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immutata la quantità totale. Una simile fortunata prospettiva, se fosse possibile,
potrebbe presentarsi in modo analogo per la materia ipotizzandone il completo
recupero e riciclo, eliminando così il problema dello smaltimento dei rifiuti.
Ma, ci avverte Clausius, l’entropia aumenta. Cioè l’energia si degrada, aumenta il
disordine nell’universo. Cioè.....cerchiamo di capire cosa significa.
L’energia utile nelle macchine corrisponde a un movimento ordinato: il pistone si
muove con un moto periodico lungo una direzione per ottenere il moto circolare
delle ruote intorno a un asse; le molecole dell’aria nel vento fanno girare le pale del
mulino se si muovono in un’unica direzione; se il loro moto fosse del tutto casuale
non sarebbe possibile ottenere alcun movimento. Anche la vita ha bisogno di
movimento e ordine. Non tanto perché il signor Rossi deve andare al lavoro e al
supermercato, ma perché il sangue deve muoversi nelle vene, il seme deve
raggiungere l’uovo, la foglia deve aprirsi al sole. L’ordine è necessario perché una
combinazione casuale di elementi non fa né una cellula, né una farfalla, né la
ghiandola pineale del signor Rossi. Del resto tutti sappiamo che il DNA è costituito
da una sequenza, il cui significato dipende dalla disposizione di pochi costituenti
elementari. Come sappiamo che la funzione clorofilliana, fondamento della vita
sulla Terra, è una grande operazione di ordine, distribuita nelle foglie verdi del
pianeta, in cui alcuni elementi vengono collocati in sequenze significative per
costruire i primi "mattoni" della vita.
Ma la natura tende spontaneamente al disordine e l’entropia è proprio una misura
del disordine. Se rovesciamo su di un tavolo le tessere di un puzzle, anche
precedentemente composto, è molto difficile, che il puzzle risulti casualmente
formato, tanto difficile che lo riteniamo impossibile. Se abbiamo due bombole, una
contenente gas e una vuota, e le mettiamo in comunicazione, ci aspettiamo, come
in realtà avviene dopo breve tempo, che le molecole si distribuiscano
spontaneamente in modo uniforme nelle due bombole e riteniamo improbabile,
anzi impossibile, che a un certo istante casualmente tutte le molecole si possano
trovare "ordinatamente" in una sola bombola. È una questione di probabilità: tra i
modi in cui le molecole possono ripartirsi tra le bombole comunicanti,
quest’ultimo caso è solo uno fra tutti gli altri, che sono in numero
inimmaginabilmente grande (per quanto calcolabile). Il disordine è più probabile
dell’ordine, perciò il passaggio da ordine a disordine costituisce la tendenza
spontanea di ogni fenomeno. L’entropia è appunto la grandezza scelta per fornire
una misura del disordine, anche se in modo non semplice ed immediato. Dire che
l’entropia aumenta significa dire muoversi verso stati fisici più probabili e quindi
più disordinati e, quindi infine, con una minore quantità di energia utilizzabile.
Il passaggio inverso non è impossibile. Ad esempio, le molecole possono essere
nuovamente tutte "spinte" in una sola bombola. Però bisogna spendere energia e
aumentare l’entropia nell’universo, vicino o lontano. Con l’energia di una
combustione realizziamo il movimento ordinato di un pistone, ma alla fine avremo,
oltre allo spostamento dell’auto, il movimento casuale delle molecole presenti nelle
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parti riscaldate e nei gas in uscita dalla marmitta. Bruciando cibo gli animali
ottengono l’energia per costruire il loro corpo ed esercitare le loro funzioni, ma la
produzione di cibo è avvenuta a spese di una quantità di energia maggiore di quella
utilizzata e, successivamente, con la morte la materia perde la sua organizzazione.
Ma i possibili ordini non sono tutti uguali. C’è l’ordine dei movimenti delle
macchine, capaci di imporsi anche ai movimenti dell’operaio Chaplin di "Tempi
moderni", a monte della cultura che produce il rigido conato di razionalità delle
villette a schiera. Un ordine ripetitivo, funzionale alla produzione per il consumo e
non alla conservazione, che non può prevedere novità e cambiamenti, incapace di
apprendere dall’interazione con il mondo circostante e quindi di evolvere. Un
ordine che fa scrivere al poeta:
ciò che era
area erbosa, aperto spiazzo, e si fa
cortile bianco come cera (…)
in un ordine ch’è spento dolore.
Ma c’è anche l’ordine che costruisce i sistemi complessi della vita, come abbiamo
visto. Questi sono sistemi che sanno riprodursi, il cui destino dipende da quanto
sanno apprendere dalle relazioni con il mondo esterno per organizzarsi, modificarsi
ed evolvere per mantenere il proprio equilibrio con quel mondo.
Tutto ciò è faticoso, è una vittoria ottenuta con il consumo di energia per creare
localmente l’ordine necessario (calo di entropia) mentre intorno inevitabilmente
aumenta il disordine (aumento di entropia, degrado dell’energia). Mentre nella
foglia nascono ordine e vita, in un altro luogo, dove si produce l’energia
necessaria, dove al suolo la natura morta si decompone, aumenta il disordine in un
bilancio complessivo sempre a suo favore. Una fatica e una vittoria che illuminano
l’eccezionalità e la preziosità della vita sul pianeta e sui suoi delicati equilibri, che
impone la necessità di assumere una posizione solidale in sua difesa, cioè in nostro
favore.
Una grande responsabilità questa, da assumere senza rinvii perché i danni non sono
rimediabili. La logica del recupero, per quanto talvolta necessaria, non funziona
perché il tempo ha una "freccia", si muove in una sola direzione, quella appunto
dell’aumento di entropia, senza ritorno. Anche spendendo energia e denaro non si
vince l’irreversibilità dei processi naturali, non è come riparare la ruota forata e
ripartire. Se si tagliano gli alberi in Amazzonia per fare posto ai pascoli necessari
agli hamburger di Mc Donald, non solo di sottrae ossigeno all’atmosfera, ma si
rompe anche definitivamente l’equilibrio tra vegetazione e suolo raggiunto in
milioni di anni. Il suolo si polverizza nell’aria e si perdono foreste, pascoli e
hamburger. Bisogna tagliare ancora, ma fino a quando? Intanto anche le specie
estinte non si possono riprodurre, neanche in laboratorio, e il suolo non si
ricostituisce più. E là dove l’opera dell’uomo ha raggiunto un equilibrio con la
natura, come nelle terrazze a ulivo dei nostri colli, una volta iniziata non può essere
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sospesa: l’abbandono non porterebbe stabili pendii coperti di vegetazione, quali
originariamente erano, ma solo degrado e dissesto idrogeologico.
Allora attenzione a quello che facciamo. Un mondo diverso è necessario, un
mondo a bassa entropia. Non è facile politicamente, non è facile culturalmente.
Dopo millenni di uso quasi esclusivo della sola energia umana e animale, negli
ultimi due secoli le nuove conoscenze hanno consentito l’utilizzo di quantità di
energia enormemente superiori, ampliando in proporzione la produzione agricola e
industriale e, di conseguenza, la possibilità di vita dell’uomo. Ma il processo è
avvenuto all’interno di una cultura in cui la conoscenza della natura è stata
premessa, autorizzazione e strumento della sua conquista, della presa di possesso e
utilizzo senza limiti, della impossibile sottomissione delle leggi naturali a presunte
leggi umane, in realtà proprie del sistema economico e politico che si è imposto a
livello planetario. Una cultura che subito ha saputo riconoscere l’importanza di una
prima parte delle scoperte termodinamiche, le potenzialità delle trasformazioni
energetiche, ma ha ignorato e ignora, perché così le conviene, l’avvertimento della
seconda parte, l’entropia aumenta, pur essendo le due informazioni contestuali e
correlate. Un’illusione, quella della crescita energetico-produttiva senza limiti, che
ha colpito anche la cultura attenta ai valori del progresso e della giustizia sociale.
L’inevitabile aumento di entropia non è la fine del mondo: sulla Terra possiamo
vivere in tanti, con una vita dignitosa e potenzialmente felice per tutti. Lasciamo, e
non sarà facile, un’economia, una politica, una cultura che guardano solo al PIL,
tanto più soddisfatte quante più risorse si sono consumate, senza considerare
quante e quali risorse sono disponibili per il futuro, come farebbe nel suo bilancio
ogni famiglia di buon senso. Poniamoci l’obiettivo immediato di una riduzione dei
consumi, anche attraverso l’uso razionale dell’energia e l’utilizzo del flusso
energetico che arriva ogni giorno dal sole.
La cultura del proprietario del pianeta appartiene a un passato colonizzatore che si
ostina a non finire, sostenuto da potenti interessi economici di pochi, aggiornati
nelle forme e spacciati per interessi generali. Se crediamo nella solidarietà con gli
uomini di oggi e di domani, se vogliamo stare meglio noi stessi, dobbiamo cercare
una cultura rispettosa e amichevole nei confronti della natura: conoscere per
migliorare le relazioni, dall’utilizzo possibile delle risorse ai benefici in termini di
benessere che la natura ci può dare quando riconosciamo di esserne parte.
Alleggeriti, senza alcuna nostalgia, della presunzione di onnipotenza e totale
possesso nei confronti del mondo naturale, lasciata l’illusione che il progresso
tecnologico consentirà sempre di risolvere tutti i problemi, li sapremo meglio
affrontare.
La seconda legge della termodinamica, una delle leggi basilari della fisica, sostiene
che in normali condizioni tutti i sistemi abbandonati a se stessi tendono a divenire
disordinati, dispersi e corrotti in relazione diretta al trascorrere del tempo. Ogni
cosa vivente e non vivente si consuma, si deteriora, decade, si disintegra ed è
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distrutta. Questa è la sicura fine che tutti gli esseri dovranno affrontare in un modo
o nell'altro e, secondo tale legge, questo processo inevitabile non ha ritorno.
Tutti lo osservano. Ad esempio, se si abbandona un'automobile nel deserto,
difficilmente la si potrà ritrovare in migliori condizioni dopo alcuni anni. Al
contrario, si vedrà che i pneumatici si sono sgonfiati, i finestrini sono stati infranti,
il telaio si è arrugginito e il motore è decaduto. Lo stesso processo inevitabile è
valido ed anche più rapido per gli esseri viventi.
La seconda legge della termodinamica rappresenta il mezzo con il quale questo
processo naturale viene definito con equazioni fisiche e calcoli.
Questa famosa legge è anche nota come "Legge dell'entropia". L'entropia fornisce
una misura del grado di disordine in cui si trovano gli elementi che costituiscono il
sistema. L'entropia di un sistema è incrementata dal movimento verso uno stato più
disordinato, disperso e non pianificato. Più elevato è il disordine di un sistema, più
elevata è la sua entropia. Tale legge sostiene che l'intero universo inevitabilmente
procede verso uno stato più disordinato, disperso e non pianificato.
La validità della seconda legge della termodinamica è stabilita in maniera
sperimentale e teoretica. I più importanti scienziati contemporanei concordano sul
fatto che questa legge avrà un ruolo centrale nel prossimo periodo della storia.
Albert Einstein, il più grande scienziato del nostro tempo, disse che è la "legge più
importante di tutta la scienza". In proposito, sir Arthur Eddington ha affermato che
è la "suprema legge metafisica di tutto l'universo".
La teoria evoluzionista è avanzata nella totale ignoranza di questa basilare e
universale legge della fisica. Il meccanismo proposto dall'evoluzione contraddice
radicalmente i suoi principi. Gli evoluzionisti sostengono che atomi disordinati,
dispersi e inorganici e molecole si siano riuniti spontaneamente nello stesso
periodo in un ordine preciso per formare molecole estremamente complesse quali
le proteine, il DNA, l'RNA; in seguito, questi avrebbero gradualmente determinato
milioni di differenti specie viventi con strutture addirittura più complesse. Inoltre,
questo ipotetico processo che produce ad ogni passo strutture più pianificate, più
ordinate, più complesse e più organizzate, ha presieduto autonomamente a tale
formazione in condizioni naturali. La legge dell'entropia mostra chiaramente che
questo processo cosiddetto naturale contraddice interamente le leggi della fisica.
Gli scienziati evoluzionisti sono consapevoli di questo fatto. J. H. Rush scrive:
Nel complesso corso della sua evoluzione, la vita rivela un notevole contrasto
rispetto alla tendenza espressa nella seconda legge della termodinamica. Mentre
quest'ultima parla di un irreversibile progresso verso una crescente entropia e
disordine, la vita evolve continuamente verso più elevati livelli di ordine.
Lo studioso evoluzionista Roger Lewin parla dell'empasse dell'evoluzione di fronte
alla termodinamica in un articolo apparso su Science:
Un problema che i biologi hanno dovuto affrontare è l'apparente contraddizione
rispetto all'evoluzione rappresentata dalla seconda legge della termodinamica. I
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sistemi dovrebbero decadere nel corso del tempo, presentando un minore, non
maggiore ordine.
Un altro scienziato evoluzionista, George Stravropoulos, parla dell'impossibilità
secondo la termodinamica della spontanea formazione della vita e confuta la
spiegazione dell'esistenza, per leggi naturali, di complessi meccanismi viventi nella
nota rivista evoluzionista American Scientist:
In condizioni ordinarie, nessuna molecola organica complessa potrebbe formarsi
spontaneamente, ma piuttosto disintegrarsi, in accordo alla seconda legge. In
realtà, maggiore è la complessità, maggiore è l'instabilità e maggiore la sicurezza,
presto o tardi, della sua disintegrazione. La fotosintesi e tutti i processi vitali, e la
vita stessa, nonostante il linguaggio confuso o confusionario, non possono ancora
essere compresi in termini di termodinamica o di ogni altra scienza esatta.
La seconda legge della termodinamica costituisce, quindi, un insormontabile
ostacolo per lo scenario dell'evoluzione sia in termini di scienza che di logica.
Incapaci di offrire una consistente spiegazione scientifica che permetta di superare
l'ostacolo, gli evoluzionisti possono solo vincere grazie all'immaginazione. Ad
esempio, il famoso evoluzionista Jeremy Rifkin parla della sua speranza che
l'evoluzione possa sopraffare questa legge della fisica grazie a un "potere magico":
La legge dell'entropia sostiene che l'evoluzione disperde l'energia disponibile
complessiva per la vita su questo pianeta. Il nostro concetto di evoluzione è
esattamente l'opposto. Crediamo che l'evoluzione crei sulla terra, con qualche
meccanismo magico, un valore complessivo maggiore e un maggior ordine.
Queste parole rivelano con grande chiarezza che l'evoluzione è soltanto una fede
dogmatica.
Minacciati da tutte queste verità, gli evoluzionisti hanno dovuto cercare rifugio
nella distruzione della seconda legge della termodinamica, affermando che sia
valida soltanto per i "sistemi chiusi", in quanto i "sistemi aperti" esulano
dall'ambito di questa legge.
Un "sistema aperto" è un sistema termodinamico nel quale energia e materia
circolano all'interno e all'esterno, a differenza del sistema chiuso in cui l'energia e
la materia iniziali rimangono costanti. Gli evoluzionisti sostengono che il mondo è
un sistema aperto, costantemente esposto al flusso di energia solare e che, quindi,
la legge dell'entropia non si applica al cosmo nel suo insieme. Asseriscono inoltre
che esseri viventi complessi e ordinati possono essere generati da strutture
semplici, disordinate e inanimate.
Ci troviamo di fronte a un'ovvia distorsione. Il fatto che un sistema riceva un
afflusso di energia non è sufficiente a renderlo ordinato. Sono necessari
meccanismi specifici affinché l'energia diventi funzionale. Ad esempio,
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un'automobile ha bisogno di un motore, di un sistema di trasmissione e di
meccanismi di controllo correlati per convertire l'energia della benzina in lavoro.
Senza tale sistema di conversione, l'automobile non sarebbe in grado di utilizzare
l'energia della benzina.
La stessa cosa capita nella vita. È vero che la vita deriva la sua energia dal sole.
L'energia solare, tuttavia, può essere convertita in energia chimica soltanto da
sistemi di conversione energetica incredibilmente complessi presenti nelle cose
viventi (come la fotosintesi delle piante e i sistemi digestivi di umani e animali).
Nessun essere vivente può vivere senza un tale sistema; privo di questo, il sole non
è altro che una fonte di energia distruttiva che brucia, inaridisce o fonde.
Come si può vedere, un sistema termodinamico che non presenti tali meccanismi di
conversione non è vantaggioso per l'evoluzione, che sia aperto o chiuso. Nessuno
asserisce che questi meccanismi complessi e consapevoli possano essere esistiti in
natura nelle primigenie condizioni della terra. In realtà, la vera questione a cui
devono rispondere gli evoluzionisti è come possano essere pervenuti
autonomamente all'esistenza complessi meccanismi di conversione dell'energia
quali la fotosintesi, che non possono essere duplicati neppure servendosi delle
moderne tecnologie.
L'influsso dell'energia solare sul mondo non ha effetti tali da imporre di per se
stessa un ordine. Indipendentemente dal grado elevato di temperatura che possa
essere raggiunto, gli amminoacidi resistono formando legami in sequenze ordinate.
La sola energia non è sufficiente a spingere gli amminoacidi a formare le molto più
complesse molecole proteiche o queste ultime a costituire le ben più composite e
organizzate strutture di organelli cellulari. La fonte reale ed essenziale di questa
organizzazione, ad ogni livello, è un progetto consapevole: in una parola, la
creazione.
Ben sapendo che la seconda legge della termodinamica rende impossibile
l'evoluzione, alcuni scienziati evoluzionisti, per avallare la loro teoria, hanno fatto
alcuni tentativi speculativi per superare la distanza che separa le due concezioni.
Come al solito, anche questi sforzi mostrano come la teoria dell'evoluzione si trovi
di fronte a un ineludibile vicolo cieco.
Uno scienziato che si è distinto per i suoi tentativi di coniugare la termodinamica e
l'evoluzione è il belga Ilya Prigogine. Partendo dalla teoria del caos, questi ha
proposto alcune ipotesi secondo cui l'ordine si forma dal caos. Ha affermato che
alcuni sistemi aperti possono descrivere un decremento nell'entropia dovuto ad un
influsso di energia esterna e che il conseguente "riordinamento" è una prova che
"la materia può organizzare se stessa". Da quel momento, il concetto di "auto-
organizzazione della materia" è divenuto abbastanza popolare tra gli evoluzionisti
e i materialisti. Si comportano come se avessero trovato un'origine materialistica
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per la complessità della vita e una soluzione materialistica al problema della sua
origine.
A uno sguardo più acuto, tuttavia, questo argomento si rivela del tutto astratto e, in
pratica, un mero wishful thinking. Nasconde, inoltre, un inganno molto semplice,
ovvero, la deliberata confusione di due distinti concetti, "auto-organizzazione" e
"auto-ordinamento".
Ciò può essere chiarito con un esempio. Si immagini una spiaggia con differenti
tipi di pietre di varie dimensioni mischiate tra loro. Quando un'onda forte si
abbatterà sulla spiaggia, potrà apparire un "ordinamento" tra le pietre. L'acqua
potrà sollevare quelle di peso simile in pari quantità. Quando l'onda si sarà ritirata,
le pietre potranno forse essere state ordinate secondo l'ordine di grandezza, dalle
più piccole alle più grandi, in direzione del mare.
Questo è un processo di "auto-ordinamento": la spiaggia è un sistema aperto e un
influsso di energia (l'onda) può esserne la causa. Ma si noti anche che lo stesso
processo non può erigere un castello di sabbia. Se guardiamo un castello fatto di
sabbia, siamo sicuri che qualcuno lo ha costruito. La differenza tra quest'ultimo e
le pietre "ordinate" è che il primo rappresenta una complessità veramente unica,
mentre il secondo include solo un ordine ripetitivo. È come una macchina da
scrivere che continui a battere il carattere "aaaaaaaaaaaaa" per centinaia di volte in
quanto un oggetto (un influsso di energia) è caduto sulla tastiera. Naturalmente, un
tale ordine ripetitivo di "a" non include alcuna informazione e quindi nessuna
complessità. È necessaria una mente cosciente per ottenere una sequenza di lettere
che includa informazioni.
La stessa cosa avviene quando il vento penetra in una stanza piena di polvere.
Prima di questo influsso, la polvere è sparsa intorno. Allorquando il vento entra,
questa si raccoglie agli angoli della stanza. Ciò è un "auto-ordinamento". Ma la
polvere non si "auto-organizza" mai autonomamente in modo da creare l'immagine
di un uomo sul pavimento.
Questi esempi sono molto simili agli scenari di "auto-organizzazione" degli
evoluzionisti. Questi affermano, infatti, che la materia ha una tendenza ad "auto-
organizzarsi", quindi mostrano esempi di auto-ordinamento tentando di confondere
i due concetti. Lo steso Prigogine ha parlato di molecole che si auto-ordinano
durante l'influsso di energia. Gli scienziati americani Thaxton, Bradley e Olsen, in
un libro dal titolo "The Mistery of Life's Origin", hanno spiegato questo fatto:
...in ogni situazione i movimenti casuali delle molecole in un fluido sono
spontaneamente sostituiti da un comportamento altamente ordinato.
Prigogine, Eigen e altri hanno suggerito che tale sorta di auto-organizzazione sia
intrinseca nella chimica organica e possa potenzialmente spiegare le
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macromolecole altamente complesse essenziali ai sistemi viventi. Ma simili
analogie hanno scarsa rilevanza per la questione dell'origine della vita. Per di più,
non distinguono tra ordine e complessità... La regolarità o l'ordine non possono
servire a immagazzinare l'enorme quantità di informazioni richieste dai sistemi
viventi. È richiesta una struttura irregolare, ma specifica piuttosto che una ordinata.
Ciò rappresenta un grave errore nell'analogia offerta. Non vi è connessione
apparente tra il tipo di ordinamento spontaneo che deriva dal flusso di energia
attraverso tali sistemi e l'opera richiesta per costruire macromolecole ad intensa
informazione aperiodica, quali il DNA e le proteine.
In realtà, Prigogine stesso dovette accettare che questi argomenti non avevano
rilevanza per spiegare l'origine della vita. Ha detto:
Il problema dell'ordine biologico implica la transizione dall'attività molecolare
all'ordine supermolecolare della cellula. Questo problema è ben lontano da una
soluzione.
Perché, allora, gli evoluzionisti continuano ad accettare punti di vista anti-
scientifici quali "l'auto-organizzazione della materia"? Perché insistono a rifiutare
la manifesta intelligenza visibile nei sistemi viventi? La risposta è la loro fede
dogmatica nel materialismo e la credenza che la materia abbia un misterioso potere
di creare la vita. Un professore di chimica presso l'Università di New York ed
esperto in DNA, Robert Shapiro, descrive la fede degli evoluzionisti e il dogma
materialistico che ne costituisce il fondamento:
Un altro principio evolutivo è quindi necessario per permetterci di superare la
distanza tra le miscele di semplici prodotti chimici naturali e il primo effettivo
replicatore. Questo principio non è stato ancora dettagliatamente descritto o
dimostrato, ma è stato anticipato ed ha ricevuto dei nomi, quali evoluzione chimica
e auto-organizzazione della materia. L'esistenza del principio è tenuta per certa
nella filosofia del materialismo dialettico, come dimostra la sua applicazione alle
origini della vita da parte di Alexander Oparin.
Un televisore è un oggetto altamente organizzato ma non si può dire che sia vivo.
L'organizzazione non è una caratteristica sufficiente per la vita.
Una sola cellula vivente è un organismo incredibilmente complesso ed altamente
organizzato.
Esiste il problema dell'origine e il problema del mantenimento e sviluppo della
vita. Che tutto sia dovuto al cieco caso è difficile crederlo ma i meccanismi
darwiniani funzionano solo dopo che i processi di riproduzione sono presenti e
consolidati. La cosa stupefacente è che la vita abbia la meglio nella lotta per la
sopravvivenza contro la legge dell'entropia crescente nell'universo.
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La cellula è un’organizzazione che gode di una sua autonomia, anche quelle cellule
che fanno parte di un organismo pluricellulare posseggono una propria autonomia.
Le funzioni dei viventi vanno distinte in funzioni vegetative e funzioni della vita di
relazione. Le prime comprendono le attività metaboliche che culminano nella
biosintesi delle macromolecole costituenti gli organuli e la divisione o
riproduzione cellulare. La reattività agli stimoli interni e ambientali e la motilità
del corpo, sono le manifestazioni della vita di relazione. Il metabolismo consiste in
tutte quelle trasformazioni chimiche di sostanze che avvengono negli organismi
viventi o con liberazione di energia (catabolismo) o con accumulo nei processi di
sintesi (anabolismo). Gli alimenti sono la fonte materiale ed energetica per la vita
dei viventi, negli alimenti, infatti, l’energia è contenuta allo stato potenziale quale
energia di legame chimico. La fonte primaria di energia è il sole, con la luce solare
le piante producono nuova sostanza organica attraverso la fotosintesi e l’energia
solare si converte in energia dei legami chimici. Le molecole così sintetizzate
vengono usate sia dalle piante stesse, dagli animali e dagli altri organismi non
fotosintetici per alimentarsi e ottenere energia mediante la respirazione cellulare.
Abbiamo detto che gli organismi viventi necessitano di energia chimica che è
contenuta nelle sostanze nutritive assorbite, l’energia può essere utilizzata o
accumulata attraverso la trasformazione di queste sostanze nel corso di reazioni
chimiche. Le reazioni trasformano i legami fra gli atomi costituenti le molecole dei
reagenti e quelle dei prodotti finali. Le variazioni dei legami avvenute nelle
reazioni chimiche corrispondono a variazioni di energia e seguono le leggi della
termodinamica. Queste leggi permettono di stabilire le differenze di energia che
esistono fra reagenti e prodotti e quali siano le reazioni possibili. La prima legge
della termodinamica afferma che nell’universo non si crea materia né si distrugge,
ma avvengono solo delle trasformazioni da una forma di energia all’altra. I viventi
trasformano l’energia chimica dei legami in altre forme di energia utilizzabili. Una
pianta assorbe l’energia solare la trasforma in amido con la fotosintesi, noi
possiamo alimentarci con l’amido ed estrarne l’energia chimica grazie alla
respirazione cellulare per convertirla in altre forme o in energia meccanica.
Durante queste trasformazioni una porzione dell’energia si perde nell’ambiente
come calore (energia termica) come è appunto detto dalla seconda legge della
termodinamica: in ogni trasformazione di energia una parte di questa va dispersa in
calore non utilizzabile per compiere lavoro. Il corpo umano genera calore che
deriva dalle trasformazioni di energia che avvengono nelle cellule. In un essere
vivente avvengono migliaia di reazioni chimiche in un istante e la quantità di
calore prodotto è comunque molto bassa, questo perché gran parte dell’energia
prodotta nelle reazioni viene immediatamente utilizzata in altri processi riducendo
la percentuale così la quantità di calore non utilizzabile. L’efficienza dei viventi
nell’utilizzo dell’energia e della materia è molto superiore a quella delle macchine
costruite dall’uomo. La seconda legge può enunciarsi anche : tutti i processi
chimici e fisici avvengono in modo da aumentare l’entropia. L’entropia è la misura
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del disordine o della disposizione casuale. Più grande è il disordine più grande è
l’entropia. Si è detto che in ogni trasformazione di energia vi è quasi sempre una
perdita sotto forma di dispersione di calore nell’ambiente la sua dispersione
comporta un aumento dell’entropia, i viventi essendo altamente organizzati hanno
un’entropia molto bassa, ma questo stato viene mantenuto mediante un aumento
dell’entropia nell’ambiente.
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Successivamente la meccanica Newtoniana aveva avuto bisogno di manipolare
l'infinitamente piccolo e da lì era nato il calcolo infinitesimale, con il suo concetto
fondante di limite.
Nel frattempo cominciava a svilupparsi la logica dell'incerto attraverso
l'introduzione del concetto di probabilità. L'aleatorio tornava alla ribalta.
Nello stesso tempo la geometria euclidea perdeva il suo primato poiché vennero
elaborate delle geometrie non euclidee.
Veniva più tardi intrapreso lo studio dei sistemi dinamici, cioè sistemi che
evolvono rispetti ad alcuni parametri, sistemi che mostrano una particolare
sensibilità rispetto alle condizioni iniziali. Un piccolo mutamento nelle condizioni
iniziali, in certi sistemi, conduce all'imprevedibilità del futuro del sistema.
Una causa molto piccola, che ci sfugge, determina un effetto considerevole, e
allora diciamo che tale effetto è dovuto al caso.
Il relativismo galileiano veniva completato dall'opera di Einstein, e la teoria dei
quanti forniva una diversa visione dei modelli fisici elaborati fino ad allora intorno
all'energia elettromagnetica, trasformando nuovamente ciò che era visto come una
grandezza continua in una grandezza discontinua. Il Caso entrava prepotentemente
nella meccanica quantistica e veniva introdotta l'entropia come misura della
quantità di caso presente in un sistema. E a fondamento della termodinamica era
posto il principio dell'entropia, per cui in ogni processo l'entropia rimane costante o
aumenta, e se aumenta il processo è irreversibile.
Il Caos cacciato dalla porta rientrava prepotentemente dalla finestra.
La maggior parte dei processi naturali mostra un aspetto caotico.
Con la meccanica quantistica l'osservatore torna al centro della scena e non può
essere più separato dalle misurazioni sperimentali.
L'interpretazione della meccanica quantistica in termini classici presenta alcuni
paradossi. Per esempio essa implica che un fenomeno cambia aspetto a seconda del
punto di vista dal quale viene osservato. Se predispongo un apparato di misura per
osservare delle onde osserverò delle onde se, nello stesso fenomeno, predispongo
l'apparato di misura per osservare particelle il risultato sarà una misura di
particelle. Il fotone o l'elettrone sotto osservazione è contemporaneamente un'onda
e una particella.
Che cos’è la vita? Questa è una domanda a cui molti hanno cercato di dare una
risposta in diversi modi e punti di vista, da quello religioso, filosofico e scientifico
ma spesso non si è riusciti a definire cosa veramente sia la vita. A questo
interrogativo tenta di dare una risposta il premio nobel per la fisica Erwin
Schrodinger, dando una interpretazione della vita sia fisica che filosofica in un
libro che suscitò molte discussioni in ambito accademico, ma che contribuì alla
scoperta, circa dieci anni dopo, della struttura del DNA; tale libro si intitola "Che
cos’è la vita? "Innanzitutto Schrodinger cercò di applicare i concetti della fisica
quantistica allo studio delle molecole di interesse genetico. Come sappiamo le
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leggi della fisica sono leggi di tipo statistico estremamente ordinate e rigorose che,
però, sono sempre state applicate ai fenomeni inorganici macroscopici. Infatti i
fenomeni inorganici e macroscopici sono composti di un enorme numero di atomi
animati dai moti di agitazione termica dovuti alla temperatura: tali moti sono
completamente disordinati. Invece se prendiamo in esame un fenomeno
microscopico contenente un numero di atomi relativamente piccolo non è possibile
applicare le leggi statistiche della fisica in quanto la quantità degli atomi è troppo
piccola e disordinata e di conseguenza le leggi statistiche inesatte. Ma se
consideriamo un evento macroscopico contenente un enorme quantità di atomi,
allora le leggi statistiche sono più attendibili. Per chiarire meglio questo concetto
vorrei fare un esempio prendendo in esame il moto browiano e di diffusione: se
consideriamo la nebbia che cade, osserveremo che essa cade con regolarità e
omogeneità e ciò perché è composto da un elevato numero di molecole e di atomi.
Ma se osserviamo una singola gocciolina che si sposta indipendentemente dalle
altre vedremo che essa seguirà un moto irregolare e disordinato dovuto all’urto
delle altre molecole. In conclusione posso dire che le leggi della fisica statistica per
le loro proprietà e caratteristiche non sono applicabili a fenomeni microscopici con
un numero relativamente piccolo di atomi e molecole come accade all’interno del
nostro organismo. Infatti è dal punto di vista statistico che la struttura di un
organismo differisce da un pezzo di materia inorganica analizzata dai fisici e
chimici in laboratorio, in quanto è diversa per la sua disposizione molecolare e
atomica. Schrodinger definisce la parte di una cellula vivente, la fibra
cromosomica, come un cristallo aperiodico, mentre la fisica statistica fino ad allora
si era occupata di cristalli periodici inorganici. Per questo motivo Schrodinger
utilizza i principi della fisica quantistica per lo studio della cellula. La vita di un
organismo ha un graduale sviluppo irreversibile che parte dalla nascita fino alla
morte. Ma come avviene tutto questo? Il "progetto" dello sviluppo di un organismo
è già scritto ancor prima che questo nasca. Ciò è determinato dalla struttura di un
unica cellula, l’uovo fecondato e dal suo nucleo. Il nucleo appare durante le
divisioni cellulari (mitosi e meiosi) costituito da particelle a forma di bastoncelli
chiamati cromosomi e sono loro a contenere il codice cifrato, il "progetto" del
futuro sviluppo dell’individuo. Da che cosa ha origine l’uovo fecondato con tutto il
suo codice ereditario nel quale è scritto, ancor prima che nasca, l’intero disegno
dell’evoluzione dell’individuo? Tutto ciò è determinato da un processo molto
complesso ma soprattutto armonico e molto ordinato che io definirei praticamente
perfetto. Purtroppo la maggior parte delle persone vive questo evento molto
superficialmente giudicandolo come un normale processo naturale. Ma se
analizziamo il fenomeno più in profondità e osserviamo con la massima attenzione
questo procedimento nei suoi piccoli dettagli non lo giudicheremmo tale, ma
secondo il mio punto di vista, come un fatto meraviglioso senza precedenti. Tutto è
collegato stupendamente, ogni "pezzo" ha sua determinata funzione, che poi, è in
relazione con altri fenomeni, formando una vera e propria "catena di montaggio"
16
che ha come prodotto finale l’organismo vivente. Ora cercherò di descrivere il
procedimento di questa macchina perfetta. L’evento essenziale nella riproduzione
non è la fecondazione, come spesso si pensa, cioè l’unione del gamete maschile
con quello femminile, ma è la meiosi. Un gruppo di cellule viene riservato alla
riproduzione dei gameti( spermatozoi e ovuli)necessari per la riproduzione. Nella
meiosi, appunto, la doppia serie di cromosomi della cellula madre si separa in due
serie semplici e ciascuna va a una delle due cellule figlie chiamate gameti. Le
cellule con una serie cromosomica sono dette aploidi, mentre quelle con una
doppia serie sono dette diploidi. Nell’atto della fecondazione il gamete maschile e
quello femminile si uniscono generando la nuova cellula madre( diploide)con due
serie cromosomiche, una proveniente dal padre e una dalla madre. Né il caso, né il
destino possono avere influenza su questo processo. Invece il caso svolge un ruolo
importantissimo nel mescolare i caratteri ereditari. Infatti i cromosomi non
vengono trasmessi indivisi, ma durante la meiosi entrano in contatto tra loro
scambiandosi delle porzioni; questo procedimento viene scientificamente chiamato
scambio o crossing-over e se non esistesse tale procedimento i caratteri
passerebbero sempre indivisi. Il portatore del carattere ereditario è il gene. Anche
se possiamo considerare questa una macchina perfetta, all’interno del patrimonio
ereditario si verificano dei cambiamenti spiegabili con una qualche alterazione
nella sostanza ereditaria. Essa è causata da un cambiamento in una regione del
cromosoma (locus) e per questo motivo le due copie del codice non sono più
identiche. La configurazione dell’individuo seguirà una o l’altra versione. La
versione del codice è chiamato "allele" e quello che si manifesta è detto dominante
mentre l’altro è detto recessivo. Quando nell’individuo i due alleli sono diversi il
soggetto è eterozigote, invece quando sono uguali è detto omozigote. L’allele
dominante si manifesta comunque, sia che l’individuo sia eterozigote che
omozigote, al contrario l’allele recessivo si manifesta solo se l’individuo è
omozigote. Darwin considerava questi cambiamenti all’interno del carattere
ereditario come piccole continue variazioni accidentali su cui, poi lavorava la
selezione naturale. Questa teoria è stata riconosciuta valida dalla maggior parte
degli scienziati, anche se qualcuno ha ritenuto opportuno apportarle alcune
modifiche. De Vries, ad esempio, affermò che queste variazioni non sono continue
ma bensì discontinue e chiamò questi cambiamenti con il nome di mutazioni, in
quanto hanno, appunto, la loro caratteristica nella discontinuità. Per semplificare
questo concetto posso affermare che le mutazioni avvengono in modo accidentale,
ma con una notevole discontinuità e rarità, dovuto al fatto che un gene possiede
un’elevata stabilita e che poi si trasmettono ereditariamente come un qualunque
altro carattere. Comunque queste mutazioni non sono da considerarsi nocive.
Possiamo dire, infatti, che esse sono state determinanti per lo sviluppo della specie
poiché hanno permesso alla specie un cambiamento nella loro configurazione e
quindi di adattarsi al meglio alle condizioni dell’ambiente in cui vivevano. Ma
alcune volte però queste mutazioni non si sono rivelate favorevoli per cui la
17
selezione naturale ha provocato la loro scomparsa; come Darwin ha dimostrato a
suo tempo. Ho accennato prima che le mutazioni sono eventi rari e discontinui
rivelandosi una condizione importantissima per lo sviluppo della specie, poiché se
fossero dei casi frequenti quelle nocive prevarrebbero su quelle favorevoli con la
conseguente estinzione della specie. Questo fatto dipende da una cosa che secondo
Schrodinger è di fondamentale importanza, cioè la stabilità e la permanenza di un
gene. Tale proprietà, oltre a spiegarci la rarità delle mutazioni, ci permette di capire
come i caratteri riescano a conservarsi per intere generazioni e a trasmettersi per
via ereditaria da individuo a individuo anche per migliaia di anni. Schrodinger
cerca di spiegare tale stabilità attraverso le leggi della fisica quantistica e non di
quella statistica. Infatti dal punto di vista della fisica statistica è impossibile
ricondurre al fatto che un gene, raccogliendo un numero piccolissimo di atomi,
riesca a svolgere un’attività retta da leggi ordinate e definite come un corpo
macroscopico contenente un’enorme quantità di atomi. Inoltre il gene possiede
nello stesso momento un’elevata stabilità nonostante si trovi ad una temperatura di
circa 37° C all’interno del corpo, i suoi atomi non siano alterati in alcun modo
dalla tendenza disordinatrice del moto di agitazione termica. Il gene è identificato
come una molecola che può passare da una configurazione all’altra ed è
paragonata, da Schrodinger, ad un cristallo aperiodico. Mentre il cristallo periodico
è un aggregato di molecole tutte uguali ripetute infinite volte e a cui vengono
applicate le rigorose leggi della fisica statistica, il cristallo aperiodico è un
aggregato esteso di molecole tutte diverse nel quale ogni atomo ed ogni gruppo di
atomi ha una sua precisa funzione come, appunto, avviene in una molecola
organica come il gene. e tradizionali leggi della fisica non sono aderenti a questo
tipo di cristallo, per cui Schrodinger utilizza la teoria dei quanti ideata da Max
Plank nel 1900. La teoria dei quanti è molto complicata per essere spiegata con
termini puramente fisici, ma cercherò comunque di esporla nel modo più semplice
possibile. Posso dire che la teoria dei quanti consiste nello scoprire, all’interno
della natura, dei caratteri di discontinuità in un contesto nel quale qualunque cosa
diversa dalla continuità sembra assurda. Il caso più importante è quello
dell’energia: mentre un corpo macroscopico varia la sua energia con continuità, un
corpo microscopico (come la molecola) possiede quantità d’energia discreta: livelli
energetici; e il passaggio da un livello ad un altro, cioè la variazione d’energia, è
discontinua e tale fenomeno è detto salto quantico. Una molecola non può
cambiare la sua configurazione, passando da livello a livello, a meno che non gli si
fornisca dall’esterno l’energia necessaria per il salto. Quindi questa differenza
d’energia fondamentale per farle cambiare configurazione determina
quantitativamente il grado di stabilità della molecola. La stabilità della molecola
dipende anche dalla temperatura, ad esempio se una molecola allo zero assoluto si
trova nel livello energetico più basso per farla passare a quello superiore bisognerà
fornirgli energia con un conseguente aumento della temperatura. Ma non c’è una
temperatura precisa per passare da un livello all’altro, quindi per effettuare il salto
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quantico che permette alla molecola di cambiare la sua configurazione; bisogna
piuttosto tener presente alcuni fattori importanti come ad esempio l’intensità del
moto di agitazione termica degli atomi e naturalmente l’energia necessaria per
effettuare il salto che varia da molecola a molecola. La molecola che cambia la sua
configurazione è definita isomerica, cioè una molecola composta da stessi atomi
ma disposti diversamente e con energia differente poiché rappresentano livelli
energetici diversi. La transizione tra un livello inferiore ad uno superiore, e
viceversa, non avviene mai spontaneamente: ciò è dovuto al fatto che tra i livelli
c’è una soglia di "confine" che impedisce alla molecola di effettuare in modo
spontaneo il salto quantico e quindi di cambiare la sua configurazione iniziale. La
quantità di energia indispensabile per la transizione non è la differenza di energia
tra i livelli, ma tra il livello e la soglia. Tra il livello minore e quello maggiore ci
sono livelli intermedi nei quali il passaggio avviene spontaneamente, ma questo
non può essere definito un salto quantico poiché non influisce sulla configurazione.
Il valore di soglia non è uguale per tutti i livelli ma cambierà da livello a livello e
varierà anche l’energia per il salto e la loro temperatura. Ragion per cui il trapasso
tra i vari stati non avviene con continuità ma con discontinuità, dando appunto alla
molecola una notevole stabilità. Questo concetto è ricollegabile alla biologia, dove
il passaggio di una molecola isomerica da una configurazione ad una altra
attraverso un salto quantico rappresenta la mutazione di un allele nello stesso locus
di un cromosoma, nel quale la mutazione è proprio il salto quantico in diverse
configurazioni. Comunque è sorprendente come la natura sia riuscita a fare una
attenta scelta dei valori di soglia per permettere che le mutazioni siano eventi rari
nonostante che questi valori non siano molto elevati.
Basta un modesto valore di soglia per garantire alla molecola una notevole
stabilità. In base al secondo principio della termodinamica, comunemente chiamato
il "principio di entropia", tutte le cose hanno una naturale tendenza a passare da
uno stato di ordine ad uno stato di disordine completo, raggiungendo lo stato di
equilibrio termodinamico, dove la materia si trasforma in un blocco inerte.
Secondo questo principio, la materia passa da uno stato di ordine totale ad uno
stato caotico aumentando la sua entropia, il quale prelude ad uno stato di massima
quiete(entropia massima), che in alcuni casi può coincidere con la morte. La vita
invece, difesa dalla teoria dei quanti, sembra dipendere da un comportamento
ordinato e retto da leggi rigorose della materia, non basata sulla tendenza di questa
a passare da uno stato di ordine ad uno di disordine, ma fondato soprattutto sulla
conservazione dell’ordine già esistente. L’organismo vivente si avvicina a quel
funzionamento meccanico in cui tutti i sistemi tendono alla temperatura dello zero
assoluto, nella quale l’entropia risulta nulla. Ma gli esseri viventi fanno anche parte
di un sistema che tende spontaneamente al disordine, perciò ci chiediamo come fa
un organismo ad evitare questo rapido decadimento, controbilanciando il disordine
con un principio d’ordine capace di neutralizzarne gli effetti, o almeno da
contrastarlo in modo da consentirne la vita? L’organismo evita questo rapido
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decadimento attraverso il metabolismo, cioè mangiando e bevendo, ma ci
chiediamo quale sia quell’elemento contenuto nel cibo capace di preservarci dalla
morte. Ogni fenomeno naturale è caratterizzato da un aumento d’entropia, così
anche l’essere vivente aumenta la sua entropia positiva avvicinandosi allo stato
pericoloso d’entropia massima: morte. Il corpo si tiene lontano da questo stato
estraendo continuamente entropia negativa dall’ambiente; quindi ciò di cui si nutre
l’organismo è entropia negativa, che cerca di liberarsi dell’entropia positiva
prodotta durante il corso della vita. Ad esempio l’organismo si libera dell’entropia
positiva con la sudorazione, cioè cedendo del calore all’ambiente esterno e in
questo modo riesce a mantenersi ad un livello di entropia molto basso. Non
dobbiamo considerare l’entropia come un concetto puramente astratto, ma, al
contrario, essa è una quantità fisica misurabile. Ho accennato prima che quando ci
si avvicina alla temperatura dello zero assoluto il disordine scompare, ciò introduce
il terzo principio della termodinamica basato sulla teoria dei quanti(teorema di
Nerst). Alla temperatura dello zero assoluto l’entropia è nulla in quanto il moto di
agitazione termica degli atomi è inesistente, ma se si cambia stato l’entropia cresce
di una quantità calcolabile dividendo la quantità di calore che si fornisce per la
temperatura assoluta alla quale il calore viene ceduto. Il concetto di entropia è
collegato ai concetti di ordine e disordine mediante la seguente relazione:
entropia = k log D
dove k è la costante di Boltzmann e D misura il disordine atomico del corpo.
Questa legge fisica non fa altro che di dimostrarci la naturale tendenza delle cose a
passare da uno stato di ordine ad uno di disordine. Ho detto però che l’organismo
assorbe entropia negativa dall’ambiente mantenendo basso il suo livello d’entropia
positiva, esprimibile anch’essa attraverso la seguente relazione:
- entropia = k log 1/D
dove l’entropia presa con segno negativo è una misura dell’ordine. Ciò non fa altro
che rafforzare il giudizio di come un organismo, animale o vegetale che sia, sia una
macchina perfetta, completamente autosufficiente, capace di adattarsi al meglio
all’ambiente che lo circonda. Infatti il procedere degli eventi in un ciclo vitale di
un essere vivente mostra una regolarità a livello atomico e molecolare senza
precedenti imparagonabile alla materia inanimata. L’organismo, definito da
Schrodinger come un cristallo aperidico, è composto da diverse molecole con un
numero di atomi molto basso, ottimamente ordinate e ben distribuite, il cui
comportamento è basato sul principio "dell’ordine dall’ordine" retto dalle leggi
della fisica quantistica. Le leggi della fisica statistica non sono in grado di spigare
questo fenomeno, poiché il regolare corso degli eventi retto dalle sue leggi ordinate
non è la conseguenza di un’ordinata e precisa configurazione a livello atomico, a
meno che non facciano riferimento ad un cristallo periodico. Il meccanismo
statistico produce "ordine dal disordine" e non possiamo pretendere che sia in
grado di spiegarci il comportamento di un essere vivente basato appunto sul
concetto di "ordine dall’ordine". Fin qui si è parlato del funzionamento di un
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organismo come una macchina perfetta, nella quale ogni singolo atomo segue leggi
rigorose e ordinate come uno strumento costruito dall’uomo senza né anima né
coscienza. Gli eventi spazio - temporali che si verificano all’interno di un corpo
corrispondono all’attività e al volere delle sua mente. Senza né la mente né la
coscienza, un corpo sarebbe paragonabile a qualunque essere inanimato e le loro
azioni, consce o inconsce, possono essere definite deterministiche, cioè risultato di
condizioni precedenti e concomitanti che hanno inizio proprio da loro. Ma alla luce
di queste osservazioni come si può definire la coscienza? Forse potremmo definirla
come la consapevolezza di esistere, di essere autonomi, che controlla non il
movimento degli atomi secondo le perfette leggi della natura, ma le azioni e le
scelte di ogni uomo in modo che sia capace di utilizzarle al meglio per i propri
bisogni e doveri. La coscienza è una e unica in ognuno, pensa e agisce
indipendentemente da tutte le altre ed è proprio questa sua caratteristica che ci
rende diversi l’un l’altro. Ognuno di noi è un singolo irripetibile che sicuramente
senza la coscienza sarebbe solamente una macchina perfettamente identica alle
altre, senza nessuna libertà di scelta. Secondo Schrodinger, alla luce delle sue
riflessioni sulla vita, v’è una contrapposizione tra il puro determinismo delle leggi
di natura e la libertà di scelta di ogni essere umano, la piena responsabilità degli
atti di ognuno. Per ricomporre questa contraddizione, una soluzione potrebbe
essere quella di considerare l’Io "libero" proprio in quanto capace di regolare le
stesse leggi deterministiche di natura, ovvero come la persona capace che controlla
il movimento degli atomi. Questa tesi corre il rischio di considerare l’essere umano
una sorta di divinità onnipotente, cosa che per il cristianesimo è insieme una
bestemmia e una sciocchezza. Eppure, per le Upanisad, 2500 anni fa, l’io personale
è uguale all’io onnipresente che tutto comprende, e da questa identificazione
dipende per il pensiero indiano antico la quintessenza della più profonda
conoscenza degli avvenimenti del mondo. E’ del resto aspirazione comune dei
molti mistici di molti secoli considerare il momento culminante della loro vita
nell’assomigliare il più possibile a Dio, nel farsi Dio. Sebbene questa idea sia per
lo più rimasta estranea al pensiero occidentale, alcuni mistici e filosofi – tra i quali
spicca Schopenhauer – tendono a considerare, come in certa tradizione del
pensiero orientale, i loro pensieri e i loro sentimenti una cosa sola. La coscienza,
dal loro punto di vista, non viene mai sperimentata al plurale, ma solo al singolare.
Come gli scrittori delle Upanisad, anch’essi sembrano combattere l’idea della
pluralità. Per Schopenhauer, ad esempio, v’è una sola volontà della natura, che si
manifesta in tutti individui, ma che nondimeno rimane unica e identica, che non è
riconducibile ad altro né spiegabile tramite altri concetti. Se estendiamo quello che
Schopenhauer dice della volontà alla coscienza, possiamo giungere alla
conclusione che anch’essa è un singolare il cui plurale ci è ignoto, che ciò che
sembra costituire una pluralità è semplicemente la serie dei diversi aspetti di una
sola cosa, e che tali aspetti o riflessi sono prodotti da una sorta di illusione,
dall’indiano e schopenaueriano velo di Maya. Ma come conciliare questa
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impostazione teorica e questa visione del mondo con l’indiscutibile impressione di
ognuno che la somma totale della sua propria esperienza e memoria sia un’unità
del tutto distinta da quella di un’altra persona? A cosa si riduce l’io alla luce della
concezione schopenhaueriana, nonché delle riflessioni di Schrodinger sulla vita?
Per Schrodinger esso è qualcosa di più che una collezione di dati singoli, di
esperienze e di memorie: esso è il canovaccio su cui queste sono intessute, la trama
che le raccoglie, e si sviluppa comunque oltre le nostre esperienze e i nostri ricordi,
tanto che nemmeno nel caso dovessimo perdere ogni memoria della nostra vita
personale questa potrebbe andare interamente perduta.
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Entrambe le vie di conoscenza dei fenomeni vitali, quella analitica e quella
sintetica, sono importanti per descrivere l’essere vivente e, possibilmente, per
influenzare in modo efficace i processi di guarigione, ma qui si darà più
importanza alla seconda prospettiva, quella che si accentra sulla dinamica delle
relazioni. Infatti, mentre l’approccio analitico è stato perseguito intensamente dalla
ricerca biomedica avanzata e particolarmente dalla biologia molecolare negli ultimi
decenni e rappresenta di gran lunga il principale corpo di insegnamento delle
scuole mediche, la prospettiva sintetica e dinamica è stata molto trascurata e
quindi, per le ragioni dette, merita di essere rivalutata.
Da un punto di vista filosofico, possiamo dire che il nostro potere crescente sulla
natura e sulle contingenze della vita sociale e individuale ci ha prima illusi di poter
tenere tutto sotto controllo e poi delusi di fronte a un'incertezza e a una finitezza
persistenti, che però, a differenza di ieri, non riusciamo più ad accettare. Mai come
oggi abbiamo parlato tanto di libertà e di rischi, e mai come oggi, a tutti i livelli,
abbiamo tanto desiderato la sicurezza. L'idea che prima o poi la nostra vita finirà e
che l'entropia consumerà la stessa vita dell'universo ci è sempre più insopportabile.
Per lo stesso motivo per cui, se unisco il latte e il caffè ottengo un caffellatte e non
posso più dividere di nuovo i due ingredienti, il progresso non si può fermare, non
si può tornare realmente indietro, si possono solo limitare i danni. Tutta colpa
dell'entropia. Forse il mondo si distruggerà nel 2012, come previsto dai Maya, per
opera di una catastrofe naturale. Chissà, non manca molto tempo e i deserti stanno
già avanzando, il clima si sta già modificando.
Sin dall'alba della scienza, gli studiosi hanno sempre cercato di ridurre i fenomeni
complessi ad altri più semplici, delineando un quadro generale dell'universo sulla
base di un numero ristretto di principi fondamentali. Nell'antichità Pitagora
pensava che il mondo fosse l'armonia dei numeri. Democrito vedeva l'universo
come un movimento di atomi nel vuoto. Ad Aristotele il mondo appariva come un
organismo vivente. Dal XVII al XIX sec. dominarono le idee meccaniciste in virtù
delle quali s'interpretavano tutti i fenomeni della natura inanimata. All'inizio del
XIX sec. si fecero tentativi per costruire un quadro fisico unico del mondo, fondato
sull'elettrodinamica, ma vi furono anche ricerche per stabilire un quadro fisico-
probabilistico universale del mondo.
Oggigiorno gli scienziati mirano a integrare le idee relativiste e quantiche con la
possibilità di costruire una teoria unificata di tutte le fondamentali interazioni. I
matematici, p.es., si servono degli insiemi come base universale delle loro teorie. I
biologi cercano una coerenza di fondo nei principi della attuale biologia
molecolare o della genetica o anche della teoria sintetica dell'evoluzione. Da tempo
si è scoperto che fra microcosmo e macrocosmo vi sono affinità sorprendenti. La
fisica delle particelle elementari è già all'unisono con la cosmologia.
Si potrebbe, in un certo senso, rappresentare lo sviluppo della scienza come una
successione di programmi riduzionisti sempre più perfetti sul cammino che
conduce dalla verità relativa a quella assoluta. Si ha infatti l'impressione che
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l'assolutezza della verità coincida con la sua semplicità o essenzialità e che con tale
essenzialità si sia in grado di comprendere tutta la complessità dell'esistenza, la
quale, con le sue verità relative, ha mille sfaccettature. Si procede in avanti,
aumentando la conoscenza, ma come se si tornasse indietro, verso l'epoca in cui la
conoscenza era una sola cosa con la vita. Le costruzioni scientifiche
antiriduzioniste (generalmente fenomenologiche) sono destinate ad essere
riassorbite, in quanto il processo verso l'unificazione universale del sapere appare
irreversibile.
Il riduzionismo è legato non solo a ciò che la scienza riflette, ma anche al modo in
cui essa lo fa. La conoscenza scientifica è sempre più un insieme di varie
procedure cognitive e di diversi modi d'organizzazione del sapere acquisito, aventi
un carattere integrativo. In virtù di questa esigenza integrativa, si può addirittura
arrivare a dire che il fatto scientifico non è tanto il riflesso di un avvenimento
individuale, unico, quanto piuttosto la rappresentazione di tutta una classe di
fenomeni, unificati sulla base di un certo livello di astrazione. Noi troviamo nelle
regolarità empiriche di diversi gruppi di fatti formanti un tutto unico una maggiore
generalizzazione della realtà. E queste regolarità, a loro volta, possono essere
assimilate a una comune interpretazione, avente un numero limitato di principi
fondamentali.
In sostanza, tutte le forme di organizzazione del sapere scientifico realizzano una
descrizione generalizzata della realtà, a partire dalla quale si individua sempre più
profondamente l'essenza dei fenomeni, facendo così per tappe una riduzione che va
dalle forme poco generalizzate di organizzazione del sapere scientifico a forme
sempre più generalizzate. Naturalmente questo processo riduzionistico o
riunificativo non implica né la soppressione della diversità delle teorie e dei campi
d'indagine, né la loro concentrazione in un unico schema teoretico. Il problema, se
vogliamo, sta nell'alimentare la tensione delle singole discipline verso l'unità,
ovvero nel ricercare un metodo per stimolare questa tensione.
Il processo verso la riunificazione del sapere è reale ma non è automatico. Ad esso
non fa ostacolo l'estrema frammentazione dei metodi di conoscenza e dei
programmi di ricerca, quanto piuttosto la chiusura, il settarismo, la difesa
corporativa di arcaici privilegi. Se nel campo della fisica, ad es., vi sono
descrizioni deterministe e probabiliste, ciò rientra nella normalità, ma quando in
nome dell'una o dell'altra corrente si rifiuta il dialogo, il confronto aperto, critico e
autocritico, ecco che allora non solo la fisica ma tutta la scienza s'impoverisce,
mentre il processo di riunificazione del sapere inevitabilmente rallenta la sua
marcia.
Oggi molti ricercatori si trincerano dietro una solida argomentazione, quella
secondo cui tutto ciò che esiste nel mondo è il frutto di una evoluzione dal
semplice al complesso. Il che implica, per molti di loro, un affronto sistematico del
particolare, una specializzazione sempre più sofisticata delle conoscenze. Questo
modo di orientarsi non è in sé sbagliato, ma rischia di diventarlo ogniqualvolta si
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perde il senso dell'insieme, la globalità del reale, che per forza di cose va colto
nella sua essenzialità.
Nel corso dello sviluppo della scienza il grado di unità del sapere scientifico, che
pur si ristruttura di continuo, tende ad aumentare, anche se in apparenza sembra il
contrario. Lo dimostra il fatto che le interrelazioni dei diversi campi scientifici si
rafforzano. Lo sviluppo del 'sapere fondamentale' (quello di cui non si può fare a
meno) apre possibilità sempre maggiori di sintesi delle conoscenze acquisite, a tutti
i livelli. Vi sono tuttavia dei problemi cui la metodologia riduzionista deve far
fronte con grandi capacità se vuole realizzare i suoi obiettivi.
Anzitutto va risolta la questione del rapporto fra la parte e il tutto. Senza dubbio, il
comportamento del tutto è determinato, essenzialmente, dalle proprietà e dal
carattere dei suoi singoli elementi. Ma la riduzione delle proprietà del tutto alle
proprietà delle sue parti è possibile solo nelle situazioni elementari dei cd. 'sistemi
sommativi', che rappresentano una piccola frazione dell'intera diversità degli
oggetti realmente esistenti. Di regola, il tutto è caratterizzato da parametri e leggi
specifiche che non valgono per i suoi elementi particolari. Così ad es., le
caratteristiche del gas in movimento dipendono da parametri termodinamici:
temperatura, entropia, ecc., i quali risultano ininfluenti per l'analisi delle sue
molecole particolari. Non è certo possibile ottenere quelle caratteristiche a partire
da una descrizione meccanica dettagliata del movimento di tutte le molecole.
La perfezione dell'insieme, rispetto a quella delle parti che lo compongono, la si
nota anche laddove le relazioni che l'insieme instaura con l'ambiente sono
determinate dal comportamento dell'insieme stesso e non da quello delle sue
singole parti. Questa situazione è tipica di tutti i livelli di organizzazione della
materia, specie di quelli più complessi. Ciò che è sostanziale per l'insieme di un
organismo è il funzionamento integrale e coordinato di ogni singola parte: è questo
che assicura la grande stabilità dei sistemi viventi in rapporto alle variabili
condizioni esterne e che accresce fortemente le capacità di adattamento
dell'organismo. La perfezione sta nel funzionamento equilibrato del tutto,
all'interno di margini più o meno flessibili, ma comunque invalicabili, di
tollerabilità. P.es., la struttura attuale dell'universo è determinata da una grandezza
che esprime la differenza di massa fra il neutrone e il protone. Questa differenza è
assai piccola, circa 10-3 della massa del protone. Ma se essa fosse stata tre volte
più grande, non avrebbe avuto luogo la sintesi nucleare e nell'universo non
esisterebbero elementi complessi.
L'intero dunque non può essere concepito come funzionante unicamente secondo
leggi che reggono gli elementi che lo compongono. Una casa di mattoni è
evidentemente una realizzazione di possibilità inerenti ai mattoni e alla calce; ma
per costruire una casa non basta conoscere le proprietà dei materiali: bisogna
possedere un progetto della casa, stabilito secondo il suo modo di funzionare in
quanto abitazione. Questo progetto, è vero, si realizzerà sulla base delle proprietà
dei materiali da costruzione, ma la sua ideazione dipende dalle leggi di un altro
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livello di realtà. Del pari, il comportamento dell'uomo è sì legato alle sue qualità
naturali e sociali in quanto individuo, ma l'essenza dell'uomo -come vuole Marx- si
esprime sulla base del sistema di relazioni sociali in cui egli è inserito. Ogni
organismo vivente è determinato non soltanto dalla sua organizzazione interna, ma
anche dal suo rapporto con la popolazione circostante e con l'insieme del mondo
vivente.
Il tutto dunque non è riducibile alla somma delle sue parti e la parte non può essere
interamente compresa che nelle sue relazioni col tutto. Su questo principio vi è un
esempio significativo nel libro di W. Heinsenberg, La parte e il tutto, laddove
l'autore afferma che mentre osservava, indifferente, il castello Elsinore, che lo
scienziato N. Bohr gli indicava, ne capì l'importanza solo dopo che quegli gli
precisò che si trattava del castello in cui Shakespeare aveva scritto l'Amleto.
La fisica moderna fornisce una testimonianza esemplare di questa simbiosi della
parte con il tutto. Come noto, l'unità fondamentale dei principali tipi d'interazione
che descrivono il comportamento delle particelle elementari, non si è manifestata
che negli stadi iniziali dell'evoluzione del cosmo. In altre parole, l'unità reale delle
interazioni elettriche deboli e forti può manifestarsi in casi di energia che non
esistono nell'attuale universo e che potevano realizzarsi solo nei primi secondi
dell'evoluzione della metagalassia dopo il Big bang. D'altra parte, noi siamo
sorpresi dall'apprendere che le proprietà macroscopiche del mondo osservabile
(esistenza di galassie, di stelle, di sistemi planetari, di vita sulla terra) sono
determinate da un piccolo numero di costanti che caratterizzano sia le diverse
proprietà delle particelle elementari che i tipi-base delle fondamentali interazioni.
P.es., se la massa dell'elettrone fosse stata di tre o quattro volte maggiore di quella
attuale, la vita d'un atomo neutro d'idrogeno sarebbe solo di qualche giorno. Di
conseguenza, le galassie e le stelle sarebbero principalmente composte di neutroni
e l'attuale diversità fra atomi e molecole neppure esisterebbe.
Le acquisizioni della scienza moderna mostrano con evidenza che tutto quanto
esiste è frutto di una evoluzione. La teoria del Big bang, le ricerche sull'apparizione
dei sistemi prebiologici e delle prime forme di vita, l'individuazione delle leggi di
formazione e sviluppo della biosfera e delle specie animali, gli studi di antropo- e
socio-genesi permettono di descrivere le principali tappe dell'evoluzione del
mondo dall'apparizione delle particelle elementari all'origine dell'uomo e della
civiltà. 10-35 secondi dopo l'inizio del Big bang apparve l'asimmetria barionica
della Metagalassia, che si rileva oggi dalla quantità estremamente piccola di
antimateria da essa contenuta. Dopo 10-5 secondi sono venuti emergendo i barioni
e i mesoni a partire dai quarks. Nel secondo minuto di vita della Metagalassia
hanno cominciato a formarsi i nuclei dell'elio e di altri elementi leggeri. Le galassie
sono comparse un miliardo di anni più tardi e le stelle della prima generazione 5
miliardi di anni dopo. Gli atomi degli elementi pesanti nascono in seno alle stelle.
Il sole, quale stella della seconda generazione, ha circa 5 miliardi di anni. La terra
ne ha circa 4,6. Sulla terra, i microrganismi hanno 3 miliardi di anni, le forme
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macroscopiche di vita esistono da un miliardo di anni. I primi vegetali sono apparsi
450 milioni d'anni fa, i pesci hanno 400 milioni di anni, i mammiferi 50 e, infine,
l'uomo esiste da 2 o 3 milioni di anni.
Noi deduciamo l'evoluzione dal semplice al complesso anche da moltissimi altri
processi che si svolgono nel cosmo. Soltanto nella nostra galassia esistono
centinaia di miliardi di stelle simili al sole e in tutto l'universo si contano decine di
miliardi di galassie simili alla nostra. Tutto è in perenne evoluzione, benché la
stragrande maggioranza delle linee evolutive non approdino alla nascita della vita e
dell'intelligenza. L'idea che la vita e la ragione siano molteplici nell'universo ha
giocato nella storia un ruolo progressista. Essa infatti postula l'origine naturale
della vita e della ragione, e favorisce lo sviluppo di un'interpretazione
materialistica del mondo, antitetica a quella religiosa. Tuttavia, alla luce delle
ricerche attuali, è forse più utile prestare attenzione alla concezione secondo cui la
vita e la ragione sono uniche nell'universo, o comunque rarissime, in quanto
nessuna forma di vita extra-terrestre è in grado per il momento di farci sostenere il
contrario.
D'altra parte l'universo è così grande che sembra incredibile che la vita si sia
evoluta solo sulla terra.
Un altro aspetto di cui bisogna assolutamente tener conto è la possibilità che il
processo evolutivo dal semplice al complesso diventi reversibile. Se ad es. la
densità della massa del nostro universo diventasse più grande di quella critica, esso
comincerebbe a comprimersi, dopo un certo tempo, provocando una riduzione
globale di tutte le forme complesse a forme più semplici. Tale fenomeno i
cosmologi prevedono che prima o poi accadrà. L'instabilità del protone tende a
convalidare questa supposizione. Il che non implica la sconfessione di determinate
leggi fisiche o chimiche, quanto, più semplicemente, la constatazione della loro
inapplicabilità alla nuova situazione che si verrà a creare.
La scienza è in un certo senso simile alla natura vivente. Per principio, la vita non
può esistere senza tradursi in una molteplicità di forme. Così è per la scienza. Il suo
polimorfismo è condizionato non solo dalla diversità reale del mondo, ma anche
dalle differenze che esistono negli statuti epistemologici del suo apparato
concettuale, la cui efficacia muta col mutare delle situazioni cognitive. L'unità
della scienza non sta nella ricomposizione, peraltro impossibile, delle sue tecniche
di ricerca o dei suoi criteri cognitivi e interpretativi, quanto piuttosto nella
interconnessione sempre più stretta fra diversi campi scientifici, il cui compito
principale è quello di riflettere adeguatamente l'essenza della realtà.
Tutto ciò che esiste è caratterizzato dall'unità e dalla diversità: né l'una né l'altra
possono sussistere o essere comprese separatamente. Il riduzionismo può aiutarci
in questa esigenza riunificativa, ma esso dovrà comunque riflettere la specificità
dei fenomeni, se non vorrà rischiare di offrire un'immagine semplicistica delle
interrelazioni fra unità e diversità. Pertanto, se vogliamo concretizzare il desiderio
30
di una ricomposizione del sapere scientifico, dobbiamo farlo con la pazienza di chi
sa rispettare le conquiste scientifiche di ogni singola disciplina.
D'altro canto é pur vero che troppe teorie oscurano altrettanto facilmente la
conoscenza. Una teoria rigida si chiude su se stessa, crede di possedere la realtà o
la verità, ha già previsto tutto in anticipo.
Sono bellissime quelle teorie che spiegano tutto ma che non hanno possibilità di
verifica sperimentale, l'uomo è maestro nel costruire tali teorie.
Ognuno si crea la propria filosofia, e il pensiero filosofico che spazia oltre il
confine dell'immaginabile suscita un grande fascino nell'ascoltatore.
31
Un'altra domanda ci si dovrebbe porre : se si riconosce la presenza
macroscopicamente oggettiva di tali correlazioni, appare tanto peregrina
l'intuizione di una reale possibilità di evoluzione interiore, che consenta una
migliore coscienza delle sensazioni sfuggenti ?
Tante creature, di specie diverse, hanno popolato il mare e la terra dentro un unico
complessivo processo evolutivo ambientale che comprende, tuttora, anche noi, con
il senso dell'esistere che domanda apertura, rispetto e attenzione per ogni vita
nell'ambiente, in coerenza con l'evoluzione.
Si potrebbe dire che l'origine della vita si svolge interamente in base a leggi
interne. Le leggi rendono necessario una certa trasformazione ma in diverse
situazioni ci possono essere strade diverse e "accidentalmente", per caso
l'evoluzione ha intrapreso una strada piuttosto che un'altra.
Ma quali sono tali leggi, sono comprensibili all'intelletto umano?
Cosa possiamo dire sulla base della nostra esperienza diretta?
Noi osserviamo una unità dell'esistenza, ogni organismo mostra caratteristiche
uniche di autoconservazione. Eppure la vita è gettata nel mare delle trasformazioni
fisiche governate dall'entropia crescente: la vita lotta per la propria esistenza.
La teoria secondo cui la vita sarebbe sorta casualmente dalla materia inorganica
non è, in fondo, che la versione moderna di una credenza vecchia quanto la
osservazione superficiale della natura, la "generazione spontanea": quella, per
intenderci, in base alla quale gli antichi credevano che le anguille nascessero dalla
melma dei fiumi, le zanzare dai miasmi delle paludi, le mosche dalla carne
putrefatta, e altre favolette simili. La loro inconsistenza fu sperimentalmente
dimostrata da Francesco Redi nel 1668 per gli insetti, dall'abate Lazzaro
32
Spallanzani nel 1748 per i protozoi e da Louis Pasteur nel 1861 per i batteri. Tutti e
tre gli scienziati dovettero faticare molto per fare accettare le loro scoperte; ma,
mentre Redi dovette lottare solo contro i pregiudizi di sedicenti "conservatori",
Spallanzani e più ancora Pasteur si trovarono di fronte la opposizione dei
"progressisti", che della generazione spontanea facevano il supporto "scientifico"
di una filosofia materialistica: "La genesi spontanea non è più un 'ipotesi, ma una
necessità filosofica. Soltanto essa è razionale, soltanto essa ci sbarazza per sempre
delle puerili cosmogonie e fa rientrare nelle quinte quel deus ex machina esteriore
e del tutto artificiale che secoli di ignoranza hanno a lungo adorato".
È chiaro che, partendo da un simile preconcetto, non si poteva fare a meno di
cercare il modo di riaffermare quello che la esperienza scientifica aveva negato. E
il modo è stato trovato, e contrabbandato per "prova scientifica", ricorrendo a due
accorgimenti: primo, la sostituzione del vecchio e screditato termine "generazione
spontanea" con espressioni altisonanti, coniate pour épater le bourgeois, quali
"abiogenesi", "fase prebiotica della evoluzione", "evoluzione chimica", e simili;
secondo, la retrodatazione della presunta "abiogenesi" a lontanissime ere
geologiche, in condizioni ambientali non verificate né verificabili, ma "ricostruibili
in laboratorio", in cui - si afferma - sarebbe potuto avvenire quello che oggi è
impossibile.
Fra le numerose "teorie abiogenetiche" oggi disponibili la più accreditata rimane
quella delineata una cinquantina di anni fa, dal biologo sovietico Aleksandr
Ivanovic Oparin. Questa teoria (o, meglio, ipotesi) postula la esistenza - necessaria
per l'"abiogenesi" - di un'atmosfera primitiva a carattere fortemente riducente,
composta di idrogeno, vapore acqueo, metano, azoto e ammoniaca. In tale
atmosfera le radiazioni ultraviolette solari e le scariche elettriche dei fulmini
avrebbero provocato la sintesi di composti organici, tra cui amminoacidi, purine e
pirimidine. Tali composti, disperdendosi negli oceani, avrebbero formato il
cosiddetto "brodo prebiotico", nel quale, per reazioni chimiche successive, si
sarebbero formate, sempre casualmente, le prime biomolecole - soprattutto
proteine – e, infine, i primi organismi viventi.
Quando, all'inizio degli anni Cinquanta, la ipotesi di Oparin fu ripresa
dall'americano Harold Clayton Urey in base alle sue teorie sulla formazione del
sistema solare, si andarono subito a cercare le tanto agognate "conferme
sperimentali": e Stanley L. Miller ritenne di averle trovate allorché, facendo
passare scariche elettriche attraverso miscele gassose di metano, ammoniaca,
vapore acqueo e idrogeno, ottenne una miscela di composti organici da cui isolò,
tra l'altro, alcuni amminoacidi.
I risultati di Miller, successivamente confermati ed estesi, sia pure con qualche
lieve modifica per quanto riguarda la composizione dell'"atmosfera primordiale",
da esperimenti successivi, diedero un grande impulso alla "ipotesi abiogenetica":
gli amminoacidi sono i componenti fondamentali delle proteine di cui sono
costituiti i tessuti biologici; altri composti organici identificati da Miller nella sua
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miscela di prodotti si ritrovano, in gran parte, tra i prodotti del metabolismo di
organismi viventi. Altri amminoacidi e supposti "precursori prebiotici" di altri
costituenti fondamentali della cellula, quali gli acidi nucleici, sono sintetizzabili in
condizioni che, secondo gli autori, ricordano da vicino quelle dell'ipotetico "brodo
prebiotico".
Tutto bene, allora? Nessun dubbio? Sembrerebbe, a prima vista, proprio così, dato
che le discussioni tra gli "addetti ai lavori" hanno come oggetto non già
l'"abiogenesi" in sé, che si dà per scontata, ma, caso mai, il meccanismo con cui si
sarebbe verificata. Così, alcuni preferiscono, alle scariche elettriche, la irradiazione
con luce ultravioletta di una "atmosfera" di metano, azoto e vapore acqueo, allo
scopo di produrre altri composti organici, presentati anch'essi come possibili
"elementi prebiotici"; ma non mettono in discussione il "fatto" dell'"abiogenesi".
E, invece, proprio tale preteso "fatto" è da mettere in discussione: se, infatti, i
lavori riportati nelle memorie scientifiche sopra citate hanno in sé e per sé, come
metodi per la sintesi di alcuni composti chimici, una loro indubbia validità
scientifica, non ne hanno invece nessuna come "prove sperimentali
dell'abiogenesi". Una affermazione così netta può, a prima vista, stupire; tuttavia
essa è deducibile già da una attenta lettura degli stessi scritti di alcuni abiogenisti,
nei quali la "importanza prebiotica" dei risultati riportati è spesso discussa in poche
righe, a conclusione di un normalissimo articolo di chimica organica; e, ancora,
dalla "fuga nella fantascienza" di altri, che presentano, come "prova
dell'abiogenesi", la fotosintesi di composti organici in miscele gassose riproducenti
l'atmosfera di Giove. Tuttavia, dato che i risultati di simili esperimenti vengono
quotidianamente sbandierati come "prove" non solo in scritti "divulgativi", ma
anche in rispettabili testi universitari, sarà bene esaminarli un poco più
approfonditamente.
In tutti gli esperimenti sopra riportati si otteneva, al termine della scarica o della
irradiazione, una grande varietà di composti, da cui i supposti "elementi prebiotici"
andavano estratti e purificati con procedure spesso assai sofisticate. Anche le rese
erano bassissime: nel celebre esperimento di Miller esse andavano dal 10,3 al 7,3%
dei prodotti organici totali per gli amminoacidi e dal 16,5 al 7,1% per gli acidi e
ossiacidi organici. Ma vi è di più: negli esperimenti di "sintesi prebiotica" sono
stati ottenuti anche parecchi amminoacidi che non si ritrovano nelle proteine,
talvolta con rese più alte che quelli proteici; "la presenza di glicina, alanina,
valina, isoleucina e leucina nelle proteine, ma l'assenza di acido alfa-ammino-n-
butirrico, norvalina, alloisoleucina e norleucina, non può essere spiegata sulla
base delle rese ottenute da questo tipo di sintesi". Inoltre, la proporzione tra i vari
amminoacidi nelle proteine è quasi inversa che tra i prodotti di sintesi; per risolvere
questa difficoltà, Miller è costretto a supporre una ulteriore "condizione
necessaria", cioè una precipitazione frazionata di amminoacidi per evaporazione in
qualche laguna, con formazione di polipeptidi nella fase solida: e tutto questo a
conclusione di una serie di esperimenti in cui la resa totale in amminoacidi "utili" e
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no, era in media l'1,90%. Analoghe critiche potrebbero essere mosse alle varie
sintesi di "precursori prebiotici" degli acidi nucleici.
Tutte queste teorie, come si è già visto, presuppongono la presenza, sulla terra, di
una atmosfera riducente all'epoca della "evoluzione prebiotica" e "protobiotica".
Orbene, le teorie più recenti sulla formazione della terra e della sua atmosfera
escludono proprio questa ipotesi fondamentale, affermando che all'epoca della
comparsa dei primi viventi la terra aveva un'atmosfera neutra o debolmente
ossidante, non molto diversa dall'attuale, salvo, forse, per la mancanza di ossigeno.
Un tentativo di ovviare a questo inconveniente, che rischia di mandare all'aria tutta
la "teoria abiogenetica", è stato fatto in America da Allen J. Bard e dai suoi
collaboratori. Costoro, dopo avere scoperto che, irradiando con luce ultravioletta
una soluzione acquosa di ammoniaca satura di metano in presenza di biossido di
titanio platinato - cioè ricoperto di platino finemente suddiviso -, si ottiene una
miscela di amminoacidi, superano la obiezione relativa alla composizione
dell'atmosfera primordiale osservando che il biossido di titanio catalizza la
riduzione dell'azoto ad ammoniaca e dell'anidride carbonica a metano, formaldeide
e metanolo, sia pure con basse rese. Peccato che, per la formazione di amminoacidi
sia indispensabile l'uso del biossido di titanio platinato, un catalizzatore sintetico,
inesistente in natura. Infatti, sia il biossido di titanio non platinato, sia l'ossido
ferrico, sia il minerale ilmenite - ossido misto di titanio e ferro - non producono
amminoacidi nelle condizioni di reazione. Siamo, come si può vedere, ancora al
punto di partenza.
Passando poi alla seconda fase della "evoluzione chimica" quella in cui le
"molecole prebiotiche" avrebbero reagito tra di loro per formare polisaccaridi,
polipeptidi - e poi proteine - e polinucleotidi - e poi acidi nucleici -, che unendosi
insieme avrebbero formato i primi organismi, le difficoltà salgono alle stelle. Qui il
"caso" invocato dagli abiogenisti si rivela molto, molto intelligente.
La prima difficoltà è data dalla attività ottica delle sostanze di origine biologica,
dovuta alla dissimmetria sterica delle molecole. Gran parte delle molecole
organiche sono dissimmetriche, ossia prive di piani di simmetria, così che possono
esistere in due forme distinte, dette enantiomeri, che differiscono tra di loro per
essere l'una la immagine speculare dell'altra così come la mano destra differisce
dalla sinistra, donde il nome di molecole chirali - dal greco chéir, mano. La
possibilità di distinguere tra di loro i due enantiomeri è data, appunto, dalla loro
attività ottica: se la soluzione di un enantiomero, attraversata da un raggio di luce
polarizzata, ne ruota il piano di polarizzazione, per esempio, verso destra, una
soluzione uguale dell'enantiomero opposto lo ruoterà, a parità di condizioni
sperimentali, di un uguale angolo verso sinistra. La miscela di eguali quantità dei
due enantiomeri si chiama racemo e, ovviamente, non ruota il piano della luce
polarizzata. Orbene, tutte le molecole chirali che fanno parte degli organismi
biologici sono enantiomeri puri, e tutti della stessa configurazione cioè "tipo mano
destra" o "tipo mano sinistra" -, a seconda della classe di molecole a cui
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appartengono. Così, tutti gli amminoacidi che entrano a fare parte delle proteine
sono otticamente attivi - meno la glicina, che è simmetrica - e tutti hanno la stessa
configurazione sterica, quella "tipo mano sinistra". Invece, tutte le sintesi di
amminoacidi compiute dagli abiogenisti dànno luogo a miscele racemiche, dato
che, per obbedienza al presupposto di partenza, sono compiute su reagenti non
chirali, senza impiegare catalizzatori otticamente attivi. Addirittura, l'assenza di
enantiomeri puri tra i prodotti è stata addotta come prova che gli amminoacidi non
erano dovuti a contaminazione da parte di microorganismi. Ora, è difficile capire
perché da reazioni casuali tra amminoacidi statisticamente distribuiti tra le due
forme si sarebbero formati polipeptidi enantiomericamente puri; lo stesso dicasi
per i "precursori prebiotici" dei polisaccaridi e degli acidi nucleici.
Ma non basta. Nelle proteine, non solo la configurazione sterica, ma anche la
sequenza degli amminoacidi è tutt'altro che casuale, come pure la sequenza delle
basi puriniche e pirimidiniche negli acidi nucleici: entrambe sono strettamente
ordinate alle funzioni biologiche della macromolecola all'interno dell'organismo;
tra le sequenze di basi negli acidi nucleici e le sequenze di amminoacidi nelle
proteine esiste una correlazione valida per tutto il mondo biologico - il codice
genetico, basato sulla corrispondenza fra terne di basi e amminoacidi -, così che la
struttura dei primi determina quella delle seconde. Polipeptidi statistici sono stati
ottenuti da Fox riscaldando a 170°C una miscela di amminoacidi posti su un pezzo
di roccia vulcanica, e dalla équipe romena di Simionescu - insieme con
polisaccaridi a struttura non ordinata, pseudo-lipidi e impurezze varie - mediante
esperimenti simili a quelli di Miller, ma condotti sotto vuoto alle temperature
"siberiane" di -40°C e -60°C, anziché a pressione e a temperatura ambiente. I
prodotti ottenuti, posti in soluzioni acquose, si aggregano in microsfere, talvolta
delimitate da una membrana polisaccaridica, chiamate dagli autori modelli di
"protocellule", ma che con le cellule autentiche non hanno proprio niente a che
vedere: sono prive di attività metaboliche e riproduttive, in altre parole non vivono.
Tutte le precedenti obiezioni alla "teoria abiogenetica" sono riconducibili a un
semplice principio, ovvio per ogni mente sgombra da preconcetti: l'ordine non può
nascere spontaneamente dal caos. Un organismo vivente è molto di più che un
aggregato di molecole e di macromolecole organiche: è una forma organizzatrice,
che costruisce e ordina queste molecole secondo un progetto strutturale, - è un
sistema cibernetico dotato di un grado di informazione superiore a quello delle
singole parti che lo compongono. "Quando dico che la vita trascende la fisica e la
chimica, intendo dire che la biologia non può spiegare la vita, quale vi presenta
oggi, in termini di semplice azione di leggi fisiche e chimiche".
Prendiamo come esempio il codice genetico, a cui ho già accennato, e che consiste
nella corrispondenza fra terne di basi nella struttura del DNA, o acido
desossiribonucleico, e amminoacidi delle proteine. È un codice universale e, dal
punto di vista chimico, arbitrario, sulla cui origine "invece che di "problema", si
dovrebbe parlare di enigma. Il codice non ha senso se non è tradotto. Il
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meccanismo traduttore della cellula moderna comporta almeno cinquanta
costituenti macromolecolari, anch'essi codificati nel DNA. Il codice genetico può
dunque essere tradotto solo dai prodotti stessi della traduzione. È questa
l'espressione moderna dell'omne vivum ex ovo. Ma quando e come questo anello
si è chiuso su se stesso? È molto difficile anche solo immaginarlo" dice Monod,
che qui, nel suo campo specifico, è rigoroso, salvo poi pretendere, poco dopo, di
spiegare tutto con il solito binomio caso-necessità.
La pretesa degli abiogenisti, che i vari componenti della cellula, formatisi
spontaneamente nel "brodo prebiotico", secondo Fox, o nelle tempeste delle
regioni polari, secondo Simionescu, si siano casualmente aggregati "inventando" il
codice genetico "non appartiene neanche alla fantascienza, ma al delirio
intellettuale".
Allo scopo di rompere il circolo vizioso dell'uovo-DNA e della gallina-proteine, è
stata recentemente proposta una nuova teoria sulla origine della vita, la "teoria
ribotipica", che fa originare la cellula dalle ribonucleoproteine attraverso un
meccanismo a catena di "quasi-replicazione". Una analisi della teoria esula dagli
scopi presenti, rientrando piuttosto nel campo della genetica molecolare e della
microbiologia; essa, tuttavia, dà per scontata la "evoluzione chimica", ossia la
formazione spontanea di acido ribonucleico - RNA, diverso dal DNA - e di
proteine. Ma, come si è visto precedentemente, tale "evoluzione chimica" è
tutt'altro che scontata.
In ogni caso, il "messaggio" contenuto nella struttura degli acidi nucleici
costituisce uno "schema" ben preciso che non può essere riducibile a una sequenza
statistica di nucleotidi. "Dobbiamo rifiutarci di considerare lo schema attraverso il
quale il DNA diffonde informazione come parte delle sue proprietà chimiche. Il
suo schema funzionale deve essere riconosciuto come una condizione al contorno
posta all'interno della molecola del DNA".
"Infine, una parola sul modo in cui le condizioni al contorno che controllano i
processi fisico-chimici in un organismo possano aver avuto origine a partire da
materia inanimata. Il problema è se la categoria logica delle mutazioni casuali
includa o no la formazione di nuovi principi non definibili in termini di fisica e di
chimica. Sembra molto improbabile che possa includerla".
Il piacere è il motore della vita ed è legato ad un principio fisico che possiamo già
rilevare a livello atomico e molecolare. L’anima della Natura risiede negli stati
vibrazionali, traslazionali, che armonizzano o disarmonizzano lo scambio di
energia tra i vari costituenti dei micro o macro-organismi, scambio informazionale
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che ubbidisce ai principi della “musica”: l’energia né si crea né si distrugge, ma si
trasforma attraverso processi informazionali mediante i quali si riceve e si
trasmette costantemente energia e, al di là del tipo o della forma (visiva, acustica,
olfattiva, gustativa, tattile…), quel che conta è come le varie informazioni
(energia) vengono combinate fra loro dando luogo a processi di armonia o
disarmonia. Il nostro cervello è in grado di rilevare fin dalla nascita la fisicità
dell’armonia o della disarmonia, a cui corrispondono per effetto una serie di
risposte biofisiche e biochimiche ormai identificate come stati di benessere o di
malessere.
Tutti i sistemi scambiano costantemente energia producendo evoluzione e
indirizzando i sistemi stessi verso un equilibrio dinamico, la cui utilità risiede non
nella procreazione ma nell’evoluzione. Il concetto di procreazione deve essere
ampliato: non si “procreano” solo bambini o cuccioli di animale, ma anche idee,
pensieri, azioni nonché, a livello atomico e sub-atomico, nuovi atomi e nuove
particelle. Quando lo scambio di informazioni tra sistemi fisici avviene senza
violenza e per risonanza, si produce piacere, ovvero uno stato di trasformazione
della materia in energia: come dire che l’acqua, ricevendo energia, si trasforma in
vapore producendo nelle sue molecole uno stato vibrazionale di maggiore libertà
che potremmo definire come uno “stato di benessere” per le molecole e per gli
atomi. Il piacere, quindi, trova la sua spiegazione in fisica come stato armonico
vibrazionale che si trasferisce costantemente ai sistemi fisici circostanti.
Il sorriso di un bambino dà gioia, così come una carezza che esprime amore o un
prato fiorito; uno sguardo triste, un gesto “violento”, una situazione disarmonica
provocano sofferenza. Ognuno di noi può creare vibrazioni armoniche, o
informazioni armoniche, al fine di favorire un processo evolutivo cosciente e
consapevole che può sostituire al principio darwiniano dello stato di necessità, che
favorisce il più forte e il più adatto, il principio evolutivo dell’energia, che
favorisce l’energia più armonica la cui evoluzione trasforma la violenza in un
processo che alimenta livelli di coscienza e creatività sempre maggiori.
Tali forme di “coscienza” le troviamo in tutti i sistemi fisici: come in una cellula il
DNA costituisce il vero e proprio cervello della cellula stessa, così in un atomo il
dinamismo del nucleo, ovvero delle cariche di energia che guidano e mantengono
lo stato di equilibrio dinamico, rappresenta l’evoluzione della “coscienza”
dell’atomo. Non a caso i nostri organi di senso sono in grado di rilevare la
differenza che esiste tra un frutto prodotto con concimi chimici industriali da un
frutto prodotto con concimi naturali che hanno seguito tutti i loro processi evolutivi
all’interno dei sistemi naturali stessi, nei quali si sono arricchiti di “esperienze
vibrazionali” che hanno poi trasferito ai frutti.
Le leggi di Natura sono perfette e non conoscono errori o casualità; ma
l’evoluzione culturale ha condotto a codificare e decodificare tali leggi in principi e
concetti astratti, costruendo modelli teorici che nulla o poco dicono dell’anima
della Natura. Molti ragazzi a scuola non amano materie come la fisica, la chimica,
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la biologia… Questo perché sono un “prodotto scientifico” creato spesso con
artifizi che ignorano l’anima della Natura, ovvero con interpretazioni che generano
modelli astratti, logico-matematici, prodotti con strumenti simbolici dissociati
dallo stato vibrazionale della materia e dell’energia che, nei processi naturali, trova
la sua massima espressione. Gli esseri umani, più che dalla scuola e dall’università,
imparano dall’osservazione e dalla risonanza con la Natura traendone informazioni
utili alla propria crescita e al proprio arricchimento, informazioni che quando
vengono codificate dall’emisfero sinistro del cervello in teorie e modelli astratti,
tolgono, a ciò che era stato acquisto e scoperto, gli aspetti armonici esperienziali –
ovvero emozionali – percepiti e vissuti dall’emisfero destro. L’evoluzione delle
conoscenze scientifiche consente al vero scienziato di risuonare con l’anima della
Natura e la Natura stessa, con gioia, offre la propria anima vibrazionale che si
traduce in conoscenza, coscienza ed evoluzione.
L’attuale paradosso dell’evoluzione umana vede la donna e l’uomo in un conflitto
talvolta parossistico, le cui radici risiedono nel bisogno di soddisfare esigenze di
piacere, giustizia, libertà, amore. Tale conflitto nasce, infatti, dalla grande
confusione che si genera all’interno dei cervelli fin dalla nascita, prodotta
dall’ignoranza informazionale che nega a priori il diritto di nascita di ciascuno di
svilupparsi e crescere in armonia e senza violenza: il “bastone” è violenza, la
“carota” è un malefico trucco che priva l’essere della spinta evolutiva verso la
ricerca della verità e della libertà. Il metodo del bastone e la carota è ancora in uso
nei cosiddetti processi educativi e formativi ed ha portato l’umanità verso il rifiuto
della vita e verso la degenerazione dell’armonia che dà vita ad una nascita… e che
dà vita alla vita.
L’uomo ha sperimentato l’arroganza della propria ignoranza: una cultura ignorante
vuole dominare la Natura, ma la Natura non può essere dominata né imprigionata
in schemi e modelli preformati. L’intelligenza della Natura deve diventare la nostra
intelligenza, con la quale è possibile scambiare energia creativamente, producendo
piacere e gioia a tutti i livelli, e contribuendo all’evoluzione culturale, sociale,
politica ed economica di tutte le società del mondo, in sintonia con l’evoluzione
armonica del mondo fisico e biologico.
Siamo talmente abituati alla vita che spesso ci dimentichiamo di una straordinaria
avventura: quella di una semplice cellula fecondata, una cellula così piccola da
essere invisibile a occhio nudo, che moltiplicandosi in miliardi di altre cellule
riesce a diventare, in soli nove mesi, un Homo sapiens.
E' la nostra storia. Tutti noi, infatti, partendo da una minuscola sferula di qualche
millesimo di millimetro, ci siamo "autocostruiti", diventando individui capaci di
vedere, pensare, risolvere problemi, lottare, amare, o anche inventare macchine e
comporre musiche.
Tale impresa, che ha del prodigioso, avviene nel buio del ventre materno. E' dentro
questo piccolo universo subacqueo che le cellule cominciano a differenziarsi e a
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collocarsi ognuna al posto giusto, nel momento giusto. Una specie di scultura che
si plasma da sola e che pian piano dà origine a un essere ogni volta unico.
Questi nove mesi sono il riassunto dell'evoluzione della vita sulla Terra: partendo
da una cellula che vive in assenza di ossigeno, l'embrione attraversa vari stadi di
complessità, con "accenni" alle varie tappe evolutive, fino ad approdare al modello
finale dell'essere umano, dotato di un cervello strabiliante.
E' una storia nascosta, che si dipana nel mondo invisibile dell'utero, e che nessun
uomo ha mai potuto osservare. Oggi la ricerca, in base alle scoperte che stanno
avvenendo nei laboratori di tutto il mondo, ci permette di penetrare nell'universo
segreto dell'embrione e di capire che cosa veramente vi succede.
Ma è anche la storia dei nove mesi visti dalla parte della madre. Al "piano di
sopra", infatti, la madre vive questo evento in parallelo: e oggi si riesce a
comprendere il perché di tanti avvenimenti che si producono in gravidanza. Il
corpo della madre, infatti, in quei nove mesi si trasforma per creare l'habitat giusto,
mentre fiumi di ormoni si riversano nei suoi vasi sanguigni per stimolare
adattamenti di ogni tipo: nasce la placenta, il seno si predispone all'allattamento, il
cuore pompa quasi il 50% in più di sangue e anche il comportamento subisce
l'influenza di questa tempesta di cambiamenti.
Tutto converge poi nel grande evento finale: la nascita. Nel giro di qualche minuto
questo nuovo essere passerà dalla vita subacquea a quella terrestre, dal buio pesto
alla luce abbagliante, dal caldo costante della vita interna alla varietà delle
temperature esterne; mentre la madre compie quel prodigioso exploit fisico che è il
parto.
La teoria della generazione spontanea della vita, già espressa da Aristotele nel III
sec. a. C., pur avendo goduto di largo seguito per quasi duemila anni è stata
definitivamente confutata, nel 1863, da Louis Pasteur, che ha dimostrato come
qualsiasi forma di vita, anche la più microscopica, non può che originarsi da altra
vita. Ma è sempre stato così?
Un approccio di tipo "abiogenetico" (vita originata dalla non vita) sembra essere
indispensabile almeno per caratterizzare le prime fasi di sviluppo del fenomeno.
Infatti, tutte le teorie attuali cercano di definire uno scenario inorganico, all'interno
del quale collocare elementi chimici primordiali dalle cui interazioni il fenomeno
può aver avuto origine. A questo approccio "abiogenetico" è necessario, tuttavia,
aggiungere la coscienza dell'esistenza di una fenomenologia "evolutiva" che solo
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recentemente è stata acquisita. Tale coscienza consente, infatti, di immaginare una
"vita in evoluzione" non statica e immutabile (teorie fissiste), una vita che nasce e
si sviluppa, una vita che cambia nel corso di un tempo enorme. Il merito di aver
offerto alla Scienza un'organica teoria evolutiva e di aver individuato per essa un
meccanismo immanente (Selezione Naturale) mediante il quale tale evoluzione
avrebbe potuto avvenire, va attribuito al genio di un naturalista inglese, Charles-
Robert Darwin (1809-1892).
Nella visione evoluzionista (visione che ha avuto, nel frattempo, notevoli sviluppi
sia concettuali che sperimentali) la vita sulla Terra non si manifesta attraverso
forme immutabili e statiche, ma in forme dinamiche e mutevoli. Nel corso di un
tempo enorme (della cui vastità non si è avuta coscienza fino al XIX secolo) queste
forme sono cambiate, diversificate, via via modulandosi sempre più all'ambiente
chimico-fisico che le accoglie, anch'esso caratterizzato da un estremo dinamismo.
Ma in che modo la vita può riaffermare la propria esistenza in un ambiente
mutevole che può rendere limitante quello che ieri era premiante e viceversa?
Attraverso la sua capacità di offrire, generazione dopo generazione, varianti di se
stessa, varianti in grado di proporsi come ulteriori alternative di vita all'ambiente.
La valenza adattativa, in termini di sopravvivenza, di queste varianti viene
sottoposta al vaglio della Selezione Naturale, vero motore evolutivo, che seleziona,
tra le innumerevoli variabili, solo le più idonee a cui viene consentito di
sopravvivere e di svilupparsi fino a quando le variazioni indotte nell'ambiente dalle
leggi chimico-fisiche e dalla stessa attività biologica non imporranno un nuovo
mutamento (appare chiaro, in tale contesto, l'enorme importanza, in termini
evolutivi, della riproduzione sessuale). In questo continuo inseguimento la vita
cambia, potendo raggiungere livelli strutturali e funzionali di sempre maggiore
complessità o comunque di equilibrio rispetto alla pressione selettiva.
Ripercorrendo a ritroso questo processo, seguendone le tracce nella
documentazione fossile, nella dinamica geologica della Terra, nelle strutture e
nella funzionalità che caratterizzano le forme viventi attuali, ci accorgiamo che la
vita si è mossa lungo linee filetiche che legano tra loro tutti gli organismi viventi e
che convergono in un punto che rappresenta la prima manifestazione del
fenomeno. La visione evoluzionistica, quindi, ci costringe a risalire nel tempo
verso forme di vita sempre più semplici e questo ci conduce necessariamente alla
scoperta, almeno sul piano concettuale, della prima "cellula vivente".
Tuttavia, una tale conquista concettuale impone di considerare anche una serie di
paradossi di non facile soluzione, che ricordano un po' quello famoso dell'uovo e
della gallina. Se spingiamo lo sguardo fino al limite di ciò che noi chiamiamo vita,
cioè le più semplici strutture biologiche in grado di esprimere il fenomeno,
osserviamo che questa struttura vivente (ad esempio un batterio) presenta
comunque una funzionalità metabolica e genetica molto complessa, che si basa sul
possesso di molecole organiche essenziali ma che sono esse stesse il frutto di tale
funzionalità. Zuccheri, grassi, proteine, acidi nucleici sono attualmente fabbricati
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solo da sistemi viventi: come sono potuti comparire prima dei sistemi viventi di cui
rappresentano la struttura o il prodotto funzionale? Sappiamo che gli organismi
animali (eterotrofi) non sono in grado di sopravvivere senza gli alimenti sintetizzati
dalle piante (autotrofi); sembrerebbe quindi legittimo cercare l'origine della vita tra
i vegetali primitivi (alghe autotrofe). Questi organismi, tuttavia, necessitano di un
sistema di estrazione dell'energia solare e di un sistema di utilizzazione di questa
energia estremamente complicato, per essere considerato nel corredo funzionale
dei primi viventi. Inoltre, l'elemento essenziale a tale processo è la clorofilla, altro
prodotto di esclusiva sintesi dei viventi.
Tutte le attuali reazioni vitali sono regolate da enzimi, a loro volta informati dal
DNA, a sua volta montato da enzimi: chi è stato il primo? Tenendo conto di tutti
questi paradossi e della visione evoluzionistica, negli anni Trenta il biochimico
russo Alexsandr Ivanovic Oparin e il biologo inglese John Burdon Sanderson
Haldane formularono la prima delle cosiddette "teorie chimico-biologiche",
secondo le quali la vita si è sviluppata sul nostro pianeta per evoluzione a partire da
molecole non biologiche. Nella loro teoria i due studiosi cercarono di superare
molti dei circoli viziosi prima esposti.
Bisogna ricordare che l'evoluzione biologica, cioè la nascita e lo sviluppo della vita
sulla terra, è stata preceduta dalla evoluzione cosmica, la trasformazione che ha
dato vita al nostro sistema solare.
Secondo calcoli geochimici il sistema solare e quindi i pianeti si sono formati circa
4,6 miliardi di anni fa.
Probabilmente, all’inizio la Terra era una massa omogenea fredda; ma il calore
sviluppato dalla sua contrazione e dal decadimento degli elementi radioattivi ne
rese l’interno sempre più denso e caldo e intorno ai quattro miliardi di anni fa, era
ormai diventata una sfera infuocata ricoperta solo da una sottile crosta solida.
Con la liberazione dei gas che si erano formati nella massa fusa, cominciò a
formarsi una primitiva atmosfera, la cui composizione probabilmente era simile a
quella dei gas che ancora oggi fuoriescono dai vulcani: idrogeno, vapore acqueo,
idrocarburi semplici come il metano, idrogeno solforato, anidride solforosa,
monossido di carbonio e anidride carbonica. Questa primitiva atmosfera era quasi
certamente priva di ossigeno libero; l’ossigeno era presente soltanto in composti
chimici quali l’acqua e l’anidride carbonica, e nelle rocce silicee. Era quindi
un’atmosfera riducente, un fatto che ha favorito la nascita della vita. Infatti, molte
molecole biologiche, tra cui gli amminoacidi e i nucleotidi, non possono formarsi
spontaneamente in presenza di ossigeno, dato che questo elemento reagisce con
esse e le modifica chimicamente.
Inizialmente il vapore acqueo non faceva in tempo a condensare che il calore
intenso la faceva rievaporare immediatamente. Col tempo la crosta terrestre si
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raffreddò e la pioggia cominciò a estrarre sali minerali dalle rocce e ad accumularsi
nelle depressioni della crosta formando così i primitivi oceani.
E negli oceani si è formata la prima cellula, e dalla prima cellula i primi organismi
viventi fino all'uomo con la sua coscienza.
L'ultima cosa che l'uomo scopre è sé stesso. E' una verità strana, eppure universale,
che la sete umana della conoscenza debba cominciare da quello che è ; più lontano
e finire con quello che è più vicino. L'uomo primitivo ha studiato i cieli, ma
soltanto l'uomo moderno comincia ad esplorare i misteri della propria anima.
Moltissimi uomini sono un mistero per sé stessi; molti sono perfino inconsci della
esistenza del mistero. Se noi dovessimo domandare ad un uomo comune che cosa
sia lui, l'essere umano vivente che accada quando egli pensa, sente, agisce; e quale
sia la causa della lotta fra il bene e il male, che egli pur sente entro il suo petto, non
solo egli non saprebbe rispondere, ma le domande stesse gli apparirebbero strane e
nuove. Eppure, che cosa è più strano del fatto che un essere umano possa
attraversare la vita, sopportarne le vicissitudini, soffrirne le miserie, comuni a tutti
gli uomini, goderne i caduchi piaceri, portarne il perpetuo fardello, senza mai
chiedere perché? Se noi vedessimo un uomo viaggiare con grande incomodo e
numerose difficoltà, e se chiestogli dove vada ci sentissimo rispondere che questa
domanda non gli si è mai affacciata alla mente, lo riterremmo certamente pazzo.
Eppure, questa è precisamente la condizione della maggioranza degli uomini nella
vita comune. Essi compiono il viaggio dalla vita alla morte, si arrabattano nel
faticoso cammino della vita, e non chiedono mai perché, o tutt'al più si pongono
superficialmente il problema, senza curarsi poi in realtà di trovare una risposta. Ma
viene per ogni anima, nel suo lungo peregrinare, il momento in cui la vita diventa
impossibile se non ne conosce il perché; delusa del mondo circostante che non può
mai darle una soddisfazione durevole, essa desiste per un momento dal frenetico
inseguimento delle illusioni, e completamente esausta si ferma, silenziosa e sola. In
quel punto è nata nell'anima la coscienza di un nuovo mondo; in quel punto,
stornando il viso dal fascino del mondo circostante, essa scopre la sempiterna
realtà del mondo interiore, del mondo dell'Io. Allora, e soltanto allora, le domande
della vita trovano risposta; però, come dice Emerson, l'anima non risponde mai con
parole, ma con la stessa cosa richiesta.
Viviamo in un'epoca di estremismi e di contrasti impressionanti in cui le più
straordinarie scoperte scientifiche nel Regno Materiale coincidono con quelle
ancora più sorprendenti del futuro della Coscienza. Ma se le prime sembrano reali
scoperte, le seconde non sono altro che riscoperte della Conoscenza degli Antichi.
Infatti realizziamo poco alla volta che gran parte di questa conoscenza scartata dai
razionalisti come semplice superstizione, non può essere ignorata o negletta in
modo così sistematico e che i fenomeni supernormali (paranormali), prima
attribuiti all'intervento sporadico della divinità, erano solo manifestazioni di forze
naturali, in mano a coloro che le sapevano manipolare o facoltà percettive ancora
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sopite nella maggior parte degli uomini. Così, quello che una volta era chiamato
con devozione "miracolo", è oggi considerato più freddamente come un caso di
chiaroveggenza, chiarudienza, mesmerismo ipnotico, guarigione metafisica o
magnetica, secondo le circostanze. L'uomo ha scoperto che queste facoltà sono in
lui e possono essere, in parte, sia ereditate sia scientificamente sviluppate grazie
agli insegnamenti di un maestro qualificato. In tal caso è possibile provare a se
stesso con le sue proprie percezioni l'esistenza dei piani superfisici, stati superiori
di coscienza, delle molteplici entità disincarnate e dei numerosi poteri e
potenzialità di cui aveva, fino ad allora, ignorato l'esistenza. Attendendo di
possedere queste facoltà, fa dipendere la sua conoscenza dalla testimonianza di
coloro che le hanno acquisite, nello stesso modo in cui accetta come vere le
testimonianze scientifiche degli scienziati sull'astronomia, o altri fenomeni
scientifici che non ha il desiderio o la possibilità materiale di scoprire da solo. In
una parola la scienza occulta è, nel minimo dettaglio, altrettanto scientifica di
quella della materia ed il fatto che ci siano occultisti mediocri, indifferenti o
fraudolenti non può rimettere in ogni modo in causa la Verità stessa.
Oggi viviamo nel mezzo di una delle più profonde, e certamente più veloci,
trasformazioni della storia dell'umanità.
All'alba del prossimo secolo quasi tutti gli aspetti e le attività della vita umana
saranno esercitati all'interno di interazioni globali, di mercati globali, di tecnologie
globalmente efficienti e informazioni circolanti in un sistema globale. Vivere e
agire nelle nuove condizioni comporterà pertanto un diverso modo di agire e di
pensare. Anche a causa della velocità con la quale l'era prossima sta irrompendo su
noi, nella nostra generazione e nella generazione dei nostri figli non si sono ancora
evoluti la logica, i valori e le pratiche necessari. Nella maggior parte dei casi
stiamo per ora cercando di fronteggiare le condizioni della emergente società del
XXI secolo con le forme di comportamento del sistema industriale del XX secolo.
Questo, tuttavia, equivale al tentativo di vivere nelle città industriale degli anni 90
con la forma mentis dei villaggi feudali del Medioevo. È insufficiente e, a causa
della vulnerabilità delle nostre temporanee strutture sociali ed ecologiche, perfino
pericoloso. Il pericolo riguarda tutti noi. Ecco perché la maieutica strutturale oggi,
come resa concreta dai gruppi attivi, è essenziale. Non si può risolvere un
problema fondamentale con il modo di pensare che ha originato il problema. Come
ha detto Einstein. Non possiamo raggiungere la prossima tappa della nostra
evoluzione collettiva senza dare origine a un nuovo modo di sentire e di agire. Far
nascere è un processo difficile e spesso doloroso: è necessario aiutarlo con una
pratica " maieutica ". Abbiamo bisogno di una percezione del mondo e di noi stessi
integrata. Il compito epocale che ci aspetta e di fare evolvere modi di vivere e di
agire che siano appropriati all'era delle informazioni diffuse globalmente, nella
quale siamo tutti proiettati. Questi, a loro volta, dipendono da corrispondenti nuovi
modi di pensare. E non solo modi di pensare, perché non siamo solamente creature
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razionali. Essi dipendono anche dai sentimenti e dalle intuizioni, dai modi di
percepire noi e gli altri. Non possiamo ritornare a quelli del passato: un essere
umano si definisce nelle relazioni con la natura e con la società contemporanea. La
società, la natura stessa si evolvono, cambiano e si trasformano. Dobbiamo
riscoprire la nostra umanità, la nostra identità e il nostro ruolo. Il metodo strutturale
maieutico aiuta le persone, specialmente i giovani la cui generazione non può più
evitare e ignorare il compito epocale di tener fede alle trasformazioni che sono in
divenire, a identificare se stessi, a conquistare la giusta fiducia in sé e nel proprio
ruolo. Ciò è vitale per tutti noi. Evolvere la conoscenza e l'intuito che può dare
origine a modi di vivere e di agire efficienti e responsabili è l'immane compito dei
nostri tempi: aiutare la nostra e la futura generazione a dare alla luce il nuovo
pensare, sentire, percepire. Nella nostra epoca che si avvia alla comunicazione a
livello mondiale, nuove idee e valori si diffondono rapidamente nei cinque
continenti, malgrado le resistenze inerziali: essi corrispondono a un bisogno
profondamente sentito nella società. I giovani insoddisfatti dei credi e delle forme
tradizionali di esistenza, sono in cerca di modi di costruire la vita più significativi
ed efficienti. Il mondo contemporaneo è maturo per un importante passo avanti
nella sua coscienza collettiva. Il comunicare autentico, il processo strutturale
maieutico, come la scienza e la cultura, sono fattori profondamente influenti nel
raggiungere il prossimo stadio dell'evoluzione collettiva.
L’acqua è sempre stata una risorsa preziosa ed indispensabile per la vita dell’uomo
e di ogni essere vivente. Solo dove c’è acqua c’è vita nell’universo conosciuto.
Nella cultura primitiva l’acqua fu considerata il principio femminile della fertilità.
Talete di Mileto (624 - 546 a.C), il primo che iniziò la riflessione scientifico-
filosofica sulla natura che è tutt’oggi alla radice della tradizione culturale Europea,
designò l’acqua quale elemento primordiale, in quanto l’acqua spenge il fuoco,
scioglie la terra e assorbe l’aria, ed inoltre in seguito alla considerazione che ogni
altro elemento che combinandosi con l’acqua dà luogo ad ogni essere del sistema
vivente, doveva esso stesso essere originato dall’acqua, da quest’ultima infatti
nasce la vita, così nel mare come nel grembo della madre.
Le manifestazioni che associano alla sacralità dell’acqua e quindi del mistero che
la correla strettamente alla vita, sono molte in tutto il mondo ed in tutte le culture
antiche e recenti. Purtroppo oggigiorno spesso si è persa memoria del loro antico
significato rituale e propiziatorio che generava un rispetto per l’acqua e la sua
decisiva importanza per la vita.
La proprietà del ghiaccio di galleggiare sull’acqua liquida è decisamente
importante per il mantenimento della vita sulla terra, perché‚ le superfici
ghiacciate, galleggiando, tengono protetti gli strati sottostanti da successivi
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raffreddamenti, così che essi rimangano liquidi; pertanto diviene possibile il
perpetuarsi della vita acquatica sotto lo strato di ghiaccio superficiale.
Per capire la importanza dell'acqua bisogna infatti pensare che gli esseri viventi,
noi compresi, sono fatti in gran parte di acqua. Gli esseri viventi primitivi sono
formati da piccole cellule, chiuse entro una membrana, nella quale la percentuale
di acqua è oltre il 98%; i primi animali sono stati probabilmente simili alle attuali
"meduse", la cui composizione ‚ di circa il 95% di acqua. Le piante hanno anche
esse una alta percentuale di acqua nelle loro composizione, (in media l'80%) e gli
animali che hanno uno scheletro, (ed anche l'uomo) hanno una composizione
media nella quale l'acqua e circa il 70 %.
L'acqua‚ quindi una sostanza importantissima per la vita sulla terra, ma la scienza
non è ancora riuscita a capire completamente le relazioni tra l'acqua e la vita.
Possiamo quindi dire che l'acqua per molti aspetti è ancora un mistero per la
scienza. Certamente sappiamo noi come gli antichi che dove non c'è acqua non c'è
vita.
Nel 1997 il satellite ISO ha puntato i suoi occhi verso la Nebulosa di Orione,
distante 1500 anni-luce. L'analisi dei dati rilevati è stata terminata solo nel 2001 ed
ha portato a conclusioni sorprendenti. La sorpresa è arrivata dalla rilevazione di
alcune righe infrarosse in emissione (spettro elettromagnetico) del vapore d'acqua.
La quantità rilevata corrisponde a circa una molecola di acqua ogni 2000 di
idrogeno, ovvero una quantità 100 volte superiore a tutta quella esistente sulla
Terra.
Gli studi compiuti dalle osservazioni dei satelliti SWAS e ISO portano alla tesi che
l'acqua esiste sicuramente nelle nubi diffuse che ospitano la nascita di nuove stelle
come la regione di Orione.
La scoperta dell'acqua avviene anche nelle protostelle (le stelle in formazione) sia
di grandi dimensioni che di piccole dimensioni. All'interno di oggetti protostellari
massicci è stata rilevata la presenza di righe di assorbimento del vapore d'acqua
eccitato a 30° C. E' probabile che a surriscaldare l'ambiente gelido spaziale sia stata
la collisione tra il materiale circostante la protostella e i getti emergenti dal suo
asse polare. L'onda d'urto avrebbe innescato la produzione di una grande quantità
d'acqua quantificata in 1 molecola ogni 10.000 molecole di idrogeno.
Se la componente dell'acqua nelle nubi calde o nelle protostelle è in prevalenza
sotto forma di vapore, la componente presente nelle nubi interstellari fredde (le
stelle che potrebbero dare vita a nuove stelle) è totalmente sotto forma di ghiaccio.
Le analisi dei dati rilevati da altre ricerche effettuate nel 2001 hanno rivelato che
l'acqua sotto forma di ghiaccio è presente nella stessa quantità che nelle nubi
protostellari. In termini pratici è stato calcolato che per una nube fredda di medie
dimensioni c'è una massa d'acqua sufficiente a 3000 pianeti come la Terra.
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Nella formazione di un eventuale sistema planetario ci sarà sempre acqua a
disposizione che in parte si distribuirà nella parte interna dei pianeti privilegiati e
in parte si conserverà in forma primordiale all'interno di oggetto che non subiranno
evoluzioni come comete, asteroidi e meteoriti.
Gli studi dell'origine della vita sulla Terra ci dicono quasi con certezza che i primi
organismi viventi si sono sviluppati nei mari e i primi organismi complessi si sono
allontanati emergendo dalle acque ed occupando le terre costiere per divenire
organismi terrestri.
Come è potuto accadere tutto ciò?
Per comprendere i processi e i sistemi della natura e per osservare gli organismi
che attivano tali processi, si è visto come il vero motore che innesca i processi
vitali sulla Terra sia il Sole. Questa stella emette diverse radiazioni luminose sia
visibili al nostro occhio sia invisibili. Tra queste ultime ci sono le radiazioni o
raggi ultravioletti, estremamente dannosi per la struttura di tutti i viventi.
Attualmente questi raggi arrivano in misura assai ridotta sulla Terra perché
vengono in gran parte assorbiti dall'ossigeno e dall'ozono presenti nell'atmosfera.
La diminuzione di questo gas O3 nella nostra atmosfera, il cosiddetto buco d'ozono,
causato dal fenomeno dell'inquinamento atmosferico provoca oggi molte
preoccupazioni per i danni che può causare alla salute dell'uomo.
All'inizio della storia della Terra l'atmosfera era priva di ossigeno, perché le piante,
con la loro attività di fotosintesi clorofilliana, non avevano contribuito ad
arricchirla di questo prezioso gas e ciò rendeva la Terra assolutamente inabitabile
per tutti gli organismi. L'acqua, a differenza dell'atmosfera, assorbe i raggi
ultravioletti rendendo possibile la vita subacquea. Queste considerazioni e la
conferma sperimentale, avuta dal ritrovamento di reperti di organismi marini,
hanno suggerito agli scienziati che la vita è proprio iniziata nei mari, a profondità
tali da poter essere raggiunte dalla luce del Sole, che a sua volta, attivando la
fotosintesi clorofilliana, rendeva possibile la vita ai primi organismi vegetali.
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nostro cielo; eppure questo nostro organismo incredibilmente sofisticato si realizza
da una scintilla microscopica, in soli nove mesi!
Che dire del magnifico progetto insito nelle cose che vediamo tutt’attorno a noi
sulla terra, come ad esempio in tutti gli organismi viventi, anche nella più piccola
cellula vivente? Perfino le molecole e gli atomi, molto più piccoli, che si trovano
all’interno della cellula sono progettati e organizzati in maniera meravigliosa. Che
dire poi della mente umana, progettata così splendidamente? E ancora, che dire del
sistema solare, e della nostra galassia, la Via Lattea, e dell’universo?
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nella loro struttura”. “È a livello molecolare che . . . il genio del disegno biologico
e la perfezione degli obiettivi raggiunti sono più pronunciati”.
Denton dice inoltre: “Ovunque guardiamo, a qualsiasi livello guardiamo, troviamo
un’eleganza e un’ingegnosità di qualità assolutamente superiore, che tanto
indebolisce l’idea del caso. Si può veramente credere che processi fortuiti abbiano
costruito una realtà il cui elemento più piccolo — un gene o una proteina
funzionale — è di una complessità che va oltre le nostre proprie capacità creative,
una realtà che è l’antitesi stessa del caso, che supera in ogni senso qualsiasi cosa
prodotta dall’intelligenza dell’uomo?” E aggiunge: “Tra una cellula vivente e il
sistema non biologico più altamente organizzato, come un cristallo o un fiocco di
neve, esiste l’abisso più vasto e assoluto che si possa concepire”. Chet Raymo,
professore di fisica, dichiara: “Sono affascinato . . . Ogni molecola sembra
miracolosamente ideata per il suo compito”.
L’uomo comune sfiora solamente le complessità della vita. Questo non vuol dire
che egli eviti le complessità, vuol dire che le subisce senza conoscerle.
Di fronte al mistero della Vita e della Morte a chi dobbiamo rivolgerci? Non
possiamo fidarci delle religioni organizzate poiché esse proibiscono la ricerca in
questo settore.
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Prima di tutto dobbiamo decondizionarci, cioè arrivare a zero poiché adesso siamo
sotto zero. Poi quando siamo arrivati a zero dobbiamo osservare la Realtà e trarre
le nostre conclusioni.
Nessuno nasce libero. L’uomo nasce schiavo di ignoranza, miseria, malattie,
parassiti. Anche quello che chiamiamo educazione è solo una rete avvolgente di
condizionamenti, convenzioni, superstizioni, obblighi, divieti.
Il ricercatore deve distruggere tutti questi condizionamenti e, sulle loro rovine,
costruire la sua vera personalità con la propria visione della Realtà.
Conoscenza vuol dire liberazione. Solo la conoscenza ci rende liberi.
Prima di fare qualsiasi teoria sulla Vita, bisogna osservare la Vita in tutti i suoi
aspetti: sani e malati, vecchi e giovani, belli e brutti, fortunati e disgraziati, deboli e
potenti…
Stabiliamo una scala di credibilità o validità dei dati raccolti. Fidiamoci delle
nostre esperienze ripetute. Fidiamoci meno di una esperienza avvenuta una sola
volta nella vita. Fidiamoci ancor meno del racconto di una esperienza di un
familiare. Diffidiamo dell’esperienza di un estraneo. Diffidiamo dell’esperienza di
un estraneo raccontata a un altro estraneo e poi riferita a noi. Possiamo fidarci degli
estranei quando: molti testimoni, che non si conoscono fra loro, concordano nel
riferire un fatto; quando il resoconto non è l’apologia di religiosi o politici; né
proviene da fonti religiose o politiche.
Molto spesso prendiamo un fatto raccontato come vero solo perché si confà al
nostro modo di vedere e giudicare le cose e invece consideriamo falso un fatto che
ci costringe a rivedere le nostre convinzioni. È normale, tutti lo fanno, è un modo
di procedere che ci consente di risparmiare tempo ed energie, ma così facendo
forse perdiamo l'occasione di conoscere la verità.
La Verità non ha bisogno di pulpiti altisonanti che ci rassicurano con la loro
autorità, molto spesso intuiamo la verità osservando la realtà con gli occhi semplici
e disincantati di un bambino.
Un semplice fatto che accade proprio a noi ci può essere di grande insegnamento,
una esperienza che ci convince che non tutto può essere spiegato dalla ragione ma
che esiste un piano diverso di realtà, che gli schemi interpretativi sono limitati e
che esiste un ampio margine per l'ignoto.
Che l'uomo esulta quando trova un sasso più levigato in riva a un mare inesplorato.
Dalla fine degli anni’80 - gli atti del primo storico convegno internazionale, a cura
di Charles G. Langton, Artificial Life, Reading (Mass.), Addison-Wesley, sono del
1989 - l’apporto della vita artificiale è stato importante dal punto di vista teorico.
Ha messo in discussione l’idea dominante che la vita risieda nella sostanza di ciò
che consideriamo “vivo”, nella costituzione fisica degli organismi, estendendo il
concetto di “vita”.
Prima della vita artificiale, dato che non si conoscevano altre forme di vita che
quelle presenti sul nostro Pianeta e dato che tutte queste sono di tipo organico (cioè
basate su composti del carbonio), si riteneva che la vita potesse essere fondata solo
sulla presenza del carbonio, cioè sulla costituzione fisica degli esseri definiti
“viventi” (detto in termini bruti: sull’hardware). Era la materia di cui erano fatti gli
organismi che definiva la vita. Gli studi sulla vita artificiale e le applicazioni che
ne sono derivate hanno invece generato nei computer creature che soddisfano i
principi fondamentali della vita (nascere, crescere, riprodursi, morire...) ma che
non sono di tipo organico, che sono fondate su algoritmi (in termini altrettanto
bruti: sul software).
La vita non è dunque basata sulla composizione fisica, sulla materia degli
organismi viventi (l’hardware) bensì, a livello più generale, sulle istruzioni che li
governano (il software), sul programma biologico/genetico che ne regola la
costituzione fisica e, conseguentemente, ne fonda l’esistenza e il comportamento.
La vita non risiede nei materiali ma sono i meccanismi e i processi a determinare il
discrimine tra la vita e gli altri fenomeni naturali.
Il mito del golem ha radici profonde nella storia del pensiero e dei manufatti
dell'umanità.
Il nome GOLEM appare una sola volta nella Bibbia al verso 16 del salmo 138: " I
Tuoi occhi videro il mio golem..." dove il termine sta a indicare l'embrione umano,
l'esistenza imperfetta prima della creazione . Dal XII secolo i testi cabbalistici
alludono alla possibilità di scimmiottare l'opera divina simulando la creazione di
Adamo dal fango con un fantoccio d'argilla che, attraverso riti magici, poteva
animarsi ad una vita fittizia e robotica. Solo un secolo dopo i cabbalisti tedeschi
parlano di due mistici che hanno creato un uomo sulla cui fronte era scritta la
parola verità emet che lo animava . Cancellando la prima lettera restava met, cioè
morto, e l'automa crollava a terra inanimato. Nel Rinascimento si trova cenno del
golem in testi alchemici, in questo caso si parla di un piccolo uomo creato in una
storta o in un vaso. Il riferimento più noto è quello dell'Humunculus di Paracelso,
di cui farà menzione Goethe in una versione del suo Faust. Sul finire del XVII
secolo in Germania si diffonde la GOLEMLEGENDE che ha per protagonisti
quasi sempre rabbini e cabbalisti capaci di creare degli automi per essere aiutati nei
lavori domestici. Tale impresa venne pure attribuita a Sant'Alberto Magno. Nel
1808 Jacob Grimm elabora in forma romanzesca la leggenda ormai popolare del
golem costruito dal cabbalista e mago rabbi Loew (1515-1609) nella Praga di
Rodolfo II d'Asburgo, imperatore appassionato d'esoterismo e d'astrologia. In
questa versione il fantoccio d'argilla cresce a dismisura fino a minacciare chi lo
aveva creato. Il golem diviene quindi il punto di partenza per una variante del mito
antichissimo dell'apprendista stregone che già Luciano di Samosata riprese da fonti
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egizie nel Philopseudes. Sotto questo aspetto il golem diviene simbolo della
tecnica moderna e viene sfruttato da Achim von Arnim e da Hoffmann. La
filiazione più nota del golem in questo filone del romanzo gotico è senza dubbio il
Frankenstein di Mary Shelley pubblicato nel 1818. Una versione più moderna del
golem lo vede addirittura costruito come una specie di androide. Per l'esattezza si
sta parlando della novella di U.D. Horn (Der Rabby von Prag, 1842) e del libretto
di F.Hebbel per il dramma musicale di Rubinstein Ein Steinwurf (1858). In questo
caso il golem viene rappresentato come un uomo-macchina di legno con un
meccanismo ad orologeria all'interno della testa. Il rabbino lo ricarica tutte le
domeniche e l'automa si mette a vivere. Il venerdì preme su una molla e lo ferma.
Chiaramente un giorno la molla si guasterà e il golem, secondo la sua tradizionale
vocazione, si rivolterà al suo creatore. Solo nel 1915 esce Der Golem, il romanzo
dello scrittore e occultista praghese Gustav Meyrink .Recentemente ripubblicato,
ebbe una fortuna tale da rendere internazionale l'antico mito. La lettura che
Meyrink fa del golem rivela una sicura conoscenza, oltre che della mistica e
dell'esoterismo, del lavoro di Freud e Jung. Le allusioni costanti al sogno, alla
follia, all'allucinazione rinviano molto chiaramente alle teorie psicoanalitiche. La
figura stessa del Golem è nel romanzo di Meyrink una proiezione dell'inconscio
collettivo degli abitanti del ghetto. Pensieri, sentimenti, stati alterati della coscienza
che prendono forma e si animano in un'ambigua e sinistra creatura.
Nell'era moderna il mito del golem si incarna nel robot, nell'androide, costruzioni
dell'uomo che cercano di carpire il segreto della vita.
In molti film di fantascienza i robot si ribellano al loro creatore e cercano di
soppiantare l'uomo nel proseguo dell'evoluzione della vita sul pianeta Terra.
Un futuro inquietante in cui le macchine diventano coscienti di sé e competono con
l'uomo per i dominio del pianeta, e, ovviamente, sono dotate di potenzialità
immensamente superiori a quelle della debole natura umana.
Le macchine non mangiano, non dormono e sono dotate di una logica ferrea. Il
loro corpo è costituito di ferro e silicio e i loro muscoli sono di acciaio, non hanno
bisogno dell'ossigeno, di acqua, delle piante, degli animali; il loro potere sembra
smisurato, possono viaggiare nello spazio siderale.
Ma un robot può avere una coscienza?
Se anche, un giorno, un robot prendesse coscienza di sé, noi, solo osservandolo,
non potremmo mai sapere se è cosciente oppure no.
Potrebbe dirci: "Cogito ergo sum" ma questo non sarebbe sufficiente, noi non
potremmo mai sperimentare i suoi stati mentali così come non possiamo entrare
nella testa di nessuno, e non essendo, il robot, biologicamente simile a noi non
potremmo nemmeno ipotizzare che esso possegga stati mentali simili ai nostri.
E siccome nella costruzione di un robot non utilizziamo alcun principio che possa
portare alla coscienza, così sembra inverosimile che tale proprietà possa emergere
spontaneamente nel robot.
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La coscienza è un mistero non investigabile dalla scienza galileiana.
Si possono fare solo delle ipotesi più o meno verosimili.
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Ho detto che la discesa analitica dai livelli superiori ai loro sussidiari di solito è
fattibile in qualche misura, mentre l’integrazione di elementi di un livello inferiore
tanto da predire il loro possibile significato in un contesto superiore può andare
oltre l’ambito delle nostre capacità di integrazione. Posso ora aggiungere che le
stesse cose possono apparire dotate di un significato congiunto se viste da un certo
punto di vista, ma prive invece di questa connessione se viste da un altro punto di
vista. Da un aeroplano possiamo vedere le tracce di siti preistorici che, lungo i
secoli, sono passate inosservate da parte delle persone che ci passavano sopra; in
effetti, una volta atterrato, lo stesso pilota può non vedere più queste tracce.
La relazione della mente con il corpo ha una struttura simile. Il problema mente-
corpo nasce dalla disparità fra l’esperienza di una persona che osserva un oggetto
esterno, per esempio un gatto, ed un neurofisiologo che osserva il meccanismo
corporeo mediante il quale la persona vede il gatto.
La differenza nasce dal fatto che una persona posta all’interno del suo corpo ha una
conoscenza a partire da delle risposte corporee evocate dalla luce nei suoi organi di
senso, e questa conoscenza a partire da integra il significato congiunto di queste
risposte a formare la visione del gatto; mentre il neurofisiologo che guarda a queste
risposte dall’esterno ha solo una conoscenza a di esse che, come tale, non è
integrata nella visione del gatto.
Questa è la stessa dualità che esiste fra l’aviatore e il pedone nell’interpretare le
stesse tracce; ed è anche la stessa che esiste fra una persona che, quando legge una
frase scritta, vede il suo significato ed un’altra persona che, essendo ignorante del
linguaggio, vede solo lo scritto. La mente è il significato di certi meccanismi
corporei; essa è persa di vista quando guardiamo ad essi in modo focale.
La consapevolezza della mente e del corpo ci pone quindi di fronte due cose
differenti. Grazie all’esistenza di due tipi di consapevolezza – la focale e la
sussidiaria – possiamo distinguere nettamente fra la mente come un’esperienza da-
a ed i sussidiari di quest’esperienza quando sono visti in modo focale, come un
meccanismo corporeo. Possiamo allora vedere che, sebbene radicata nel corpo, la
mente è libera nelle sue azioni – esattamente come il nostro senso comune sa che
essa è libera. La mente imbriglia meccanismi neuro-fisiologici; sebbene essa
dipenda da essi, non è determinata da essi.
Inoltre, la stessa mente include una sequenza ascendente di principi. Le sue
funzioni appetitive ed intellettuali sono trascese da principi di responsabilità. Così
lo sviluppo dell’uomo fino ai suoi livelli più elevati appare avere luogo lungo una
sequenza di principi crescenti. E vediamo questa gerarchia evolutiva costruita
come una successione di confini, ciascuno rivolto verso realizzazioni superiori
imbrigliando gli strati al disotto di esso, cui essi stessi non sono riducibili. Questi
confini controllano una serie crescente di relazioni che possiamo comprendere solo
essendo coscienti delle loro parti costitutive in modo sussidiario, riferendole al
livello superiore al cui servizio esse sono.
68
Il riconoscimento di certe impossibilità di base ha posto i fondamenti di alcuni
principi fondamentali della fisica e della chimica; in modo simile, il
riconoscimento dell’impossibilità di comprendere gli esseri viventi in termini di
fisica e di chimica, lungi dal porre limiti alla nostra comprensione della vita, la
guiderà nella direzione giusta. Ed anche se la dimostrazione di questa impossibilità
dovesse risultare di non grande vantaggio per lo sviluppo della ricerca, essa
aiuterebbe a disegnare un’immagine della vita e dell’uomo più vera di quella che
presentano le attuali concezioni di base della biologia.
Se diamo per scontato che ogni cosa che ha avuto un'origine è destinata ad avere
anche una fine, dobbiamo dedurre che la morte è parte costitutiva della vita
dell'universo.
In che modo però si può trarre la conclusione che, siccome anche l'universo ha
avuto un'origine, anch'esso è destinato a finire? E' possibile cioè credere che la
morte sia una legge dell'universo che non minaccia la sopravvivenza dell'universo
stesso?
Oppure dovremmo essere portati ad affermare il contrario, e cioè che l'attuale
configurazione dell'universo è strettamente correlata alla conformazione della terra,
per cui il destino dell'universo e della terra è analogo?
E' cioè possibile ipotizzare l'idea che, essendo la terra un prodotto "finale"
dell'universo, la sua evoluzione è interdipendente, strettamente interconnessa, con
quella dell'universo? E che pertanto la morte dell'attuale conformazione del nostro
pianeta coinciderà con la morte dell'attuale configurazione dell'universo?
In una parola: la morte inevitabile che attende l'intero universo comporterà la fine
di ogni cosa o soltanto la sua trasformazione?
Se si ponessero l'essere e il nulla sullo stesso piano, non si avrebbe alcun vero
inizio, a meno che non si volesse considerare il nulla come parte dell'essere: ma
allora i due principi non sarebbero equivalenti.
Che il nulla sia parte dell'essere è una legge dell'universo; non c'è "essere puro" che
non conosca la legge della trasformazione della materia. Cionondimeno bisogna
affermare che l'essere ha una priorità ontologica sul nulla, nel senso che non c'è
"nulla" in grado di distruggere l'essere. L'essere ha un primato che impedisce alla
morte di essere la fine della vita.
Se essere e nulla coincidessero o si equivalessero, non si spiegherebbe l'origine
dell'universo, poiché non vi sarebbe una ragione sufficiente (necessaria, non la
"migliore possibile", come diceva Leibniz) che ne spieghi la nascita. Se invece il
nulla è parte dell'essere, lo è solo nel senso che la morte è finalizzata alla
conservazione o comunque alla trasformazione dell'essere.
Ma se la morte ha questo scopo, essa non può avere la caratteristica della
permanenza eterna (invarianza). La morte va considerata come un processo
transitorio, un fenomeno temporale, interno a una dimensione, i cui confini, per il
69
momento, ci sfuggono (ancora infatti non conosciamo il momento esatto in cui
l'attuale configurazione dell'universo è nata, né possiamo prevederne la fine).
Praticamente l'attuale esistenza in vita del pianeta terra rende irrilevante la morte
dei singoli individui che fino ad oggi l'hanno abitato. Finché sussiste la condizione
formale, estrinseca, che permette all'uomo di riprodursi o comunque di evolvere, la
morte del singolo non ha un valore assoluto, nemmeno per chi l'ha vissuta, poiché
fino a quando la terra sarà in vita, il significato della morte del singolo non potrà
essere disgiunto dal significato del nostro pianeta o comunque dell'intero genere
umano. La morte dei singoli non intacca l'evoluzione del genere umano.
Una morte potrebbe essere considerata assoluta, da tutti i punti di vista, se si
distruggessero definitivamente le condizioni formali della sopravvivenza, cioè
della riproduzione. L'uomo è in grado di fare questo nell'ambito della terra? Le
leggi dell'universo glielo permetterebbero? E' forse possibile dimostrare la propria
indipendenza da tali leggi, autodistruggendosi? Non è forse questa una
contraddizione in termini?
In ogni caso, finché le condizioni della sopravvivenza restano inalterate, la morte
di ogni singolo essere umano non può essere considerata che come una
prefigurazione della futura morte e del pianeta terra e dell'universo attuale. La
differenza sostanziale sta nel fatto che la morte del singolo essere umano non può
mai avere quel carattere di assolutezza che può avere la morte del nostro pianeta e
dell'attuale universo.
Finché moriranno solo i singoli noi saremo costretti a pensare che il significato
della loro vita (e quindi della loro morte) rientra nel più generale significato
dell'universo e del suo prodotto finale: la terra. Nel senso che la morte del singolo
essere umano rientra nel destino complessivo, globale della terra e, di
conseguenza, in quello dell'attuale universo.
L'universo pare abbia un progetto sulla terra, quello di portarla a distruzione (il che
implica una trasformazione e non un annullamento). La realizzazione di questo
progetto comporta però una retroazione sulla stessa attuale configurazione
dell'universo, nel senso che anche l'universo subirà una corrispondente
trasformazione.
La morte del nostro pianeta rientra dunque in un progetto che è sostanzialmente di
vita. La morte, in senso stretto, non è che un passaggio, una transizione da una
forma di vita a un'altra, in cui nulla del passato viene perduto. L'identità infatti sta
nella memoria, oltre che nel desiderio.
Questo significa che all'origine dell'universo c'è l'essere, cioè la vita, non la morte.
La morte è un processo della vita, che aiuta la vita a perfezionarsi. La morte è una
sorta di trasformazione della materia che rende la materia più complessa, più
perfetta.
Oggi riusciamo ad avere coscienza di una grande complessità delle cose. Ciò sta a
significare che l'esperienza della morte dei singoli individui non c'impedisce di
comprendere sempre meglio la complessità o comunque la vera essenza delle cose.
70
Praticamente il genere umano non muore mai come genere. Progredisce all'infinito,
in forme e modi che per il momento non possiamo sapere. Il genere umano
potrebbe progredire così tanto, potrebbe maturare una coscienza così grande da
avvertire come troppo stretti, troppo angusti, i confini dell'attuale universo.
E' probabile, sotto questo aspetto, che lo scopo dell'universo sia quello di far
prendere coscienza all'uomo della propria infinità. C'è dunque nell'universo un
finalismo che solo dal punto di vista dell'uomo possiamo comprendere.
Microcosmo e macrocosmo si equivalgono.
Non dobbiamo quindi dimenticarci che quanto più ci avviciniamo alla
comprensione di tale finalismo, tanto più avvertiamo l'universo come troppo
piccolo per la nostra coscienza. Esiste quindi una responsabilità cui non possiamo
sottrarci: l'umanità ha il compito di evolvere verso l'autocoscienza. Qui forse sta il
senso della irreversibilità del tempo.
Alle soglie del XXI secolo gli scienziati si pongono come oggetto di studio un
fenomeno che prima avevano cercato di evitare con cura: il fenomeno della
coscienza.
Voglio qui riportare l'ipotesi di Montecucco sul tema della coscienza.
74
Cos'è la coscienza? L’essere coscienti? Cosa costituisce il cuore pulsante di ogni
essere vivente? Cos'è realmente il Sé o self o identità, e dov’è la sua sede nel
corpo? Cos'è la soggettività che si esprime in ogni uomo e in ogni animale? Esiste
un centro di coscienza dentro di me e dentro di voi? Cosa significa realmente
cogito ergo sum: ho coscienza quindi esisto? Qual è la natura dell'osservatore che,
in me, percepisce l'esistenza come informazioni e significati? Chi sono "io"? Che
cos'è ciò che chiamo "io"? Dov'è? Qual è la "sostanza" del pensiero? Come
possiamo quantificarla?
La scienza costituisce il grande potere della nostra epoca, nel bene e nel male,
nell'avanzamento tecnologico e nella distruzione ambientale; essa ha sostituito in
qualche modo la religione assumendosi l'incarico di esprimere la verità, e la verità
scientifica è di fatto l’unica universalmente riconosciuta su questo pianeta diviso
da mille ideologie, poteri, culture e teologie. Il metodo sperimentale ha di certo
contribuito a creare le basi per una visione e una cultura trasversale tra i popoli e le
visioni del mondo, ma si è fermato per colpa dei suoi limiti interni e della sua
mancanza di globalità di fronte alla comprensione degli aspetti più sottili e
profondi del vivente, uomo, animale o natura che sia.
Il problema della coscienza, da sempre evitato dalla scienza, sta diventando un
tema centrale nel proseguo della ricerca scientifica, da più parti diventa sempre più
importante comprendere la natura della coscienza.
Nell'interpretazione della meccanica quantistica l'osservatore diventa parte
integrante del sistema di misurazione da cui non si può più prescindere.
Le filosofie orientali da sempre hanno posto la coscienza come centro della propria
ricerca, la coscienza è ovunque ed è parte integrante della realtà.
Ma nella nostra esperienza noi abbiamo a che fare solo con la nostra privata e
personale coscienza, e ci appare molto difficile attribuire ad un sasso la pur che
minima coscienza. La coscienza scompare quando cerchiamo di descriverla a
parole o quando cerchiamo di definirla tramite comportamenti.
Il nostro centro, il nostro punto di vista, fagocita tutti gli stimoli percettivi e li
riporta ad un unico principio interpretativo: non possiamo prescindere dai nostri
processi cognitivi. I nostri stati mentali si realizzano nel nostro cervello e sono
processi che avvengono in una modalità unica e contingente in ogni atto di
percezione o pensiero. Sembra inevitabile un dualismo semantico tra mondo
esteriore e mondo interiore, una complementarietà da cui non possiamo sfuggire.
Una scienza senza coscienza è un enorme pericolo, è un potere senza cuore, una
forza senza sensibilità. La scienza, che di fatto significa conoscenza, ha indagato la
realtà esteriore ma non ha mai indagato la natura del conoscitore stesso, la
dimensione essenziale e interiore della coscienza che anima lo scienziato come
ogni altro essere vivente. La scienza dimentica che tutte le sue scoperte sulla realtà
materiale del mondo sono dovute alla coscienza e alla mente intelligente degli
75
scienziati e dei ricercatori che hanno intuito, compreso e conosciuto l'esistenza. Ma
quali sono state le cause di questa divisione mentale tra materia e coscienza? Le
ragioni e i limiti di questo atteggiamento riduzionista si possono rintracciare nella
storia della scienza. La scienza per progredire è stata costretta a separare lo spirito,
su cui nulla era possibile dire, dalla materia che invece diventava l'oggetto primario
della ricerca scientifica.
Cartesio separa il corpo dall'anima
È l'inizio del XVII secolo, con la figura di Galileo la religione cattolica prende atto
della sua debolezza teorica e metodologica. Il metodo sperimentale iniziato da
Galileo e le scoperte da esso derivate crearono una forte reazione da parte della
Chiesa. Il sapere scientifico andava a demolire antichi dogmi teologici e filosofici,
mettendo in pericolo la validità globale della struttura di fede, non più sostenuta da
un'esperienza spirituale collettiva.
Uno dei punti fondamentali della nascita della dicotomia tra materia e spirito spetta
a Cartesio. Cartesio, essendo sia scienziato che religioso, nel suo libro Il Mondo,
pubblicato postumo, evidenziò la sua propensione ad una visione abbastanza aperta
del mondo in grado di includere negli aspetti materiali anche quelli spirituali.
Venuto a conoscenza delle repressioni subite da Galileo, Cartesio decise di
bloccare il suo libro prima che venisse pubblicato e, al posto di questa visione
unitaria, da consumato diplomatico conscio della grave situazione, propose una
netta separazione di campi e ambiti di competenza. La Chiesa aveva come
pertinenza la Res Cogitans (sostanza cosciente) ossia l’anima e lo spirito, che è
immateriale, mentre la scienza doveva occuparsi esclusivamente della Res Extensa
(sostanza materiale): la materia vile e grezza. Questa proposta di separazione di
domini funzionò perfettamente. Sulla questione dell’unità di mente e corpo
Cartesio rispose che il corpo umano è solo una macchina, guidata dall'anima
attraverso un piccolo punto: la ghiandola pineale. La separazione era possibile; la
Chiesa non perdeva il suo potere e la scienza iniziava la sua clamorosa e
inarrestabile espansione.
Nella seconda metà del 1600 nascono le correnti filosofiche del materialismo e del
meccanicismo, che riconoscono solo l'esistenza della sostanza fisica e che negano
l'esistenza dell'anima e di ogni sostanza spirituale. Sottomettendosi ai voleri della
Chiesa e seguendo la direzione indicata da Cartesio, la scienza si appropria così
della realtà materiale studiandola con attitudine razionale e riduttiva, rimuovendo
la coscienza da ogni suo studio e interpretazione. Questo orientamento filosofico
era ovviamente causato anche dalla generale mancanza di autentiche esperienze
spirituali tra gli scienziati e da una concezione di un Dio avulso dalla realtà, che
crea dall’alto.
Il diciottesimo secolo vede lo svilupparsi dell'Illuminismo e, nella prima metà del
diciannovesimo secolo, in Francia, dalla radice illuminista, nasce il Positivismo,
quasi un parallelo filosofico dello sviluppo tecnologico industriale ottocentesco,
che si sviluppa rapidamente in tutta Europa. Il Positivismo, secondo Comte, vuole
76
designare il raggiungimento di un livello "scientifico" del sapere umano, in
contrapposizione agli stadi precedenti: quello "teologico" e "metafisico". E non a
torto! Dopo secoli di oscurantismo medioevale, di superstizioni irrazionali, di
religioni che imponevano dogmaticamente l'andamento e la posizione delle stelle,
era infatti utile e necessaria una buona dose di illuministica razionalità e logica
scientifica per aprire un nuovo capitolo della conoscenza. Ma così facendo si butta
il bambino con l'acqua sporca. La negazione dell'anima sancisce la decadenza della
logica imposta dalla religione ufficiale ma impoverisce la comprensione della
scienza stessa. Scienza senza coscienza che studia la materia vivente senza
comprendere la vita, e che studia l’essere umano senza percepirne la psiche e le
emozioni.
78
Immaginiamo di essere alle prese con un’equazione matematica estremamente
complessa, un’equazione differenziale a n variabili. Immaginiamo di avere
esplorato tutte le soluzioni analitiche convenzionali senza cavarne un ragno dal
buco. Immaginiamo anche di avere trasferito la nostra sfida matematica nella
potente memoria di un computer, il quale ci abbia risposto, con nostro sommo
sconforto, che non esistono soluzioni definite. Non traspare una configurazione
“normale” di valori che dia soddisfazione alla nostra equazione. Cosa facciamo,
gettiamo la spugna?
Ma questa svolta ne porta con sé un’altra, ancor più importante. Proprio come nella
matematica qualitativa a caccia di strutture che concilino ordine e imprevedibilità,
nelle più diverse discipline impegnate nello studio della storia naturale sta
emergendo una comune sensibilità per pattern esplicativi di tipo evolutivo, cioè per
l’emergenza di strutture, di configurazioni ordinate, di schemi di regolarità “simili
a leggi” (lawlike) a partire dai quali l’evoluzione traccia poi i suoi percorsi
contingenti e unici, esattamente come gli attrattori. Il gioco di rimandi fra strutture
emergenti ed eventi contingenti sembra essere dunque un terreno comune a tutte
queste ricerche.
La transizione non è da poco. Alcuni schemi evolutivi, come quello della deriva
dei continenti di Alfred Wegener, furono a lungo misconosciuti e rifiutati
nonostante l’accumulo di evidenze empiriche. Eppure, i fisici rintracciano oggi
questi schemi profondi addirittura nell’evoluzione subatomica, alla ricerca delle
connessioni fondamentali che hanno dato origine alla trama di forze e di materia da
cui è scaturito l’universo. I cosmologi scovano strutture ricorrenti nelle tappe della
formazione dell’universo e nel ciclo di vita delle stelle. I geologi li ritrovano nei
movimenti della crosta terrestre che alterano le correnti oceaniche e modificano il
clima, gli ecologi teorici negli schemi di coevoluzione fra le specie e le loro
nicchie ambientali, i biologi li scoprono costantemente nelle dinamiche di
speciazione e di estinzione, gli studiosi di sistemi caotici vedono emergere strutture
ordinate da interazioni apparentemente casuali.
Come suggeriscono i più recenti risultati nello studio e nella simulazione dei
sistemi complessi, alcune strutture profonde del cambiamento sembrano emergere
da campi di ricerca estremamente diversificati. Molti scienziati, come il
paleontologo Niles Eldredge, sono favorevoli a questa generalizzazione della teoria
evoluzionistica all’ambito dell’evoluzione culturale e tecnologica, purché si
81
intendano tali strutture ricorrenti come vincoli che aprono possibilità sempre
nuove, e non come leggi prescrittive e universali. Altri autori ipotizzano, invece,
l’esistenza di vere e proprie “leggi universali della complessità” che attraversano
trasversalmente i tradizionali ambiti disciplinari svelando l’ordine nascosto che
accomuna tutti i sistemi complessi, una sorta di “algoritmo universale”
dell’evoluzione in tutte le sue salse (Kauffman, 2000; per una disamina critica
Greco, 1999).
Qui entriamo allora in una seconda accezione del termine “pattern”, che rimanda a
sua volta ad una terza. Gli organismi devono infatti fare i conti anche con un tipo
differente di struttura, che non riguarda questa volta le sequenze ripetute di eventi
storici in una dimensione macroevolutiva, bensì quell’insieme di vincoli interni, di
costrizioni fisiche, di regole di costruzione, di limiti “architettonici” (e di
conseguenti spazi di risulta) che ogni essere vivente eredita dalla propria storia.
Nel suo voluminoso testamento scientifico, pubblicato pochi giorni prima di morire
nel maggio dello scorso anno, dal titolo non casuale “The Structure of
Evolutionary Theory”, Steve J. Gould sottolinea con grande forza e freschezza
argomentativa questo aspetto cruciale (Gould, 2002). A suo avviso, due sono gli
assi fondamentali su cui dovranno lavorare gli scienziati dell’evoluzione nei
prossimi anni: 1) la molteplicità dei livelli sovrapposti e interdipendenti,
microevolutivi e macroevolutivi, che costituiscono il processo evolutivo e
generano i pattern ricorrenti che abbiamo introdotto poco sopra; 2) l’importanza
dei vincoli strutturali interni degli organismi nella definizione dei loro percorsi di
sviluppo filogenetici.
Questo secondo aspetto merita particolare riguardo. Gli esseri viventi (ma
possiamo estendere il principio a tutti i sistemi complessi e non lineari) non sono
plasmabili a piacimento dall’esterno, non sono come palle da biliardo inerti gettate
nel campo da gioco della selezione naturale, non si limitano a recepire istruzioni
dall’ambiente né a trasmettere ossessivamente il massimo di informazione genetica
alla discendenza, come automi deterministici veicolatori di geni. Gli organismi,
immersi nella geometria variabile di un’evoluzione e di una selezione naturale “a
molti livelli”, fanno molto di più: si adattano a contesti locali mutevoli, spesso
contribuendo a trasformarli in un rapporto strettamente coevolutivo, e lo fanno non
soltanto producendo comportamenti e organi ad hoc per ciascuna funzione
sollecitata dall’esterno ma anche (e soprattutto, secondo Gould) “rimaneggiando” i
vincoli interni e le strutture che hanno già a disposizione e che si portano dietro da
tempi passati, quando probabilmente avevano tutt’altra funzione o nessuna
funzione del tutto.
Il grado di “evolvibilità” (termine che Gould propone nella sua ultima opera al
posto di “adattabilità”) di una specie si misura dunque nella capacità di mantenere
sufficientemente plastici e flessibili i propri vincoli interni e la propria struttura
84
organica. I margini di ridondanza diventano allora decisivi per generare
quell’eterogeneo “pool exattativo” da cui deriverebbe gran parte del cambiamento
nell’evoluzione: strutture sviluppate per una certa funzione possono essere
cooptate per un’altra; strutture utilizzate per un certo scopo rivelano potenziali
nascosti e vengono riconvertite ad una molteplicità d’uso; conseguenze
“architettoniche” ridondanti sfuggite alla selezione naturale vengono ingaggiate
per usi inediti; effetti collaterali introdotti a causa di derive genetiche o di altri
meccanismi casuali si rivelano utili in contesti diversi; organi o parti inutilizzate
(atavismi o vestigia abbandonate di altre epoche) possono essere riabilitati e
riattivati per nuove funzioni.
Ne deriva una tassonomia estesa dei fenomeni di “evolvibilità” degli organismi,
nella quale ai normali processi di adattamento tramite selezione naturale di un
carattere per la sua utilità attuale si aggiungono tutti questi processi “exattativi”
frutto di riorganizzazioni, di riadattamenti e di cooptazioni funzionali (talvolta
assai creative) a partire da un materiale ridondante, di scarto o di risulta che la
selezione naturale non “vede” e non elimina (ex-aptations). L’evolvibilità è dunque
direttamente proporzionale a due fattori: la plasticità nel riutilizzo di strutture
adibite ad altre funzioni in passato; la presenza di caratteri ridondanti, neutrali
rispetto alla selezione naturale, sviluppatisi senza nessuna funzione specifica
originaria (non-aptations). Non tutto serve necessariamente a qualcosa in natura,
anzi, la presenza di strutture che non servono a nulla è proprio una delle condizioni
fondamentali perché l’evoluzione sia efficace e creativa.
Il termine ex-aptation significa appunto essere “atti” a qualcosa in virtù della
propria forma pregressa (ex). Ecco che torna dunque al centro della riflessione
sulla complessità biologica il concetto di forma, di struttura, di vincoli interni che
canalizzano (senza imbrigliarlo mai) lo sviluppo. Ritroviamo, ad un livello diverso,
la stessa idea di un ordine interno che influenza l’evoluzione senza precluderne la
libertà e l’imprevedibilità. In questo caso, è proprio il fatto che queste strutture
abbiano un ampio margine di flessibilità a permettere l’evoluzione. I pattern
organici “fanno gioco”, come gli ingranaggi di una macchina consumati o allentati,
e in questi interstizi di possibilità si creano le condizioni per le più ingegnose e
promettenti “invenzioni” della natura.
Vi è una sostanziale differenza, tuttavia, fra i due tipi di pattern. Il primo, quello
che emerge osservando gli episodi cruciali della storia della vita, è descrivibile
soltanto a posteriori: è una configurazione di eventi che si può ricostruire solo alla
fine del processo e che ci offre semmai qualche possibilità di comprensione per il
futuro. Il secondo, il pattern organico a cui attingono gli organismi per aumentare il
loro grado di evolvibilità, è una precondizione per il cambiamento. Il concetto di
exaptation riassume in sé entrambe le accezioni: se inteso come ipotesi scientifica
è un altro pattern dell’evoluzione che si aggiunge agli altri (potremo così studiare
un catalogo di eventi exattativi simili e verificarne la frequenza in percentuale
rispetto al normale adattamento); se inteso come processo evolutivo in sé diventa
85
l’emblema della centralità dei pattern organici come fonte del cambiamento.
In questo senso, notiamo che esiste anche una terza dimensione “strutturale”
dell’evoluzione in sistemi complessi, nella quale i pattern scaturiscono in modo
discontinuo dalle dinamiche di interconnessione reticolare che animano il sistema
al suo interno.
Alla luce delle tre tipologie di strutture emergenti che gli scienziati hanno
individuato, l’evoluzione della complessità biologica appare in tutta la sua
multiforme eterogeneità di fattori e di strategie. Secondo tale prospettiva, la storia
degli esseri viventi non è mai del tutto casuale né frutto di mere coincidenze: vi
sono regolarità e strutture ricorrenti nei meccanismi di trasformazione degli
organismi e delle specie, compreso il normale adattamento per selezione naturale.
Non si rinuncia a nulla di ciò che prevedeva l’originaria teoria darwiniana, ma il
campo delle possibilità si è esteso. La fenomenologia dell’evoluzione biologica è
oggi più intricata e richiede nuovi strumenti interpretativi: primo fra tutti il
principio secondo cui l’evoluzione predilige alcuni pattern ricorrenti, ma i suoi
sentieri sono ogni volta imprevedibili e unici.
Aumentando ulteriormente il grado di complessità, dobbiamo aggiungere che
anche le teorie evoluzionistiche sono mosse da pattern profondi che selezionano i
dati pertinenti e influenzano le comunità scientifiche, talvolta ibridandosi o
mescolandosi di epoca in epoca: questa volta “pattern epistemologici”. In un certo
senso, la stessa ossessione per i pattern è un pattern! Non dimentichiamo che già
nel 1972, all’epoca della prima formulazione della teoria degli equilibri
punteggiati, Eldredge e Gould si muovevano su questo doppio crinale: un versante
“ontologico” riguardante la reale natura (discontinua, punteggiata e ramificante)
delle serie fossili rappresentative della vita delle specie sul lungo periodo; un
versante epistemologico riguardante la critica al pattern influente del gradualismo
filetico. Il nucleo di quel primo lavoro seminale ruotava proprio attorno
all’incongruenza fra un pattern epistemologico forte e dominante, una metafora
influente, un paradigma, un’ideologia scientifica come il gradualismo, da una
parte, e un pattern emergente (che poi gli autori chiameranno “puntuazionista”) che
si era manifestato ai loro occhi nella documentazione fossile, dall’altra.
Secondo Eldredge, che ha ripreso questo tema proprio nell’opera citata del 1999, il
lavoro dei paleontologi e degli evoluzionisti assomiglia sempre più a uno
stereotipo “da detective”: essi cercano alcuni pattern ricorrenti all’interno di una
molteplicità di sentieri evolutivi interconnessi le cui traiettorie appaiono fortemente
imprevedibili, facendosi guidare a loro volta da pattern epistemologici che filtrano
i dati come occhiali deformanti. Tuttavia, il mestiere del paleontologo non è più
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quello di forzare i sempre più recalcitranti dati empirici in una mappa concettuale
precostituita, sia essa il gradualismo progressionista o il riduzionismo genetico.
Non ha più il compito di colonizzare la fragile disciplina paleontologica con i
paradigmi forti della biologia molecolare. Di fronte all’esplosione incontrollata di
evidenze empiriche incoerenti, non tenta una nuova sintesi, ma va a caccia di
connessioni, di metafore nuove, di strutture che permettano, grazie ad una pluralità
di pattern esplicativi, una comprensione più realistica delle trasformazioni
evolutive che hanno condotto fino a noi. La scoperta scaturisce da questa
modulazione fra una molteplicità di pattern epistemologici (mutevoli) e una
molteplicità di pattern ontologici (altrettanto mutevoli). Il lavoro dello scienziato,
alla luce di questa svolta epistemologica che sposta l’attenzione dalle leggi
deterministiche ai pattern, ha assunto un carattere indiziario, esplorativo, nomade.
La vita, scriveva già nel 1942 il fisico Erwin Shrodinger, è un tentativo disperato di
sottrarsi alla seconda legge della termodinamica, che prevede l’aumento
irreversibile dell’entropia globale. Se tutto prima o poi va a finire nel disordine, la
vita rappresenta un’oasi provvisoria di stabilità, un timido tentativo di resistenza.
La conoscenza, tutto sommato, è anch’essa un tentativo disperato di sottrarsi al
disordine e all’oblio. Gli strumenti magici per intraprendere entrambe le avventure,
vita e conoscenza, sono le strutture autorganizzate che sottraggono disordine al
cosmo per trasformarlo in architetture viventi. I pattern, distillati dalla vita,
organizzano sia le nostre domande rivolte alla natura sia le sue contraddittorie
risposte. Quando i due piani occasionalmente si intersecano, in un dominio terzo
che non è oggettivamente reale ma neppure meramente fittizio, un nuovo mondo
possibile si apre al ricercatore.
La pista, lo spiraglio che molti scienziati interessati alla complessità del vivente
stanno inseguendo, pur con diverse tonalità e accenti, è connesso alla duplice
natura, strutturale e contingente, del processo evolutivo: al gioco fra strutture della
contingenza e contingenza delle strutture. In ciascuna delle quattro accezioni di
“pattern” qui presentate, il singolo evento storico ha un potere causale
potenzialmente determinante, può diventare una biforcazione catastrofica o essere
fagocitato dalle forze omeostatiche del sistema. Fra gli studiosi lo scontro su quale
sia la reale portata di tali biforcazioni è sempre stato molto acceso: chi sostiene
l’esistenza di un algoritmo universale della complessità e di un codice nascosto
dell’evoluzione (come Leo Buss del Santa Fe Institute) non esita a limitarne
l’influenza, pensando che esista una sorta di “tendenza intrinseca verso la
complessità”, una specie di seconda legge della termodinamica alla rovescia (G.
Johnson 1995); chi invece, come Gould, privilegia il carattere contingente
dell’evoluzione, dando ad essa ampi margini di manovra a partire da vincoli
comuni, si spinge ad affermare che tutte le strutture consolidate del vivente
potrebbero essere radicalmente diverse se le condizioni storiche fossero state
leggermente modificate in un punto qualsiasi della storia naturale.
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Indipendentemente da dove collochiamo il confine fra contingenza e necessità per
spiegare la complessità, il fatto paradossale è che il potere causale del singolo
evento, pur non obbligandoci a rinunciare ad alcuna delle regolarità sottese al
funzionamento normale del sistema, introduce in esso un elemento di irriducibile e
radicale imprevedibilità. Anche immaginando un ferreo algoritmo universale
dell’evoluzione, non possiamo prescindere da questa possibilità radicale, eversiva.
Tuttavia, ha scritto recentemente Niles Eldredge, non dobbiamo disperare: “Vi è un
ordine reale in tutto questo apparente Caos. La vita ha avuto una lunga e
complessa, ma alla fine comprensibile, storia. Ci sono pattern ripetuti infinite volte
quando le specie vanno e vengono, quando gli ecosistemi nascono e muoiono.
Questi principi di organizzazione della storia della vita sono i processi
dell’evoluzione. Noi li applichiamo ai fossili per restituire loro un ordine”
(Eldredge, in Solé, Goodwin, 2000, p. 243).
Se rifiutiamo le scorciatoie riduzioniste e accettiamo una visione pluralistica
dell’evoluzione ci troviamo così di fronte allo spinoso ma seducente problema
della congiunzione fra ordine e contingenza, e dei pattern che da questa unione
discendono. È come un nodo invincibile, da affrontare a mani nude dopo aver
abbandonato la spada riduzionista. Esso appare irresolubile perché si annida
proprio dentro la circolarità infinita fra sistemi che osservano e sistemi osservati,
cioè fra forme in evoluzione che cercano di compenetrarsi e si rimandano l’un
l’altra vicendevolmente. Forse la complessità non è ancora lo zeitgeist del nuovo
secolo, come annuncia Taylor, ma la sfida epistemologica è aperta e consiste nel
saper contemperare la radicalità dell’evento irreversibile con il succedersi di
configurazioni comunque coerenti. È un eterno gioco di volubilità e di fedeltà, una
danza della permanenza e del suo contrario.
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intrinseca dei nucleotidi che previene alcuni effetti delle fluttuazioni casuali del
messaggio genetico ma la loro condizione di entità codificanti.
Tutto ciò è cruciale per la persistenza di una cellula o di un organismo. In fisica e
in chimica si ha generalmente a che fare con miliardi e miliardi di molecole e se
anche ciascuna di loro è soggetta a fluttuazioni stocastiche le loro proprietà
statistiche sono relativamente stabili e predicibili. In biologia al contrario si è
spesso in presenza di un numero molto ridotto di molecole di una data specie
presenti in ogni singola cellula ma queste si comportano in una maniera predicibile
e quasi determinata. Questo è particolarmente notevole se si considera che alcune
proteine e alcuni RNA messaggeri possono essere presenti in poche centinaia di
copie e che il DNA stesso è presente in una o due copie per cellula.
La vita sembra risolvere molti dei problemi posti dal secondo principio della
termodinamica attraverso un uso oculato dell’energia libera. Questo risultato è
possibile per il concorso di varie condizioni, fra le quali la temperatura
relativamente bassa, la presenza di molecole di notevoli dimensioni come le
macromolecole e l’uso di una varietà di processi di codificazione a diversi livelli.
La codificazione è a sua volta una forma di scelta da un inventario discreto di
alternative possibili. Così un gene può essere attivo o quiescente e ogni stato
cellulare è determinato dall’insieme degli stati di accensione o di quiescenza dei
suoi singoli geni. Ogni cellula può trovarsi in un dato stato caratterizzato da quali
dei suoi geni sono accesi e quali quiescenti in una schema concettuale che è stato
chiamato combinatorio.
Questo è altrettanto vero al livello dei tessuti o delle regioni corporee.
L’epidermide primitiva può trasformarsi in epidermide matura o in neuroepitelio.
Un segmento del corpo di un insetto che si sta sviluppando può trasformarsi in uno
dei circa 15 segmenti corporei previsti, ma molto raramente in una combinazione
di due di questi. Un altro esempio è dato dall’accensione dei neuroni. È noto che
questi possono inviare un segnale nervoso o non inviarlo secondo uno schema
tutto-o-nulla. Infine le neuroscienze e le scienze cognitive ci dicono che anche al
livello delle attività mentali superiori esistono degli schemi predeterminati -
percettivi, rappresentazionali e comportamentali - e che noi apprendiamo, facciamo
valutazioni e ci comportiamo sulla base di questi schemi. In ognuna di queste
circostanze la vita implica una scelta all’interno di un insieme discreto di
alternative possibili, la maggior parte delle quali determiante dal progetto
generativo codificato nel patrimonio genetico presente in ogni cellula.
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