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— Tristano Ajmone —
Intervento di Tristano Ajmone, in rappresentanza del Laboratorio Urbano Mente Locale (Torino),
alla presentazione del Concorso Letterario Storie di Guarigione — Emanuele Lomonaco,1 tenutasi
presso la Provincia di Biella in data 12 Luglio 2007.
Il seguente testo non è assoggettato a copyright e può pertanto essere liberamente distribuito,
riprodotto e citato, senza richiedere ulteriore autorizzazione da parte dell’autore, a patto che ne
venga citata la fonte.
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www.concorso-letterario-2007.utenti.net
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Il punto cui miro arrivare è che la complessità odierna della nostra società sottrae spazio alla
diversità, relegandola agli ambiti clinici affinchè non intralci con gl’incalzanti ritmi della sua
quotidianità orientata al benessere. Nell’era della corsa al «benessere» il malessere è percepito come
un difetto di tessitura sociale. L’esclusione e la periferizzazione della diversità e della sofferenza
sono processi stigmatizzanti che creano un incolmabile ed arbitrario divario tra ciò che è
consensualmente considerata essere la norma e ciò che non rientra nei suoi canoni. Parte delle spese
di questa politica emarginativa le pagano coloro che finiscono nei circuiti psichiatrici, laddove
ondate di sfiducia e mitologizzazioni mediatiche li sospingono sempre più verso una deriva
esistenziale dalla quale il ritorno è arduo, spesso impossibilitato da situazioni contingenti.
Il tema del ritorno è strettamente collegato alla sofferenza psichica, poiché la follia può essere vista
come un viaggio di deriva interiore in cui i contatti con la terra ferma della consuetudine vanno
gradualmente indebolendosi e sfaldandosi, mentre, di pari passo, l’identità sociale dello
stigmatizzato va dipanandosi ed i suoi confini interiori irrigidendosi. La superficilaità del nostro
linguaggio rispecchia la realtà di questa metafora laddove ci viene incontro nel giustificare la nostra
incapcità a comprendere gli altri, consentendoci di attribuire loro di essere “andati fuori di testa…”
La partenza nel viaggio della sofferenza psichica non è un tema che coglie impreparata la nostra
cultura. Il ritorno invece, specie se da un viaggio particolarmente lungo nell’alterità, è sempre
accolto con sospetto. La «guarigione» è percepita come un miracolo non tanto per la speranza che
vi si investe, quanto per la rassegnazione che vi riversa una cultura priva di fede verso le persone
fragili e bizzarre. Fintanto che coloro che deragliano dalla quotidianità verranno congedati con un
saluto d’addio li si condannerà ad un viaggio di non ritorno, che è un modo certo per trasformarlo in
un viaggio all’inferno.
Questo concorso letterario trae la sua ispirazione dalla traduzione in italiano del libro autobiografico
di Ken Steele, un uomo il cui viaggio nella follia durò oltre una trentina d’anni e sul cui ritorno
pochi o nessuno speravano. Steele fu la prova vivente che dai labirinti dello smarrimento interiore è
possibile riemergere, quando si ha fede in se stessi, quando le persone che ci circondano non
smettono di credere in noi, e quando ci si aggrappa alla speranza con la tenacia di chi non vuol
rinunciare alla vita. L’eredità di Steele è una dimostrazione di questa forza e di questa speranza, e le
persone che hanno tratto giovamento dalla sua testimonianza sono legione, anche oggi che Steele
non è più tra noi.
Spero quindi che la società — e non solo gli utenti e gli operatori psichiatrici — possa cogliere il
valore intrinseco di questa iniziativa. Per molte persone afflitte dalla sofferenza psichica
l’opportunità di pubblicare la propria autobiografia, poesie o racconti, equivale a vedersi spalancare
la porta della cella d’emarginazione sociale che li separa dalle pari opportunità della cosiddetta
«società libera». Per molte delle persone che conducono vite «normali» spalancare questa porta sarà
l’opportunità di riscoprire la ricchezza di significato cui la società rinuncia quando opta per
l’alienazione della diversità.
La condizione esistenziale del cosiddetto «malato di mente» è delimitata dalla non comunicabilità
attraverso il muro che separa arbitrariamente normalità e follia. Quando mi venne affidato l’incarico
di studiare una veste grafica per il sito e le brochure del concorso decisi di volermi focalizzare sulla
rappresentazione di questa condizione comunicativa. Scelsi come tema centrale per il concorso le
macchine da scrivere che vedete rappresentate nelle brochure: la prima — riversa sul fianco e
sommersa dal cemento — rappresenta l’impossibilità comunicativa che consegue la rassegnazione;
la seconda — quella ripristinata in posizione verticale e dalla quale spuntano dei fiori —
rappresenta la riesumazione della capacità comunicativa con il mondo esterno. Ritengo che queste
due imamgini rappresentino gli scopi e lo spirito del concorso in modo assai più elequonte che non
le solite immagini sereotipate del malato inerme in balia dell’assistenzialismo istituzionale.
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Qual è dunque lo spirito di questo concorso? Mi permetto di azzardare una proposta in tal merito,
basandomi sulla mia personale conoscenza dello spirito che ha mosso alcuni dei suoi organizzatori,
in special modo il dottor Tibaldi e il dottor Lomonaco. La mia stima per loro mi consente di
proporre la visione secondo cui il concorso è finalizzato a rappresentare il tema dell’individualità al
cospetto del proprio percorso nel disagio psichico, consegnando la penna al sofferente e chiedendo
ai clinici di farsi rispettosamente da parte … un gesto che temo non sia stato sufficientemente
proposto nella storia delle istituzioni psichiatriche, laddove si è parlato troppo dell’utenza, i suoi
problemi ed i suoi desideri, senza mai concedere loro un vero e proprio spazio comunicativo
autonomo.
Se — come auspico di tutto cuore — questo concorso letterario riuscirà nel suo intento di creare
quest’occasione d’incontro tra due mondi oggi così divariati dalle prassi e dal pessimismo clinico,
allora forse è anche possibile sperare che esso si lascerà dietro una scia di consapevolezza capace di
risanare le fratture sociali che hanno concomitato a forgiare gli specchi deformanti in cui il miope
perbenismo riesce a riflettersi virtuoso penalizzando la fragilità umana.
L’idea che la condizione di sofferenza umana sia l’inesorabile conseguenza di un crudele gioco di
specchi — in cui paure, speranze, pregiudizi e fantasie si riflettono a vicenda, moltiplicandosi e
sommandosi tra loro, ingarbugliandosi all’infinito, dentro e fuori gli individui, attraversando il
tessuto dell’immaginario sociale ed intessendone la vertiginosa quotidianità — affonda le radici
nell’antichità. Léon Bloy, traducendo alla lettera San Paolo, ravvisò nelle parole “Vediamo ora in
enigma per mezzo di uno specchio” un invito a “invertire i nostri occhi ed esercitare un’astronomia
sublime nell’infinito dei nostri cuori” poiché “la paurosa immensità degli abissi del firmamento è
un’illusione, un riflesso esteriore dei nostri abissi, percepiti ‘in uno specchio’.”
Per chi sarà disposto a prestare orecchio alle narrazioni degli audaci avventurieri che hanno il
coraggio di condividere i resoconti dei propri viaggi dentro e fuori la follia, rispecchiandosi in noi
cossidetti «malati» quanto persone — né più né meno —, allora … forse … molti enigmatici nodi si
scioglieranno, aprendo il varco alla chiarezza!
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