sopra di lui si muove piano sfregando il bacino contro
quello di Enrique. Lo fissa negli occhi, sorridendo con la testa di
lato. Enrique si stupisce di quanto in fretta arriva una nuova
erezione, mentre la canna della pistola gli si appoggia alla fronte
sudata. La ragazza si muove ancora. Si sistema meglio. Adesso dà
colpi secchi mentre Enrique non capisce se sta morendo o
scopando.
Pita si muove sempre più forte. Mentre il letto cigola, Enrique si
accorge che lentamente il laccio che stringe il polso destro si sta

145
allentando. Comincia allora a muoversi freneticamente per coprire
gli strattoni della mano. Il laccio sembra cedere ad ogni colpo.
Dai cazzo… Dai! La canna della pistola batte ritmicamente sulla
sua fronte. Lei chiude gli occhi e geme. Poi torna a fissarlo, la
testa sempre di lato. Adesso è vicinissima a lui tanto da poter
sentire il suo alito caldo sulla faccia, mentre lei lecca il cane della
pistola. Enrique è frastornato. Non riesce a capire se questa pazzia
è una perversione della ragazzina o davvero alla fine si ritroverà
un buco in testa. Il laccio cede abbastanza da permettergli di far
scivolare fuori la mano. Ancora pochi colpi e il rito sarà finito. La
piccola messicana dalla pelle color del bronzo adesso gode e non
lo nasconde. Non regge agli spasmi e chiude gli occhi contraendo
il viso in una smorfia di soddisfazione. Un gesto fulmineo e la
pistola non è più nella sua mano. Lei riapre gli occhi, lo sguardo
sconcertato di chi ha perso una partita già vinta. Urla… Un urlo
secco… Uno solo. Non un urlo isterico, da ragazzina impaurita,
ma di richiamo… Di avvertimento. Questo Enrique lo capisce
subito e gli dà col calcio della pistola sulla bocca. Un fiotto di
sangue gli investe la faccia. Adesso la ragazza zampilla sangue
come una fontana. Enrique ha ripreso il gioco in mano. È lui il
killer. È lui il cacciatore, gli altri solo deboli prede. Per questo
continua a darle dei colpetti col bacino, attendendo impaziente il
coito, mentre la pistola si macchia di rosso, appoggiata sulla
bocca di lei.
“Andiamo Pita, muoviti adesso… Muoviti ragazza!”
- Slegami l’altra mano adesso - lei non parla, continua a guardarlo
negli occhi come se fosse lei ad avere il controllo, mentre dalla
bocca esce ancora un rivolo di sangue. Sembra non voler neanche
prendere in considerazione l’ordine di Enrique e comincia a
muovere di nuovo il bacino lentamente passandosi la lingua sul
labbro rotto. - Ti ho detto di slegarmi la mano. Subito! - Preme
più forte la canna contro la bocca di Pita che inaspettatamente la
apre e comincia a succhiarla.
“Sei completamente pazza, ragazzina!”
Nonostante la situazione surreale, Enrique, non riesce a non stare
al gioco della ragazza che sembra averlo stregato. Mentre

146
continua a muoversi, sulla porta appare il ventre flaccido del
padrone del locale. Come se fosse una cosa del tutto normale,
trovare sua figlia nuda che succhia una pistola sopra un uomo, il
ciccione entra nella stanza alzando il braccio che tiene la pistola.
Esce dalla doccia. Indossa il suo completo di lino e tira fuori da
sotto il letto la valigetta con i pezzi di vetro. Pita è legata al letto
come lo era lui fino a poco fa. Non si è scomposta neanche un po’
mentre Enrique sparava al ciccione ed ha atteso paziente che lui
arrivasse all’orgasmo. Un ultimo sguardo alla ragazza. A quegli
occhi malati, folli, ed esce dalla stanza. Monta in macchina e
parte. Chissà, forse non era suo padre.
Enrique ripensa al lavoro che deve finire, in quale cazzo di
situazione si è ritrovato. Qui qualcuno sta creando un grande
casino e lui non ha nessuna voglia di finirci dentro. La macchina
inchioda a tre chilometri dal motel e fa inversione. Enrique apre la
porta della stanza. Pita è ancora legata al letto. Lei lo guarda
senza dire niente, i suoi occhi sembrano bruciare sempre di più di
un’insana febbre. Non si chiede perché volessero fargli la festa,
non gli interessa più ormai.
- Cosa farai Pita? Cosa farai se non ti slego e ti lascio qui da sola?
- Non lo so - risponde la ragazza.
- E cosa farai se ti libero?
- Verrò con te.
Il sole sta per calare e tutto si è tinto di arancione scuro. La
macchina sfreccia veloce verso il confine del Messico con la
valigetta piena di soldi e diamanti, ben nascosta sotto il seggiolino
del passeggero. Enrique stringe il volante con una mano sola e
butta giù un bel sorso di tequila. Pita lo guarda appena, mentre gli
occhi gli si chiudono dal sonno.
‘Fanculo Fisher, ‘fanculo Don Carlos e ‘fanculo Mauricio
Brama…
‘Fanculo anche il Messico.

147
IL SEME DELL'ODIO
di Jonathan Macini e Jack Lombroso

PRELUDIO
- Soldato David Norton -

Non vi hanno mai parlato del macello di Falluja? No, certo che
non l’hanno fatto. Maledetti loro! Una festa di sangue di
proporzioni inaudite, un evento spregevole superbamente coperto
dalle televisioni. Coperto nel senso di sotterrato. Capite, vero?
Ma di macelli laggiù ce ne sono stati tanti, e ce ne saranno
ancora. Alcuni di questi non vengono neanche riportati dai
giornalisti freelance, mentre altri rimangono segreti. Sono i
segreti che migliaia di reclute si portano a casa. Incapaci di
credere ai loro stessi gesti, si convincono di non aver mai fatto
niente del genere. Sono i semi dell’odio, quelli raccolti
oltreoceano e piantati in terra natia. Crescono e mettono i frutti,
migliaia di bombe pronte ad esplodere.
Vi parlerò della mattanza alle grotte del deserto, poco fuori
Falluja. Quello è un segreto che conosciamo solo io e i miei
amici… Tre mesi dopo ho lasciato una volta per tutte quel
dannato paese. Coltiverò il mio germoglio a casa mia.
Il mio nome è David Norton, e ho un incarico importante da
portare a termine, lentamente, un pezzo alla volta. Volete
seguirmi? Volete sbirciare oltre il lenzuolo, quello che ricadendo
fa risaltare la sagoma del cadavere? Siete pronti?
Il sipario di sta alzando.
Lo spettacolo ha inizio.

148
CAPITOLO I
- A casa -

Il ronzio del bimotore mi avverte che siamo pronti ad atterrare.


Benissimo. Non ce la facevo più. Sono quasi trentasei ore che
vengo sballottato da una parte all’altra del mondo. Tre continenti,
cinque stati, due aeroporti internazionali e mille dannatissimi
controlli. Dal finestrino riesco a scorgere il lago. Il velivolo
incomincia la discesa. Eccola lì; un buco di culo in riva all’acqua.
Eire, Pensilvanya, Stati Uniti. Ci sono nato, ci sono cresciuto, e
fino a pochi mesi fa avrei giurato che ci sarei anche schiattato in
quella fogna. Ma adesso non so più…
L’aria è quella di casa mia. Mi rigenera il fisico, ma non riesce
neanche ad avvicinarsi all’intimo. L’intimo è perduto per sempre.
Si è dissolto quel pomeriggio di tre mesi fa, tra la sabbia del
deserto e l’odore della cordite.
Mia madre mi viene incontro. L’abbraccio, o almeno ci provo. È
ancora più grassa, forse ha superato i centottanta chili. Mio padre,
una manciata di libbre in meno, sorride dietro di lei. Indossa la
solita giacca verde con la bandierina in bella mostra. Si, la
bandierina del cazzo, che sventoliamo sotto il naso di tutti,
spacciando dosi mortali di libertà. Vi liberiamo noi. Certo, Bang!
Sei libero fratello…
Abbraccio anche il vecchio. Mi stringe come per farmi capire che
adesso sa che sono diventato un uomo. Mi viene la bizzarra idea
di dargli un calcio nelle palle e spappolarli il cranio con un
mattone.
Mentre ci dirigiamo verso il suv, la grassona mi dice che ha
preparato del pollo fitto, come piace a me. Mio padre mi informa
che stasera c’è la partita. Assolutamente imperdibile. Sprofondato
nel sedile posteriore, guardo fuori dal vetro e vedo scorrere
l’asfalto. Attraversiamo la città, duecentomila anime davanti al
televisore. Un cane che abbaia da dietro il recinto. Un ragazzino
in bici. Tutto così tranquillo…
Quando arriviamo mio padre mi sveglia. Dormivo come un
bambino, con la testa appoggiata al finestrino dell’auto. Si, da

149
qualche giorno mi addormento così, senza accorgermene. Non
sogno. Cado. Tocco l’abisso. C’è tanta serenità laggiù.
La cena, il pollo, la partita di baseball, papà che mi confessa di
quanto sia fiero di me, mamma che piange perché è così felice di
avermi di nuovo a casa. Le nove, le dieci, le undici. Finalmente
sono a letto. Le ultime ore sono state ancora più orribili del volo.
Voglio dormire. Tornare nell’abisso, dove non esiste niente.

Uova col bacon davanti alla TV. Un bicchiere di latte scremato.


Gli usignoli di papà che cantano nella loro gabbia appesa al
porticato. Sono a casa.
Non ho programmi o, per essere più precisi, non ho programmi
condivisibili. Lavoro, progetti, interessi. Niente. Riscuoterò
l’assegno dell’esercito per i prossimi sei mesi, ma non credo che
mi servirà così a lungo. Qualcosa mi dice che non ne avrò
bisogno.
La mattinata la passo alla stazione degli autobus a guardare dei
vecchi che vanno a trovare i parenti defunti al cimitero. Un
pretesto come un altro per continuare a vivere. Potrei fare un salto
al Dell’s, prendermi un caffè e fare due chiacchiere con quel
cacasotto di Bernie, il barista. Chissà come mi è venuta in mente
una cosa del genere. No, quello l’avrei potuto fare prima di
Falluja. Era una cosa che faceva l’altro David.
Vorrei allungare le notti vuote, dilatarle il più possibile. Ma per
farlo ho bisogna di nuove celebrazioni, annientare l’intimo per
toccare l’abisso. E dormire.
Siete confusi? Non preoccupatevi. Tra poco vi sarà tutto chiaro.
Tra poco arrivano le sei, l’ora giusta per fare del male. Come quel
giorno nel deserto…

CAPITOLO II
- I want you! –

Sembrano passati anni da quel giorno nel deserto, ed invece sono


solo tre mesi che condivido il segreto. Cazzo, sarà stato il caldo, o

150
forse l’alcool. Sarà stato il fatto che eravamo dentro l’inferno… E
non è una cazzo di metafora. I want you!. Bello sorridente George
ti invita nel glorioso esercito. La solita foto stronza che usano
ogni volta, per raccattare carne… Carne senza cervello. Ti dicono
che lo fai per la patria, che lo fai perché la libertà si veste di rosso
bianco e blu. E tu ci credi. Non ti sforzi nemmeno, dopotutto che
altro avrei potuto fare dopo il college. Lavorare nella ditta edile di
mio padre?. E allora in marcia, insieme ad altre uniformi uguali
alla tua. Sei un soldato adesso amico, non più un individuo.
E poi di colpo ti ritrovi laggiù. Un caldo soffocante, rovine di
edifici e rovine di persone. Quei negri del deserto si nascondono
ovunque. Si nasconderebbero anche in culo ad un cammello se
potessero. A loro basta farti fuori. Perché non capiscono che noi
siamo là per portare la libertà, la democrazia.

Passano i giorni e non succede niente. Te ne stai rinchiuso nelle


tende, sdraiato sulla branda accanto ad altre divise uguali alla tua.
Centinaia di divise, tutte uguali alla tua. E le idee, i principi che
avevi? Ti accorgi di aver lasciato tutto a casa, insieme al
fottutissimo pollo fritto di tua madre. E poi le guardie alla
polveriera, i check point da tenere sotto controllo. Ore e ore sotto
quel caldo d’inferno. E se non si fermano all’alt gli devi sparare ai
beduini. Eppure c’è anche scritto che si devono fermare all’alt,
c’è scritto anche in quella loro maledetta lingua. Poi mi collego ad
internet e scopro che la maggior parte di loro non sa leggere. Che
cazzo di gente… I negri del deserto.
Nelle tende circola alcool e anfe. Nessuno sa da dove arriva
eppure ce n’è quanta ne vuoi. Ogni tanto trovi anche un po’
d’erba, ma quella è roba da comunisti fricchettoni. Io non voglio
che mi si addormenti il cervello, devo rimanere sveglio. Attivo.
Sono un cazzo di marine. IO.
Nelle tende circolano anche giornali pornografici. Non ricordo
nemmeno più l’odore della pelle di Jenny da quanto non la vedo.
Confondo la sua faccia con quella della bionda sul paginone
centrale, e allora chiudo gli occhi e non so più su chi mi sto
eccitando.

151
Jeremy mi sveglia dal tiepido sogno. Mi sveglia con un calcio alla
branda. Accanto a lui c’è Bud, il texano. A lui piace stare qua. A
lui piace da morire tirare il grilletto. Ha ucciso tre negri del
deserto da quando è qui. Lo avrà ripetuto mille volte, vantandosi
di come li aveva stecchiti. Qualcuno dice che due dei tre che Bud
ha fatto fuori erano una donna che scappava con un fagotto in
mano. Bud era alla mitragliatrice del checkpoint sud. La donna
non si è fermata a l’alt e Bud ha sparato. Pensava che fosse una
kamikaze e il fagotto una bomba. Correva per raggiungere il
medico che abitava al di la del checkpoint, perché il figlio che
stringeva al petto aveva la febbre alta. Questo sembra aver
raccontato il marito. Neanche lui, come la moglie, sapeva leggere.
- Allora David, ti vuoi muovere? Alzati dalla branda che usciamo.
Tutti e tre… – Bud sorride mentre Jeremy continua a dondolarmi
con l’anfibio. – Usciamo? Dove? Oggi non siamo di pattuglia –
Ho gli occhi ancora appiccicati dal sonno. Mentre mi tiro su sento
che la maglia dietro la schiena è completamente fradicia di
sudore.
- Niente pattuglia amico. Dobbiamo unirci al convoglio che è già
giù in città. Sembra che hanno trovato un covo di ribelli e
vogliono entrare -.
E allora ti tocca a muovere il culo, marine. Ti alzi, ti prepari
veloce, come ti hanno insegnato, e nemmeno due minuti dopo sei
in assetto da battaglia. Ritiri il fucile all’armeria e monti sulla jeep
che guida Burt. Sgomma alzando un polverone ed esce dalla base.
Passa rasente ad un gruppo di bambini che saltano di lato appena
in tempo. Ti volti giusto un attimo per guardarli e sei già sulla
strada principale.
Il blitz si rivela un buco nell’acqua. Dentro la casa non ci sono
altro che due vecchi. Vengono presi in consegna dal convoglio e
noi veniamo rispediti alla base. Ci hanno fatto vestire per niente,
quelli stronzi.

152
CAPITOLO III
- Il Notiziario della Fox -

I ricordi si mescolano alla realtà. Sulla strada di casa mi sembra


quasi di sentire di nuovo la polvere. La dannata polvere del
deserto, quella che non smetti mai di masticare.
A casa c’è anche mio padre. Si è preso tre giorni di permesso per
stare un po’ col figlioletto in congedo. Mia madre ci prepara due
sandwich con pollo e mostarda, e noi ci sediamo in salotto a
vedere le notizie della Fox, quelle campate in aria per intenderci.
Mio padre è un repubblicano convinto, ma anche a lui non va
troppo a genio la scimmia. Eppure l’ha votata due volte!
Seguo il movimento delle labbra della giornalista davanti alla
telecamera. Non ricordo come si chiama, non mi interessano le
parole. Mi perdo nella sua bocca e in altri dettagli. Il rossetto da
trenta dollari. La giacca da trecento. Le infilerei il mio M15 nel
retto. La farei ballare un po’, proprio come con quella stronza col
velo in testa, laggiù nel deserto…

…e quel negro disperato che in lacrime mi urlava di lasciarla


andare. Ma io non la capisco quella lingua di merda. Non so
neanche che cazzo è, arabo, sunnita, cazzita. Comunque…
Lei si dimena con la canna nel culo. Secondo me le piaceva.
Jeremy tiene al guinzaglio il marito, legato come un salame. Bud
si avvicina alla troia e le infila il cazzo in bocca. La polvere è
dappertutto. Io butto giù un sorso di vodka dalla fiaschetta mentre
continuo a stantuffare con l’M15. Jeremy ride come un matto e
scatta foto col cellulare. Il culo dell’araba incomincia a
sanguinare. Deve proprio piacerle, penso. Ecco che quello stronzo
di Bud le viene in bocca. Le tiene la testa, sento i rantoli della
troia. Vuoi vedere che riesce ad affogarla. Attento, gli urlo, che te
lo mozza. Non riesco a finire la frase che la troia gli da un morso
e per poco non glielo stacca. Stronza. Che faccio ragazzi, chiedo.
Bud mi urla di ammazzarla, Jeremy invece, che ancora non gli
basta, mi trattiene. Forza, gli dico. Divertiti e facciamola finita.
Allora Bud prende il marito e comincia a picchiarlo, ma non lo

153
uccide. Non ancora. Gli attende un ultimo grande spettacolo
prima di chiudere per sempre quei due fottuti occhi da negro.
Jeremy tira la troia per il velo e la butta per terra. Io mi piego in
modo da non perdere la posizione. Continuo il vecchio su e giù
col fucile. Lui le monta sopra e comincia a scoparla. La sabbia si
alza, un polverone del cazzo. Ho paura mi si inceppi il pezzo.
Andiamo avanti così per due o tre minuti. Finalmente sento il
gemito del mio compagno. Fammi una foto, fammi una foto, urla
a Bud. Ma lo stronzo sta maciullando la testa del marito. Non lo
uccidere ancora, gli dico. Stai tranquillo, risponde lo stronzo, ma
ho paura che sia troppo tardi.
Siamo all’epilogo, Jeremy si rialza in piedi soddisfatto. La troia è
distesa e non si muove. Ma è viva, lo sento. Tutti si girano verso
di me, in attesa del colpo. Io continuo ancora un po’ a stantuffare,
su e giù, su e giù. Voglio sorprenderli. Voglio farli divertire,
persino il marito che con la faccia coperta dal sangue rotea
un’orbita verso la moglie. Li guardo uno ad uno, mi soffermo
alcuni istanti sul volto stravolto di Bud. Inaspettatamente, bang!
Tutto qui, mi urla Jeremy. Il colpo non lascia traccia. Una mezza
convulsione delle flaccide membra della troia, e poi è tutto finito.
E che ti aspettavi, gli dico io, sfilando dal culo l’M15 e pulendolo
al velo del cazzo. L’altro colpo è per il marito. Bang!
Andiamo ragazzi…

“David, vuoi un altro sandwich?” mi chiede mia madre dalla


cucina. Il ricordo mi ha messo appetito. “Si, mettici più
mostarda!” rispondo. In TV danno lo sport. Mio padre è sempre
contento quando danno lo sport. Il mondo diventa più semplice,
più lineare. Risultati, classifiche, vincitori, vinti. Tutto quadra.
Non è come la politica o la finanza. Lui non ci capisce mai un
cazzo di quella roba. È repubblicano perché lo era il suo vecchio,
semplice. Per il resto, potrebbero morire tutti. Ma lo sport è
un’altra cosa. Mi alzo, saluto il vecchio e me ne vado in camera.
Guardo l’orologio. Le tre meno venti. C’è ancora tempo, ma ho
voglia lo stesso di dormire. Scendo giù, dove le tenebre si fanno
tiepide, e il silenzio è musica.

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CAPITOLO IV
- Pulizia -

Il sogno si dirada lentamente. Effetto sfumatura, come solo un


bravo regista riuscirebbe a fare. Mia madre mi sta chiamando dal
fondo delle scale. - Tesoro, è pronto in tavola... - È pronto in
tavola… Si certo. Arrivo.
Ancora notiziario, quello delle otto stavolta. Adesso c’è un uomo
che parla composto. Parla dei ragazzi che sono ancora laggiù, in
mezzo alla polvere e alla merda di cammello. Mi accorgo che non
riesco a mantenere l’attenzione sulla tv. Il pensiero corre veloce e
si mischia ai ricordi. Mi sembra quasi di poter sentire ancora
l’odore della carne bruciata, e l’arabo che grida mentre sparo nel
culo di sua moglie. Basta. Scuoto la testa come servisse a
dimenticare. Mio padre tiene gli occhi puntati sul televisore, mia
madre invece se ne accorge.
- Cosa c’è tesoro? Non ti senti bene?
- Niente, è tutto apposto. Senti ma', io non ho fame. Vado a fare
due passi. Ci vediamo più tardi. - Sento le voci che si
confondono, mentre esco di casa.
- Povero piccolo, chissà cosa gli hanno fatto passare laggiù. - È
mia madre che mugola per il suo piccolo. Sarei contento se avesse
visto cosa è successo alla coppia di beduini. Sarei contento di
smerdargli gli occhi di pura realtà. La realtà che puzza di cordite.
Rispondo al cellulare che squilla, mentre continuo a guidare verso
il bar. È Jeremy; che ha voglia di vedermi per una bevuta insieme.
Jeremy abita a pochi chilometri da casa mia. Ci conosciamo
dall’asilo; siamo cresciuti insieme. Ci siamo fatti la prima birra
insieme, mentre sbirciavamo dalla finestra che dava nello
spogliatoio femminile della scuola. La prima canna d’erba ce la
fumammo insieme nascosti sotto le gradinate del campo da
football. Ci siamo anche arruolati insieme, Jeremy ed io.
Arrivo al bar e parcheggio sul retro. Ho scelto un posto che non è
frequentato da amici e compagni di scuola. Non ho voglia di
vederli, di dover subire le pacche sulle spalle e dover raccontare
come me la passavo nel deserto. Teste di cazzo, tutti quanti. Solo

155
a pensare a quelle facce belle distese nell’annuario scolastico, mi
sale una rabbia incontrollabile. Non so perché, ma sono certo che
potrei sparare in fronte ad ognuno di loro senza la minima
esitazione. Non chiedetemi perché ce l’abbia tanto con loro, è
solo che certe cose le capiscono solo quelli che ci sono stati.
Quelli che hanno visto. E poi c’è dell’altro. Ve ne parlerò
presto…
Mentre scendo dalla macchina la rabbia continua a salire. Sbatto
forte lo sportello e calcio lontano la lattina vuota che mi ritrovo
tra i piedi. Questa va a finire in mezzo ad un gruppetto di tre
negri. Loro si girano e cominciano a fissarmi. Portano vistose
catene al collo. Marche famose stampate sulle magliette di due
taglie più grandi. Uno di loro fa un passo avanti e stringe il
cavallo de pantaloni tra le mani. Continuano a fissarmi… Le tre
scimmie. Mi chiedo che cazzo ci stiamo a fare laggiù nella merda,
se per le strade di casa nostra devo ancora vedere questi residui di
ghetto. Queste bestie randagie, più adatte ad uno zoo che a questa
società. Spiegatemi un po’ perché dovrei permetterlo. Perché, noi
cittadini liberi, dovremmo permettere a questa feccia di infestare
le strade. Non me ne accorgo ma lo dico ad alta voce,
avvicinandomi lentamente. Il più alto di loro continua a venirmi
incontro. Gli altri due lo seguono dappresso.
- No, bastardi… Non vi permetto di fare i cazzi vostri nelle strade
in cui sono cresciuto. Tornate nelle fogne! - Calcio forte
all’altezza della rotula, come mi hanno insegnato. Il negro si
inginocchia urlando di dolore. Con un balzo sono su quello di
destra. Faccio scivolare la mano in tasca e il contatto con il
manico d’osso mi riporta all’infanzia. Il coltello da scuoiatura che
mio padre mi regalò da ragazzo, quello che usavo per andare a
caccia di cervi insieme a lui, adesso è saldo nella mia destra. Un
gesto rapido, la lama sembra disegnare una scia nell’aria. La
seconda scimmia cade all’indietro tenendosi la faccia. Il terzo
tenta di scappare, lo inseguo e in poche falcate lo raggiungo.
Sento i muscoli delle gambe rispondere al mio ordine. Li sento
reagire istintivi, pronti a compiere il loro dovere. Pianto il coltello
con forza sotto la base del cranio, mentre gli tiro indietro la testa.

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La bestia cade e una macchia scura si allarga sotto di lui. Torno
dagli altri due. Quello alto è ancora in terra e si tiene la gamba.
- Sei una bestia schifosa. Lo sai vero? La tua razza si espande
come bubboni infetti. Luridi parassiti vi attaccate a questa società
succhiandone la linfa. Quella troia di tua madre non ha fatto altro
che aggiungere germi e allargare l’infezione quando ti ha cagato
fuori. Lo sai… EH?! - Gli monto con tutto il peso sul ginocchio
spezzato tirandolo a me per i capelli.
- Lo sai vero? Eh stronzo?! Dillo… Dillo che tua madre è soltanto
una vacca infetta… Lurido bastardo - Lui annuisce, comincia a
singhiozzare.
- Allora? Dov’è finito il gangster del ghetto… eh pezzo di merda!
Avanti dillo… Cosa cazzo è quella negra di tua madre? - Lo
stronzo piange ancora di più e io per risposta carico altro peso sul
suo ginocchio. Lui urla un po’, poi stringe i denti e comincia a
mugolare.
- È una vacca – dice piano.
- Cosa? Che cazzo hai detto, negro? Non ho sentito… Cosa cazzo
è tua madre?
- È una vacca - ripete più forte. - È una vacca infetta. -
- Esatto cioccolatino… È una vacca negra infetta… Beduina del
cazzo. - Il taglio netto alla gola comincia a zampillare sangue,
sempre più abbondante, fino a somigliare ad una cascata scura.
Gli lascio i capelli e lui cade all’indietro come una marionetta
senza fili. Mi avvicino all’ultimo. La prima coltellata è passata di
traverso sull’occhio. Lui geme ruotando la testa come se fosse
stordito dalla droga. Un breve sguardo. Lo fisso nell’unico
occhio, che sta ruotando freneticamente dentro l’orbita. Sento i
suoi denti rompersi sulla punta dell’anfibio. Il secondo e il terzo
calcio sembrano incassarlo nell’asfalto. Il quarto… Il quinto… Il
sesto… Continuo e continuo ancora. Il settimo calcio sulla bocca
sembra finalmente ucciderlo. Pezzetti bianchi galleggiano in una
pozza rosso scuro. Le note di Walk dei Pantera suonano forti
anche all’esterno del locale. La musica ha coperto le urla della
mia pulizia. Faccio il giro ed entro dalla porta principale. Il locale
è pieno e Jeremy mi saluta dal tavolo più lontano.

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CAPITOLO V
- Un paio di birre -

Due Budweiser schiumanti e la faccia di un vecchio amico. La


serata perfetta. - Quando sei rientrato? - gli chiedo, buttando giù
un sorso di birra. Ne avevo proprio bisogno. La scaramuccia coi
negri mi ha fatto venir sete.
- Oggi, direttamente dalla base. E te?
- Ieri. Sai nulla di Bud?
- È sempre laggiù. E chi lo muove quello! - Per un minuto ci
lasciamo percuotere dalla musica. Non che non ci sia niente da
dire, ma sono contento di trovarmi insieme a lui, e voglio godermi
il momento prima di parlare di quella cosa. Ci guardiamo un po’
intorno. Sappiamo di essere diversi dagli altri. Dall’abisso non si
torna indietro…
- È successo niente? - domando. Si, perché qualcosa deve essere
per forza successo. No, non i negri. I negri sono stati solo un
incidente di percorso. Parlo del rituale, quello delle sei, il segreto
che ci siamo portati quaggiù, in questa fogna di città.
- La spiaggia… - Jeremy mi risponde con lo sguardo abbassato.
Non gli piace questa storia. Non lo biasimo, ma l’unica soluzione
è lasciarsi andare.
- Dormivi?
- Si ho dormito tutto il pomeriggio.
- Anch’io, o almeno è quello che ricordo… Perché la spiaggia?
- C’era della sabbia attaccata alle mie scarpe. - Cerco di ricordare.
Si, forse ha ragione. Sabbia sul tappetino d’ingresso. La
spiaggia…
Uno stronzo si siede accanto a noi. Si chiama Matt Qualcosa. Mi
conosce da un paio di anni, cioè conosceva il vecchio Norton.
Giocavamo a football insieme nella squadra del liceo. Cazzo, che
palle! - Allora sei rientrato da quell’inferno! Dai che ti offro un
giro… - Matt Qualcosa ordina tre birre e incomincia a scassarci il
cazzo. Lo sopportiamo. Non so come ci riusciamo ma rimaniamo
ad ascoltarlo, fino a quando si accorge che le sue chiacchiere non
sortiscono alcun effetto. Avverto il suo disagio. La nostra

158
presenza gli diventa intollerabile. Un attimo dopo trova un preteso
per lasciarci. Menomale…
- Comunque domani sapremo cos’è accaduto - dichiaro io,
scolandomi l’ultimo sorso.
- Già. Per poco non mi hanno beccato all’aeroporto, ieri, in
Germania. Maledette telecamere! - Jeremy continua ad osservare
la schiuma nel bicchiere. Mi domando se ce la farà ad andare
avanti, se in futuro potrò fidarmi di lui.
- Non è stato facile neanche per me. Ho usato una toilette.
Azzardato, comunque nessuno ci ha disturbati - gli confesso,
cercando di rassicurarlo.
- Sai chi era?
- Un vecchio tedesco.
- Come lo hai saputo?
- Ne parlavano alla base, il giorno in cui ho fatto rientro. Nessuno
mi ha visto. Ricordo solo di essermi svegliato con la testa
appoggiata al finestrino dell’aeroplano. Comunque da oggi sarà
più facile, vedrai… - Si, confidavo nel fatto che la città offrisse
carne in abbondanza, nonché una vasta selezione di scenari
necessari per soddisfare i nostri bisogni. Luoghi appartati,
magazzini vuoti, vecchi container, e naturalmente la spiaggia.
Chilometri e chilometri di costa, splendore e vanto della nostra
solare cittadina. Eire, un buco di culo accanto all’acqua.
- Che ti è successo? - Solo adesso si accorge del sangue che mi
inzuppa la manica della giacca.
- Niente, dei fottuti negri… - poi ordino un’altra birra. È una bella
serata, dopotutto.

Eravamo furibondi. La storia del convoglio, della casa con quei


due vecchi del cazzo, la missione a puttane… Insomma, neanche
un negro da massacrare. Bud ci era rimasto proprio male. Non si
poteva tornare al campo così, non senza un po’ di sano strapazzo,
tanto per ammazzare la noia.
Lo sento nell’aria, è uno di quei giorni. Jeremy ride come un
matto. Io siedo davanti, accanto al sergente Burt. Non è uno dei
nostri e Bud, che gli sta proprio dietro, lo sa. Ma la jeep la deve

159
portare lui ed è sempre lui quello più alto di grado. Signorsì,
signornò, e stronzate del genere. Ma come si fa, penso. Intanto
guardo negli occhi Bud, che è su di giri come non mai. Sono le
pasticche, quelle che rimedia dal messicano, drogato del cazzo.
Chissà con cosa la taglia quella roba. Chissà dove la prende. Poco
importa, l’essenziale è che facciano il loro dovere. Ne ho prese
due anche io prima di partire. Perché è sempre bene prenderle
prima di iniziare le danze.
- Brutto stronzo! – urla Bud indicando il marciapiede. Stiamo
attraversando la periferia di Falluja. Catapecchie e polvere. Una
merda.
- Che succede? – domanda Burt, tirando il freno.
- Quel ragazzino. Quello è il bastardo che mi ha mostrato il dito,
due giorni fa. Io lo faccio secco…
- Calmati Bud, dai. Torniamo al campo… - Burt reinserisce la
marcia.
- Calmati un cazzo! - Neanche io riesco ad anticipare quella follia.
Un colpo alla nuca e Bud fa saltare le cervella al sergente. Jeremy
rimane di sasso, poi incomincia a ridere come un cretino. Io mi
scaravento fuori, seguito dagli altri due. Le danze hanno inizio.

CAPITOLO VI
- Casbah -

Il piccolo scatta veloce mentre noi gli arranchiamo dietro. Gli


zaini e la tenuta da battaglia non favoriscono i nostri movimenti.
Ad ogni passo la sabbia si alza densa in nuvole opache. Bud
arranca e sbuffa; è quasi senza fiato. La pancia prominente, tenuta
stretta dalla mimetica, sobbalza di continuo. Jeremy ed io lo
sorpassiamo, siamo più svelti e per un momento credo quasi di
averlo raggiunto, il bastardino. Quel piccolo topo riesce a
sfuggirmi per un soffio. Gli ho sfiorato i capelli con la punta delle
dita, ma lui corre più veloce del vento, scarta rapido i rottami
delle macchine bruciate, che tempestano lo sfondo di questo
grottesco paesaggio.

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- Corri… Corri cazzo! Corri! - Jeremy continua ad urlare a
squarciagola, non capisco dove trovi il fiato. Il petto mi brucia
come se stessi respirando fuoco, mentre l’aria caldissima sfasa la
vista, trasformando tutto in un miraggio. Il bambino sembra
invece correre sempre più veloce. Si infila in un portone. La
parete dell’edificio è nera e sventrata in parte da una bomba;
riesco a intravederne l’ interno. Senza pensare ci buttiamo a
capofitto dentro il portone. Abbiamo riguadagnato qualche metro
di distanza. Mi chiedo chi me lo fa fare. Chi mi costringe a
correre a questo modo per prendere un dannato ragazzino che ha
mandato a fare in culo Bud. In fondo il testa di cazzo meriterebbe
di essere mandato a fare in culo ogni singolo istante.
Poi un demone assale la mia logica, sbranando la sua carne fresca,
e mi ricordo COSA sto inseguendo. Non un essere umano, non un
individuo, non un bambino. Ma un figlio di troia arabo che non
capisce la verità. Che si ostina a non capire che noi siamo qui per
fare del bene. Poi smetto di prendermi per il culo e sento l’odore
del sangue dentro il mio naso. Sento il suo sapore nella bocca. Nel
cervello… Nel cervello… Nel cervello.
Il palazzo è quasi totalmente crollato. Solo un piccolo corridoio
sulla mia destra è ancora intatto; la parete che dovrebbe starmi
davanti, invece, non esiste più. I residui del muro sono sparsi
ovunque. Calpesto i calcinacci che si sgretolano sotto gli anfibi.
Varco una soglia inesistente. Appena attraverso quello che rimane
di un arco con arabeschi scolpiti in bassorilievo, mi arresto di
colpo. Jeremy non riesce a fermarsi prima di avermi spinto
leggermente, facendomi entrare in un altro mondo.
Aromi dolci e pungenti mi assalgono il naso, ma la musica, che
pare quasi stonata, cessa all’istante. Realizzo di essere appena
entrato nella tana del lupo. Siamo dentro una casbah araba. Sento
Jeremy alle mie spalle che sussurra “cazzo cazzo cazzo”, mentre
uno scalpiccio precede l’arrivo di Bud.
Davanti a noi decine e decine di uomini. Ci sono bancarelle di
ogni tipo sparse per tutto lo stretto cortile. Il tempo sembra
fermarsi e ogni rumore cessa di esistere. Rimango immobile ad
esaminare la scena, come se fossi un osservatore disinteressato.

161
Dal silenzio e stasi totale ci ritroviamo in un caos primordiale.
Donne e bambini cominciano a correre verso ogni anfratto
presente, mentre la gente, destata come da un sogno, comincia a
urlare in quella cazzo di lingua. L’atteggiamento è minaccioso,
ma nessuno si avvicina a noi. Adesso siamo in fila, Bud alla mia
sinistra e Jeremy sulla destra.
- Che cazzo facciamo? - A Jeremy trema la voce ed io stringo più
forte il fucile. Giro appena lo sguardo verso Bud per accertarmi
che non faccia cazzate, e glielo dico piano, appena un sussurro.
Non so neanche se riesco a finire la frase, quando il braccio destro
di Bud comincia a zampillare sangue.
- Merda! Merda! - Dagli angoli più bui escono fuori uomini
armati. Cominciano a spararci contro. Jeremy è il primo a
rimbucare la porta, mentre io mi tiro dietro Bud che sta
sventagliando con l’M 15. Ho appena sorpassato il portone
annerito, quando un mattone all’altezza della mia tempia esplode.
I frammenti mi schizzano in faccia graffiandomi. Pochi centimetri
più a destra e la mia testa sarebbe esplosa. Sparo a casaccio senza
guardare né voltarmi.
Due passi e il sole ci abbaglia come una torcia puntata sugli
occhi. Sento ancora qualche sparo in lontananza, mentre mi metto
alla guida della Jeep. Il tragitto di ritorno sono sicuro di averlo
fatto nella metà del tempo dell’andata, e solo quando arriviamo al
mezzo mi accorgo che sto ancora tenendo Bud per la mimetica.
Lui preme sul braccio che continua a sanguinare, ma sta bene;
impreca tra i denti. Ingrano la prima e schiaccio il pedale, come a
volerlo spezzare.

Saluto Jeremy. Tutto d’un colpo mi è preso un sonno incredibile.


Non faccio altro che dormire da quando sono tornato. Dormirei
tutto il giorno… Dormirei per sempre se potessi.
Riesco a fare tre passi fuori dal locale prima che una pattuglia
della polizia mi pianti i fari addosso. Merda, non ci voleva!

162
CAPITOLO VII
- Deja-vu -

L’agente esce dall’auto intimandomi di alzare le mani. Le cose


sono cambiate negli ultimi anni. Prima della menata del 9/11 gli
sbirri non facevano tutto questo chiasso. Oggi invece hanno
sempre la mano sul ferro, pronti a farti saltare le cervella per un
infrazione stradale. Obbedisco allo stronzo. Rimango quieto come
un lama tibetano. È un semplice controllo. C’è stato un po’ di
movimento in città nelle ultime ore, e non solo a causa dei negri.
Sono stati ritrovati due cadaveri sulla spiaggia, un uomo e sua
figlia. La polizia è costretta a muovere un po’ il culo, il che è
davvero strano per Eire.
- Sergente Norton, può andare. Grazie per la collaborazione. -
Stronzo. Non ti sei neanche accorto che ho i polsini della giacca
intinsi di sangue e le nocche dei pugni sbucciate. Mi viene in
mente quella storia di quel Jeffrey Dahmer, il pazzo di
Milwaukee. Quelli stronzi di piedipiatti gli riportarono in casa una
delle sue vittime, un ragazzino di quattordici anni che era riuscito
a scappare. Lo avevano trovato mezzo nudo in strada, stravolto
per le torture subite. Il perfido Jeffrey trapanava la fronte delle
sue vittime e poi ci spruzzava dell’acido. Così le trasformava in
zombi, per giocarci un po’, prima di cucinarli ovviamente.
Passiamo intere vite davanti alle novelle di Hollywood, che ci
raccontano di come sono perspicaci i nostri poliziotti. Un piccolo
indizio e ti risolvono l’omicidio perfetto. Ma la verità è un’altra.
La verità è sempre un’altra. La polizia non ci capisce un cazzo di
quello che succede per le strade. Se riesce a beccarti è perché
hanno avuto culo, o perché eri così fatto che hai lasciato il tuo
nome scritto sul cadavere,
Saluto l’agente con un sorriso e mezz’ora dopo sono sotto le
coperte. Mi godo il sonno, la discesa, l’oblio. Buonanotte…

Il ronzio del bimotore mi avverte che siamo pronti ad atterrare.


Benissimo. Non ce la facevo più…
…sono appena passate le sei. Non è successo nulla. A volte

163
accade anche questo. Quando riconosco di non avere alternative
mi costringo a rimanere sveglio, e allora il rituale è rimandato al
giorno dopo. Sicuro. Non possono passare più di quarantotto ore
tra un rituale e l’altro, altrimenti lui si arrabbia, e si ripiglia le
nostre notti, le cadute nell’abisso, i bagni di tenebra. La sera del
mio arrivo non potevo fare altrimenti. Per questo ero sicuro che il
giorno dopo sarebbe successo qualcosa. L’incidente alla spiaggia,
come lo hanno chiamato; i gabbiani affamati, la bambina con il
padre, e tutte le cose che sono state scritte in terza pagina nel
giornale locale. Brutto affare…
Nessuno sospetta ancora che si tratti di un omicidio, ma la
vicenda è senz’altro bizzarra. In autunno inoltrato un uomo
insieme alla figlia di cinque anni decide di farsi un bagno nel
lago, che di questi tempi è davvero gelido. Poi il rinvenimento dei
cadaveri, con quella caratteristica che è una vera e propria manna
per i giornalisti. “…il signor Redford e la piccola Katie sono stati
trovati da un turista che camminava sulla spiaggia, verso le ore
venti. Nella penombra non si era accorto che a entrambi erano
stati asportati i bulbi oculari, una pratica adottata a volte dai
gabbiani, presenti in grandi stormi attorno alla zona…” Gabbiani
un cazzo, dico io!
Ecco che cosa succede quando vengono mandati degli idioti a
portare piombo e democrazia dall’altra parte dell’oceano. Quelli
sono mondi insidiosi, troppo antichi per noi, che siamo le pulci
della storia. Abbiamo si e no cinquecento anni. Abbiamo messo a
ferro e fuoco le vecchie culture e ci siamo inventati il fottutissimo
sogno americano. Poi ci corazziamo bene e bene e crediamo di
farla franca. Non puoi farla franca con quella gente. Quella gente
è antica. Esistono cose che dormono sotto la sabbia, dormono da
secoli, millenni. Non sono morte. Attendono…
Ilu Limnu, il dio del male, signore supremo delle tenebre quiete,
un bagno caldo che neanche la droga del messicano riesce a farti
assaporare. Legato a Taiwaith, il mare primordiale che diede vita
alla creazione, Ilu Limnu esercita il suo incontrastato dominio
sull’ombra. Puoi riverirlo con un semplice gesto. Non devi fare
niente. Basta che tu ti addormenti. Sarà lui che entrerà in te per

164
prendersi il suo dono. Poi, a conti fatti, ti regalerà l’abisso…
Sono le quattro e ventidue. Mia madre è in giardino a dare da
mangiare ai gatti. Mio padre lucida il suv. Me ne vado di sopra a
dormire. A sognare. A farmi rapire. Succederà di nuovo, ancora,
ed ancora, ed ancora.

CAPITOLO VIII
- La valle del tempio -

Ci metto un secondo ad addormentarmi. All’inizio i sogni si


mischiano tra loro. Tra amici, ragazze, ricordi di infanzia e ricordi
dell’inferno di sabbia. Poi arriva Lui. Si fa largo tra i ricordi
sbranandoli senza pietà, e lentamente riporta la mia memoria
all’inizio. All’inizio del tutto… La valle del tempio.

- Allora Jeremy. Cosa dobbiamo fare qua?


- Non ne ho la più pallida idea. Dobbiamo sorvegliare questa
merda di posto. Punto e basta. Domani mattina il convoglio
tornerà a riprenderci. - Ci hanno scaricati in questa vallata del
cazzo tre ore fa, con il compito di sorvegliare… Sorvegliare cosa,
mi chiedo. Ovunque volgo lo sguardo vedo solo dune di sabbia e
nient’altro. Le tende, una borsa termica coi viveri e quella del
primo soccorso è il solo equipaggiamento che abbiamo in
dotazione, oltre logicamente a quella di base: corpetto e fucile.
Bud sbuffa scocciato. Tira fuori dallo zaino una bottiglia di
whiskey e ci dà una lunga sorsata.
- Cazzo di posto… Beduini di merda. - Non dice altro, si siede su
una roccia che sbuca dalla sabbia e comincia a sfogliare una
vecchia copia di Playboy. Il tempo passa e il sole continua a
incenerirci il cervello. Le immagini in lontananza vengono sfasate
del calore che sale dalla sabbia. Tutto assomiglia ad un miraggio
confuso. Dopo il decimo giro di poker con Jeremy mi stufo di
quella situazione e decido di allontanarmi un po’. Voglio salire
sopra una delle dune che formano la valle e vedere cosa diavolo ci
circonda. Così mi allontano, seguito dai sommessi borbottii dei

165
due, a cui non do la minima attenzione.
- Torno subito, mammole… ecchecazzo! - Mi accorgo di quanto
sia lunga questa onda di sabbia solo quando ci arrivo sotto. Le
dune in questa parte del deserto sono stranissime. Ad una prima
occhiata non appaiono ripide, ma quando cerchi di scavalcarle
sembrano infinite. La pendenza è dolce, ma non finiscono mai! A
metà del tragitto decido di abbandonare lo zaino e portarmi dietro
solo il fucile. Quello non lo mollo neanche quando dormo. Arrivo
finalmente in cima e quello che vedo ha un che di surreale. In
ogni direzione si susseguono vallate di sabbia, alcune così
profonde che non riesco a vederne la fine. Sembra un enorme
onda continua, con al centro enormi crateri dalle curve morbide e
lucenti. Il sole mi acceca quando cerco di alzare lo sguardo
all’orizzonte, cosicché devo rimanere alcuni secondi con la mano
sugli occhi, prima di poter guardare meglio.
Poi riesco a vederli vedo… E sono tanti. - Cazzo, siamo fottuti!

Sento che mi sto per svegliare. I miei occhi sono quasi aperti. La
luce della lampada che ho scordato accesa sul comodino filtra
attraverso le palpebre. Poi una voce profonda che sembra
gorgogliare sott’acqua invade la mia mente. - Non ancora
David… Torna qua… - Come se una mano invisibile mi
trascinasse via, ripiombo nel nero.

La colonna dei cammelli è formata da almeno venti animali. I


beduini sono completamente ricoperti da abiti scuri, che lasciano
scoperti solo gli occhi. Ad ognuno di essi, da sopra la spalla,
spunta la lunga canna di un fucile. Non riesco a distinguerli, ma ci
scommetterei che sono di fabbricazione russa. Ai loro fianchi
penzolano delle lunghe sciabole ricurve. La carovana punta dritto
verso la mia direzione. Abbiamo davvero poco tempo per
nasconderci, se vogliamo evitare il massacro. Corro a più non
posso verso i miei compagni. Cado molte volte mentre ripercorro
il tragitto al contrario. Mi ritrovo la sabbia perfino in bocca, così
asciutta che non riesco nemmeno a sputare. Scollino la duna e li
vedo, Jeremy che cazzeggia col coltello, Bud è sdraiato con la

166
testa sullo zaino, sembra addirittura dormire. Vorrei urlare per
avvertirli, ma siamo sotto vento e peggiorerei soltanto la
situazione. Un silenzio agghiacciante satura la valle. Sento solo il
mio respiro affannato, mentre cerco di ingoiare grosse boccate
d’aria. Gli ultimi metri sembrano non finire mai, mentre affondo
il passo fino a metà anfibio. Jeremy mi guarda spalancando gli
occhi. Mi chiede cosa è successo, mentre con un calcio sveglia
Bud che russa beato. Cerco di riprendere fiato e gli spiego quello
che ho visto. - Dobbiamo nasconderci. Subito! Cazzo!
- E dove… Dove cazzo vuoi nasconderti qua? Non c’è niente per
chi sa quanto - Bud intanto arma il fucile. Probabilmente non ha
capito il numero di beduini che compongono la carovana armata.
Non rispondo neanche alla domanda di Jeremy e comincio a
correre verso la sponda opposta a quella da cui sono
sopraggiunto. Mi auguro che la morfologia del territorio sia
uguale sull’altro versante. In tal caso avremmo qualche possibilità
di nasconderci, magari in un’altra valle, ad aspettare il passaggio
dei beduini. Sento gli altri che raccolgono in fretta le cose e
iniziano a seguirmi. Bud impreca, ma con la coda dell’occhio
vedo che si mette a correre anche lui. La cima più alta
dell’enorme duna sembra lontanissima e noi siamo ancora a metà.
I cammelli non hanno i nostri stessi problemi di movimento. Li
sento avvicinarsi sempre di più. I beduini parlano tra loro, in
quella maledetta lingua che non sopporto più! Quando finalmente
arriviamo in cima, mi sembra di avere ingoiato metà della sabbia
del deserto, ma non me ne curo. Davanti a me si stende un’altra
valle, più piccola di quella che abbiamo appena lasciato.
Sull’estremità destra intravedo delle grotte e mi ci butto a
capofitto. Bud ansima come un pazzo e per un attimo credo che
gli stia per venire un infarto, mentre arranca dietro a Jeremy.
Arrivo davanti alle grotte e mi ci infilo, senza neanche guardarmi
indietro. Mi fermo, appoggiato al muro, e cerco di riprendere
fiato. Arrivano anche gli altri due, che senza dire una parola si
stendono a terra. Bud sta vomitando in un angolo; Jeremy lo ha
trascinarlo a forza per gli ultimi metri. Non so quanto tempo è
passato, non credo molto, ma adesso riesco a respirare

167
normalmente. Con una lunga sorsata d’acqua dalla borraccia
riesco finalmente a pulirmi la bocca. Mi accendo una sigaretta e
tendo l’orecchio verso l’interno della grotta. Il rumore non si fa
attendere, sembrano delle voci, ma non riesco a capire bene. La
corsa mi ha frastornato. - Merda!
Mi volto a guardare Jeremy e ne seguo lo sguardo. I rumori non
vengono dalla caverna ma dalla cima della duna. I beduini
l’hanno appena sorpassata. Indietreggiamo all’interno della
caverna, fino ad uscire dalla portata dei raggi del sole che
illuminano l’ingresso. Trattengo il fiato sperando che la carovana
cambi direzione. Spero proprio che non abbiano intenzione di
entrare nella caverna…
La buona notizia è che non lo fanno, la cattiva è che si stanno
accampando proprio davanti a noi. - Dobbiamo chiamare il
convoglio - dice Jeremy. - Dobbiamo dirgli che siamo nella merda
e che devono venire a prenderci. Se arrivano con i mezzi per quei
negri del deserto non c’è più storia.
Mi pare un’ ottima idea. Faccio per allungare la mano verso il mio
zaino che contiene la radio, quando mi accorgo di averlo lasciato
sulla duna. - Sei una testa di cazzo! - Bud mi si avventa contro.
Jeremy riesce a placcarlo a mezz’aria e, anche se è la meta di
Bud, riesce ad immobilizzarlo.
- Sta zitto! Vuoi farti sentire dai beduini? Zitto! - Bud si calma,
ma gli leggo negl'occhi la voglia di uccidermi. Io rimango
immobile, in silenzio, finché il tizzone della sigaretta non mi
brucia le dita.
- Dobbiamo addentrarci nella caverna e vedere se c’è una via di
uscita. È l’unico modo.
- È l’unico modo perché qualche stronzo ha lasciato lo zaino in
culo al mondo - Bud schiuma di rabbia e Jeremy non lo
contraddice. Anche il suo sguardo è furibondo. Nonostante tutto i
due mi seguono, non che abbiano molta altra scelta. Accendiamo
le torce elettriche e iniziamo a camminare. Man mano che ci
spingiamo avanti, la grotta si fa sempre più bassa, fino a
costringerci a camminare curvi. Le pareti di roccia rossa sono
adornati da strani disegni, tracciati probabilmente con del

168
carbone, ma non riesco a capire cosa vogliono rappresentare. Si
intravedono delle figure antropomorfe, alcune in piedi e altre in
ginocchio.
Continuiamo a camminare. Bud sputa sui disegni, imprecando
sottovoce. Poi tira fuori la bottiglia e ci si attacca come una
sanguisuga. Sembra che non voglia più smetterla di bere.
Finalmente, dopo una mezz’ora buona di cammino, il cunicolo
termina e ci ritroviamo in una saletta rotonda scavata nella roccia.
Torniamo in posizione eretta. Posso finalmente stirarmi la
schiena. Non ne potevo più…
Faccio ancora un passo verso l’interno della saletta, rischiarando
le pareti con la torcia. Giro su me stesso e cerco di capire dove ci
troviamo. La roccia rossa dà una luce strana all’ambiente, che
deve per forza essere opera dell’uomo. Continuo a girare su me
stesso, fino a distinguere una piccola porta in un angolo. Un uomo
è costretto a chinarsi per passarci attraverso. Incisi nella roccia
sopra lo stipite campeggiano, come a formare una frase, dei
caratteri mai visti prima.

CAPITOLO IX
- La cena del demone -

Il ricordo del rituale sopraggiunge solo dopo qualche giorno. Ha


bisogno di risalire l’abisso, scavalcare le barriere della coscienza,
insinuarsi nell’intimo (o in quello che mi è rimasto dentro), per
poi infine essere decodificato dal cervello. Arrivano brevi
immagini, flashback, suoni, urla. Lentamente il puzzle si
ricompone nella mia testa. A volte i rituali si mischiano tra loro,
un’accozzaglia divertente di macchie sanguigne. Come gli ultimi
due, ad esempio. Il vecchio tedesco nella toilette dell’aeroporto e
la bambina sulla spiaggia. Gli ultimi due prima di quello di oggi,
ovviamente.
Sono davanti al televisore. Non so cosa sia successo tre ore fa. Tre
ore fa erano le sei, ed io dormivo, ma qualcosa ha abitato il mio
corpo e ha fatto un salto in città. Aveva fame. Forse la TV locale

169
ne parlerà tra poco. Forse…
Ecco che mi arrivano altre immagini. Fotogrammi che si
sovrappongono alla pellicola di un vecchio film in bianco e nero.
Mio padre è andato a giocare a biliardo coi suoi amici. Mi chiedo
come riesca a tirare di stecca con quella pancia. Mia madre
sonnecchia sulla poltrona accanto a me. Mi piacerebbe farle del
male, solo per sapere cosa si prova. Lei che mi ha generato, che
ha sofferto per fare uscire dal suo corpo questo frutto malsano,
infilarli il coltellaccio nel gargarozzo, vederle sprizzare tutto quel
dannato sangue che deve averci in corpo, e ce ne deve avere
parecchio visto quanto è grassa. Poi però dovrei pulire il salotto
prima che rientri mio padre, e questo davvero non mi va. Lascio
perdere e torno ai miei ricordi.
Jeremy spinge la testa dell’uomo sotto l’acqua. Il lago è freddo,
ma non ci badiamo. La bambina urla, poi si volta ed incomincia a
scappare lungo la spiaggia. Le lascio un po’ di vantaggio prima di
mettermi a correre. La osservo (anzi, è Lui che la guarda
attraverso i miei occhi, ed è sempre Lui che mi omaggia di questi
gustosi ricordi), la coda bionda che sfarfalla, il vestitino rosso a
righe, i piedini nudi sul bagnasciuga. Davvero deliziosa…
La caccia dura meno di un minuto. L’immagine della piccola che
si dimena diventa quella del vecchio tedesco, seduto sul cesso
immacolato di quel maledetto aeroporto. Profumo di cloro e
deodorante. Piastrelle antracite e luci al neon. La mano destra
premuta sulla sua gola, un sacco di pelle flaccida ripiena di vene e
nervi del cazzo. Lui mi guarda con mille interrogativi negli occhi.
Due occhi chiarissimi ed umidi, due orribili occhi da vecchio. A
Lui non importa se sono vecchi oppure giovani. A Lui
piacciono…
Torna il vestitino rosso a righe. L’acqua fredda del lago, lo
sciaguattio e le urla. Piccolina… L’afferro per la coda e le spingo
la testa sotto l’acqua. Ha solo cinque anni ma si dimena come un
torello. La gambine nude che sbattono inutilmente sulla superficie
dell’acqua. Le mani che afferrano i miei anfibi cercando una
presa per riemergere. Tutto inutile. Sorrido compiaciuto sul
divano. No, non è per via di quel vecchio film che stanno

170
passando alla televisione. Sorrido per il tramonto che ci ha
investiti proprio in quell’attimo, un globo rossissimo appeso sopra
la superficie del lago, e l’acqua che esplode in mille riverberi.
“Oggi il sole tramonta alle 6:03 PM.” Aveva detto quella vocina
stridula alla radio. E mi ricordo di aver pensato “Ne sarà felice,
Lui.” Si perché, il rituale è legato al tramonto. Il declino del
giorno, l’apertura del mondo delle tenebre, il momento del
passaggio.
Avvicino la bocca alla testa del vecchio tedesco. Lui non fiata.
Sembra quasi intuire quello che gli sta per succedere. Nessuno ci
disturba, ed è un bene. A Lui non piace essere disturbato.
Avvinghiato a quel corpo grinzoso seduto sulla tazza del cesso,
appoggio le labbra sulle palpebre dell’occhio destro. È sempre
l’occhio destro il primo, l’antipasto. È Lui che mi comanda di
chiudere gli occhi, di attendere il momento. Le sei puntuali. Il
risucchio non proviene dai miei polmoni. Quello è il cibo di Ilu
Limnu. Il bulbo quando esce dall’orbita fa un curioso “PLOP”. La
vittima rimane viva, si dimena, e spesso diventa difficile
continuare il rituale. Ma è sempre Lui che comanda il corpo, e
quando la mia forza non basta, ci aggiunge un po’ della sua. La
sento arrivare attraverso i muscoli, una vibrazione leggermente
dolorosa, un flusso d’energia oscura proveniente dall’abisso.
Straordinario…
È la volta dell’occhio sinistro. Adesso il flashback mi riporta sulla
spiaggia. La bambina è svenuta tra le mie braccia. Con la coda
dell’occhio vedo Jeremy che viene verso di me, il volto imbrattato
di sangue e materia grigia. Lui ha già finito il suo pasto…
Il risucchio questa volta è più forte. Dannatamente più forte. Non
è solo il bulbo oculare a rifluire attraverso la mia bocca, ma
l’intero cervello della piccola. La cena del demone.
Il film in bianco e nero è terminato. Mamma è in cucina a
prepararsi l’ennesimo sandwich con la mostarda. Se ne mangia tre
prima di andare a dormire. Grassona del cazzo! Prima o poi le
mangio gli occhi, penso. Ma purtroppo non sono io che decido.
Ecco, c’è il notiziario. Chissà cosa è successo oggi pomeriggio…

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CAPITOLO X
- Interruzione -

Scosto la piccola porta, che si apre senza fatica. Dall’interno


arriva una debole luce, forse candele. Mi chino e oltrepasso la
soglia. All’interno centinaia di ceri rischiarano l’ambiente,
un’ampia caverna che assomiglia ad un anfiteatro. Mi accorgo
troppo tardi delle tre figure ammantate di scuro al centro
dell’arena. Si voltano verso di me. Mi vedono.
Lingua araba urlata con forza, con disprezzo. Non capisco quello
che stanno dicendo, ma la mia mano va automaticamente alla
sicura del fucile. Sposto appena il dito. CLICK. Il ferro è armato.
Rimango tuttavia immobile, perché qualcosa di allucinante attira
la mia attenzione. Un quarto uomo, che non avevo notato prima, è
chino sul cadavere di un ragazzino. Mormora una litania continua,
incomprensibile. Quando smette di salmodiare si volta anche lui
verso di me. La sua faccia è stravolta in una maschera contorta e
maligna. Un rivolo di sangue gli cola dalla bocca. Sembra
guardare verso di me, ma i suoi occhi sono persi nel vuoto.
- Che cazzo facciamo? - Jeremy alle mie spalle mi batte sulla
schiena con la canna del fucile.
- Non lo so… Indietro non possiamo certo tornare - Ancora una
volta Bud ci da una dimostrazione di quanto poco cervello abbia.
- Siamo marines dell’esercito degli Stati Uniti d’America.
Inginocchiatevi immediatamente e mettete le mani sopra la testa -
urla. L’inferno si scatena. Non riesco a capire quanti ce ne siano.
So solo che ne escono a decine da dietro le colonne che
circondano il centro dell’anfiteatro. Il primo sparo parte dalla mia
sinistra. Sono sicuro che ci sia Bud. Il resto sono solo grida e
deflagrazioni.
Ne cade uno dietro l’altro, mentre cercano di salire gli alti gradini
che ci separano da loro. Non sono armati e sulle facce
l’espressione è quella di uomini terrorizzati. Eppure continuano
inesorabilmente a correre verso di noi, e noi continuiamo
inesorabilmente a scaricare i nostri caricatori su di loro. Schizza il
sangue che impregna la sabbia ormai rossa, mentre gli uomini

172
sembrano marionette sventrare che crollano come se li avessero
tagliato i fili. La signora morte cala prepotentemente il suo
scettro. Tutti stanno urlando, ma uno in particolare attira la mia
attenzione. Sta parlando in inglese. - Non fatelo, non sparate…
Dobbiamo finire o Lui uscirà… - Non capisco molto bene il resto
della frase, a cui presto poca attenzione; poi un proiettile gli
perfora la gola ed altri quattro o cinque gli si piantano nel petto.
Amen.
Tutto lentamente si calma e finalmente torna il silenzio. Si odono
solo i nostri anfibi sulla roccia ricoperta di finissima sabbia.
Scendo qualche gradino, nessuno sembra essere rimasto in vita.
Appena raggiungo la base della scalinata, mi accorgo del pozzo al
centro dell’arena. La luce sembra improvvisamente più bassa,
forse qualche candela si è spenta nella confusione. Invece no; mi
guardo attorno e sono ancora tutte accese, eppure l’ambiente
appare più scuro, come se le ombre avessero divorato la luce.
L’aria sta diventando stranamente fredda e sono convinto di
sentire il tipico odore salmastro del mare. Impossibile, qui c’è
solo un mare di maledetta sabbia! Mi avvicino ancora di più al
pozzo. Un brivido percorre il le mie membra. Adesso fa
chiaramente freddo.
Poi un gorgoglio attira la mia attenzione…

CAPITOLO XI
- Il caffè -

- Hai sentito? Hanno beccato Bud - Mastico lentamente la


ciambella. Pregusto la tazza di caffè fumante. Incollo lo sguardo
allo specchio dietro il bancone del Dell’s che riflette quella testa
di cazzo di Jeremy.
- L’ho saputo ieri sera. Ti ricordi TJ, quel negro che si fumava di
tutto? Mi ha mandato una e-mail. Come cazzo avrà fatto, mi
chiedo. Tipi così non sanno nemmeno scrivere. Comunque, mi
parlava del reggimento, dei vecchi compagni, e del fattaccio.
Nessuno ha sparso la voce ovviamente. Se lo venissero a sapere

173
sarebbe un brutto affare… - La voce di Jeremy mi irrita più del
solito. Stacco un altro bel pezzo di pasta fritta zuccherosa e
continuo a guardare davanti. C’è un mucchio di gente nel locale.
Cazzo di gente…
- Comunque, mi ha detto che di punto in bianco, senza motivo, si
è avventato sul sergente Morrison. Lo ha buttato a terra e gli ha
strappato un occhio coi denti, prima di essere interrotto da un
proiettile che lo ha colpito alla spalla. - Finalmente si beve il suo
cazzo di caffè macchiato. Ci mette il latte come un poppante.
Oggi proprio non lo sopporto. La ciambella è finita. Adesso il
momento è topico. La sbobba che servono in questo bar è la
migliore di tutta la Pennsylvania. Una miscela robusta che però ti
lascia qualcosa di esotico in bocca. Si, è proprio perfetto…
- Ma un colpo non è stato sufficiente a fermarlo. Quattro soldati si
sono avventati su di lui, e Bud se li è scrollati di dosso come
moscerini. Poi si è tuffato di nuovo sul sergente. A quel punto
però Morrison, anche con un occhio solo, ha avuto il tempo di
recuperare il suo M 15. Glielo ha scaricato addosso, pace
all’anima di quel bastardo.
- Amen – dico io. E mi finisco il caffè. Una meraviglia.
- Hai saputo nulla di ieri? - Ma non se ne sta zitto un minuto
questo qui. Spero tanto che si cacci in un bel guaio. Che lo
prendano, e lo sbattano su quel dannato lettino, a fargli la
punturina fatale. Non m’importa più…
- Due turisti europei. Sul lago. Adesso è pieno di polizia laggiù.
Pensano che il pazzo si aggiri sulla spiaggia. Speriamo non Gli
venga voglia di rifarlo laggiù, altrimenti facciamo la fine di Bud. -
Stronzo! Non riesci a capire la sinfonia… È un movimento
intestinale, un flusso continuo che viene dall’abisso e risale,
t’invade la testa come mille pompini. Jeremy, sei proprio sterco di
vacca. Ecco cosa sei. Non sei degno di Lui. E Lui ti farà fuori.
- Cazzo David, io ho paura! - Questo non lo dovevi dire Jeremy.
No, non lo dovevi dire…
- Paura di cosa? – domando.
- Ho paura che ci prendano. A Lui non gliene frega un cazzo se ci
prendano o no. Come con Bud. Faremo la sua fine.

174
- No che non facciamo la sua fine. Bud era spacciato fin
dall’inizio. Era uno stronzo, e lo sai bene anche tu! -
Finalmente si è zittito. Finisce il suo brodo di caffellatte e paga il
conto. È l’unica cosa buona di oggi.

CAPITOLO XII
- Mare color del sangue -

Il freddo mi penetra le ossa mentre il gorgoglio che proviene dal


pozzo aumenta sempre più di intensità. D’un tratto una colonna
d’acqua si alza dal centro del pozzo. Sarà alta almeno tre metri ed
erutta con una forza incredibile. Il getto colpisce il soffitto e
ricade giù, scaraventandomi a terra. Mi ritrovo a sedere, zuppo
come una spugna. Le gocce che mi scivolano sulla pelle e mi
entrano in bocca sono salate. È acqua di mare. Acqua di mare in
pieno deserto. La colonna continua a fuoriuscire dal pozzo e
lentamente si colora di rosso. L’acqua è diventata sangue, mi
tinge di porpora, si mischia con la sabbia, creando una fanghiglia
nauseabonda. L’odore toglie il respiro, un misto di dolce e salato
che satura l’aria del tempio. Non ho più fiato, la mia testa inizia a
girare e la vista mi si annebbia. Sono ormai certo di morire…

Devo aver perso i sensi. Sono disteso a terra, solo. C’è molta
umidità nell’aria e avverto ancora quell’odore dolce e salato.
Riesco finalmente ad aprire gli occhi e mi accorgo di non essere
più nel tempio. Sono invece su una duna di sabbia, simile a quella
che nascondeva la vallata con la caverna. Ora che ci faccio caso il
paesaggio è esattamente uguale a quello. Mi alzo in piedi, non ho
più la divisa addosso. Sono completamente nudo. Un nuovo
gorgoglio coglie la mia attenzione. Mi avvio a piccoli passi verso
la cima della duna. Non riesco a capire perché, ma mi sento molto
stanco. Faccio una fatica tremenda a muovere un passo dietro
l’altro. Finalmente arrivo in cima alla duna. Non credo ai miei
occhi…
Davanti a me si stende un mare rosso. Un mare sanguigno nel

175
mezzo al deserto. La vastità dell’acqua è tale da non poterne
vedere la fine. Improvvisamente mi giunge una voce. Viene dal
fondo di quel mare rosso. La lingua è sconosciuta ma comprendo
ugualmente il significato di ogni singola parola. La voce
gorgoglia come se parlasse attraverso lo sciabordio delle onde.
Come se fossero le onde stesse a parlare.
“Ti ciberai dei bulbi affinché io possa vedere tramite te il terrore
che mi genera. Affinché da quel terrore io possa crescere ancora.
Alimenterai le mie acque con le gocce di vita che strapperai ai
predestinati, quando io te lo ordinerò. Da adesso prenderai il
posto dei sacerdoti che hai sterminato. Lo farai perché io te lo
ordino. Lo farai perché altrimenti ogni tuo sogno sarà abitato
dalle mie onde. Perché altrimenti la tua anima vagherà per sempre
tra le mie acque.”
Un’onda mi travolge. Vengo risucchiato dai flutti di quel mare.
Cerco di prendere ossigeno, ma alla prima boccata ingoio soltanto
acqua rossa. Ha il sapore del sale e del sangue marcio. Vengo
trascinato verso il largo. Accanto a me sfilano centinaia di corpi.
Galleggiano nell’acqua, mi danzano attorno, sembrano osservarmi
ma sono tutti privi di occhi. Alcuni si aggrappano alle mie gambe,
tirandomi giù, ed io non ho la forza ti liberarmi. Uno di questi
afferra la mia testa e mi fissa con le orbite vuote.
“Io sono Ilu Limnu. Io sono il mare primordiale, la creazione
prima, la forza distruttrice. Io risiedo in ogni goccia dei mari della
terra, in ogni granello di sabbia, in ogni sogno. Io sono Ilu Limnu,
padrone tuo.”
Quando riapro gli occhi sono nuovamente nel tempio. Respiro
affannosamente, come se fossi stato per molto tempo senza aria.
Indosso la mia divisa e sono completamente fradicio. Mi guardo
intorno. Cerco i miei compagni e li trovo accasciati sui gradini.
Tossiscono e riprendono anche loro fiato. Cosa diavolo è
successo? Anche Bud e Jeremy hanno vissuto lo stesso mio
incubo? Vorrei poterglielo chiedere, ma un conato mi assale.
Piegato in due, vomito acqua mischiata a sangue.

176
CAPITOLO XIII
- Jeremy -

La voce è tornata a parlare. Sono passati cento giorni dalla visione


nella grotta, dall’incontro con il padrone. Si è manifestato
puntualmente dentro di me, alle sei di ogni giorno, o quasi, ma
non mi aveva più omaggiato della sua presenza. Ieri notte mi ha
convocato davanti a quell’assurdo brodo di sangue, il mare rosso
del deserto. Ma questa volta è stato bellissimo. Sono io il
prescelto. Adesso lo so. Jeremy e Bud erano lì per puro caso. Ci
ha giocato per un po’, ma era normale che prima o poi si stufasse
di loro. Eliminare Bud è stato facile. Lo ha lasciato al suo destino,
il destino di un pazzo. Jeremy invece lo ha dato in pasto al suo
nuovo discepolo. Come gliene sono grato…
Le immagini mi tornano nitide come non mai. È lui che mi
omaggia di tutto ciò, anche se il rituale è stato appena compiuto.
Ci ha convocati insieme, come ogni volta. Non la spiaggia.
Sarebbe stato troppo pericoloso, con tutta la polizia che gira a
vanvera sul litorale. Siamo andati un po’ fuori. Ci ha trovato un
posticino grazioso, sulla statale per Pittsburg. Una stazione di
servizio chiusa. Eravamo indisturbati, quieti, rilassati. Si, è così
che lo ricordo.
Jeremy si sveglia improvvisamente. Non si capacita. Perché è
sveglio proprio adesso, che mancano solo cinque minuti alle sei…
Che diavolo ci fa in una stazione di servizio deserta, col buio alle
porte, insieme al suo migliore amico? Ma il suo migliore amico
non è sveglio come lui. Dorme il sonno del demone. Negli occhi
nasconde il desiderio di un pasto. Si avvicina al povero Jeremy.
Si, povero Jeremy. Che pena mi fai… No, adesso non me ne fai
più. Perché forse hai smesso di soffrire. Forse…
Mi sveglio alla guida del pick-up di Jeremy. Sono sulla strada per
Pittsburg. Mi ci ha messo Lui. Deve avere dei grandi progetti per
il suo figliol prodigo. Una scorrazzata in città, e poi magari ci
spingiamo ancora un po’ verso est, magari fino a New York.
Laggiù c’è tanta bella gente…
Il seme dell’odio è germogliato. Crescerà, darà i suoi frutti, forse

177
metterà altri germogli. Saranno piante ancora più velenose di me.
Perché ricordatevi: l’odio genera sempre un odio peggiore.
Questa è la sua prima legge. Guardatevi intorno. Potrei passare
dalle vostre parti. Potrei accostare il pick up, scendere, fumarmi
una sigaretta, pretendere si essere me. Ma se siamo vicino alle sei,
potrei non esserlo. E allora vi consiglio di chiudere a chiave la
porta, e di portare in casa i bambini.
È arrivata l’ora di cena, per il mio signore.

EPILOGO

Vi è piaciuto sbirciare sotto il velo? Avete goduto delle efferatezze


perpetuate a colpi di penna? Magari è tutta finzione, perché non
si dovrebbe credere ai demoni. I demoni vanno lasciati alle favole
della zia, per divertire i bambini, spaventarli un po’, e poi dare
loro il bacio della buonanotte.
La storia di David Norton è una storia di fantasia, pregna però di
una macabra realtà. È un esorcismo contro le follie del nostro
tempo, perché si conosce il veleno solo se lo si assaggia sulla
lingua. Quanti potenziali David Norton ci sono, nelle tranquille
cittadine della sorridente America, ai tempi del declino
dell’impero? Quante bombe a orologeria stanno per esplodere?
Quanta altra violenza verrà seminata? Pensateci, mentre
riabbassate il lenzuolo, degustando le ultime gocce di brutalità in
confezione spray…

Jonathan Macini e Jack Lombroso 2008

178
IL LUNGO INVERNO
di Jonathan Macini

Sorseggio distrattamente un tè al gelsomino addolcito con una


punta di miele d’acacia, per ammazzare il freddo che mi si è
infilato nelle ossa. Sono rientrato in casa da poco. È mattina
presto ed in veranda ho dato di sfuggita un’occhiata al
termometro, che anche oggi se ne rimarrà abbondantemente sotto
lo zero. L’inverno non ne vuole sapere di finire. L’inverno al nord
è troppo lungo, e se non ci sei abituato ti può prendere uno sbalzo
di liquidi, come dice il dottore. Gli sbalzi di liquidi, facile dare la
colpa a loro. Chissà come se la riderebbe Nynke, se fosse qui. Ma
lei non c’è… non c’è più.
È la luce che ti frega. Sei, sette ore al giorno massimo, e poi il
buio. La lunga notte del nord che ti divora dentro, mentre il vento
incalza sulle imposte e la neve ottunde i rumori della valle. La TV
ti riversa addosso le solite stupidaggini ma tu continui a guadarla
speranzoso. Forse succederà qualcosa… forse il vento calerà e la
neve incomincerà a sciogliersi. Lei ti chiede se ti va un caffè, la
guardi sparire in cucina, bella ma distante per via del freddo. Non
ti tira più l’uccello e non sai perché, se per via dell’inverno e degli
sbalzi di liquidi, oppure per gli anni di stasi che si sono
accumulati come la polvere sulla cornice della nostra prima foto
insieme.
Osservo il rivolo di fumo che s’innalza dalla tazza del tè e guardo
fuori, dove ancora uno strato intatto di una decina di centimetri di
neve ricopre il tetto del garage. Anche per oggi è prevista una
nevicata, tanto per cambiare. Il pick-up l’ho parcheggiato fuori,
perché non avevo voglia di tirar su la porta-serranda, che ogni
volta che ci provo mi si gelano le mani. Mi sarebbe piaciuto
metterne uno elettrico. Gliel’ho confessato più volte alla piccola
Nynke, e lei mi guardava con quei suoi occhi da cerbiatta e mi
rispondeva “certo, perché no!”. Ma poi, tramortito da un nuovo
attacco di apatia, lasciavo perdere. La scusa era quella di non

179
spendere i soldi per la vacanza, e proprio di una vacanza avevo
bisogno, Spagna, Grecia, un posto con il sole vero, non come
questo qui che pare disegnato dietro un drappo di grigiore.
Non riesco a ricordarmi il motivo del litigio di ieri sera. La cosa
mi mette agitazione, e pensare che finalmente ero riuscito a
calmarmi. Che diavolo è successo? Si, certo, lo sbalzo di liquidi,
ma quello è venuto dopo. La scintilla l’ha innescata lei, ne sono
sicuro. Ma cos’era? Gli stivali pieni di neve sporca sul tappeto?
La tazza del cesso alzata? No, forse era il tappo del succo di
mango, che mi dimentico sempre di richiudere. Certo, è stato
quello l’inizio di tutto. Dannato mango! Vabbè, ormai è andata…
Il gelo delle ossa si è dissolto nella carne, grazie al tè al
gelsomino. Scaccio via dalla testa un pensiero irritante, la paura di
non aver scavato una buca abbastanza profonda, poi mi metto a
lavoro. C’è da pulire il sofà, le tende e il tappeto che piaceva tanto
a Nynke, e rimettere nella cassetta degli utensili il cacciavite che
le ho infilzato nella gola.

180
LA NUMERO 103
di Jack Lombroso

Poche mosse e il lavoro è finito. Torna a casa guidando piano.


Entra e si toglie le scarpe. Gira lento per la stanza guardando con
attenzione i libri che tiene sugli scaffali. Sfoglia le pagine di una
raccolta di poesie di Garcia Lorca. Piega l’angolo della pagina
quando ne incontra una che gli piace. Sa che difficilmente riaprirà
quel libro, eppure segna ogni poesia che trova bella. Sulla pianta
grassa che tiene vicino alla finestra è spuntato un piccolo fiore.
Viola. Legge distrattamente la posta, mentre sorseggia la birra che
ha tirato fuori dal frigo una decina di minuti prima. Non l’ama
troppo fredda. Mentre la vasca si riempie finisce la birra e ne
stappa un’altra. Un grammo chiuso tutto dentro una cartina
allevierà i suoi pensieri. Acqua calda, quasi bollente. Una soffice
schiuma bianca lo avvolge. La birra rimane appoggiata sul bordo
della vasca mentre lui scivola lento in un magnifico torpore.
Accappatoio legato lente. La musica è bassa: un notturno di
Chopin. La candela brucia solitaria schiarendo appena la stanza,
mentre un aroma di rosa si sparge nell’aria dal bastoncino
d’incenso. Relax. Non serve altro adesso. Fino a domani mattina
nessuno scoprirà il corpo di Teresa. Nessuno troverà la bionda
chioma imbrattata di rosso, la gola aperta come un secondo
sorriso. Il corpo bianco dalle forme sensuali, steso sul letto
ricoperto di seta.
Fuori la pioggia accompagna Chopin. Terza birra, Secondo
grammo. Relax. Non serve altro dopo un lavoro ben fatto. Le
suole di gomma non hanno fatto rumore. La serratura ha ceduto
dopo il primo tentativo. Teresa neanche si è accorta di cosa le ha
tolto la vita. La lama affilata è corsa veloce tagliando la pelle,
arrivando alla carne, superandola, mentre tranciava le vene.
Subito il sangue ha zampillato veloce, caldo aroma che buca il
cervello, che riscalda i pensieri. Le strade erano deserte a
quell’ora, mentre la città dorme sotto i lenzuoli caldi, al sicuro

181
nelle tane di cemento. La luna si rifletteva sull’asfalto bagnato,
intanto un cane ululava lontano.
Teresa ora dorme, dormirà per sempre. Vittima numero centotré
del repertorio di un professionista. Domani qualcuno piangerà ma
a lui non interessa. Domani sarà il suo giorno di riposo. La
pioggia continua a battere sul vetro. Il rumore lo rilassa,
accompagna lento il chiudersi degli occhi. Scivola in un sonno
dolce mentre si allunga sul divano. Chopin continua a suonare.

182
IL COLORE DELL'ANIMA
di GM Willo

Mi chiamo Valerio Parisi, ho cinquantotto anni e da tredici mesi


combatto una malattia terminale che a breve mi porterà nella
tomba. Ne hanno provate di tutte, ma il cancro l’ha avuta vinta, al
solito. Ho visto morire prima mia madre e poi mia sorella; stessa
storia, stesse procedure. Chemio, sofferenze, false speranze,
miglioramenti e poi la sentenza. Intendiamoci, non mi aspettavo
di guarire. Quando mi hanno diagnosticato il tumore maligno
sapevo come sarebbe andata a finire, e mi va bene così. Nessuno
piangerà la mia dipartita. Mia madre e mia sorella mi hanno
preceduto, mentre mio padre non l’ho mai neanche conosciuto, e
quindi sono più che sicuro che morirò da solo, in pace, insieme ai
miei fantasmi.
Ma di uno di questi fantasmi, il più terribile e vergognoso, vorrei
lasciare testimonianza in queste pagine. Quando qualcuno verrà a
ripulire il mio appartamento forse si metterà a leggere questo
quaderno e scoprirà un assassino. Per allora mi troverò
beatamente sotto terra, a dare da mangiare ai vermi.
Questa non è una semplice confessione. Questo non è un atto di
redenzione. Per quanto colpevole di un orribile omicidio, non
cerco né scusanti né perdoni. Questo è semplicemente un
omaggio alla verità, quell’inafferrabile chimera che gli uomini
hanno da sempre la presunzione di rincorrere, ma che solo
raramente, o forse mai, sono in grado di afferrare pienamente.
Il 18 settembre 1983 invitai a cena una mia collega di lavoro, tale
Francesca De Luca, ventisette anni laureata in giurisprudenza,
impiegata presso la medesima compagnia d'assicurazione per la
quale ricoprivo l’incarico di consulente. Non ho mai avuto
successo con le donne e a trentadue anni contavo solamente un
paio di brevi relazioni deragliate nella noia. Ma Francesca era una
tipa in gamba, me ne accorsi subito, come mi accorsi che era di
un livello troppo al di sopra di me. Sapete cosa intendo, vero?

183
Prima dell’attrazione esiste un altro importante fattore che
permette a due persone di convergere in una relazione, ed ha che
fare con l’anima. Si, l’anima. Io credo fermamente nell’anima.
Quella di Francesca era fulgida e grande, mentre la mia… beh, se
continuerete a leggere queste pagine, ve ne renderete conto voi
stessi di pasta è fatta la mia anima. L’anima è qualcosa di più
complesso di un codice genetico o di un profilo caratteriale. Se
nasci con l’anima sbagliata, non puoi fare altro che accettarla, e
cercare di fare meno danni possibile. Quella sera presi pienamente
coscienza della natura della mia anima, e da allora ho
sistematicamente evitato di avvicinarmi alle persone, per paura di
fare loro del male.
Invitai Francesca a cena a casa mia, un incontro di cortesia e di
lavoro. Ero sicuro che avrebbe rifiutato ed invece accettò e si
presentò alle otto in punto con una bottiglia di vino e la bozza di
una presentazione che stava preparando per la compagnia. Voleva
avere la mia opinione ed io ero felicissimo di poterla aiutare.
Preparai la bistecca, l’insalata, bevemmo il vino e poi
sparecchiammo insieme e incominciammo a parlare di lavoro. Mi
mostrò il fascicolo che aveva con se, lessi, commentai, feci due
battute, lei rise, versai altri due bicchieri di rosso e bevemmo di
nuovo. La serata procedeva alla grande. Poi successe qualcosa di
sbagliato.
Prima di quella sera non avevo mai preso l’iniziativa con una
donna. Non sono mai riuscito a percepire i segni e i tempi giusti.
Le donne che avevo avuto fino a quel giorno avevano sempre
fatto il primo passo, ma quella volta provai ad andare contro la
mia natura passiva ed insicura. Le afferrai la mano, la guardai e
provai a baciarla. Gli eventi che seguirono rimangono confusi
nella mia mente, nonostante abbia provato per molti anni a
riesumarli nei minimi dettagli. Ricordo che lei evitò il mio bacio e
ritirò la mano, ricordo che si alzò dal tavolo e disse qualcosa, ma
non ricordo assolutamente cosa. Ricordo che incominciò a
raccogliere le sue cose per andarsene, ma non ho idea di come la
raggiunsi alla porta di casa, per afferrarle i capelli e sbatacchiarle
la testa contro il tavolino di marmo dell’ottocento che avevo

184
nell’ingresso. Ricordo le mie mani che le stringevano la gola,
ricordo lei agonizzante sulla moquette grigia, ricordo il suo
sguardo supplichevole poco prima di esalare l’ultimo respiro, ma
non ricordo affatto la ragione per la quale mi era
improvvisamente scattata quella furia omicida. Rimasi seduto
accanto al corpo di Francesca per più di un’ora, a contemplare
l’abatjour riversa sul pavimento, con la lampadina che nella
caduta doveva essersi svitata e perciò lampeggiava
convulsamente. La contemplazione mi aiutò a decifrare il colore
della mia anima, ma non a farmene una ragione. La mia anima è
nera, obliante, succhiatrice di luce, un assurdo vortice del nulla.
Dopotutto mi ritengo un uomo fortunato, o forse i fortunati siete
voi. Se avessi ascoltato la mia anima più spesso avrei continuato a
mietere vittime, invece ho preso coscienza della mia natura e mi
sono fermato lì, nell’ingresso del mio vecchio appartamento,
accanto al corpo senza vita di una giovane avvocatessa.
Quello che è successo dopo potreste trovarlo rivoltante. Se così
fosse vi assicuro che il problema è solo vostro. Se siete della
anime chiare oppure grigie, potreste pensare di me come ad un
folle. Se siete delle anime candide penserete che sia
l’incarnazione del male. In realtà questo è solo un gioco di
percezioni. La verità va oltre la rappresentazione di noi stessi in
questa farsa che chiamiamo vita. Ma non complichiamo troppo la
storia e cerchiamo di tornare al punto.
Francesca era morta e niente l’avrebbe fatta ritornare in vita.
Capii che il bisogno di esorcizzare quell’evento e di fare i conti
con il colore della mia anima era l’unica priorità plausibile di
quella storia di morte. Compresi che se avessi cercato di accettare
la mia natura con troppa leggerezza avrei rischiato di rimanerne
sopraffatto, per questo nascosi immediatamente il corpo. L’anno
prima un amico mi aveva chiesto se avevo posto per un
congelatore a pozzo, di quelli che i bar usano per i gelati. Si era
separato dalla moglie ed era tornato a vivere con sua madre, ma
era in attesa di comprare casa e andare a vivere da solo. Chissà
per quale motivo aveva fatto dodici rate per quel congelatore, che
poi aveva piazzato nel mio appartamento. Non è mai tornato a

185
riprenderselo, perché sei mesi dopo tornò a vivere con sua moglie
e non c’era spazio per quell’affare che alla fine rimase a me. A
quei tempi i cibi congelati non avevano ancora un grande
mercato, ma io, vivendo da solo, lo trovai molto utile. Congelavo
praticamente tutto; carne, pesce, pane, verdure, pasta fresca.
Ciononostante il frigo era sempre mezzo vuoto.
Quella sera lo svuotai completamente e ci infilai il corpo di
Francesca. Mi preoccupai di toglierle i vestiti prima di metterla
dentro, per una semplice questione di igiene. Poi ricoprii il suo
corpo con sacchettini di piselli, broccoletti, bistecchine di maiale,
ossi buchi, orate, ravioli di patate e filoncini da mezzo chilo. Non
riuscì a ricoprirla completamente. Rimanevano fuori un piedino
con le unghie smaltate, un gomito e una ciocca di capelli.
Pazienza, pensai, e chiusi il congelatore.
Ci furono le indagini della polizia sulla sua scomparsa, articoli in
terza pagina sui quotidiani più importanti e ne parlò anche il
telegiornale. Mi aspettavo che la polizia irrompesse nel mio
appartamento da un momento all’altro. So che vi parrà strano ma
la cosa non mi preoccupava minimamente. Se avessero bussato
alla porta li avrei condotti immediatamente al congelatore a
pozzo. L’idea di farmi l’ergastolo o di passare per un pazzo non
mi turbava. Avevo altro a cui pensare. Dovevo fare i conti con il
colore della mia anima.
Ancora mi chiedo perché nessuno venne a chiedermi niente.
Quella sera Francesca venne in taxi, quindi la polizia avrebbe
potuto risalire a me solo attraverso il tassista, che sicuramente non
aveva prestato attenzione a una delle sue tante clienti. Ancora più
strano mi sembrò il fatto che non avesse parlato con nessuno del
nostro incontro. Insomma, anche se avessi voluto cancellare gli
indizi su di me, non ce ne sarebbe stato bisogno, per il semplice
fatto che non c’era alcun indizio su di me. Dopo tre mesi nessuno
parlò più di Francesca De Luca, neanche a lavoro, eppure lei era
sempre con me, sotto i pisellini primavera e gli ossi buchi.
A quel tempo abitavo a poco più di dieci minuti di cammino dal
mio ufficio, una passeggiata molto piacevole interrotta da un
cappuccino e un cornetto al bar Jolly che si trovava a metà strada.

186
Prima del bar passavo un ponticino che dava sopra un canale di
scolo, buio e melmoso. Fu in quel canale che nell’arco di tre mesi
e mezzo mi liberai del corpo di Francesca, un pezzettino alla
volta, così come un poco alla volta accettai la mia natura deviata.
Mi alzavo la mattina, facevo la doccia, prendevo il caffè, e prima
di vestirmi andavo a prendere, dalla cassetta degli utensili, il
flessibile che mi ero comprato per l’occasione. Indossavo una
mascherina e un grembiule bianco impermeabile e aprivo il
congelatore. Dopo avere estratto i cibi in superficie, azionavo la
lama rotante e amputavo un pezzettino del suo corpo. Incominciai
con la mano destra, all’altezza del polso. Il flessibile riscaldandosi
scongelava velocemente la carne e qualche gocciolina di sangue
schizzava sulle pareti del congelatore oppure sui miei occhiali di
protezione, ma niente che non si potesse levare con un colpo di
spugna. Il pezzo lo infilavo in un sacchetto di plastica per alimenti
surgelati (all’epoca era davvero difficile trovarli per uso privato) e
poi rimettevo tutto a posto, ragazza e broccoletti.
Per quasi quattro mesi, come vi dicevo, me ne andai a lavoro con
un sacchettino di plastica ed un pezzo di Francesca nella borsa dei
documenti della compagnia. Mi fermavo sopra il ponte e con
noncuranza, senza neanche preoccuparmi che qualcuno potesse
trovare curioso quel mio comportamento, svuotavo il sacchetto
nel canale di scolo. Ogni volta che eseguivo questo rituale
mattutino, apparentemente efferato e folle, sentivo una strana
quiete depositarsi sul mio cuore, come una cicatrice che si
rimargina pian piano. Immaginavo che stessi lentamente
chiudendo la porta segreta che avevo spalancato dentro di me,
quella sera funesta in cui mi avventai su Francesca. Volevo
chiudere a mandata quella stanza e gettare via la chiave,
segregando la mia nera anima una volta per tutte. E così riuscii a
fare. Insieme all’ultimo pezzo di lei, il suo piedino sinistro, in una
bella mattinata di marzo, tornai ad essere quello che ero prima
dell’omicidio, tuttavia cosciente delle mie crudeli potenzialità.
Questa è la verità. Adesso la conoscete, e per quanto terribile
dovrete anche voi fare i conti con lei, come li feci io sopra il
canale di scolo. Non ho rimorsi. Non ho rimpianti, e credo che se

187
esiste davvero un dio, dimostrerà la sua comprensione nei miei
confronti. Se davvero è stato lui a soffiare l’alito di vita nella mia
anima, deve averci avuto i suoi motivi.
Ed io non mancherò dei chiedergli spiegazioni, molto presto,
appena ne avrò l’occasione.

188
CHINESE TAKEAWAY
di Jack Lombroso

I resti del cinese sono lì sul tavolino, sparsi tra bicchieri e


bottiglie vuote. Fuori la pioggia continua a battere incessante. Mi
sa che anche stanotte sarà una di quelle notti lunghe e uggiose,
una di quelle notti che hai voglia di fare qualcosa; ma ti sta fatica
fare qualsiasi cosa. Dovrei uscire a buttare via l’immondizia.
Pulire questo schifo e rassettare un po’ la stanza. Metto su un po’
di musica e aspetto che il tempo passi. La giornata è stata
piuttosto dura, questo lavoro non è più quello di un tempo. Mi
ricordo che qualche anno fa i soldi si facevano davvero
facilmente, ma adesso per due spicci, devi farti un culo così. La
gente è talmente ridotta all’osso che piuttosto che renderti quello
che ti devono, preferiscono farsi massacrare. Ancora non ho
trovato la voglia di pulire questo letamaio e il cd è appena finito.
Il silenzio attraversa la stanza. Anche Chan ha smesso di
lamentarsi. Sta lì immobile in silenzio.
I resti del cinese sono lì… Sparsi sul tavolino.

189
REC
di Jack Lombroso

Lei era pazza. Semplicemente pazza. Ed era proprio questo a


rendermi follemente innamorato di lei.
Le legava dopo averle spogliate completamente e le filmava.
Adorava filmarle. Quei piccoli tagli con la lametta del mio rasoio.
Piccoli tagli ben fatti, profondi e dolorosi. Il suo completo di pelle
bianca si tingeva sempre di sangue, lo raccoglieva con le dita
dalle ferite delle sue vittime e se lo spargeva addosso lasciando
sui vestiti delle lunghe scie rosse. L’ultimo taglio correva lungo la
gola, il primo non era mai quello mortale. La lametta era troppo
stretta per poter essere spinta in profondità, quindi ci ripassava e
ripassava ancora. Fino al silenzio.
L’ultimo video è stato il suo. Me lo ha chiesto lei. Diceva che solo
così sarebbe stata pienamente artefice del proprio gioco. Io
l’amavo troppo per deluderla, così l’ho fatto. Sono entrato nella
sua casa di notte. Lei dormiva beatamente, il cloroformio ha fatto
il resto. Quando si è risvegliata era già legata alla sedia. Il suo
corpo nudo era bellissimo, quella pelle, così bianca anche senza il
vestito. Senza la lente a contatto bianca, il suo viso era quasi
dolce. Così l’ho presa tra le dita e l’ho appoggiata alla sua pupilla,
spingendo un po’, tanto per fargli capire che ero io a condurre la
partita. Lei ha fatto una smorfia di dolore, poi ha sorriso mentre
una lacrima le scorreva lungo la guancia.
Accesi la videocamera; non rimaneva che iniziare lo show.

190
6 GIUGNO 2006
di Morgendurf

05.06.06, la sveglia suonò alle ore 05.15. Il dott. Giovanni Trizzo


– John per gli amici, il dottor Strappacuore per i colleghi – si alzò
dal letto, si preparò con la consueta meticolosità ed uscì di casa.
Mentre guidava verso la clinica universitaria pensò al programma
della giornata: la sala operatoria lo stava aspettando, mentalmente
ripassò la tipologia degli interventi che sarebbero stati eseguiti.
Nulla di difficile, solita routine, almeno per lui.
Era il braccio destro del primario, ma fra qualche mese ne
avrebbe occupato il posto. Il dott. prof. De Tonelli sarebbe andato
in pensione e lui aveva appena ricevuto la designazione quale suo
successore. Era una novità annunciata, tutti ne parlavano da quasi
un anno, aveva lavorato sodo per ottenere quell’incarico, con
qualche sgambetto, qualche sgomitata e gli appoggi giusti. A 44
anni sarebbe diventato primario di un reparto prestigioso.
Di un’università accreditata. Il più giovane primario in Italia.
Respirò a pieni polmoni pensando a questo. Ricordò l’espressione
di Elena quando le fece leggere la lettera di nomina, ricordò la sua
reazione, le parole di lei: “Allora possiamo iniziare ad organizzare
il nostro matrimonio”. Elena aveva 30 anni, era la sua fidanzata,
oltre che l’unica figlia del suo mentore.
Lui aveva fatto in modo di conoscerla nel 2001, nel 2002 avevano
ufficializzato la loro relazione con i rispettivi genitori, ottenendo
la benedizione del futuro suocero. Si era brillantemente laureata
in Lingue e Letterature straniere e, dopo una serie di master
prestigiosi e grazie alla sua perfetta conoscenza di cinque lingue,
lavorava al Parlamento Europeo a Bruxelles. Rientrava in Italia di
rado, la professione di traduttrice la impegnava molto. Lui
talvolta la ospitava a casa sua e giocavano a marito e moglie. Nel
senso che le faceva trovare la casa in disordine, biancheria da
lavare e da stirare e lei, amorevolmente, provvedeva a tutto.
“Prove tecniche di trasmissione”, come le chiamava lui.

191
Il sesso c’era ma non sempre andava bene. “Scusami Elena, ma,
sai, sono particolarmente stressato, sono stanco, ho bisogno di
ferie”. Lei non si preoccupava, per lei il sesso non era tutto, lo
comprendeva e lo giustificava, una volta sposati qualsiasi
problema si sarebbe risolto, ne era sicura.
Il giorno prima avevano litigato. Al telefono, ovviamente, e per
futili motivi. Qualcosa riguardo al matrimonio, la scelta dei fiori
per l’addobbo della chiesa non li aveva trovati d’accordo. Ma
Giovanni non si preoccupava più di tanto, avrebbe risolto tutto,
come sempre. Non oggi, non domani, ma dopodomani. Oggi e
domani aveva altri programmi, progetti che non prevedevano la
presenza di Elena. Fra due giorni le avrebbe fatto recapitare le
solite rose rosse, l’avrebbe chiamata per invitarla a cena,
sarebbero andati al solito ristorante, le avrebbe regalato un
gioiello e tutto sarebbe ritornato come prima.
Uscì dalla clinica alle 16.15. La giornata era stata gravosa, uno
degli interventi si era rivelato impegnativo e si era protratto più
del previsto, ma, per fortuna, tutto era andato bene. Salì in
macchina, accese il cellulare ed inviò un sms. “Alle 21.00 sono da
te, fatti trovare pronta, vestita come piace a me, aspettami in
strada”, diceva il testo. Attese un attimo fino a che giunse il suo
messaggio di conferma, poi, spense il telefono, e si diresse verso
casa. Si preparò scrupolosamente, si vestì come la situazione
richiedeva, trasferì alcune cose dalla valigetta da medico ad uno
zainetto, afferrò il cappello e la cappa e si diresse verso la casa di
Pilar. Nonostante il nome, Pilar era italiana. Era impiegata in una
clinica privata, fissava gli appuntamenti per i ricoveri e gli
interventi. Giovanni l’aveva conosciuta lì, mensilmente vi si
recava per interventi a pagamento. Parlando con lei, scoprì che
era orfana di entrambi i genitori. La madre spagnola ed il padre
italiano erano deceduti quando lei aveva 16 anni, a seguito di un
incidente stradale.
Erano andati in una località sul Lago di Garda per festeggiare i
loro 20 anni di matrimonio. La sera stessa del loro arrivo, mentre
stavano passeggiando sul lungolago, furono falciati da un’auto
pirata. Entrambi morirono sul colpo. L’auto fu ritrovata giorni

192
dopo, abbandonata in una stradina di campagna ed incendiata. Era
stata rubata il giorno prima dell’incidente in una località del
Veneto, ad un avvocato che ne aveva regolarmente sporto
denuncia per furto e che, al momento del sinistro, si trovava in
volo per l’estero. Non fu mai trovato il responsabile della morte
dei suoi genitori. Lei aveva sempre vissuto da allora con i nonni
paterni ma, recentemente, uno alla volta se n’erano andati e lei era
rimasta sola.
Aveva iniziato a frequentarla. A fare sesso con lei. Quello che non
poteva fare con Elena, perché Elena non voleva. Ad Elena non
piaceva. Così lui si arrangiava come poteva, con chi poteva,
anche da solo. Pilar era perfetta per lui. 40 anni, single, viveva da
sola, qualche relazione andata male, una discreta cultura ed una
buona posizione economica. Si faceva ospitare da lei ogni
qualvolta doveva recarsi alla clinica privata per gli interventi.
Arrivava il giorno prima, passavano la notte insieme e, una volta
terminata l’operazione, tornava nella sua città, a casa sua.

Pilar si era innamorata di Giovanni. All’inizio era un po’


diffidente, le esperienze negative con altri uomini l’avevano
segnata, l’avevano resa guardinga.
Dopo un periodo di solitudine aveva deciso di provare a fidarsi di
nuovo, di affidarsi nuovamente a qualcuno. Lui, lentamente, si era
fatto spazio dentro di lei. L’aveva fatta sentire nuovamente donna,
nuovamente desiderabile, l’aveva colmata di tante piccole
attenzioni, quelle che più non riceveva da tanto tempo. Un
bombardamento d’amore, questo è il termine esatto. Si sentiva al
centro del suo mondo, si sentiva coccolata, non solo da lui, ma
anche dagli amici e dalle amiche che le aveva presentato.
Una sera Giovanni le chiese di organizzare una cena per tutti loro,
sarebbero stati in totale in quindici persone. Lei fu felice di
predisporre tutto affinché si sentissero a proprio agio. Sarebbe
stata una serata elegante, per questo scelse un abito consono alla
situazione. Durante la cena furono consumate molte bottiglie di
vino, a Pilar iniziò a girare la testa, tanto che Giovanni la fece
stendere. “Non è nulla” – le disse – “vedrai che tra poco ti passerà

193
e ti sentirai meglio. Fidati, sono o non sono il tuo medico?”
Uno stato profondo di semi-incoscienza, durante il quale gli ospiti
presenti ruotavano attorno a lei. Sentiva anche del dolore fisico,
ma non capiva da dove provenisse, se provocato da qualcosa o da
qualcuno, non riusciva a muoversi e non capiva perché. Forse
stava solo sognando.
Qualche giorno dopo, mentre si stava spalmando la crema per il
corpo, notò dei lividi attorno ai polsi ed alle caviglie, delle
striature sui glutei. Cercò di far mente locale, cercò di ricordarsi
come e dove poteva essersele procurate, ma, per quanto si
sforzasse, ciò che affioravano erano solo immagini confuse,
nebulose. Alzò le spalle, fece finta di niente. Forse era solo un po’
di stanchezza. Pensò a Giovanni: da quando lo frequentava, da
quando si era resa conto di essersi innamorata di lui dormiva
poco. Anche la sua alimentazione ultimamente era inadeguata.
Sorrise pensando fossero gli effetti del suo innamoramento.
Sorrise pensando a lui.

Giovanni parcheggiò l’auto davanti alla casa di Pilar alle 21.00.


Era in perfetto orario, il viaggio era durato 50 minuti, niente
traffico in autostrada, nessuna coda al casello. Lei arrivò dopo un
minuto. Entrando in macchina si scusò, aveva avuto difficoltà ad
infilare l’abito, ad allacciarselo. Una pancia contenente un
bambino di nove mesi è bella, ma sicuramente non comoda. Lui
le rispose di non preoccuparsi, che di lì a poco la pancia sarebbe
stata solo un ricordo. E così dicendo, mise in moto, dirigendo
l’auto verso una zona collinare poco distante. Con la mano
accarezzava la pancia di Pilar, accoglieva il loro bambino. Suo
figlio. All’inizio, quando lei gli annunciò che era incinta si
arrabbiò moltissimo, cercò di convincerla ad abortire, non poteva
permettersi uno scandalo, non adesso. Ma quando gli comunicò
che la data presunta del parto era il 06.06.06 fu preso da una
frenesia incontenibile. Quel bambino sarebbe nato, e lui lo
avrebbe allevato, lo avrebbe visto crescere.
Prese una strada sterrata, di qua e di là campi coltivati. Proseguì
lentamente, il terreno era sconnesso per il passaggio dei mezzi

194
agricoli. Girò a sinistra, il viottolo iniziava lentamente a salire e si
snodava ora tra la boscaglia. Nessuna traccia di coltivazioni.
Nessuna traccia di anima viva. Solo loro due.
Proseguì ancora per qualche minuto, poi fu costretto a fermare
l’auto perché la strada si interrompeva. Spense il motore e
scesero. Afferrò il suo zaino, prese per mano Pilar ed insieme si
incamminarono per un sentiero. I tacchi alti che lei indossava ed il
peso della pancia rendevano precario il suo equilibrio. Di lì a
poco la boscaglia si aprì in una radura, illuminata dai raggi della
luna crescente che filtravano attraverso le nubi. Si misero al
centro dello spiazzo. L’erba era bruciata, si poteva intravedere un
disegno, una forma circolare, all’interno della quale c’era una
stella a cinque punte.
Pilar non notò questi segni, era troppo presa da lui, troppo
innamorata. Giovanni lo sapeva, era conscio del potere che aveva
su di lei. Fecero sesso, quello che a lui piaceva, come lui voleva.
Solo così riusciva ad avere le erezioni. Solo così poteva
raggiungere l’orgasmo. Solo così ce la faceva a godere. E lei che
lo amava lo assecondava. Perché aveva bisogno di lui. Una
necessità mentale.
In lontananza si sentì il rintocco di un campanile. Era l’una di
notte. Entrambi erano stesi a terra, ansimanti e grondanti anche di
sudore. Lui si alzò, dallo zainetto estrasse una siringa, un laccio
ed una fiala, prese il braccio destro di Pilar e le iniettò il liquido in
vena. Lei non oppose alcuna resistenza, ne avevano parlato pochi
giorni prima, lui l’aveva convinta che così sarebbe stato più
semplice, per tutti, per il bambino e per lei. Non passò molto
tempo che iniziarono le contrazioni. Erano più lunghe, intense e
meno intervallate di quelle spontanee. L’aria era scossa da urla, il
silenzio era rotto da lamenti animaleschi, quasi si stesse
sgozzando una vacca o una scrofa. E continuarono ancora, e
ancora, e ancora. Poi cessarono per lasciare posto ai vagiti. Il
figlio di Pilar e Giovanni era nato.
Lui legò e tagliò il cordone ombelicale, lo prese in braccio, leccò
il neonato fino a detergerlo completamente, prese la placenta e
quel che restava del cordone ombelicale e li divorò. Pilar era

195
stremata, guardava inebetita la scena, incapace di proferire parola.
Tese la mano verso di lui, come a chiedergli di andarle vicino, di
portarle loro figlio, ma lui rimase fermo al suo posto, immobile, e
la guardava. Lei tentò di alzarsi per raggiungerli ma non ci riuscì,
era esausta, indebolita dal travaglio e dal parto. Si distese
nuovamente, sentiva gli occhi chiudersi, aveva voglia di dormire,
di riposare. Era stanca, molto stanca. “Sì, dormirò un poco. Mi
bastano cinque minuti, solo cinque minuti…”
L’erba sotto di lei si tinse di rosso. Ad est si poteva scorgere
Venere.

Il giorno dopo Giovanni si presentò da Elena prima dell’ora


concordata. Aveva voglia di rivederla, di abbracciarla. Decise di
farle una sorpresa, già le aveva fatto recapitare un mazzo enorme
di rose rosse ma, per renderla ancora più felice, aveva provveduto
a portare con sé alcuni documenti importanti.
Anni addietro Elena era stata sottoposta ad una isterectomia totale
ed aveva perso la funzione riproduttiva. Inizialmente questa
condizione aveva determinato in lei uno stato di depressione, un
profondo senso di colpa soggiornava dentro di lei, non poteva
procreare, la figlia dell’illustre dott. prof. De Tonelli incapace
della prosecuzione della specie. Per questo si era buttata a
capofitto nel lavoro, per questo aveva scelto un’occupazione
all’estero, per non vedere ogni giorni gli occhi di suo padre che la
guardavano come si osserva un essere menomato. Quando la loro
relazione divenne importante, affrontarono il discorso dei figli.
Entrambi li volevano, li desideravano ed avevano deciso di
ricorrere all’adozione. Per questo motivo mesi prima avevano
presentato la domanda al Tribunale per i diritti dei minori, si
erano sottoposti ai colloqui con assistenti sociali, psicologi,
dottori, avevano iniziato a seguire i corsi di orientamento previsti,
si erano mossi con un margine d’anticipo poiché sapevano che i
tempi necessari per l’adozione sarebbero stati lunghi.
Suonò il campanello ed attese. Lei venne ad aprirgli indossando
un sorriso smagliante, gli buttò le braccia al collo, ma il marsupio
che lui indossava si frapponeva fra loro due. In quel momento si

196
accorse del bambino ospitato dentro ad esso e che dormiva
tranquillamente. Si diressero in salotto e si sedettero sul divano.
Lei aveva un’espressione frastornata, non capiva, non sapeva cosa
stesse succedendo. Chi era quel bambino? Di chi era quel
bambino?
“Questo è nostro figlio” – le disse Giovanni. Le spiegò che la
puerpera era una ragazza madre di nazionalità straniera, deceduta
per un’emorragia post-partum, e quel bambino era solo al mondo,
né fratelli, né nonni, né zii, né cugini, nessun ascendente. Dal
fascicolo estrasse alcuni documenti, erano le pratiche per
l’adozione, era tutto pronto, tutto regolare, lui aveva parlato con
le persone giuste. Mancava solo la firma di Elena ed il nome di
loro figlio.
“Mi piacerebbe si chiamasse Davide Samuele… sì, due nomi…
Davide come tuo padre, Samuele come il mio… se tu sei
d’accordo, vorrei che il nostro bambino si chiamasse così… poi,
quando crescerà, vedremo se diventerà un avvocato oppure un
medico…”

197
ROCK CITY
di GM Willo

Unire la passione per la fantasy con la mitologia rock era una


sfida che mi ero preposto già da diverso tempo. Riascoltandomi e
rivedendomi le scene di quella chicca di Brian De Palma,
Phantom of Paradise, mi è sorta l’ispirazione per una mini-saga
da presentare ad episodi in rete. Rock City è una città
immaginaria collocata ai tempi del vinile. All’interno di questo
ipotetico scenario si muovono i personaggi classici del mondo
del rock, tutti rigorosamente reinventati ed enfatizzati per
l’occasione. Musica, magia, droga, sesso, money e naturalmente
lui, il diavolo. Una zuppa glamour da rimescolare per gioco ed
assaggiare nelle serate balorde, quando la cassa della birra è a
metà…
Questi sono i primi cinque episodi apparsi sul sito The Colony of
Slippermen, che vanno ad aggiungersi al racconto The
Patrolman di Massimo Mangani, presentato in apertura del libro.

PRIMO EPISODIO
Il Concerto dei Sacrifice alla Spiaggia

La spiaggia era l’ultima attrazione underground, una striscia di


terra non completamente soggetta alle regole della città, forse a
causa della marea che la rendeva accessibile solamente dopo le
dieci di sera. Fino al calar del sole infatti i bagnanti si accanivano
per un metro quadrato di sabbia, che dall’argine che divideva il
lungomare fino al bagnasciuga non c’erano più di dieci metri, per
un tratto di appena un chilometro. Il resto della costa apparteneva
agli scogli o al porto di Rock City, lo scalo per carghi più
importante del litorale. Ma le attività portuali non erano certo la
risorsa economica principale della città. Rock City era il centro
nevralgico dell’industria musicale, “the place to be”, una
metropoli sconfinata che dalle montagne rocciose si estendeva

198
fino all’oceano; case, palazzi, giardini e una rete intricata di strade
sulle quali ogni giorno milioni di autovetture disegnavano quel
moto perpetuo che incorniciava la macchina da soldi più
redditizia di tutto il paese. Rock City rappresentava il traguardo
dei giovani rockers che rincorrevano le chimere di denaro e
popolarità. In realtà, dietro il sipario dorato dell’industria
musicale, si nascondevano orde di affamati avvoltoi e zannuti
caimani. Una volta che l’aspirante star veniva irretita dalle
suadenti parole dei discografici, non c’era possibilità di salvezza.
I contratti stipulati dalle due grandi major del paese
imprigionavano la creatività del musicista trasformandolo in un
animale da allevamento, una gallina costretta a cagare uova dal
culo fino al giorno della sua morte. Alla maggior parte degli artisti
poteva anche andar bene trascorrere la loro dorata esistenza
dentro le ville bunker, assediati dai fan guardati a vista dalle
guardie del corpo, intontiti per buona parte della giornata dalle
droghe più in voga dell’ambiente. Gli sciamani facevano ottimi
affari. Molti di loro lavoravano per le major e avevano il compito
di tenere i “ragazzi” tranquilli.
Rock City vantava nove enormi stadi e centinaia di edifici per
ospitare concerti ed eventi musicali. Ognuna di queste strutture
apparteneva o alla Music Dome o alla Dream Records, le due case
discografiche che detenevano il patrimonio artistico musicale del
paese. Se volevi far suonare la tua band, dovevi essere pronto a
firmare un patto di sangue, altrimenti ti rimanevano i marciapiedi
oppure i luoghi improvvisati, come la spiaggia appunto.
Quella sera, la sera in cui incomincia la nostra storia, i fuochi
danzavano allegri a pochi metri dalla risacca, ma le voci della
ciurma erano leggere, un bisbiglio che si perdeva tra lo
scoppiettio dei falò, perché si parlava del diavolo e dei suoi
accoliti, del blues maledetto e della sfrenata voglia di suonare, ma
soprattutto si parlava di loro, la sensazione, il nuovo sound, la
magia, l’onda che da innocua diventa anomala; i Sacrifice.
Timmy O’brain al basso, David J. Simmons alla batteria, Rupert
“Algie” Crowford alle tastiere, Mick Mulder alla chitarra ed
infine il leggendario Stewart “Bee” Dawnson alla voce e

199
percussioni. I nomi erano un banale stratagemma per ingannare le
piattole, ovvero gli infiltrati delle major. Di sicuro ve n’erano
anche quella sera alla spiaggia, ma non tra la ciurma, perché loro
erano in gamba, fratelli di strada e di pasticca, con un sogno
troppo utopico per quella città; fondare un’etichetta indipendente.
Il governo, pressato dalle major, aveva emanato nuove
regolamentazioni che rendevano praticamente impossibile per un
semplice cittadino iniziare una casa discografica. Chi ci provava
senza i giusti requisiti rischiava multe salatissime e in alcuni casi
anche la prigione.
Il palco era stato allestito a ridosso dell’argine, un solido muro di
pietra alto una decina di metri. Un alimentatore a benzina
rombava sommessamente dietro la pedana. Agli strumenti ci
stavano pensando i ragazzi di Rufus, il genio dell’underground.
Era lui che organizzava quegli eventi, un idealista che prima o poi
avrebbe fatto una brutta fine, così dicevano di lui in molti,
nonostante lo considerassero un mito. Le prime scariche elettriche
si diffusero sulla spiaggia verso mezzanotte, e c’era già un bel po’
gente attorno ai fuochi, forse duecento anime in tutto. Pochi
minuti più tardi vennero provati gli strumenti. Due fari spartani
illuminavano il palco e le attrezzature, ma i Sacrifice non avevano
bisogno di effetti speciali per scaraventare secchiate di emozioni
addosso al loro pubblico.
Il brusio si attenuò. Rufus in persona salì sul palco per annunciare
la band. La gente si avvicinò al palco, si accalcò con un
movimento aggraziato, complici i fumi acidi delle pasticche che
giravano quella sera. Cinque ragazzi spuntarono dalle ombre,
come se avessero lacerato il drappo della notte arrivando
direttamente da un’altra dimensione. Calze da donna strette
intorno ai loro volti deformavano i loro lineamenti. Nessuno
sapeva chi fossero e questo mandava letteralmente in bestia i
discografici, che da tempo cercavano di assicurarseli. Anche se
non volevano aver niente a che fare con loro, le major
conoscevano molti modo per convincere un musicista restio a
firmare un contratto. Esistevano droghe fatte a posta per questo
scopo.

200
La folla urlò, alzò le mani al cielo, mentre i cinque si
apprestavano a servire un antipasto di riff e vibrazione allo stato
puro. Mick attaccò l’arpeggio che introduceva Sweet Mary, e fu
l’apoteosi. Suonarono per due ore, e poi tornarono sul palco per
ben tre volte. I fuochi stavano per spegnersi, la luna era ormai
scomparsa sotto l’orizzonte, ma loro continuavano a suonare.
Nonostante le più grandi rock band del paese si esibissero
regolarmente in ogni buco di Rock City, erano anni che non si
assisteva ad un concerto come quello dei Sacrifice alla spiaggia.
Di questo ne erano sicuri, tutti, Rufus e suoi ragazzi, le grupies di
Gwendaline la matta, che non persero l’occasione per dileguarsi
insieme alla band, e naturalmente i compagni della ciurma.
Rimasero solo loro sulla spiaggia, e il cielo stava per rischiararsi e
la mattina avanzava, ma la cassa della birra non era ancora finita e
la ciurma non riportava mai a casa le bottiglie piene.
«Cazzo ragazzi, che concerto!» Era la settima o l’ottava volta che
lo ripeteva, perché Jason era andato di brutto quella sera.
«Si, però il problema è sempre quello: la spiaggia, gli scantinati, i
parcheggi… è assurdo che non si possa assistere ad un concerto
decente in un posto decente…» Era stato Fez a parlare, il più
cazzuto dei quattro e colui che più di ogni altro desiderava che le
cose cambiassero a Rock City.
«Si, però alla fine che te ne frega… Siamo qui, siamo insieme, i
Sacrifice hanno suonato anche stasera, domani andiamo giù da
Barlow a vedere King Sorrow, che di sicuro darà spettacolo… Ci
divertiamo, tra pochi intimi ma con la gente giusta…» Nick era
così, si accontentava di poco e forse faceva bene, ma Fez non
riusciva a tollerare le ingiustizie della città del rock. Aveva perso
diversi amici per colpa delle tecniche persuasive delle major,
musicisti fantastici che una volta entrati nel giro erano stati
strizzati come degli agrumi e poi abbandonati nei vicoli della
metropoli in preda alle più assurde dipendenze. Nick questo lo
sapeva bene, ma aveva bevuto troppo quella sera per tenere a
freno la lingua. Fez lo guardò storto e si aprì l’ennesima bottiglia.
Era l’ora delle streghe, non più notte ma nemmeno giorno, e a
quell’ora è bene non parlare di certe cose, specialmente a Rock

201
City, la città preferita dal diavolo.
«Se solo tornasse Melvin…»
«Che cazzo dici, Ben!» Ben era il quarto della ciurma, il più
oscuro, uno sciamano un po’ troppo giovane per maneggiare
funghi e polveri magiche. Eppure ci sapeva fare, lo dicevano
tutti…
«Jason ha ragione… Non parlare di certe cose a quest’ora»
aggiunse Nick, guardandosi intorno. La spiaggia era ormai deserta
e le onde si stavano riprendendo i metri perduti durante il periodo
di bassa marea.
«Però non ha tutti i torti…» concluse Fez, e poi nessuno disse più
niente per almeno cinque minuti.
A Rock City la storia di Melvin, menestrello di Belfagor, era
divenuta ormai leggenda. Tre anni prima il chitarrista degli
Azazel’s Eyes annunciò sul palco la sua dipartita, tra le urla di
disperazione dei fan e l’incazzatura generale dei discografici della
Music Dome. La major prese i soliti provvedimenti; prima
sguinzagliò i suoi scagnozzi, poi gli avvocati, poi le forze
dell’ordine ed infine i suoi sciamani, ma Melvin Adams,
chitarrista super talentato del gruppo hard rock più in voga del
momento, era praticamente scomparso. Iniziarono a girare voci
sul diavolo, sempre lui, perché se esistesse per davvero non
potrebbe che bazzicare Rock City. Melvin non era il primo,
dicevano le voci dell’underground. “Il diavolo se ne intende di
musica e anche lui non sopporta i sistemi dei discografici, per
questo se chiedi il suo aiuto non te lo rifiuterà.” Così diceva
Rufus, uno che non si faceva problemi ad ammettere di averlo
visto, il diavolo. E così la leggenda era ormai diventata verità. Il
diavolo era giunto in aiuto di Melvin e lo aveva salvato dalla
Music Dome, poi se lo era portato nella sua opulente tenuta
sotterranea (si raccontava infatti che Lucifero abitasse sotto Rock
City in uno sconfinato dungeon pieno di meraviglie) e nominato
suo personale menestrello. Per quanto folle e bislacca, questa
storia diventava tremendamente vera con la sostanza giusta nelle
vene, e a quell’ora sulla spiaggia la ciurma ne aveva parecchia di
roba in circolo.

202
«Che vuoi dire, Fez? Ci credi anche tu a quella storia?» chiese
Nick, che ci credeva senza volerlo ammettere.
«Beh, so solo che gli Azazel’s Eyes si sono sciolti dopo il
fattaccio e nessuno ha più rivisto Melvin, e una spiegazione ci
deve essere. Le major non si lasciano scappare le loro galline
dalle uova d’oro in questa maniera…»
«E poi c’è anche la storia di Xiano, ricordate? Il cantante dei
Paladine… anche lui non si sa che fine abbia fatto… » aggiunse
biascicando Jason.
«In tutta sincerità, considerando come vanno le cose a Rock City,
non ci penserei due volte a mettermi dalla parte del diavolo»
ammise Fez. «Se mi aiutasse a fondare una mia etichetta gli
offrirei volentieri da bere…»
«Allora perché non me ne stappi una?» la voce pareva quella di
una ragazzina, e quando la ciurma mise a fuoco quella figura che
si avvicinava dal mare, tra le ombre malamente rischiarate dalle
braci del fuoco attorno al quale sedevano, tutti pensarono che le
pasticche di quelle sera erano state tagliate male. Ma l’uomo, o la
cosa, non badò alle loro facce stralunate, si mosse con precisione
verso i ragazzi, prese posto in mezzo a loro, afferrò una bottiglia e
bevve un sorso che sembrò non finire mai. Solo quando
finalmente, con un sonoro schiocco di lingua, l’uomo terminò la
sua birra, i quattro riuscirono a guardarlo in faccia, e a perdersi
nei suoi occhi cremisi.
«Allora signori, fate il vostro gioco…» disse. Poi rise forte, e
nessuno membro della ciurma dimenticò mai quella risata.

203
SECONDO EPISODIO
Il Fantasma di Penelope Pearl

I ragazzi sedevano sulle panchine del parco, quello dietro


l’Agorà, il più grande dei centri musicali della Dream Records,
sessantamila metri quadri di negozi di strumenti, sale di
registrazione, bar, ristoranti, negozi di dischi, e poi parrucchieri,
tatutatori, tabaccai e rivenditori di gadget di ogni tipo. Il tutto
sorgeva intorno a due grandi palcoscenici sui quali ogni sera dava
spettacolo la crema del pop di Rock City. Erano passate da poco
le tre di notte e i bandoni erano ormai chiusi. Avrebbero riaperto
appena sei ore dopo, perché il flusso era inarrestabile e la voglia
di fare parte del grande gioco della musica non risparmiava
nessuno. A quell’ora gli irriducibili rimanevano sulle panchine del
parco, aggrappati all’ultima bottiglia di birra, per lasciarsi
accarezzare ancora un po’ dalla notte e smaltire nella testa i fumi
delle pasticche.
- Dai Alvin, raccontaci ancora della Pearl…
- Mio Dio, che schianto che era, me la sarei fatta…
- Ehi ragazzi, piano con le parole. La ragazza non era di certo una
santa, ma la sua voce metteva i brividi e solo per questo non le si
può mancare di rispetto, specialmente adesso che non c’è più…
- Già, è stata una perdita per tutti, soprattutto per la Dream
Records…
- Che si fottino quelli della Dream Records…
- Dai Alvin, dicci come è andata…
- Cazzo, lo sai come è andata, te l’avrà raccontata almeno cento
volte…
- Si, ma è sempre uno spettacolo. Dai incomincia, che la benzina
è quasi finita…
Alvin si sistemò a sedere coi piedi sulla panchina e le braccia
poggiate sulle ginocchia, in modo da poter guardare tutti quanti in
faccia, perché quando Alvin raccontava una storia voleva entrarti
dentro e farti credere a tutto, la magia, il diavolo e gli spettri del

204
palcoscenico. Rock City era una città strana e succedeva sempre
qualcosa di inspiegabile, perché nella metropoli della musica la
magia esisteva per davvero, e la linea che divideva il vero
dall’immaginato correva sul filo delle sostanze spacciate dagli
sciamani. La storia di Penelope Pearl la conoscevano tutti in città,
ma nessuno riusciva a raccontarla bene come Alvin, giovane
roady al soldo della D.R. Intendiamoci, lavorare per una major
era una cosa normalissima a Rock City, se si considera che più del
sessanta per cento del fatturato cittadino veniva dall’industria
musicale e affini. Se volevi campare, il che significava rimanere
nel giro, divertirti ed assistere ogni tanto ad un bel concerto, non
ti restava che mettere da parte i tuoi principi ed incassare
l’assegno dei discografici. Alvin avrebbe volentieri dato fuoco a
tutta la baracca, ma le cose non sarebbero cambiate e lui avrebbe
sicuramente fatto una brutta fine, perché non conveniva mettersi
contro le major. Per questo e per altri motivi, tanto valeva seguire
il flusso e vivere il sogno.
Il silenziò calò attorno alla panchina. Il ragazzo si lasciò andare
ad un lungo sorso di birra, poi scaraventò la bottiglia vuota nelle
ombre del parco. La storia poteva incominciare.
- Penelope Pearl aveva mille talenti, ma io la ricorderò per sempre
per queste tre cose; la voce, gli occhi e la parlantina. Erano tre
abilità che si fondevano nel momento in cui voleva colpirti. Ti
guardava, dal basso dei suoi centosessantuno centimetri, e potevi
già dirti fottuto, perché perdersi nel verde smeraldino dei suoi
occhi era come abbandonarsi ad un tuffo nel vuoto. Poi ti parlava
e, a differenza di molti cantanti, che quando li senti chiacchierare
ti chiedi come facciano a tirar fuori dalla gola certe note, la magia
della sua voce ti arrivava dritta al cuore, proprio come quando
attaccava uno di quei pezzi strappa-anima con cui usava chiudere
i suoi concerti. E mentre facevi i conti con le emozioni
rimescolate dal timbro di quella giovane gattina, lei t’infilzava
con le parole giuste, che ti sparava addosso come una mitraglietta.
Insomma, era meglio non mettersela contro, che se all’apparenza
sembrava un’innocua ragazzina viziata, in verità c’aveva due
palle invidiabili. Purtroppo anche lei, come tutti del resto, c’aveva

205
i suoi vizi. Ma era furba e per questo si riforniva solo dal suo
sciamano di fiducia, che al tempo del fattaccio era anche il suo
ragazzo. Si chiamava Miguel, un tipo ispanico con i rasta fino al
culo, tre o quattro anni più giovane di lei che ne aveva
venticinque quando morì. Il ragazzo ci sapeva fare ma era un tipo
strano, lo dicevano tutti nel giro. Parlava poco e alle serate di gala
non si faceva mai vedere, ma lo potevi adocchiare dietro il palco
durante i concerti, defilato tra le ombre. Poteva leggerti la mano,
farti le carte e altre stronzate del genere, e si era sparsa voce che
ci azzeccava, figlio di puttana. Chissà che fine avrà fatto…
Alvin afferrò l’ultima birra e cambiò posizione. Nessuno disse
niente per paura di rompere l’atmosfera. Era il momento in cui la
storia entrava nel vivo.
- Era settembre e mancavano solo un paio di concerti alla fine del
tour. La Dream stava spingendo per farle registrare subito un
nuovo album e poi riportarla sui palcoscenici di Rock City per
l’inizio del nuovo anno, ma la Pearl era stanca e disgustata da
tutto e da tutti. Voleva prendersi un anno di riposo e non ne fece
segreto, tant’è che lo disse apertamente alla fine della sua ultima
performance, davanti ai settantamila del Diamond e ai milioni di
telespettatori sintonizzati sul canale della Dream Records che
guardavano l’evento dal vivo. Micheal Wasserman,
amministratore delegato della major, andò su tutte le furie e la
sera stessa mosse le sue pedine. Nella suite dell’hotel del
Diamond, lo stadio in cui si era esibita, Penelope degustava in
compagnia del suo amante un nuovo cocktail onirico. Miguel
mischiava parti di acidi con alcune misteriose radici di sua
conoscenza, di sicuro roba messicana. Il viaggio d’andata era
assicurato, il ritorno un po’ meno…
Alcuni ragazzi risero alla battuta, mentre il cielo ad oriente
incominciava già a rischiararsi. La storia riprese…
- Quattro membri dei Doberman, pagati ovviamente dalla Dream,
irruppero nella suite senza neanche bussare e fecero il classico
lavoretto di persuasione riserbato alle star ribelli. Distrussero la
stanza, picchiarono il ragazzo, minacciarono apertamente la Pearl
senza però sfiorarla, e poi se ne andarono pisciando sulle tende

206
della suite. Malgrado la paura, Penelope non aspettò il giorno
dopo per farsi sentire. Chiamò un taxi e piombò al party delle alte
cariche della Dream Records, sul terrazzo a cupola del grattacielo
più alto di Rock City. Andò dritta da Wasserman e, davanti ad
almeno cento tra i nomi più prestigiosi della città, gliene cantò
come solo lei sapeva fare, avvolta da una pelliccina di finta volpe,
il rossetto acceso e i capelli pettinati all’indietro, per dare risalto
ai suoi occhi di gatto. Lo chiamò “maiale”, e quel grassone
diventò tutto rosso, così da assomigliare ancora di più ad un
fottuto suino, che il demonio se lo porti! Poi lasciò il palazzo,
come una regina, tra gli sguardi sorpresi degli uomini e i risolini
delle donne. La vendetta di Wasserman non si fece attendere. Due
motociclette affiancarono il taxi sul quale Penelope stava
tornando a casa e lo crivellarono di proiettili. Il resto della storia
la sapete, perché i giornali ve l’hanno venduta per almeno due
mesi. La Voce della Salvezza, quella setta fittizia di fanatici messa
su dalle major per coprirsi il culo, dichiarò di essere responsabile
del delitto. “Dio punisce gli infedeli ed i servi di Satana”, c’era
scritto sulla finta lettera di rivendicazione. La polizia fece un paio
di arresti fasulli, la Dream Records organizzò un mega concerto
in mondovisione per celebrare la defunta star, una processione di
migliaia di fan accompagnò il feretro bianco della Pearl fino a
Harmony Hill, il cimitero del rock, e due settimane dopo uscì il
doppio album di successi e inediti che si posizionò subito al
primo posto della chart e vi rimase per quasi un anno. Fu il più
grande affare della Dream, malgrado la perdita…
Miguel, il fidanzato sciamano della Pearl, sparì di circolazione,
ma non in quel senso, badate bene. Il ragazzo, come ho detto, ci
sapeva fare, e gli scagnozzi al soldo della Dream non riuscirono a
scovarlo. Invece alcuni dicono di averlo visto più volte aggirarsi
come un anima dannata nel cimitero di Harmony Hill, attorno alla
tomba della defunta Pearl. Un ragazzo completamente andato,
probabile necrofilo, che amava dormire vicino ai resti delle star e
passare la notte nei cimiteri, giurò di aver assistito ad un
incantesimo. Miguel, in preda a chissà quali acidi, danzava come
un folle attorno alla lapide della sua ex-ragazza, cantando una

207
strana canzone in una lingua sconosciuta. Era la notte del
ventisette novembre, la stessa in cui avvenne il secondo omicidio.
Negli uffici della Dream Records, Wasserman era al settimo cielo.
Il disco vendeva, gli azionisti erano contenti e la Penelope non
rompeva più i coglioni. La vita era una meraviglia, di sicuro
pensava, mentre se lo faceva succhiare dalle sue concubine in
botta acida, quattro ragazzine di appena sedici anni che volevano
diventare famose. Nella vasca idro della sua magione
all’ottantottesimo piano del palazzo della Dream, Micheal
Wasserman viveva il sogno allo stato puro. Fu lì che lo ritrovò la
polizia il giorno dopo, il corpo flaccido immerso nell’acqua
sporca di sangue, la testa staccata dal collo a un paio di metri
dalla vasca, sul tappetino intriso di cremisi. Le ragazze furono
interrogate ma nessuno credette alle loro storie di spettri e
vendette. Gli inquirenti dettero la colpa agli acidi. La Dream
Records le pagò bene e il giorno dopo fecero ritorno ai loro
insipidi villaggi del sud, dove i giovani, ignari del selvaggio
mondo dei discografici, coltivano il sogno di Rock City.
- Ma le ragazze parlarono agli amici, e gli amici parlarono ad altri
amici, e la storia del necrofilo s’insinuò tra le testimonianze delle
ragazze. Lentamente una leggenda prese forma, e vi confesso che
non mi stupirei se fosse vera, perché di cose strane ne ho viste in
questa città del diavolo…
Alvin riprese fiato. Lasciò andare lo sguardo verso le luci della
città, una distesa sconfinata che dalle montagne arrivava fino al
mare. Rock City, la città del diavolo, ma c’erano cose ancor più
temibili di Belzebù; c’era il Dio Denaro e Fama, la sua baldracca.
E poi c’era la droga, quella buona degli sciamani giusti, e quella
devastante spacciata dai servi delle major. Il roady si attaccò
all’ultima birra, la finì e chiuse la storia.
- Penelope apparve sulla terrazza all’ottantottesimo piano, quella
dell’appartamento di Wasserman, candida come il latte, con
indosso una vesta sottile che lasciava intravedere le sue forme
minute, le sue carni giovani che, per uno strano gioco di luci o
chissà per cosa, sembravano anch’esse trasparenti. Si avvicinò
alla porta-finestra che dava sul bagno, dentro il quale il grasso

208
amministratore della Dream Records cinguettava con le sue
giovani amanti, un bicchiere di whiskey in mano e una tetta da
bambina nell’altra. Le ragazze urlarono e schizzarono fuori dalla
vasca prima che Wasserman riuscisse a capire cosa stesse
succedendo. La Pearl gli fu sopra in un istante. Ignorando le
ragazzine, alzò la lama di un enorme coltello sopra la testa del
verro umano. Nessuno guardò, ma tutte e quattro udirono dei
rumori orribili, un grido disperato mozzato nel momento in cui la
lama recise le corde vocali dell’uomo, e poi il suono delle carni
squarciate, e un fiotto di sangue che gorgogliava riversandosi
sulla superficie schiumosa della vasca. Quando finalmente scese
il silenzio, la Pearl intonò il ritornello di Gimme Some Love, la
hit che la rese famosa, e nessun canto di vendetta fu più
meravigliosamente crudele di quello.

209
TERZO EPISODIO
Il Pifferaio delle Steppe

Oltre le montagne si trova il deserto, ed una strada lunga e


polverosa che taglia in due il continente. A sud di questa la
vegetazione diventa selvaggia, le strade intricate, i villaggi
sporadici e pieni di misteri. Laggiù i giovani sognano Rock City,
mentre i vecchi siedono sui porticati a cantare vecchi pezzi blues.
Laggiù tutto ha il suo tempo, tutto scorre lento, o forse non scorre
affatto.
Ma a nord di quella famosa strada, che molti chiamano
semplicemente “La Via”, il territorio diventa brullo, e poi ci sono
i grandi laghi e oltre quelli una distesa sterminata di vegetazione
bassa, fredda e inospitale. In quella landa sperduta sorge una
piccola città chiamata ironicamente Notown, perché è come se
non esistesse affatto. Una strana aggregazione di casette e
casupole, un paio di fabbriche, un cementificio, una chiesa e un
campo da football, il tutto circondato dalle grigie steppe sferzate
dal vento del nord. Ed è proprio in questa città dimenticata da dio,
ma forse vistata in più occasioni dal diavolo, che è nata una
leggenda, e a Rock City questa leggenda si chiama Jonathan
Lancelot Palmer, il pifferaio delle steppe.
Giunse in città che era appena ventenne, anche se a guardarlo ne
dimostrava quaranta. Capelli arruffati, sguardo stralunato,
orecchini vistosi come quelli dei pirati e una barba ispida che gli
dava un look trasandato ma non sporco. Suonava il flauto, e
all’inizio la gente lo guardò storto perché a Rock City nessuno si
era mai dedicato ad uno strumento simile. Le major lo
adocchiarono, ma per un po’ lo lasciarono perdere, perché anche
se i suoi pezzi blues e la sua voce folkeggiante avevano
richiamato una certa attenzione, gli esperti di marketing
conclusero che si trattava di una cometa destinata a cadere presto.
Invece non fu così.
Palmer si era circondato di una serie di musicisti sconosciuti ma

210
tecnicamente validi, liberi dalle influenze dei discografici che
nell’ambiente erano conosciuti con il nome di “mercenari
dell’oppio”, perché erano sempre disposti a suonare se c’era uno
sciamano che li riforniva. Beh, in questo caso era lo stesso
Jonathan Lancelot che fungeva da sciamano, e in città si diceva
che i suoi intrugli ti facevano vedere i demoni degli abissi e le
ninfette succhiacazzi. Dopo i concerti i fan venivano invitati da
Palmer a partecipare ai suoi festini, che erano delle vere e proprie
cerimonie dedicate a Dionisio. Le pipette con la roba buona
giravano insieme alle pasticche, le ragazze danzavano seminude
al ritmo di un bongo, qualcuno urlava dicendo di aver appena
visto un morto, un fantasma oppure dio in persona, e nel
frattempo il protagonista si aggirava tra i suoi fan con il flauto in
bocca e una gamba alzata come una gru, emettendo suoni
stridenti, gorgoglii, rantoli ed altre assurde dissonanze. Tutta la
messa in scena, a suo dire, faceva parte di un rituale liturgico.
Ma quando i suoi concerti incominciarono a richiamare diverse
centinaia di persone, la Music Dome bussò alla sua porta, anche
se non fu facile dato che, a quanto si diceva, Palmer era senza
fissa dimora. Nessuno sapeva dove abitasse e infatti non era
neanche registrato in comune. Qualcuno diceva che dormiva sotto
i palchi in cui si esibiva, come una specie di vampiro. Altri invece
credevano che non dormisse affatto, perché faceva uso di una
sostanza di sua invenzione che eliminava totalmente il bisogno
del sonno.
Ma alla MD non mancavano di certo le risorse e grazie ad un paio
di infiltrati riuscì ad avvicinare il flautista. Palmer non si lasciò
ingannare dalle promesse della major, ma sapeva che non era
saggio mettersi contro i discografici, così fece loro una
controproposta; senza contratto avrebbe inciso un unico disco
doppio con tutti i suoi successi e poi sarebbe sparito per sempre
da Rock City. La major c’avrebbe guadagnato in termini di soldi,
e per loro era la cosa più importante, i fan avrebbero finalmente
avuto l’occasione di ascoltare un disco dello sfuggente flautista e
Palmer se ne sarebbe potuto andar via con un po’ di denaro in
tasca, libero da qualsiasi ceppo contrattuale.

211
La Music Dome accettò e due mesi dopo uscì “The first and
ultimate collection of J.L. Palmer”, un disco che rimase per
mezzo anno in testa alle classifiche. Tutti impazzirono e chi
ancora non conosceva il pifferaio delle steppe, rimase
scombussolato da quel sound vagamente folk ma assolutamente
rock. Quando gli uomini della Music Dome si accorsero che il
disco vendeva ben oltre le loro aspettative, provarono a
rintracciare Palmer per convincerlo, con i loro soliti mezzi
persuasivi, a fare un tour nei grandi stadi di Rock City, ma in città
non vi era più traccia del ragazzo prodigio venuto da Notown.
Qualcuno disse che era tornato da dove era venuto. Altri invece
pensarono ad un’isola del sud, lontano dal mondo corrotto dei
discografici. Eppure c’è ancora chi crede che il pifferaio delle
steppe viva sempre a Rock City, che abbia alterato il suo look e
cambiato nome, e gestisca un pub o magari un negozio di dischi
nella città vecchia. Ma anche questa, come tutto il resto, è solo
una leggenda.

212
QUARTO EPISODIO
Rooster Crane

Il concerto degli Abyss era terminato in un tripudio di urla di


disperazione e pianti isterici. La band più “scura” di Rock City
aveva lasciato il palco tra i rintocchi di campana della tenebrosa e
bellissima “Funeral”, dopo un concerto di quasi tre ore. Per
l’occasione il cantante e leader della band si era fatto rinchiudere
in un cofano d’ebano posizionato al centro del palco. Un becchino
smilzo e incappucciato scandiva il tempo del finale per solo piano
conficcando dei lunghi chiodi d’acciaio nella bara. I
quarantacinquemila dell’Arena Nord erano in estasi.
Ma a Rock City i concerti erano solo l’inizio dell’avventura
notturna. La festa di solito continuava nei club e nei pub della
città, tutti rigorosamente di proprietà delle major. Poi c’erano le
feste private, anche se illegali, perché alla Dome Records e alla
Dream Music non andava a genio che la gente si sballasse nelle
proprie case con gli alcolici comprati al supermercato e le
pasticche degli sciamani di strada. Ma nonostante il severissimo
divieto, ogni sera vi erano centinaia se non migliaia di party liberi
nella metropoli.
Quella sera Jim e Carrie, subito dopo il concerto degli Abyss, se
ne andarono da Izzy, uno sciamano loro amico che aveva un
seminterrato nella città vecchia che era l’ideale per organizzare
delle feste senza dare troppo nell’occhio. Izzy aveva invitato
mezza Arena quella sera, perché il tema del party era la morte, un
soggetto sempre di grande attrazione. La maggior parte degli
invitati erano Ghosts, amanti della musica scura e necrofili per
spasso, ma non tutti si trovavano lì per giocare e divertirsi nel
segno della decadenza più dark. C’erano alcuni personaggi di
dubbia reputazione, ben più interessati ai misteri della morte degli
sballati fan degli Abyss. Jim e Carrie notarono l’andazzo ed erano
sul punto di levarsi dai piedi, quando Izzy si fece loro incontro
salutandoli e promettendogli un viaggio super. Si diceva infatti

213
che il bizzarro sciamano, sempre vestito di scuro e completamente
glabro, con uno strano tatuaggio tribale sulla testa clava, usava
mischiare del comune acido con una sostanza di sua invenzione
ricavata dalle reliquie delle rock star crepate di OD (e il cimitero
di Rock City ne era pieno). La capsulina che faceva girare quella
sera e per la quale era diventato nell’ambiente sotterraneo una
mezza celebrità, l’aveva battezzata “Gateaway”, e il nome diceva
tutto. Cazzate, certo, una persona normale non può permettersi di
credere a scemenze del genere, ma una cosa era certa: la roba di
Izzy faceva sballare di brutto, e poi si diceva che facesse vedere i
morti. Roba da farti perdere la ragione, ma alla festa quella sera
ce n’era poca di gente con qualche cellula sana in testa.
Jim prese Carrie per la mano e la condusse attraverso un corridoio
gremito fino alla porta del soggiorno. La bottiglia di vodka che
teneva nella mano era ormai a metà. Si sedettero sul bracciolo di
un divano sdrucito, accanto a due ragazze che fumavano erba
accarezzandosi delicatamente la testa. Dallo stereo arrivavano le
note di un disco dei Tomb, il primo progetto del grandissimo
Rooster Crane, il Galletto del Diavolo.
- Questo pezzo è semplicemente stupendo! – sussurrò Carrie
all’orecchio del suo ragazzo. Poi gli afferrò la bottiglia e buttò giù
un lungo sorso. Lui incominciò a baciarla esplorando e giocando
con la lingua, solleticando i numerosi piercing che aveva sulle
labbra e i due bottoncini interni. Erano andati, ma non col pilota
automatico. Era un bello stare, ma era appena scoccata
mezzanotte e l’avventura era solo all’inizio.
Le feste libere si autoregolavano. Potevi entrare anche se non eri
invitato ma dovevi comportarti bene, altrimenti il meglio che ti
poteva capitare era ritrovarti col culo sul marciapiede. La gente di
solito entrava, si faceva una bevuta o qualcos’altro, e poi si
dileguava verso un altro party, che a Rock City, specialmente il
sabato sera, non mancavano certo. Izzy metteva a disposizione la
sua casa, gli alcolici e in cambio tirava su un discreto malloppo
vendendo il suo Gateway. Jim e Carrie, entrambi appena
sedicenni, non se lo potevano permettere, ma erano vincolati dalla
promessa dell’amico. A fine serata una pasticchina, forse due,

214
sarebbero toccate anche a loro.
Jim non conosceva personalmente Izzy, ma suo fratello più
grande ci era andato a scuola insieme e quando era appena un
ragazzo lo vedeva spesso a casa sua. Jim sapeva che Izzy si
sentiva in colpa per l’OD che si era fottuta suo fratello, anche se
non era stato lui a vendergli la roba. Jim non conosceva tutta la
storia, ma Izzy si era preso a cuore il fratellino proprio per questo
senso di colpa. La sera che Martin si fece quel viaggio senza
ritorno erano insieme. Izzy provò a convincerlo di lasciar perdere,
che lo sciamano che gli aveva venduto la roba aveva una brutta
reputazione e si sapeva che lavorava con la DR. Ma non volle
sentir ragioni e s’infilò quel maledetto ago nel braccio, pace
all’anima sua…
Il viavai era terminato. Alla festa rimanevano gli irriducibili, i
collassati e quei tre o quattro personaggi che Jim aveva
adocchiato all’inizio. Izzy mise sul piatto “No Return” il
capolavoro di Rooster Crane, l’ultimo lavoro da solista prima che
la morte lo richiamasse. E cosa si aspettava, dopo averla
inneggiata e reclamata per anni! Era giunto il momento di
soddisfare le sue richieste, perché con la morte non si scherza…
Izzy richiamò tutti quanti all’ordine. Chiese, a chi poteva, di
formare un cerchio nel soggiorno, dove la voce sofferente di
Crane chiedeva perdono a Satana, perché era giunto il momento
tanto atteso. Jim e Carrie, che erano ancora sul divano ad
esplorarsi e a bere sguaiatamente, presero posizione insieme a una
quindicina di persone. C’era odore di cannabis e vomito nell’aria,
prima che Izzy accendesse alcuni bastoncini d’incenso aromatici.
La scena che sia andava componendo aveva qualcosa di mistico.
Jim reggeva bene l’alcol e riusciva ancora a metter a fuoco i volti
delle persone. Carrie era completamente andata e si appoggiava
con tenerezza sulla sua spalla. Lui le chiese come stava e lei gli
rispose con un grugnito. Nonostante tutto la trovava ancora
bellissima.
Finalmente Izzy prese posto al centro del cerchio. Teneva in mano
un sacchettino di velluto rosso, e con un amano rovistava il suo
contenuto. Sorrideva in maniera dolce e confusa, ma i suoi occhi

215
erano presenti e vivi e si posarono su ogni elemento del cerchio.
Lui continuava a girare il contenuto del sacchetto. Disse qualcosa,
ma Jim non riuscì a sentirlo perché la musica era troppo alta. Poi
incominciò a dispensare chicche, come un Gesù moderno
spezzerebbe i pani per il suo popolo.
Jim buttò giù la sua e si mise in tasca quella di Carrie, che se la
dormiva accanto. Quello che avvenne dopo lo turbò per molti
giorni. Le luci cambiarono, i bassi dello stereo rimbombarono nel
suo stomaco, gli oggetti della stanza cominciarono a sciogliersi,
come in un quadro di Dalì. Guardò i volti delle persone sedute in
cerchio e intravide le forme dei loro teschi, macabri ghigni
dell’oltretomba. Provò ad urlare ma non riusciva a muoversi, a
parlare, a fare niente. Non poteva neanche chiudere gli occhi o
tapparsi le orecchie. Jim cercò la figura di Yzzy e la trovò al
centro del cerchio, ma era cambiata. Adesso di fronte a lui vi era
un uomo alto, con lunghi capelli che ricadevano sul volto. C’era
qualcosa di familiare in lui. Provò a distinguere i tratti del suo
volto nell’ombra proiettata dalla massa di capelli, e in
quell’istante l’uomo alzò lo sguardo su di lui. Allora lo riconobbe.
Era Rooster Crane, in carne ed ossa, o almeno quella era
l’impressione. I suoi occhi erano rossi come le braci della
magione di Belzebù. Lo spettro del cantante alzò la testa, gettando
indietro la sua chioma corvina, abbandonandosi a una risata
crudele, estasiata, che andò a fondersi con la melodia del pezzo
che chiudeva il suo ultimo album “Dancing with the dark ones”.
Perché a Rock City i fantasmi esistono, che lo crediate oppure no,
e il diavolo è dalla parte dei buoni.

216
QUINTO EPISODIO
Melvin & Desy

Melvin era un bastardo, ma io l’amavo e l’avrei seguito finanche


alle porte dell’inferno. Forse fu proprio là che lo trovai, persa in
uno strano sogno o più probabilmente tra le spire del Vortice…
Ne aveva tante come me, ma nessuna era come me. Adesso
penserete che sia l’ennesima disillusa, ma vi assicuro che non è
così, e anche se fosse, che cazzo ve ne frega a voi… l’amore è
l’amore, e quello che provavo e continuo a provare per Melvin è
Amore con la “A” maiuscola. Perché io ero la “Sua Desy”…
usava sempre il possessivo quando si riferiva a me, invece le altre
le chiamava solo per nome.
Erano passati due mesi dall’ultimo concerto degli Azazel’s Eyes e
di Melvin non si sapeva più nulla. Il ricordo dei suoi baci mi
tormentava in quelle piovose serate d’autunno. La sera prima del
fatidico concerto in cui dette l’addio, facendo schiumare di rabbia
i dirigenti e gli azionisti della Music Dome, si dedicò totalmente a
me. Non mi disse niente dei suoi piani, ma lo capii al volo che
c’era qualcosa che non andava. Tra le lenzuola di seta del suo
letto mi amò più volte, ma lo sentivo lontano, distratto,
preoccupato… Gli allungai un paio di pasticche ma lui le rifiutò
senza esitare. Doveva stare pulito, mi disse. Quando mi svegliai la
mattina dopo lui se n’era già andato. In quel momento seppi che
non l’avrei mai più rivisto, almeno non in questo mondo…
Nelle due settimane successive ebbi i miei problemi. Gli
scagnozzi della Music Dome vennero a cercarmi perché sapevano
che ero una delle sue ragazze, forse la più intima. Dissi loro di
andare a farsi fottere, ma mi resi subito conto che era la risposta
sbagliata. Con certa gente è bene non fare i duri… Dissi quello
che sapevo, cioè nulla, e dopo avermi somministrato una
sostanziosa dose di schiaffi mi lasciarono andare. Passarono altre
due settimane in cui vagai come un fantasma di raduno in raduno,
di concerto in concerto, vittima di una serie di mood-swings

217
dovuti ad un uso improprio degli acidi… nessuno sapeva niente di
Melvin. Incontrai Logan, il cantante degli Azazel, ma stava
peggio di me. Anche lui non aveva la minima idea di dove si
trovasse il chitarrista più famoso di Rock City.
Era il 19 novembre, una serata balorda come molte altre, quando
il telefono squillò destandomi da un incubo chimico. Era Gwendy,
o come la chiamavano tutti, Gwendaline la Matta, matta perché
non aveva paura di niente, neanche del diavolo, anzi… C’era chi
diceva che avesse fatto un patto con lui, che se lo fosse scopato
come si era scopata tutti i più grandi musicisti apparsi a Rock City
negli ultimi vent’anni, e che in cambio avesse ricevuto il segreto
dell’eterna giovinezza. In effetti Gwendy poteva avere venti
oppure cinquant’anni. C’era chi la conosceva da una vita, eppure
la sua chioma rimaneva folta e dorata, e neanche una ruga solcava
il suo bel viso. I suoi occhi invece la raccontavano lunga… ne
avevano viste di cose nella città del diavolo.
“Ciao Desy, il tuo uomo ti cerca…” mi disse dall’altro capo della
linea.
“Che cazzo dici Gwendy?” le chiesi di rimando, perché ero in
botta e non le credevo.
“Vediamoci tra due ore al Fusion, dietro il locale di Vic. Sai
dov’è?”
“Certo, ma se mi stai prendendo per il culo…” click. Aveva già
riattaccato.
Ero là ad attenderla mezz’ora prima dell’appuntamento. Le
sigarette non riuscivano a calmarmi. Infilai la mani nella tasca
della giacca e afferrai due quadrettini blu che mi aveva allungato
Berto, il mio sciamano di fiducia. Diceva che facevano calmare,
ma forse era meglio non mischiarle con la robaccia che mi ero
fatta poche ore prima. Li lasciai ricadere nella tasca e mi accesi
un’altra cicca. Poi arrivò lei.
Difficile parlarne male, almeno dal punto di vista fisico.
Indossava un paio di jeans elasticizzati e una finta pelliccia di
volpe. I capelli li teneva legati sulla testa, come voleva la moda
del momento, così da dare risalto agli occhi di cerbiatta e al sottile
disegno del rossetto. Insieme a lei c’erano due adepte… insieme

218
avranno avuto non più di trent’anni.
“Ciao Desy, hai una brutta cera… che ti è successo?” chiese lei
ironica.
“Non sono qui per fare conversazione, Gwendy… Cos’è questa
storia? Sai dove si trova Melvin?”
“Più o meno…”
“Allora dimmi dov’è!” la incalzai, facendo fatica a non saltarle
addosso e a strapparle con le mani i suoi maledetti segreti.
“Beh, per prima cosa ho bisogno di sapere quanto desideri
vederlo…”
“Che cavolo dici… Non lo vedi come sono ridotta? Se non lo
vedo muoio…”
“Ci sono cose più terribili della morte, sorella…” Insieme a quelle
strane parole Gwendaline la Matta mi regalò un macabro sorriso.
La bocca piena di rossetto le si aprì come una ferita inferta da un
rasoio.
“Basta stupidaggini! Portami da lui” le dissi, chiudendo una volta
per tutte quell’assurda conversazione. Lei girò sui tacchi e mi
chiese di seguirla.
Camminammo per un po’ tra gli stretti vicoli della città vecchia. Il
Fusion, locale underground ma di proprietà della Dream Records,
sorgeva poco distante dalla cattedrale e segnava l’inizio di
Melody Road, una strada immaginaria che, passando attraverso i
principali templi del rock della città, segnava il pellegrinaggio
quotidiano del popolo della musica. Ma la città vecchia era in
qualche modo distaccata dal grande business musicale di Rock
City. Laggiù potevi ancora mangiare in un ristornate non di
proprietà delle major, oppure guardarti un film in un cinema
d’essai.
D’un tratto le tre donne che mi precedevano svoltarono in un
vicolo se possibile ancora più angusto. C’erano delle scale che
sprofondavano nell’oscurità, e una porta di legno senza insegne.
“Dove mi portate? Io non ci vengo laggiù…” dissi io,
fermandomi all’entrata del vicolo.
“Tranquilla bambola… Sei al sicuro con noi…” cercò di
tranquillizzarmi Gwendy, e ci riuscì. Non so come ma ci riuscì. In

219
fondo cos’è che avevo da perdere, mi chiesi. E così, che lo
crediate oppure no, scesi lentamente quelli scalini che mi
avrebbero condotta dentro il covo del diavolo.
Gwendaline estrasse dalla sua borsetta rosa una vecchia chiave e
dette due mandate alla porta, che si aprì con un cigolio. Dentro
era buio pesto, ma lei lo scacciò con una torcia elettrica.
Lentamente scivolammo in un corridoio stretto e umido. “Fa
freddo qui…” mi lamentai.
“Vedrai che tra un po’ ti scaldi…” rispose seccamente la mia
guida, e le ragazzine risero come a una battuta, ma io non ci
trovai niente di divertente.
Il corridoio terminò una ventina di metri dopo davanti a un’altra
porta. Questa volta Gwendy bussò un codice di tre colpi più due.
Un ragazzo molto giovane, di bell’aspetto e coi capelli lunghi ci
fece entrare. Sulle sue braccia risaltavano molti tatuaggi ma ve
n’era uno più grande degli altri, un cobra che gli si avvinghiava
dal polso fino alla spalla.
“Ciao Thomas”, e nel salutarlo Gwendy gli accarezzò il serpente
tatuato. Lui mi guardò di sfuggita. “È lei?” domandò. La mia
guida annuì.
Insieme attraversammo la stanza, probabilmente un vecchio
magazzino in disuso. C’erano delle casse ai lati e sopra alcuni
scaffali, ma non riuscii a capire che cosa contenessero. Alla torcia
di Gwendy si era aggiunta quella di Thomas, perciò la situazione
non era cambiata di molto. Le ombre ci stavano addosso…
Passammo a un’altra stanza, simile alla prima. Intanto la
temperatura si stava alzando, anzi si stava facendo decisamente
caldo. Ci fermammo davanti a un’altra porta, che risaltava
nell’oscurità per via di una forte luce bianca che fuorusciva dagli
stipiti. Thomas usò una chiave per aprirla. “Riparatevi gli
occhi…” avvertì. Abbagliati da quella luce artificiale, entrammo
in una stanza più piccola, una specie di serra. Su un tavolo erano
disposti dei vasi di terracotta, a ridosso di una parete vi erano
quattro ventilatori accesi e sul soffitto due grosse lampade
alogene abbagliavano violentemente le piante che crescevano nei
vasi. Le riconobbi subito, anche se era la prima volta che le

220
vedevo. Erano le leggendarie rose nere, i cui petali potevano farti
raggiungere il Vortice, un mondo a metà strada tra lo sballo e la
vibrazione. Allora non è solo una leggenda, pensai. Stordita da
quella visione, fui presa per un braccio dal ragazzo che mi fece
accomodare su un divano, davanti al tavolo. L’aria incominciava a
farsi soffocante, forse per colpa delle lampade, o forse per
qualcos’altro…
Nella stanza vi era uno stereo portatile. Gwendy estrasse dalla sua
borsa una musicassetta e ce la infilò dentro. Pochi istanti dopo
l’intro acustico di Saturn Woman inondò la stanza. Era il pezzo
degli Azazel’s Eye che preferivo. L’assolo finale di Melvin
riusciva ogni volta ad entrarmi dentro, insinuandosi nel mio
stomaco, nei miei intestini, fondendosi con la parte più etera di
me.
Thomas staccò un grosso petalo nero da una delle molte rose che
crescevano nella serra. Mi disse di chiudere gli occhi e aprire la
bocca. Io obbedii, stordita dal calore, dalla luce e da quelle note
che mi entravano sottopelle. Mi appoggiò sulla lingua il petalo e
per un momento sentii la bocca andarmi a fuoco. Il petalo si
sciolse, restai ad occhi chiusi, la musica divenne liquida ed io vi
ci affogai.
“La mia Desy…” era la Sua voce, inconfondibile.
“Melvin?”
“Apri gli occhi…”
“Ma…”
“Fidati…”
Non mi trovavo più nella serra. Stavo a sedere al bordo di un letto
a baldacchino, in una stanza che non conoscevo. Il pavimento era
cosparso di candele accese e c’era un piacevole odore di cannella
e rosmarino nell’aria. Le lenzuola del letto erano di seta rosa,
soffici e profumate. Mi voltai e c’era lui, adagiato sul letto con le
spalle alla testiera, i capelli leggermente più lunghi che gli
ricadevano ai lati del volto, e due occhi intensi ma dolci.
Sorrideva…
“Vieni qui…”
“Ma dove siamo?”

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“Non preoccuparti… Mi sei mancata, lo sai?”
Non dissi nient’altro. Ci amammo, come sempre ma anche in
maniera nuova. Potevo udire in sottofondo l’assolo di Saturn
Woman, ma era distante, come se provenisse da un altro mondo.
Persi completamente il senso del tempo. Il nostro incontro poteva
essere durato un battito di ciglia oppure un secolo. Prima di
lasciarmi mi disse di non stare in pensiero per lui, che tutto era a
posto.
“Ma è vero che sei con Lui?” domandai io.
“Sshhh! Non parliamo di Lui…” rispose, accendendosi una
sigaretta. Me la passò dopo aver inalato, e tutto era così
maledettamente reale e normale…
“Ci rivedremo?” chiesi allora.
“Forse…” sussurrò. “Forse…” ma i suoi occhi guardavano
altrove e potrei giurare di averci visto dentro un baluginio
cremisi.
Finimmo le sigaretta poi lui se ne andò. Mi addormentai quasi
subito e mi risvegliai sul divano della serra. Il sogno era finito, se
di sogno si era trattato.
“Tutto bene, bambola?” Stranamente le parole di Gwendaline la
Matta suonarono dolci, genuinamente preoccupate.
“Tutto ok…” risposi.
“L’amore è un brutto trip!” cercò di consolarmi lei.
“Forse…” dissi. “Forse…”

222
Finito di pubblicare nel maggio 2010

223
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Tutto il materiale di questo libro è sotto


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